Intervento del RM nella Tavola Rotonda

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G iornata di Spiritualità Salesiana. Intervento Tavola Rotonda (20.01.2005)






Incomincerei subito con la lettura del testo di Ef 5,21-33 dal quale ho preso la citazione che mi ha servita d’ispirazione per la Strenna nel desiderio di comprendere più profonda­mente l’amore con cui Gesù si è donato alla Chiesa, quell’amore che siamo chiamati a vivere per ringiovanire il suo volto.


«Fratelli, siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo. Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa, lui che è il salvato­re del suo corpo. E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto. E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria car­ne; al contrario la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. "Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola". Questo mistero è grande; lo dico in riferimen­to a Cristo e alla Chiesa! Quindi anche voi, ciascuno da parte sua, ami la propria moglie come se stesso, e la donna sia rispettosa verso il marito».


Il contesto generale


Il capitolo 5 fa parte dell’ultima sezione della Lettera agli Efesini, là dove l’apostolo si sofferma sulla vita nuova nel Cristo. Dopo aver dato delle indicazioni glo­bali per questa novità di vita, Paolo passa a trattare della morale domestica, cominciando dal v. 21 e pre­senta l’ideale etico nei rapporti tra moglie e marito, fi­gli e genitori, schiavi e padroni.

L’insegnamento si allinea, da un lato, alla buona morale corrente dell’epoca; da un altro lato, però, è for­temente innovativo perché tutto inserito nel rapporto con Cristo.


Le affermazioni cristologiche


Sottolineo soltanto gli aspetti riguardanti il rapporto Cristo-Chiesa attraverso sette affermazioni cristolo­giche.

- Cristo è capo della Chiesa (v. 23b};

- Cristo è salvatore del corpo della Chiesa (v. 23e);

- Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei (v. 25b); si è donato per renderla santa, purificando­la per mezzo del lavacro dell’acqua - battesimo - accompagnato dalla parola - professione di fede (v. 26).

- E ciò al fine di vedersi comparire davanti la sua Chiesa - l’immagine del battesimo lascia il posto pro­babilmente a quella delle nozze - gloriosa, senza macchia né ruga, ma santa e immacolata (v. 27).


Sono cinque affermazioni cristologiche, a dire quanto Cristo ama la Chiesa, che cosa vuole da lei, qual è lo scopo per cui si è donato totalmente con la sua vita e la sua morte.

Seguono altre due affermazioni:

-Cristo nutre e cura la Chiesa (v. 29): nella metafora del nutrimento possiamo leggere il tema dell’Eucaristia;

- l’ultimo predicato cristologico è nell’applicazione di Gen 2,24, «una sola carne», a Cristo e alla Chiesa (v. 31).


Sembra chiaro che l’apostolo riconduce l’alleanza fon­damentale tra uomo e donna a quella primordiale che da luce a tutto: il mistero dell’unità tra Cristo e la Chiesa.


Quale messaggio comporta il testo per comprendere che cosa significa l’amore alla Chiesa? Un messaggio che concerne l’attività di Cristo verso la Chiesa: Cristo è capo, salvatore, nutritore.


È capo perché ha la signoria sulla Chiesa.


È salvatore perché l’amore di Cristo per la Chie­sa è all’origine del processo salvifico che fa della Chiesa la sua sposa «santa e immacolata». Amore che si mani­festa nel suo donarsi totalmente per lei.


È nutritore perché Cri­sto ha amato tanto la Chiesa, l’ha purificata, l’ha santi­ficata, la nutre. Il suo è un amore di benevolenza, non di compiacenza. L’aiuta per renderla bella, buona, per­fetta, è tutto attivo verso di lei.


Questo suscita però in noi domande e problemi. Ci chiediamo: che cosa significa proclamare la bellezza della Chiesa, quando l’esperienza storica che ne faccia­mo è ben diversa? La verità teologica espressa da Paolo contrasta col nostro vissuto quotidiano. In qua­le modo, allora, Cristo ama non solo la Chiesa ideale, ma la Chiesa reale, così com’è? e come può essere messa la Chiesa storica in relazione col progetto di Cristo?


A mo’ di esempio vi leggo alcune frasi di un trattato recente sulla Chiesa, scritto da un autore tedesco. Pur se in un linguaggio eccessivo e in maniera un po’ pressante, il problema reale è esposto con chiarezza.


«Le Chiese stesse suscitano sempre di nuovo l’atten­zione pubblica; esse sono esposte allo sguardo dell’opi­nione pubblica, uno sguardo che scruta senza riserve, al quale non si offrono volentieri, bensì preferirebbero sottrarsi. Perché ciò che si vede è tutt’altro che da esi­bire; e tutto ciò che "appare" delle Chiese - pusilla­nimità, atteggiamenti autoritari, ipocrisia, chiusura - dal pubblico critico viene in qualche modo anche po­sto in relazione con Dio, con il Dio per il quale queste Chiese (cristiane) esistono. Ciò che appare delle Chie­se di norma non parla per il "loro" Dio, per un Dio che - come si sostiene - sarebbe un Dio amante degli uomini, un Dio a cui sta a cuore l’uomo e la sua salvez­za. Le Chiese appunto non rendono più credibile la fede in Dio, nel Dio di Gesù Cristo e dei cristiani. Se ci si dovesse attenere a quanto si vede, a quanto si vede in coloro che cercano di vivere questa fede, di vivere con questo Dio, allora non si potrebbe assegnare a questo Dio dei cristiani alcuna possibilità di trovare in futuro ancora fede tra gli uomini» (Werbick Juergen, La Chiesa, Brescia 1998, 22).


Vorrei quindi riflettere con voi cercando di cogliere quali sono le tipologie concrete attraverso le quali arri­viamo all’amore o al disamore verso la Chiesa; quali i luoghi, le tappe attraverso le quali la Chiesa viene infi­ne capita così come la vuole Gesù.


Tipologie di amore e disamore verso la Chiesa


C’è anzitutto una tipologia per età della vita. C’è infatti un tipo di guardare la Chiesa, di affetto e disaffezione, proprio di un momento ‘giovanile’ nella vita del credente.


L’età giovanile - penso alla mia esperienza - fa fatica a rela­zionarsi armoniosamente con una istituzione; pur vivendo e respirando in essa non riesce a sentirla come sua casa perché coglie piuttosto la propria soggettività, i propri sogni, i propri umori, i propri ideali. Della Chiesa storica vede in primo luogo le deficienze rispetto agli ideali, e se ne distanzia.


Si arriva a relazionarsi in maniera più matura con la Chiesa attraverso tre tappe.


1ª.Comprendere che tutto ciò che siamo, che abbiamo di buono e che rappresenta ideali morali e spi­rituali alti, ci viene dalla Chiesa e non dai nostri sforzi.

2ª.Cogliere anche più teoreticamente il valore e la ne­cessità delle istituzioni, la loro capacità di tenuta e di durata. È importante capire che le istituzioni sono appunto cose che stanno rispet­to alla fragilità delle decisioni e delle scelte dei singoli. Allora il rapporto con la Chiesa diviene più reale, più giusto, più autentico.

3ª.Accorgersi che quando si investe qual­cosa di molto caro per la Chiesa, ci si gioca in essa e per essa si soffre. Nella misura in cui non soltanto rice­vo, ma do alla Chiesa, il quadro si completa e il rap­porto si fa maturo, equilibrato, sereno.


Tuttavia non è ancora quella maturità che nasce da una relazione di fede.


C’è dunque una tipologia spirituale.


La maturazione di fede, l’amore vero alla Chiesa nasce dall’amore a Cristo. Paolo, nel brano della Lettera agli Efesini, lo afferma chiaramente: se amiamo Cristo, entriamo nei suoi pensieri e intuiamo come lui ha amato la Chiesa «e ha dato se stesso per lei» (cf. Ef5,25ss). Nel cuore di Cristo contempliamo la Chiesa Sponsa Verbi, creatura Verbi, creatura dello Spirito. Una lettura mon­dana della Chiesa sarà sempre molto imperfetta e spesso deludente, perché non è in grado di leggere quelle pro­fondità che in essa vengono dal Signore.


In proposito mi piace citare un testo di Paolo VI, una nota personale del suo diario: «La Chiesa, da ama­re, servire, sopportare, edificare con tutto il talento, con tutta la dedizione, con inesauribile pazienza e umil­tà, ecco ciò che resta da fare sempre, cominciando, rico­minciando, finché tutto sia consumato, tutto ottenuto (sarà mai?), finché Egli ritorni. In omni fiducia sicut semper, con ogni fiducia come sempre». È una bella ritraduzione del brano tratto dalla Lettera agli Efesini. Pao­lo VI ha compreso il darsi di Gesù alla Chiesa e perciò ha vissuto il rapporto con la Chiesa nella donazione, sop­portazione, edificazione, servizio, consacrando tutto il suo talento con inesauribile pazienza e umiltà.


C’è qualcosa di più da sottolineare. Si ama la Chiesa con spirito di fede quando si coglie qualcosa della dialettica della nostra conoscenza di Dio nella dia­lettica ecclesiale tra visibile e invisibile, tra macchie e rughe e purezza interiore, tra fallimenti e gloria. Si spe­rimenta cioè che la dialettica mediante la quale entria­mo nella conoscenza di Dio è la stessa, almeno analo­gamente, con la quale entriamo nella conoscenza di fede della Chiesa.


Cerco di chiarire meglio questo pensiero che riten­go importante.


Noi intuiamo, da una parte, che Dio è trascendente, inafferrabile, indisponibile, sempre al di là delle nostre verifiche; dall’altra intuiamo che Dio è immanente e si fa presente, pur se in forme discrete, invitanti ma dolci e non matematicamente cogenti. Nella nostra persona, nella nostra storia, nella storia di Cristo vediamo Dio attraverso segnali semplici; segnali su cui uno potrebbe obiettare se non vuole fidarsi, se non vuole compiere il salto dell’abbandono che pure riconosce ragionevole. Sono segnali - come li chiamava Lutero - sub contraria specie: il servo di JHWH che non si osa guardare, la sconfitta della croce. Quando dunque comprendiamo per fede che se Dio esiste non può che presentarsi come colui che sfugge e colui che si manifesta ma non in modo da poterlo afferrare e verificare con leggi ma­tematiche e fisiche, bensì con segni discreti e talora provocanti, con segni di sofferenza, di incapacità, di debolezza, allora scopriamo che la nostra conoscenza della Chiesa è secondo tale dialettica. La Chiesa, Corpo di Cristo, Sposa di Cristo, creatura dello Spirito, è immensamente amata da Dio, arricchita di doni che si esprimono anche nella storia, e insieme è segnata da pesantezze, rughe, peccati, a partire dai peccati che ciascuno di noi compie. Tutti segni che vanno continuamente superati per andare oltre, al di là; segni che vanno addirittura superati pensando al loro contrario e segni che allo sguardo di fede indicano la sua partecipazione allo splendore di Cristo.


Di questi segni ne abbiamo senza fine: possiamo vedere nei santi un riflesso dello splendore di Cristo; possiamo vedere nelle infedeltà storiche dei figli della Chiesa quel fallimento doloroso che Gesù ha vissuto con i suoi apostoli e che l’ha portato sulla croce.


Dunque per amare la Chiesa, per leggere il suo mistero con l’ampiezza con cui lo legge Paolo nella Lettera agli Efesini, bisogna avere una forte fede, una continua tensione verso l’aldilà, una capacità di contemplare il rapporto delle realtà invisibili con questo mondo. Senza il dinamismo di fede sarà sempre troppo facile giocare sull’ambiguità dei segni della Chiesa e non vedere nulla.


Un esempio di lettura credente del mistero della Chiesa lo traggo ancora da una pagina di Paolo VI che negli anni del postconcilio si chiedeva:


«Soffre oggi la Chiesa? Sì, figli carissimi, oggi la Chiesa è alla prova di grandi sofferenze! Ma come? Dopo il concilio? Sì, dopo il concilio! Soffre la Chiesa dell’opprimente mancanza di legittima libertà in tanti paesi del mondo. Soffre per l’abbandono di tanti cat­tolici della fedeltà che la tradizione secolare le merite­rebbe, e lo sforzo pastorale, pieno di comprensione e di amore, le dovrebbe ottenere. Soffre soprattutto per l’insorgenza inquieta, critica, indocile e demolitrice di tanti suoi figli, i prediletti - sacerdoti, maestri, laici, dedicati al servizio e alla testimonianza di Cristo viven­te nella Chiesa viva -, contro la sua intima e indispen­sabile comunione, contro la sua istituzionale esistenza, contro la sua norma canonica, la sua tradizione, la sua interiore coesione... Carissimi figli, non rifiutateci la vostra solidarietà spirituale e la vostra preghiera. Non lasciatevi prendere dalla paura, dallo scoraggiamento, dallo scetticismo... Ma soffrite e amate con la Chiesa. Con la Chiesa operate e sperate» (Insegnamenti di Paolo VI, 1969, VII, 904).


C’è in queste parole quello sguardo di fede profonda che conosce le sofferenze, le debolezze, le fatiche, le macchie della Chiesa, eppure vede in essa il mistero di Cristo e quindi non cessa di offrire, soffrire e sperare.


Concludo ancora con una parola di Paolo VI, che è una testimonianza del suo amore alla Chiesa come la madre della sua fede:

«Sempre ho amato la Chiesa. Fu il suo amore che mi trasse fuori dal mio gretto e selvatico egoismo, e mi avviò al suo servizio; e per essa, non per altro, mi sembra di aver vissuto. Ma vorrei che la Chiesa lo sapesse; e che io avessi la forza di dirglielo, come una confidenza del cuore, che solo all’estremo momento della vita si ha il coraggio di fare» (da Pensiero alla morte).


Io mi auguro che queste giornate di spiritualità della Famiglia Salesiana, e soprattutto la Strenna di questo anno 2005 ci ottengano la grazia di esprimere nel nostro cuore questo modo di vedere e di amare la Chiesa. Solo così collaboreremo efficacemente nel ringiovanimento del suo volto.




Pascual Chávez V.