Omelia 140 spedizione missionaria


XXVI Domenica T.O.

«Chi non è contro di noi, è per noi»

(Nm 11,25-29; Gc 5,1-6; Mc 9,38-43.45.47-48)





Carissimi fratelli e sorelle in Cristo Gesù,



Ci siamo radunati nel suo Nome per celebrare il suo memoriale, sacramento della nostra salvezza, e per ascoltare la sua Parola, che è luce e forza per il nostro cammino della vita. È in questo contesto eucaristico che facciamo ancora una volta la nuova spedizione missionaria salesiana. Nel 150º anniversario della Fondazione della Congregazione Salesiana, questa spedizione missionaria, la 140ª della storia nostra, acquista un significato speciale. Si tratta di persone che si sentono eredi di quel gruppo di giovani dell’Oratorio di Valdocco che il 18 dicembre del 1859 decisero di restare sempre con Don Bosco, di costituirsi in Congregazione e di dare continuità e sviluppo al suo “sogno” e al suo Progetto Apostolico.


Come nel 1875, quando Don Bosco inviò i primi salesiani nell’America, anche oggi il Rettor Maggiore, nella sua veste di Successore di Don Bosco, invia questi 37 Salesiani, queste 7 Figlie di Maria Ausiliatrice, e 16 volontari laici d’Italia, Spagna, Slovacchia e della Repubblica Ceca. Ringraziamo il Signore che continua a suscitare nella Chiesa uomini e donne, ragazzi e ragazze, consacrati e laici, che accolgono la parola d’ordine del Signore Gesù prima della sua Ascensione: “riceverete su di voi lo Spirito Santo… allora diventerete miei testimoni in Gerusalemme, in tutta la regione della Giudea e della Samaria e in tutto il mondo” (Atti 1,8). Ringraziamo ognuno di questi, perché con la loro risposta generosa alla vocazione missionaria rendono possibile la “missio ad Gentes”, che è parte costitutiva della natura della Chiesa, chiamata ad essere Luce dei Popoli, Sacramento di Salvezza, e a condividere la “gioia e la speranza, le angosce e le sofferenze del mondo”.


La Parola di Dio che abbiamo ascoltato e il Sacrificio della Croce che celebriamo, espressione suprema dell’amore di chi si è consegnato totalmente affinché tutti gli uomini e le donne del mondo abbiano vita in abbondanza, illuminano questo avvenimento.


L’essere missionario/a è infatti un dono dello Spirito che chiama incessantemente tutti i cristiani ad essere discepoli, testimoni ed apostoli del Signore Crocifisso e Risorto, ad andare ovunque, fino ai confini più remoti del mondo, per annunciare la salvezza che Dio ci ha offerto nel suo Figlio Diletto e a tradurla nell’impegno di rendere più umana la vita di tutti attraverso la donazione della propria vita nel campo dell’evangelizzazione, dell’educazione, della promozione umana e dell’impegno sociale. Annuncio e testimonianza sono le due forme di prolungare l’azione rivelatrice di Cristo che è venuto a “portare il lieto messaggio ai poveri, a proclamare la liberazione ai prigionieri e il dono della vista ai ciechi, a liberare gli oppressi, ad annunciare il tempo nel quale il Signore sarà favorevole” (Lc 4,18-19).


I missionari salesiani, appunto perché sono “segni e portatori dell’amore di Dio”, realizzano quanto scrisse l’autore della Prima Lettera di Giovanni: “Dio nessuno mai l’ha visto. Però se ci amiamo gli uni gli altri, egli è presente in noi, e il suo amore è veramente perfetto in noi”. Ecco la grandezza dell’amore, che porta alla pienezza sia nell’amato che nell’amante. L’Eucaristia, cari fratelli e sorelle, deve essere perciò lo spazio e il momento più importante della vostra vita, della vostra giornata, perché essa vi irrobustirà nella vostra missione di prolungare la rivelazione di Dio fatta da Gesù, primo missionario del Padre.


Certo, oggi la forma di capire e fare il missionario è molto cambiata, perché la comunicazione vitale ed orale della fede non si può imporre, ma si realizza in un grande clima di libertà e di proposta, che apre uno spazio al dialogo interreligioso fra gli uomini e le donne di tutte le credenze, all’ecumenismo fra i cristiani delle diverse confessioni, all’inculturazione lì dove siamo inviati ad operare.


Su questa scia, la Parola di Dio che oggi ci è stata proclamata ci invita ad avere un animo grande e accogliente, che accetta tutti coloro che hanno un qualche amore alla verità, siano pur militanti al di fuori del gregge di Cristo: «Chi non è contro di noi, è per noi».


La fede infatti, se non è ben capita, rischia di diventare un elemento di “discriminazione” fra gli uomini e di creare contrapposizioni fra di loro. Gesù invece insegna a superare gli steccati e ad accogliere tutti i “semi di verità, di bellezza e di bontà” sparsi nel mondo: ogni “verità, sia pure parziale, è sempre un inizio di fede, o una predisposizione alla fede! Soprattutto chi annuncia il Vangelo deve saper scoprire i punti di contatto con gli altri per innestarvi, direi quasi naturalmente, il messaggio della salvezza. E’ solo così che la fede non diventerà mai “polemica” ed emarginante, ma solo ed essenzialmente aggregante e “caritativa”, e perciò sempre aperta al dialogo interculturale e interreligioso.


Già la prima lettura si muove sullo sfondo di queste riflessioni. Per invito di Dio stesso, Mosè si era scelto settanta uomini, fra gli “anziani” d’Israele, perché lo coadiuvassero nella direzione del popolo. A tale scopo, però, essi avevano bisogno dello “spirito” che Dio aveva concesso abbondantemente a Mosè. Nel giorno stabilito essi si radunarono attorno alla “tenda del convegno” e ricevettero lo “spirito” di profezia.


A questo antefatto è collegato l’episodio riferitoci dalla prima lettura: due “anziani”, Eldàd e Medàd, che non erano stati scelti per far parte dei settanta e perciò non erano andati alla tenda dell’alleanza, furono anch’essi improvvisamente presi dallo Spirito e “si misero a profetizzare nell’ accampamento”. Di qui lo stupore della gente: tanto che un “giovane”, un po’ troppo zelante, Giosuè, figlio di Nun, corse subito a riferire la cosa a Mosè. «Ma Mosè gli rispose: “Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore dare loro il suo spirito!”».


È meravigliosa la risposta di Mosè alla troppo zelante richiesta del giovane Giosuè: non bisogna imprigionare lo “Spirito”, pensando quasi di poterlo dominare e farlo camminare solo su certi binari, magari quelli che sembrano più sicuri!


Il tentativo di “imprigionare” lo “spirito” racchiude in sé un doppio peccato: il primo contro Dio, su cui si vorrebbe arrivare ad avere una specie di controllo, lui che è il sommamente “libero”! Il secondo contro i fratelli, dei quali vorremmo misurare la capacità di risposta alle iniziative di Dio secondo i canoni fissati da noi, quasi che fossimo i “dominatori” e non piuttosto i “servi” degli altri. Forse che non sarebbe una comune ricchezza se tutti in Israele, e nella Chiesa, fossero “profeti”, proprio come si augurava Mosè?


Non si può negare che più di una volta, nella lunga storia della Chiesa, si sia tentato di soffocare lo “Spirito”, quando esso sconvolgeva schemi precostituiti di pensiero, o metteva in crisi un certo modo di intendere e di gestire la “istituzione”, che non ha certo il “monopolio” della verità e tanto meno della santità.


Il Concilio Vaticano II ha riscoperto la fondamentale vocazione “profetica” di “tutto” il popolo cristiano sulla base dell’unica fede e dell’unico battesimo: «Il popolo santo di Dio partecipa pure dell’ufficio profetico di Cristo col diffondere dovunque la viva testimonianza di lui, soprattutto per mezzo di una vita di fede e di carità; e coll’offrire a Dio un sacrificio di lode, cioè frutto di labbra acclamanti al nome di lui» (LG, c. II, n. 12).


La prima parte del Vangelo odierno ci presenta una scena che ha non poca rassomiglianza con l’episodio del libro dei Numeri or ora ricordato: solo che, invece che di profezia, si tratta qui di atti di “esorcismo”, fatti “nel nome” di Gesù da qualcuno che non era suo discepolo.


Anche qui c’è un giovane, un po’ troppo zelante, che denuncia subito a Gesù qualcosa che a lui sembra inammissibile: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demoni nel tuo nome e glielo abbiamo vietato, perché non era dei nostri». Quel giovane era Giovanni che, anche da un passo di Luca (9,52-55), appare essere stato piuttosto intollerante: infatti, insieme al fratello Giacomo, chiese a Gesù di far scendere “fuoco dal cielo” su un villaggio di Samaritani che non avevano voluto ricevere il Maestro, meritandosi però un forte rimprovero.


Si notino le affermazioni discriminanti del giovane apostolo: “Glielo abbiamo vietato perché non era dei nostri”, quasi che Gesù fosse un oggetto da possedere con gelosia e non piuttosto un “dono” da condividere con il più gran numero possibile di persone!


È interessante perciò la risposta distensiva del Maestro: «Non glielo proibite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me. Chi non è contro di noi, è per noi».


A prima impressione sembra che la risposta di Gesù sia opportunistica, tenda cioè a creargli un alone di simpatia: infatti, non ci può essere qualcuno “che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me”. In realtà, essa mira molto più lontano: vuole educare gli apostoli a non considerarsi “possessori” della verità, ma “ricercatori” insieme con gli altri. In tal modo si diventa automaticamente “aperti” a tutti coloro che hanno in comune con noi qualche cosa: almeno il fatto di essere uomini e, se credenti in Cristo, anche molte porzioni di verità di fede.


Con la sconvolgente affermazione «Chi non è contro di noi, è per noi», Gesù ha gettato in anticipo le basi del “dialogo” interreligioso fra gli uomini e dell’ “ecumenismo” fra i cristiani, che la Chiesa ha recuperato con piena lucidità in questi ultimi tempi.


Solo apparentemente essa contrasta con un’altra notissima frase di Gesù: «Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde». In realtà qui Gesù si pone come l’Assoluto per tutti: chi lo conosce per quello che è, non può non stare con lui; altrimenti disperderebbe e si perderebbe! Ciò non toglie, però, che si ci siano “porzioni” di verità, di bellezza e di bontà anche altrove, che già sono un segno della sua presenza nel mondo: proprio questa può essere la via che porta lentamente a lui. È per questo che non bisogna cancellare assolutamente qualsiasi pur tenue pista nel deserto: per Gesù questo è sufficiente per arrivare misteriosamente al cuore degli uomini.


Ciò vale ovviamente sia per la Chiesa in quanto tale, che per i singoli cristiani: lo “Spirito” di Cristo agisce molto al di là dei confini della Chiesa, e perfino della stessa fede. Proprio perché Cristo è la “verità” totale, egli si trova dovunque ci sia un frammento di verità: in tal modo direi che Gesù è più grande del suo stesso Vangelo, annunciato e predicato.


Non bisogna essere gelosi, come Giovanni o come Giosuè, che altri abbiano lo “Spirito” del Signore, o che invochino o rispettino il suo “nome”: c’è solo da goderne e da ringraziarne il Padre celeste!


Il cristianesimo non è un’etichettatura, ma una prassi di vita, che talvolta si trova misteriosamente anche in chi cristiano non è! Oltre a tutto, questo dover affidarsi alla benevolenza altrui esige senso di umiltà e di discrezione: così, già in partenza, l’apostolo di Cristo riconosce di non aver potere alcuno sugli altri, ma solo un “servizio” da offrire.


Ecco, carissimi missionari, i criteri e gli atteggiamenti da coltivare affinché la vostra missione sia feconda. Lo Spirito vi assista sempre. Maria Ausiliatrice nella cui casa ci troviamo per questa celebrazione vi sia madre e maestra. Don Bosco vi sia modello e fonte d’ispirazione nella sua predilezione per i “poveri e i giovani”. Da parte nostra vi accompagniamo sempre con l’affetto e la preghiera. Andate per il mondo ed annunciate la buona novella: Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio.



Pascual Chávez Villanueva

Torino – 27 settembre ’09



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