1982_ViganoE_Un_progetto_evangelico_di_vita_attiva


1982_ViganoE_Un_progetto_evangelico_di_vita_attiva

1 Pages 1-10

▲back to top

1.1 Page 1

▲back to top
ELLE DI Cl

1.2 Page 2

▲back to top

1.3 Page 3

▲back to top
U.P.S. - BIBLIOTECA
DON BOSCO
DOPPIO
CONTROLLATO

1.4 Page 4

▲back to top

1.5 Page 5

▲back to top
A
Madre ROSETTA MARCHESE
Superiora ·cenerate
delle Figlie di Maria Ausiliatrice

1.6 Page 6

▲back to top

1.7 Page 7

▲back to top
EGIDIO VIGANÒ
UN PROGETTO
EVANGELICO
DI VITA ATTIVA
EDITRICE ELLE DI CI
10096 LEUMANN (TORINO)

1.8 Page 8

▲back to top
Proprietà riservata alla Elle Di Ci - 1982

1.9 Page 9

▲back to top
PRESENTAZIONE
UN DISCORSO PER TUTTI
In questo tempo definito, non impropriamente, delle « cer-
tezze perdute », i discorsi e le parole non bastano. Consapevol-
mente o meno, l'uomo di oggi appella a « modelli » ed « arche-
tipi » di vita; vuole « segnali e messaggi » credibili, in una pa-
rola, esistenze che non si spiegano se non con Dio, mai senza di
Lui. « Uomini - ha detto Pio XI di Don Bosco - suscitati
dallo Spirito di Dio, nei momenti da Lui prescelti, che trascor-
rono per il cielo della storia proprio come le grandi meteore
attraversano talvolta il cielo substellare ».
Questi uomini sono i santi: « profezie viventi» di ciò che Dio
vuole nella storia; « alfabeto », ogni volta nuovo, con cui Dio
continua a dialogare, nel tempo, con le sue creature.
A questi « fiori di umanità » appartiene certamente Don Bo-
sco: santo del suo tempo e di ogni tempo.
Le pagine qui offerte ai lettori hanno la concretezza del vis-
suto: sono uno spaccato della « santità » di Don Bosco e del
suo « spirito »: una descrizione plastica del suo « carisma di
Fondatore ».
Si tratta, è vero, delle « riflessioni » del Superiore generale dei
salesiani, don Egidio Viganò, rivolte alle Madri e delegate del-
l'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice - convenute a Roma
per il XVII Capitolo Generale - in occasione dei loro Eser-
cizi Spirituali. Si direbbe un discorso privato, buono per un
uditorio ristretto e riservato ai soli « addetti ai lavori ». Ma
non è così.
7

1.10 Page 10

▲back to top
Al di là di certi richiami e sottolineature di obbligo, queste
« riflessioni » o « meditazioni » affrontano i principali temi, at-
tuali e scottanti, della vita salesiana e di quella religiosa in ge-
nerale. Saranno pertanto lette con frutto e interesse non solo
dalle Figlie di Maria Ausiliatrice, dai Salesiani e dai gruppi della
« Famiglia di Don Bosco », ma anche dalle diverse categorie di
« consacrati » e, persino, da quanti, sotto l'impulso dello Spirito,
si sentono chiamati a condividere, in qualche modo, nell'oggi
della storia, un progetto evangelico di vita attiva.
Esprimiamo qui viva gratitudine all'Autore perché ha con-
sentito la pubblicazione di queste pagine, per sé riservate. La
sua qualifica di settimo successore di Don Bosco, il suo pas-
sato di studioso - è stato docente di teologia, perito conciliare,
membro delle Assemblee episcopali di Medelli'.n e di Puebla,
delegato al Sinodo dei Vescovi, è autore di penetranti saggi
sulla vita religiosa-, la sicurezza così bilanciata dei suoi giudizi,
danno qualità e grande valore a queste « meditazioni » pro-
fonde, pratiche, nuove, venate di una piacevole arguzia tutta
sua. Risentono, senza dubbio, del discorso parlato, dell'ispira-
zione del momento, ma forse per questo sono più immediate
e vive.
Perché il suo discorso è una sorta di «fare»: scuote, prende,
soprattutto in certi passaggi dove nel dettato, sempre alto e
controllato, si sente vibrare, quasi giornale intimo, il cuore e
l'ansia del successore di Don Bosco.
IL PUNTO DI VISTA FA IL PANORAMA
Questa espressione di Ortega y Gasset introduce nel vivo
della nostra presentazione.
Qual è il « punto di vista » dal quale muovono queste « me-
ditazioni » aperte su un panorama amplissimo, ma organico,
unitario? Lo stesso che ha guidato Don Bosco nel suo « sogno
del Manto », o dei « Dieci Diamanti », fatto a San Benigno Ca-
navese nella notte tra il 10 e 1'11 settembre 1881. Il contenuto
è noto a quanti hanno familiarità con la letteratura salesiana.
Don Bosco sogna di conversare con i direttori delle sue case,
quando compare un personaggio - che rappresenta il Fonda-
8

2 Pages 11-20

▲back to top

2.1 Page 11

▲back to top
tore della Famiglia salesiana: « Pia salesianorum societas qualis
esse debet » - e intrattiene i presenti su temi di estrema im-
portanza per la Congregazione.
Dalle sue spalle scende un ampio mantello sul quale brillano
dieci diamanti di grandezza e « splendore straordinario ». La
loro collocazione è descritta con molta cura da Don Bosco:
« Tre erano sul petto ed era scritto sopra di uno Fede, sull'altro
Speranza , e Carità su quello che stava sul cuore. Il quarto dia-
_mante era sulla spalla destra ed aveva scritto Lavoro, sopra il
quinto, sulla spalla sinistra, leggevasi Temperanza. Gli altri
cinque diamanti ornavano la parte posteriore del manto ed erano
così disposti: uno più grosso e sfolgorante stava in mezzo come
il centro di un quadrilatero e portava scritto Obbedienza, sul
primo a destra leggevasi "Voto di Povertà", sul secondo più in
basso Premio. Nella sinistra sul più elevato era scritto "Voto
di Castità", sul secondo a sinistra più in basso stava scritto Di-
giuno».
Su ognuno di questi diamanti, don Viganò intesse le sue
« meditazioni ».
Domandiamoci subito: è cosa seria, legittima, prendere a
tema di un discorso di grande impegno il contenuto di un sogno?
Il mondo dei sogni è il regno della fantasia illimitata, del-
l'irrealtà, dell'assurdo. Sì, ma non è il caso di Don Bosco, uno
dei più grandi carismatici del suo tempo, che si serve dei sogni
per mascherare la sua santità e la sua intima profondissima
comunicazione con Dio.
Certo , i suoi circa cento sogni di cui siamo a conoscenza
fanno problema, oggi più che ieri: problema ancora molto lon-
tano dall'essere risolto. Ma non possiamo dimenticare che ci
sono anche nei loro confronti alcune evidenze che si impon-
gono prepotentemente.
Alcuni di questi sogni sono normali scherzi di fantasia; altri
- è Don Bosco a dirlo - sono «favole» o «storie» « che
si fabbricavano nella sua mente » e di cui si serviva per inca-
tenare l'attenzione dei suoi giovani; altri poi sfuggono comple-
tamente al gioco capriccioso della fantasia ed ubbidiscono a
leggi superiori. Don Bosco stesso, incerto e dubbioso al prin-
cipio, quando costata che si verificano a puntino, si arrende.
Molti sogni saranno per lui, lungo tutta la vita, la vera « carta
9

2.2 Page 12

▲back to top
del cielo », la « colonna di fuoco » che precede e lo guida nella
sua ardua opera di Fondatore.
« Che certi sogni appartenessero, nell'estimazione di Don Bo-
sco, alla categoria dei doni speciali di Dio, è fuori di dubbio;
certe previsioni di morti, certi pronunziamenti sul futuro d'in-
dividui, d'istituzioni, di nazioni, avevano in lui all'origine ta-
lora un sogno ch'era a suo giudizio diverso dagli altri» (P.
Stella).
Innegabilmente una parte non irrilevante del suo messaggio
di educatore e di santo resta consegnata per sempre a queste il-
luminazioni dall'alto. Nella tradizione salesiana - di cui, in
questo caso, il più autorevole interprete è Don Rinaldi - il
sogno dei « Dieci Diamanti » spicca per l'importanza straordi-
naria che gli viene costantemente attribuita. Non è documento
che contenga tutti gli elementi del « patrimonio salesiano »
- mancano accenni espliciti ai destinatari, alla missione , ecc. -
ma è, forse , la più compiuta ed organica descrizione tipologica
dello « spirito salesiano » e dell'« indole propria » della Con-
gregazione.
UNO SPIRITO TIPICO
Se il sogno dei Diamanti descrive la « tipologia della santità
salesiana » personificata in Don Bosco, il commento che ne fa
don Viganò si risolve, necessariamente, in una proposta e sot-
tolineatura dello « spirito salesiano ».
Nulla di più opportuno in un tempo in cui tutti gli Istituti
riscoprono la loro identità. Non tutti, ancora, sanno vedere in
Don Bosco, al di là del grande « imprenditore » delle opere di
Dio , anche il vero iniziatore e fondatore di una « tipica corrente
di santità e di vita », il « patriarca » di una « spiritualità ori-
ginale e propria ».
Questo aspetto non sempre sufficientemente avvertito è una
delle glorie più fulgide di Don Bosco. Nessuna delle tre condi-
zioni che sono all'origine delle spiritualità storicamente affer-
mate - come la benedettina, la francescana, ecc. - fa difetto
a Don Bosco.
Alla base di tutto troviamo infatti anche in lui una « origi-
10

2.3 Page 13

▲back to top
nale esperienza di Spirito » che si esprime e rivela in un modo
proprio e nuovo di rileggere il Vangelo e il mistero di Cristo
in chiave personale, con speciale duttilità ai segni dei tempi.
L'originalità di questa esperienza comporta essenzialmente una
« sintesi nuova», equilibrata, armonica e, a suo modo, organica
degli elementi comuni alla santità cristiana, dove le virtù e i
mezzi di santificazione hanno una propria collocazione, un do-
saggio, una simmetria e una bellezza che li caratterizzano.
In secondo luogo vediamo brillare anche in Don Bosco una
straordinaria forma di santità, della quale è difficile stabilire il
livello, ma che non si può identificare con la santità del cano-
nizzato non fondatore - per esempio con quella di un san Giu-
seppe Cafasso - . Tale straordinarietà, che porta con sé delle
novità precorritrici, attira verso la persona di Don Bosco, la
mette al centro di consensi e di contrasti, ne fa un « profeta »
portatore di futuro, mai un solitario; un « maestro » che plasma
discepoli al suo spirito, e si prolunga in essi.
Troviamo infine, in Don Bosco, il dinamismo generatore di
paternità spirituale: se la sua esperienza di Spirito Santo non
fosse stata trasmessa e poi vissuta, conservata, approfondita e
sviluppata dai discepoli e. dai loro seguaci, non vi sarebbe stato
carisma di fondazione, non spiritualità. È, invece, successo esat-
tamente il contrario: lo spirito di Don Bosco si è diffuso con
rapidità meravigliosa, è diventato fiume che sta permeando il
mondo.
Bene ha dunque fatto don Viganò a scegliere a tema delle
sue « meditazioni » il sogno dei Diamanti, a ripercorrerne con
cura il disegno e l'architettura originaria, a dimostrare come, in
essa, nulla sia lasciato all'improvvisazione o al caso, ma tutto
abbia un senso preciso. Non è infatti casuale la coliocazione
dei cinque diamanti che fiammeggiano sul petto e sulle spalle
del personaggio.
L'uomo ha una sua verticalità che lo innalza fra tutte le
creature, ma, visto di fronte, ha un profilo proprio, inconfon-
dibile, che lo distingue fra tutti. Così il salesiano. Ha scritto
Don Rinaldi: « Se la guardiamo di fronte la vita salesiana con-
siderata nella sua attività è "lavoro e temperanza" vivificati dalla
carità del cuore nella luce sempre più luminosa della fede e
della speranza ».
11

2.4 Page 14

▲back to top
Connotazioni semplici, ma caratterizzanti. Rimandano a Don
Bosco e, per suo mezzo, all'operaio di Nazaret: hanno una spic-
cata rassomiglianza con la vita dura del « lavoratore » di tutti
i tempi. Anche a questo pensava Don Bosco quando voleva i
suoi figli « in maniche di camicia ».
Non è casuale l'ordine dei diamanti della « povertà, castità,
premio e digiuno » disposti, nella parte posteriore, a quadrila-
tero attorno all'ubbidienza. Rappresentano i valori della con-
sacrazione, l'allenamento ascetico, la « vis a tergo » che muove
il salesiano in quanto consacrato, tanto più efficacemente quanto
più nascosta e profondamente vissuta. Anche questa è una ca-
ratteristica che stava a cuore a Don Bosco: « Egli aveva ideato
una pia Società che, pur essendo vera Congregazione religiosa,
non ne avesse l'aspetto esteriore tradizionale: gli bastava che
vi fosse lo spirito religioso, unico fattore della perfezione dei
consigli evangelici; nel resto credeva di poter benissimo pie-
garsi alle esigenze dei tempi » (Don Rinaldi).
Valenza propria hanno, infine, la disposizione simmetrica dei
diamanti; la loro diversa lucentezza; le connessioni e nerva-
ture interne; la posizione centrale del diamante della carità,
« cuore del cuore oratoriano » di Don Bosco, valore unificante
supremo. Questi diamanti - simbolo di atteggiamenti profon-
di - contrapposti ma equilibrati, complementari, uniti in sin-
tesi armoniosa formano tutta l'economia della « specifica san-
tità salesiana ».
Spostarli dal loro posto, rompere il loro equilibrio, introdurre
corpi estranei, mortificarne lo splendore potrebbe, forse, signi-
ficare ancora una spiritualità proponibile, ma non sarebbe più
lo spirito salesiano.
Le « meditazioni » rispettano e valorizzano questa tipologia;
sono complementari l'una all'altra; partono tutte dalle indica-
zioni del sogno; si snodano alla luce dei dati qualificanti della
Scrittura, della teologia di oggi; danno risalto al modello della
vita eroica di Don Bosco; scendono ad applicazioni concrete
immediatamente attuabili; concludono tutte con un delicato
riferimento a Maria « ispiratrice e fondatrice della Congrega-
zione ».
Sarà il lettore ad entrare nel vivo delle singole « meditazio-
ni ». Riteniamo più utile evidenziare invece alcuni dei « cri-
12

2.5 Page 15

▲back to top
teri » o « princìpi ispiratori » che fanno da tessuto connettivo
al dettato e lo percorrono, come in filigrana, dal principio alla
fine.
FEDELTÀ AL FONDATORE
È di moda ed ·è affascinante parlare di « futuro », di « no-
vità », di « avvenire ». Ma in tema di « spiritualità », di « ca-
risma » di un Istituto il primo passo da fare, se non si vuole
sbagliare, deve essere all'indietro. Bisogna partire, cioè, assolu-
tamente dal Fondatore e da tutto il Fondatore, dalla sua « for-
mula originaria di Spirito Santo », la quale si deve ritenere
sostanzialmente conclusa con la sua morte.
È la prima e la più forte suggestione che si ricava dalla let-
tura di queste pagine: guardare a Don Bosco. Don Viganò
- ed ogni riga lo prova - è l'uomo dell'ottimismo e della
« speranza» che non tradisce. Guarda con entusiasmo all'av-
venire, ma crede fortemente nel passato; la sua speranza è
protesa al domani, ma è radicata nella fede di ieri; è attenta
ai « segni dei tempi», ma li confronta con il Vangelo della
salvezza. Sa bene che non sarà mai il futuro della storia a in-
ventare il mistero della Pasqua.
« Se io volessi agire considerando la salesianità come un frut-
to dei segni dei tempi - afferma - sarei in definitiva un im-
manentista senza fede; sostituirei il Fondatore con una gnosi
impersonale, ambigua e relativista, camuffata di cosmetici alla
moda. Il salesiano preesiste ai tempi nuovi. Se si chiude a
essi, entra nel museo della curiosità; se si confonde con essi,
si suicida; se emerge in essi, come portatore di un carisma
permanente dello Spirito Santo, è autentico nella sua vocazione.
Il salesiano dei tempi nuovi è nato con Don Bosco ».
Ma ritornare a Don Bosco non è sinonimo di « ritorno al
tempo di Don Bosco ». I cento anni che ci separano dalla sua
morte non sono trascorsi invano. La « formula delle origini », lo
« spirito di Valdocco » e di « Mornese» hanno subìto un pro-
cesso evolutivo inarrestabile: non sono stati custoditi come ma-
teriale da museo; sono stati, al contrario, vissuti, approfonditi,
sviluppati; si sono adattati alle situazioni inedite dei tempi nuovi
13

2.6 Page 16

▲back to top
e delle nuove culture; si sono arricchiti di apporti nuovi come
le acque dei fiumi assimilano i sali del suolo che attraversano.
Lo spirito delle origini è passato dallo slancio eroico degli
inizi a ritmi di vita più misurati, propri dell'età adulta. Quel
tanto di eroico che si è perso in quantità si è conservato in
durata. La rude vita di Valdocco non sarebbe più possibile. Non
c'è Istituto che a cento anni dalla morte del Fondatore non abbia
subìto trasformazioni profonde.
Tutto questo è normale e anche salutare, a condizione che
non venga intaccata l'identità della formula originaria.
L'essenziale in questa evoluzione - scrive con finezza P. De
Guibert - è che la « formula di vita spirituale primitiva non
venga compromessa nella sua struttura originaria, che non si
trasformi, sotto il pretesto di estendere la sua azione e di farsi
accettare dal di fuori, in una mescolanza informe di elementi
disparati. Di qui la necessità di rapportarsi al tipo originale di
vita spirituale propria per ben comprendere gli sviluppi succes-
sivi e discernervi, attraverso accrescimenti talora avventizi, ciò
che malgrado tutto continua ad assicurare a questa spiritualità
un valore ed una efficacia durevoli ».
OLTRE IL FONDATORE
La conoscenza approfondita del Fondatore, del suo carisma
originario è fondamentale, ma non si è fedeli se non si è di-
namicamente protesi al futuro. La forza della « tradizione viva »
che spinge alla fedeltà del passato è anche quella che spinge
ad andare oltre il Fondatore; a passare dal Don Bosco « santo
della sua storia », al Don Bosco « profeta » per i tempi futuri.
Ma come restare fedeli al Fondatore in questa nostra epoca
di transculturazione dalle dimensioni planetarie, caratterizzata
da una nuova visione dell'« Uomo», del «Mondo», della « Co-
munità umana », della « Storia », e dai relativi processi di
«·personalizzazione », « socializzazione », « secolarizzazione »,
« liberazione »?
Di fronte a questi vistosi « segni dei tempi » carichi di pro-
messe e contenuti nuovi, ma anche ambigui e pericolosi per il
contesto storico segnato dal peccato, come devono comportarsi i
14

2.7 Page 17

▲back to top
discepoli di un Fondatore? Se il suo carisma ha preso forma
in un tipo di cultura, ormai lontana, c'è veramente da doman-
darsi: che cosa rimane, che cosa deve rimanere del suo « spi-
rito »?
Un figlio di Don Bosco del secolo scorso si troverebbe inizial-
mente male nella Congregazione di oggi: avrebbe la sensazione
di essere stato come paracadutato in un altro pianeta; eppure,
dopo un primo stordimento, egli non tarderebbe a riconoscere
che la Congregazione, divenuta adulta, non ha smarrito i li-
neamenti essenziali del suo volto. Riconoscerebbe, con profonda
gioia, che rimangono intatti: le intenzioni permanenti di Dio
sulla vita di Don Bosco Fondatore; i valori essenziali del suo
carisma dinamicamente aperto ai nuovi processi di incultura-
zione; la realtà vitale ed essenziale della sua missione; i valori
positivi del secolo di Don Bosco - la Chiesa ha sempre fatto
suo quanto c'è di valido nella vita dei popoli in successione
storica - rilanciati come profezia nella nostra cultura, e molto
altro ancora. Riconoscerebbe che se sono cadute in desuetudine
molte forme di vita legate al fluire variabile del tempo , gli
elementi costitutivi della « formula primitiva » ispirati da Dio
a Don Bosco, non solo non sono andati perduti, ma sono stati
incessantemente oggetto di riscoperta, di purificazione, di rein-
terpretazione fedele, di miglioramento.
Dal Vaticano ad oggi la coscienza della Congregazione ha
seriamente operato il delicato discernimento tra ciò che di Don
Bosco deve assolutamente permanere, perché appartiene all'es-
senza del suo spirito, e ciò che, essendo decaduto e inadeguato ,
deve essere rinnovato sotto la spinta dello sviluppo teologico-
ascetico, pastorale, canonico della Chiesa e del nuovo contesto
socio-culturale del mondo, in particolare dei giovani.
Questi princìpi, che fanno da sfondo alle vigorose « medita-
zioni » di don Viganò e che affiorano di quando in quando,
sono applicati continuamente alle nostre condizioni concrete di
vita, e aiutano a fare quel salto di qualità che dopo il Concilio
tutti i religiosi devono fare. Nessuna delle urgenze più -vive
del salesiano di oggi è, qui, disattesa. Non i valori della libertà,
dell'iniziativa, della partecipazione, delle strutture di correspon-
sabilità, della vita consacrata come « vita-segno », « vita-sacra-
mentale » molto superiore al puro atteggiamento etico; non quelli
15

2.8 Page 18

▲back to top
I
dell'autonomia delle realtà profane, subordinate al fine ultimo
della persona e della persona a Dio; non la prospettiva storica
e la conseguente « pastorale di futuro » che non separa la
« evangelizzazione » dalla « promozione umana » o viceversa;
non i valori della sessualità, del lavoro e degli altri segni emer-
genti dei tempi. Lo slogan « con Don Bosco e con i tempi »
suona veramente un vivere con Don Bosco e di Don Bosco in
questo nostro tempo carico di promesse e di minacce incom-
benti.
LA FEDELTÀ PASSA PER LA SANTITÀ
La santità - voce quasi desueta che sta per_ò ritornando di
attualità - è un altro grande principio conduttore di queste
« meditazioni ». Don Viganò ne parla con la delicatezza di-
screta con cui si confidano le cose più intime, ma crede ferma-
mente in essa e la colloca, come Don Bosco, a fondamento di
tutto: « O salesiani santi o niente salesiani » . Si mediti questa
sua puntuale dichiarazione: « lo non credo che saranno pro-
motori del salesiano dei tempi nuovi i facili "leaders" delle
grida alla moda che misconoscono il Getsemani e il Calvario,
che parlano bene dei poveri ma vivono da borghesi; inventano
continui cambiamenti nello stile di preghiera, però dialogano
assai poco con Dio; descrivono con apparente sicurezza il su-
peramento dei tabù sessuali, però accondiscendono a certi di-
vertimenti, a letture e ad amicizie tali per cui non riescono più
ad avere di fatto il cuore puro; appaiono come i paladini della
giustizia sociale, però antepongono l'opzione politica all'impe-
gno evangelizzatore; demitizzano l'autorità in favore della fra-
ternità, ma ormai non coltivano lo spirito di filiazione al Padre,
né con l'obbedienza fino alla croce, né col sacrificio di sé per
il bene dei fratelli ».
Della santità salesiana sono opportunamente sottolineati due
àspetti essenziali e indivisibili: la carità pastorale e la disciplina
' ascetica.
La « carità pastorale » modellata su quella di Cristo « Apo-
stolo del Padre » e « Buon Pastore», è il diamante che brilla di
luce vivissima sul petto del personaggio del sogno in posizione
; centrale. È innegabilmente vero che per Don Bosco la « tipica
16

2.9 Page 19

▲back to top
carità » del suo carisma è: l'asse centrale della missione sale-
siana; l'anima dei consigli evangelici interamente vissuti al suo
servizio; il vincolo delle relazioni di amicizia costante verso
le persone infinite di Dio e le persone degli uomini, soprattutto
dei piccoli e dei poveri.
Essendo l'amore del prossimo in dipendenza essenziale da
quello di Dio, il discepolo di Don Bosco non è orizzontalista.
Alimenta la fiamma della sua carità nell'incontro quotidiano con
Cristo - con l'Eucaristia soprattutto - , con Maria, nella pre-
ghiera e nel lavoro santificato.
Disciplina dell'ascesi. La carità non vive senza il mistero della
croce e la pratica ascetica. In un mondo che applaude al trionfo
delle concupiscenze - potere, benessere, carne, superbia della
vita, ecc. - e ha come disintegrato lo sforzo ascetico, don Vi-
ganò rivendica il valore tradizionale della ascesi.
Nella « meditazione », in particolare, sul diamante del di-
giuno-mortificazione l'ascesi « cristiana » e « salesiana » è ripro-
posta, nel suo senso forte di sforzo metodico volto a bloccare e
dominare quanto si oppone alla crescita della vita in Cristo e
ad affrontare i sacrifici che essa impone: l'abnegazione, la ri-
nunzia, l'accettazione della sofferenza, il combattimento spiri-
tuale e non già per se stessi, ma, sacramentalmente, come par-
tecipazione alle sofferenze e alla croce di Cristo.
Ascesi severa, ma non antiquata, perché attenta e aperta ai
valori dell'attuale cultura, sensibile e commisurata ai progressi
fatti dalle scienze dell'uomo e alle esigenze dei « segni dei tem-
pi ». Non manichea ma positiva; liberatrice dei valori della per-
sona, del corpo, dell'autorealizzazione, e, tuttavia, assolutamente
mai dimentica della legge della croce, bisognosa sempre di pe-
nitenza e di perdono.
L'ASSE SPIRITUALE
Un'ultima ispirazione di fondo vogliamo ancora rilevare,
quella che si può considerare come l'asse della vitalità spirituale
del vero discepolo di Don Bosco . Asse intorno al quale ha ruota-
to la vita del santo e che don Viganò propone come linea di
forza - forse la più tipica - dello spirito salesiano.
17

2.10 Page 20

▲back to top
Intendiamo riferirci alla caratteristica di saper coniugare in
unità vitale l'essere e l'agire, la consacrazione e la missione,
l'amore a Dio e l'amore al prossimo, la preghiera e il lavoro,
}'azione e la contemplazione, ossia quella che fu definita feli-
cemente « la grazia di unità ».
I veri discepoli di Don Bosco - « santo dell'azione » - non
mettono certo il silenziatore sulla preghiera, ma fanno dell'azione
il « luogo abituale» del loro incontro con Dio. Valorizzano la
ricchezza perfettiva della preghiera, ma considerano perfettiva
.anche quella dell'azione. Per essi il modo sacramentale di « es-
sere Chiesa » consiste proprio nel dedicarsi ad « agire come
·Chiesa ». Sanno che tra preghiera e lavoro corre un rapporto
-dialettico irrinunziabile e continuo, ma non ignorano che il
ritmo di questo rapporto è necessariamente subordinato e rego-
lato dalla suprema volontà di Dio. Quando Dio chiama alla
preghiera bisogna pregare; quando chiama all'azione bisogna
.agire. Due vie per andare a Dio nelle quali ciò che decide è il
« dinamismo delle virtù teologali», « l'unione con Dio».
La « presentazione » di queste « meditazioni » estremamente
-preziose avrebbe richiesto un più accentuato impegno; pensiamo,
tuttavia, che da essa possano venire suggestioni e stimoli per
una lettura attenta e meditata. Siamo anche convinti che quanti
-vivono nell'orbita di Don Bosco - ma anche chi ne è fuori -
si sentiranno come obbligati da queste pagine ad approfondire
ìa propria identità spirituale, a porsi nel realismo della storia,
a scoprire i bisogni evangelici del mondo, a vivere in maggiore
.autenticità di vita.
Don Bosco, immerso nel suo secolo come di più non avrebbe
potuto esserlo, non ci vuole superficiali e distratti; non mon-
·dani, anche se del mondo; non estranei, ma con una propria
.identità; non antiquati, ma odierni profeti della realtà escatolo-
gica della Pasqua; non facili ammiratori della moda, ma co-
raggiosi cultori di un rinnovamento esigente; non disertori delle
vicissitudini umane, ma protagonisti di una storia di salvezza.
È un augurio, una speranza.
Roma, 26-7-1982
PIETRO BROCARDO
18

3 Pages 21-30

▲back to top

3.1 Page 21

▲back to top
1
.....
NELL'UNITA DELLO SPIRITO SANTO
1.1. UN'ASSEMBLEA IN RICERCA
Mi sembra quasi di trovarmi di fronte a una solenne Assem-
blea di 56 Nazioni! Alle fortunate che qui le rappresentano
porto i saluti e gli auguri di tutti i miei confratelli, incomin-
ciando da quelli del Consiglio Superiore e poi di tutta la Con-
gregazione e dell'intera Famiglia Salesiana.
Stiamo pregando per voi. Questo vostro Capitolo Generale è
un evento assai importante che interessa moltissimo noi e più
ancora voi.
È certo di buon augurio incominciare gli Esercizi oggi (8 set-
tembre), compleanno di Maria Santissima. Sono quasi duemila
anni (tenendo conto dell'errore di calcolo per la nascita di Cri-
sto) che la Madonna è nata; essa è rimasta, però, sempre gio-
vane, piena di vitalità e di forza di risurrezione.
Avete fatto una bella scelta, una scelta mariana, tanto con-
sona al nostro spirito e alle nostre tradizioni. Ed è interessante
osservare che non solo incominciate gli Esercizi con la scelta di
una data mariana, ma lo sarà anche l'inizio del Capitolo, il
prossimo 15, festa dell'Addolornta. Oggi incominciate gli Eser-
cizi con il senso dell'« aurora», la nascita che porta gioia; il
Capitolo generale, invece, lo incominciate con la Vergine dei
Dolori. Cosa volete? È attraverso il lavoro e il sacrificio che·
un Capitolo arriva alle grandi conclusioni fruttifere!
1.2. MEDITAZIONI SPECIALI SU UN TEMA ADEGUATO
Mi sono proposto di riflettere con voi, appunto in quanto
« Capitolari », preparando alcune riflessioni appropriate all'alta
responsabilità dell'evento che state per celebrare. Ho cercato,

3.2 Page 22

▲back to top
I
un tema globale che servisse a creare tra voi un clima adeguato.
Sono convinto che ne ho trovato uno assai atto .
Una buona parte di voi non ha mai pregato, meditato e la-
vorato in quanto « Capitolare ». Bisogna dare una intonazione
caratteristica a queste giornate spirituali di Capitolari . Devono
essere « esercizi spirituali » e non « lavoro capitolare »; però
vogliono essere meditazione e preghiera proprie di Capitolari e
non di chiunque. Siete convocate per realizzare un Capitolo
generale che sia (cf Costituzioni!) tempo privilegiato di rifles-
sione, di verifica, di orientamento, vissuto in atteggiamento di
preghiera e di ascolto, con sensibilità alle situazioni storico-
culturali o ambientali, coscienti di una suprema responsabilità
per lo spirito dell'Istituto.
Ma qui è indispensabile andare un po' più a fondo. Un evento
ecclesiale tanto delicato avrà un Protagonista più grande di voi:
lo Spirito Santo. È consolante crederlo, così gli Esercizi servi-
ranno per allenarvi ad essere docili a Lui.
Il Capitolo non è già stato fatto nelle case, nelle riunioni
ispettoriali o nelle commissioni preparatorie, con le numerose
osservazioni e i vari studi; tutto questo è senz'altro una pre-
parazione indispensabile e meritevole, e dovrà essere tenuta
presente. Ma il Capitolo generale deve ancora incominciare.
Non lo fanno le professoresse, i periti, no; lo farete voi, in sin-
tonia con il grande Protagonista che è lo Spirito Santo.
Forse approverete quello che è già stato fatto; forse lo cam-
bierete tutto; la cosa importante è che ·lo facciate nello Spirito
Santo .
Dunque: ha una sua speciale esigenza il prepararsi spiritual-
mente ad essere vere Capitolari. Sul piano della fede, un mini-
stero, un mandato, una missione investono tutta la realtà della
persona per tutto il tempo che dura il servizio a cui il Signore
ha chiamato. Se dura tutta la vita, il nome stesso della persona
ne descrive la missione: così è di « Gesù » che ha il compito
di Salvatore. Se dura un certo tempo (e così sarà nel vostro
caso), la persona viene specialmente assistita dallo Spirito del
Signore nell'adempimento del suo mandato.
Ecco, la vostra vita di fede, speranza e carità (che è la pre-
senza dinamica dello Spirito .Santo nei nostri cuori) deve muo-
versi con la chiara coscienza di una tale comunione.
20

3.3 Page 23

▲back to top
Lo Spirito Santo si sentirà impegnato in prima persona nel
vostro Capitolo, perché esso costituirà un evento di vita eccle-
siale: un processo d'identificazione della vocazione salesiana,
non solo per voi, ma per tutta la nostra grande Famiglia.
La vostra fede, speranza e carità in questi giorni vi aiutino
a leggere la presenza viva dello Spirito Santo, per creare in
voi un clima di sintonia e di grande docilità a Lui, senza nes-
suna pretesa di arbitrarietà.
Le Costituzioni affermano che eserciterete la massima auto-
rità; però non sarete le « padrone » della vocazione salesiana,
neppure per un minuto, nessuna! Mai un Capitolo generale si
è proclamato padrone del carisma del Fondatore. Anche un Ca-
pitolo ha i suoi limiti: quelli che provengono da Dio e dalle
sue iniziative. Perciò è indispensabile essere fedeli a quello che
Lui ha suscitato nella sua Chiesa, con grande senso di respon-
sabilità, sapendo di essere chiamate a dare all'Istituto dei grandi
orientamenti, in fedeltà a ciò che ha voluto e vuole lo Spirito
Santo.
Si esige da voi una grande capacità di discernimento comu-
nitario, alimentato dalla preghiera, dalla riflessione, dalla con-
templazione, e anche dalle sofferenze e dalle mortificazioni.
1.3. IL GRANDE PROTAGONISTA INVISIBILE:
LO SPIRITO SANTO
Se il grande protagonista del Capitolo è lo Spirito Santo,
fatevi sue « amiche ».
Il 1° settembre scorso ho dovuto tenere una prolusione nel
Convegno nazionale che si è svolto a Torino in occasione del
50° della rivista « Catechesi » . Il tema assegnatomi era « Fede
ed esperienza ». Mi hanno chiesto di dire qualcosa su questo
argomento secondo le esperienze della mia vita personale. La
prima cosa che ho affermato è appunto la seguente: io, umil-
mente, ho sentito maturare la mia fede attraverso la storia, nel-
l'esperienza di particolari eventi. Ho avuto dal Signore la grazia
di poter partecipare al Vaticano Il, a due Sinodi, a Medellin,
a Puebla, a tre Capitoli generali nostri; ciò che ho potuto co-
statare è che tutti questi eventi ecclesiali non trovano spiega-
21

3.4 Page 24

▲back to top
zione del loro significato globale, né nella accurata prepara-
zione, nella scienza dei periti, né in base a questo o a quel
membro qualificato. Eppure hanno, di fatto, un valore spiri-
tuale d'insieme che muove e cambia la vita della Chiesa, la
pastorale, la storia. Da dove è venuta loro questa straordinaria
qualità?
Per rispondere occorre avere coscienza della presenza viva
dello Spirito Santo nelle vicissitudini del tempo. Ecco una co-
statazione che è maturata dentro di me in una grande convin-
zione.
Ebbene, il vostro Capitolo (se lavorate in esso spiritualmen-
te) sarà uno degli eventi ecclesiali caratterizzato da questa pre-
senza di Spirito Santo. Non è che voi troverete lo Spirito Santo
qui o là. Come per il Profeta, Dio non è nel terremoto ,
nel fuoco , né nel vento forte , ma nell'aura soave e quasi im-
percettibile; è lì, non si prende con le mani, ma uno è co-
stretto a esclamare: « Come si spiega questo risultato globale? ».
Così è appunto l'intervento dello Spirito.
Si chiede dunque a ciascuna di voi questa convinzione pro-
fonda e insieme questa delicatezza spirituale per saper perce-
pire l'aura soave del Protagonista.
Nel Vangelo di san Giovanni (16,5-15) , quando Gesù an-
nuncia che se ne va al Padre, dice: « Adesso io ritorno al Padre
che mi mandò tra gli uomini e nessuno di voi mi chiede: Dove
vai? Però siete tristi perché vi ho detto queste cose, ma io vi
assicuro che per voi è meglio che io me ne vada, perché se non
me ne vado non verrà a voi lo Spirito che vi difende, invece
se me ne vado, ve lo manderò . Egli verrà e mostrerà di fronte
al mondo che cosa significa peccato, giustizia e giudizio [ ... ].
Ho ancora molte cose da dirvi, ma ora sarebbe troppo per voi.
Quando verrà Lui, lo Spirito della verità, vi guiderà verso tutta
la verità. Non vi dirà cose sue, ma quelle che avrà udito, e vi
parlerà delle cose che verranno; nelle sue parole si manifesterà
la mia gloria, perché riprenderà quello che io ho insegnato e
ve lo farà capire meglio. Tutto quello che ha il Padre è mio,
per questo ho detto che lo Spirito riprenderà quello che io vi
ho insegnato e ve lo farà capire meglio ».
Sono parole che ci fanno vedere che l'èra dello Spirito Santo,
in cui viviamo, è un'epoca di approfondimento e di inventiva;
22

3.5 Page 25

▲back to top
un'epoca centrata sul Cristo non staticamente ma in forma crea-
tiva; un'epoca aperta alla novità perché pervasa dallo Spirito
Santo, che è « personalmente la Novità in opera nel mondo ».
Egli rende attuale la Rivelazione di Cristo perché « guida verso
tutta la verità »; spinge in avanti il Vangelo come fermento del
futuro.
Anche nella prima epistola ai Corinzi si legge: « Vi sono
diversi doni, ma uno solo è lo Spirito. Vi sono vari modi di
servire il Signore, ma uno solo è il Signore. Vi sono molti tipi
di attività, ma chi muove tutti all'azione è sempre lo stesso Dio.
In ciascuno lo Spirito si manifesta in modo diverso, ma sempre
per il bene comune. Uno riceve dallo Spirito la capacità di
esprimersi con saggezza, un altro quella di parlare con sapienza.
Lo stesso Spirito a uno dà la fede, a un altro il potere di
guarire i malati. Lo Spirito concede a uno la possibilità di fare
miracoli, e a un altro il dono di essere profeta », ecc. (1 Cor
12,4-10).
Vuol dire che lo Spirito Santo , nei suoi interventi, non la-
vora come personaggio unico , con un monologo, solo per conto
suo; lavorerà attraverso voi e voi dovrete essere capaci di per-
cepire ciò che c'è di Spirito Santo nei differenti apporti che
ognuna delle altre sorelle cercherà con sincero cuore di pre-
sentare.
Io so già, ancor prima che iniziate l_e vostre assemblee, che
ci sarà in esse anche molto di umano; però nell'insieme del-
l'evento emergerà la presenza dello Spirito che si servirà persino
dei difetti per far approdare a conclusioni positive. Siate aperte
e ascoltatrici dei vari pareri , perché lo Spirito si muoverà at-
traverso tutti.
Il Concilio ci ha proposto un'affermazione molto bella sulla
presenza dello Spirito Santo nella vita: « Compiuta l'opera che
il Padre aveva affidato al Figlio sulla terra, il giorno di Pente-
coste fu inviato lo Spirito Santo per santificare continuamente
la Chiesa e perché i credenti avessero così per Cristo accesso
al Padre in un solo Spirito. Questi è lo Spirito che dà la vita
e la sorgente di acqua zampillante per la vita eterna. Per lui
il Padre ridà la vita agli uomini morti per il peccato, finché un
giorno risusciterà in Cristo i loro corpi mortali. Lo Spirito
Santo dimora nella Chiesa e nei cuori dei fedeli come in un
23

3.6 Page 26

▲back to top
tempio e in essi prega e rende testimonianza dell'adozione fi-
liale.. . » (LG 4).
Il Vaticano II fa vedere chiaramente che questa presenza
reale dello Spirito dà vita alla Chiesa, le dà giovinezza, la sti-
mola al rinnovamento, promuove in lei una forte energia di
futuro e la capacità di realizzare una continua crescita umana
attraverso una adeguata risposta ai segni dei tempi, l'abilita ad
essere sempre - come ha detto Paolo VI - « la giovinezza
dell'umanità ». Più che una bella frase è, questa , un'espressione
che proclama una densità di valori e una capacità di dialogo
e di risposta alle interpellanze umane, che procedono quasi im-
percettibilmente dall'assistenza amorosa dello Spirito Santo.
Ancora Paolo VI ci ha ricordato che noi viviamo oggi in
un'ora privilegiata di Spirito Santo, nella sua bella Esortazione
apostolica Evangelii Nuntiandi.
L'attuale papa Giovanni Paolo II ha scritto recentemente una
lettera in occasione del milleseicentesimo anniversario del Con-
cilio Costantinopolitano I. Ma guardate che vitalità! Nel 381
si è fatto un Concilio Ecumenico sullo Spirito Santo ed è vivo
ed efficace ancor oggi! Che cosa c'è ancora di attuale oggi del
secolo IV? Lo Spirito Santo!
Ecco, nella sua lettera il Papa in particolare afferma che lo
Spirito Santo continua a vivificare la Chiesa e a spingerla sulle
vie della santità e dell'amore. Tutta l'opera di rinnovamento
della Chiesa - scrive al n. 7 - che il Concilio Vaticano II
ha così provvidenzialmente proposto e iniziato, rinnovamento
che deve essere ad un tempo aggiornamento e consolidamento
di ciò che è eterno e costitutivo per la missione della Chiesa,
non può realizzarsi se non nello Spirito Santo, cioè con l'aiuto
della sua luce e della sua potenza. Questo è importante, tanto
importante per tutta la Chiesa nella sua universalità come pure
per ogni Chiesa particolare in comunione con tutte le altre
Chiese particolari. E noi possiamo aggiungere: come in ogni
Istituto religioso nella comunione della Chiesa .
Quindi il protagonista del Capitolo che state per m1Z1are è
lo Spirito Santo: una realtà viva, presente, come ci assicurano
la Sacra Scrittura, il Vaticano II, gli attuali Pontefici, la nostra
stessa esperienza personale. Sarebbe strano che dopo tanti anni
di vita battesimale non avessimo esperienza di Spirito Santo!
24

3.7 Page 27

▲back to top
1.4. UN ATTEGGIAMENTO «SPIRITUALE»,
Più CHE TEOLOGICO
Si tratta di addentrarci in questa visione dello Spirito Santo
quale protagonista del Capitolo, non con la preoccupazione teo-
logica di provarlo con una lettera di san Paolo, o con un brano
di san Giovanni, o con i Padri, ecc. Non è una argomentazione
teologica quella di cui abbiamo bisogno. È piuttosto un atteg-
giamento spirituale, cioè una movenza di simpatia, di connatu-
ralità, in definitiva, di preghiera; non tanto una pratica di pietà
formulata con parole che si ripetono, quanto una contempla-
zione degli eventi, delle persone, dei problemi, alla luce pe-
renne del Vangelo. Questo tipo di preghiera costa ed è assai
più esigente di una pratica di pietà.
Dovete coltivare la certezza che lo Spirito Santo c'è, che
viene nella storia e che opererà nel vostro Capitolo secondo i
modi soavi di sempre.
Possiamo riassumere l'attività dello Spirito Santo sotto tre
grandi aspetti, corrispondenti alla nostra fede, alla nostra spe-
ranza e alla nostra carità. Innanzitutto lo Spirito Santo, come
abbiamo letto in san Giovanni, ha per la nostra fede una fun-
zione illuminatrice: ci fa vedere tutta la verità. Una verità
che non è semplice dottrina, ma una i:ealtà viva e complessa:
una verità-persona, una verità-avvenimento, una verità-storia da
interpretare e da guidare alla mèta.
Poi, per la nostra speranza, una funzione santificatrice: con
la sua potenza soave lo Spirito Santo trasforma il mondo d'oggi,
per salvarlo; un'energia di efficacia per la potenza dello Spi-
rito Santo », 3a Preghiera eucaristica) che si manifesta senz'al-
tro nella liturgia e nei sacramenti, ma anche nel dialogo con
il mondo e la sua salvezza, come oggetto del dinamismo della
speranza; questa sua potenza vince il male, santificando le per-
sone e costruendo la salvezza dell'umanità attraverso i secoli.
Infine, per la nostra carità, una funzione unificatrice. Un terzo
tipo di attività dello Spirito Santo è quello di unificare la di-
versità e la pluralità nella comunione dell'amore; è la caratte-
ristica specifica della sua Persona divina.
Ecco, il far funzionare e percepire in profondità questi aspetti
25

3.8 Page 28

▲back to top
dinamici della presenza reale dello Spirito Santo durante gli
Esercizi vi metterà in quell'atteggiamento spirituale di saggezza
che è fondamentale per far bene un Capitolo generale.
J.5. VISIONE SAPIENZIALE DI SINTESI
È importante sviluppare in tale preparazione un atteggiamento
interiore di docilità allo Spirito Santo. Noi stiamo uscendo da un
tipo di cultura e stiamo entrando in una nuova epoca, anche per
ciò che si riferisce alla vita della Chiesa e quindi dei nostri
Istituti religiosi. Abbiamo bisogno di fare una sintesi tra due
correnti che a volte, in questi anni, si sono guardate in faccia
come una opposta all'altra. Esse hanno dei nomi significativi:
la corrente « profetica » (tanto per usare un termine bello) e
la corrente che qualcuno ha chiamato « istituzionale ». Ormai,
dopo le diatribe conosciute, abbiamo percepito i valori e le de-
ficienze di tutte e due e ci siamo accorti, per l'esperienza di
questi anni, che non esiste profezia nella Chiesa senza una di-
mensione istituzionale e che non è vero elemento istituzionale
della Chiesa ciò che non è pieno di profezia. Quindi si tratta
di trovare una sintesi fra le due correnti.
Per il lavoro capitolare di ricerca dell'identità voi abbisognate
appunto di fare questa · sintesi. Non potete prescindere da una
indispensabile profezia di rinnovamento, senza della quale la
nostra vocazione diviene lontana e rimane nel passato; e nep-
pure da tutta una pedagogia situata nell'istituzione, in certe
strutture, in metodologie ormai collaudate, in varie mediazioni
indispensabili per assicurare precisamente il trionfo della pro-
fezia . Invocate il dono dello Spirito Santo per avere questa sag-
gezza di sintesi, e non cadere - diciamo così - nella discordia
di un polo contro l'altro; sappiate avviare un movimento di con-
vergenza fra le due correnti: esse non si oppongono; hanno
invece dei valori complementari che bisogna saper mettere in
armonia tra di loro.
La sintesi non è rivoluzione contro il passato e la tradizione
vera; non potete buttar via lo spirito di Mornese! Ma la sintesi
non è neppure una restaurazione che pretenda canonizzare la
cultura che c'era a Mornese nel secolo scorso: mai più!
26

3.9 Page 29

▲back to top
E questo non è facile. Perciò urge chiedere allo Spirito San-
to di saper discernere con chiarezza: alcune cose infatti sono
evidenti, alcune non tanto e altre anche difficili. Allora è indi-
spensabile l'aiuto dello Spirito Santo per armonizzare i differenti
valori: è Lui che aiuta a fare la giusta sintesi...
1.6. IL GRANDE COMPITO PER CUI SIETE CONVOCATE:
LE COSTITUZIONI
Avete bisogno dello Spirito Santo perché dovete necessaria-
mente fare questa sintesi preparando una revisione conclusiva
delle Costituzioni: esse sono, o devono essere, la presentazione
sintetica e armonica di tutti gli elementi fondanti la vocazione
salesiana. Non può entrare nelle Costituzioni un articolo di
sapore settoriale, o transitorio; quello in tutti i casi andrà nel
Manuale. Nelle Costituzioni ci dovrà essere solo ciò che serve
per tutte le Ispettorie del mondo, per le differenti culture, con
chiarezza, per assicurare che, anche se ci sono diversità, coesiste
in esse l'unità della vocazione, l'identità della Figlia di Maria
Ausiliatrice, la vitalità di un medesimo spirito nato a Valdocco
e a Mornese.
Ora questo vostro lavoro è assai delicato, ed ha una proiezio-
ne storica. Le Costituzioni non sono più concepite come un
libro principalmente giuridico di norme e proibizioni, ma sono
l'espressione di un progetto evangelico che traccia i grandi spazi
d'orbita in cui veniamo lanciati con responsabilità propria. Le
Costituzioni le concepiamo oggi come un progetto che implica
dinamismo, possibilità di creatività, impegno di intelligenza per
tradurre in pratica la propria vocazione. In esse non è tutto
previsto e stabilito: in esse domina l'alito profetico con quel
tanto di istituzione e di norme che ne assicura la serietà, l'og-
gettività e la fattibilità.
Le Costituzioni offrono i contenuti dell'atto più importante
che noi facciamo come battezzati, l'atto che più impegna la no-
stra libertà: la professione religiosa. In essa noi scegliamo,
con una opzione fondamentale, Gesù Cristo; ci proponiamo la
sua sequela, secondo il progetto del fondatore. Fare la profes-
sione religiosa non significa solo emettere i voti, è molto di più.
27

3.10 Page 30

▲back to top
Emettere i voti è una componente della professione religiosa;
però quei voti sono specificati da una tonalità, da uno spirito,
da un impegno particolare nella Chiesa, da una caratteristica
che è indicata proprio nelle Costituzioni ed è sempre espressa
nella formula di professione con le parole: « Faccio voto se-
condo le Costituzioni del tale Istituto ».
La professione religiosa non si impone, è qualcosa che dob-
biamo preparare con un atto grande di libertà. È quindi neces-
sario che esso sia concepito come espressione di valori, di fe-
deltà allo Spirito Santo, nella persona dei fondatori , di ricerca
di un dialogo con i bisogni del mondo di oggi, alla luce delle
origini dove scaturisce cristallina l'iniziativa di Dio e l'aiuto
materno della Madonna.
Le Costituzioni ancora guidano non solo l'atto della professio-
ne, ma tutta la vita del professo o della professa. Quando uno
vuol vedere sinceramente in che cosa consiste la sua fedeltà a
Gesù Cristo , non può prescindere da esse, non perché siano un
legame in più, ma perché sono il quadro di riferimento che si è
scelto per seguire Gesù Cristo. Sono una contestazione evangeli-
ca contro i nostri difetti e un metro qualificato per misurare la
nostra fedeltà. Quando abbiamo bisogno di una critica per sa-
pere se siamo sinceri o no, partiamo di lì. Sono il faro orienta-
tore di ogni singolo religioso e delle comunità, una stella polare
di orientamento, una bussola che assicura la rotta. Hanno, quin-
di, un'importanza peculiare.
Vi leggo una frase di don Rua in una sua circolare del 1909:
« Le Costituzioni, uscite dal cuore paterno di Don Bosco, ap-
provate dalla Chiesa infallibile nei suoi insegnamenti, saranno
la nostra guida, la nostra difesa in ogni pericolo, in ogni dubbio
o difficoltà. Con san Francesco d'Assisi vi dirò: "Benedetto sia il
religioso che osserva le regole; esse sono il libro della vita, la
speranza della salute, il midollo del Vangelo, la via della per-
fezione, la chiave del Paradiso, il patto della nostra alleanza
con Dio"».
Ecco, io mi fermo su quest'ultima frase: « patto dell'alleanza
con Dio ». Mi piace moltissimo. Se è lecito « parva componete
magnis », possiamo dire che allo stesso modo che la Sacra Scrit-
tura manifesta il patto dell'Alleanza tra Dio e l'umanità, così
le Costituzioni descrivono l'Alleanza della nostra professione
28

4 Pages 31-40

▲back to top

4.1 Page 31

▲back to top
religiosa. Noi cerchiamo il « patriarca » che ha iniziato quest'Al-
leanza e lo troviamo in Don Bosco; e se vogliamo conoscere i
contenuti di tale Alleanza li troviamo descritti nelle Costitu-
zioni. Questo è il sacro Testo di un progetto evangelico, il Li-
bro di vita che ci fa vedere in che cosa consiste la radicalità
della nostra sequela di Cristo secondo lo spirito del nostro
« patriarca ».
Vi auguro che in questi giorni di preparazione spirituale ab-
biate una intensa capacità di mettervi in sintonia con lo Spirito
Santo. A tal fine cercheremo delle riflessioni che vi riportino
genuinamente al Fondatore per poter sperimentare insieme a lui
la freschezza e la limpidezza delle fonti.
1.7. LO SPIRITO SALESIANO
Il vostro lavoro capitolare ha bisogno di essere permeato e
misurato continuamente dallo spirito di Don Bosco, così come
è stato visto originariamente a Mornese. Ho già cercato con la
mia lettera per il centenario di darvi un apporto al riguardo.
Qui ritornerò sullo stesso tema, convinto di aiutarvi a realiz-
zare meglio la revisione conclusiva delle Costituzioni.
Penso sia questa la miglior forma di mettersi in sintonia con
lo Spirito Santo. È Lui, infatti, la fonte prima dell'indole pro-
pria del carisma salesiano.
Nella terza Preghiera eucaristica il sacerdote chiede al Padre:
« ... dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in
Cristo un solo corpo e un solo spirito ». Ebbene, questo dive-
nire in Cristo « un solo spirito » passa, per noi, attraverso l'as-
similazione di ciò che il Magistero della Chiesa chiama « spiri-
to del Fondatore ». È, dunque, certamente importante soffer-
. marci a meditare sullo spirito di Don Bosco.
Parlo di « spirito » piuttosto che di « spiritualità ». So bene
che sono due termini affini e che si sogliono usare, senza trop-
pa attenzione, quasi fossero sinonimi. A me pare utile, però,
farne percepire la differenza, almeno per quanto si riferisce
alle meditazioni che faremo insieme.
Il termine « spirito » vuole indicare una realtà viva e orga-
nica della quale si tenta di fare una descrizione tipologica, cer-
29

4.2 Page 32

▲back to top
cando di individuare le linee portanti di un '« esperienza di Spi-
rito Santo ». Si muove nell'ordine dell'« esistente».
Il termine « spiritualità », invece, si riferisce piuttosto al mo-
do concettuale di analizzare e di esprimere i contenuti di de-
terminate relazioni con Dio e con il prossimo. Si muove nel-
l'ordine « essenziale » dello studio della natura specifica delle
relazioni sperimentate.
Lo « spirito » di un Fondatore non è semplicemente una dot-
trina, ma un insieme organico di atteggiamenti spirituali per-
meati da un nucleo centrale unificatore. Lo « spirito » vive!
Fluisce da una tipica energia di carità e da una fisionomia e
un'indole propria a un'esperienza di vita. È impressionante con-
templare, nella Chiesa, la varietà armonica di tanti « spiriti »
s uscitati continuamente dallo Spirito Santo per divenire in Cri-
sto « un solo corpo e un solo spirito »!
Noi parleremo dello spirito salesiano di Don Bosco. Lo fa-
remo con lo stile, il genere proprio e i limiti delle « meditazio-
ni » di un corso di Esercizi. Non sarà quindi uno studio di
« spiritualità », anche se qua e là (soprattutto parlando delle vir-
tù teologali del cristiano) dovremo servirci di alcune analisi di
teologia della spiritualità.
Abbiamo la fortuna di avere una specie di descrizione tipo-
logica dello « spirito salesiano » propostaci dallo stesso Don Bo-
:sco. Credo che risulterà assai profittevole seguirne le chiare linee
descrittive.
1.8. MARIA CI ACCOMPAGNI
Sarebbe una carenza concludere queste riflessioni senza ricor-
dare Colei che ha avuto con lo Spirito la massima sintonia e
,che è maternamente presente all'origine dello spirito salesiano.•
Maria Santissima, la Sposa dello Spirito Santo, ha vissuto la
fede, la speranza e l'amore al livello più alto raggiungibile da
una persona umana. Essa ci mostra apertamente che le respon-
sabilità più impegnative - e quale responsabilità più grande
che essere la Madre di Gesù Cristo? - si affrontano in sintonia
,e in comunione con lo Spirito Santo, nella gioia e nella sem-
plicità. Allora sgorga dal cuore non la paura, il peso, la trepi-
30

4.3 Page 33

▲back to top
dazione, ma il Magnificat, perché si vede che con lo Spirito def
Signore si può affrontare tutto quello che Iddio vuole anche se
si tratta d'impegni con alta prospettiva storica.
Guardiamo alla Madonna quale è sempre stata nella nostra
vocazione salesiana, come a «Maestra» e a « Guida ». Voi met-
tete una bella chiave lì, ai suoi piedi; voi la chiamate la vostra
Superiora: bene! Essa è realmente una madre feconda di cui si
è servito e si serve lo Spirito Santo per tante gesta di salvezza
nella storia della Chiesa e nelle origini degli IstitÌ1ti religiosi.
Certamente si deve anche a lei la nostra nascita come Salesiani
e come Figlie di Maria Ausiliatrice. A Valdocco e a Mornese,.
come diceva don Bosco, « ha fatto tutto Maria»!
E qui, perciò, a conclusione di questa meditazione introdut-
tiva, come a chiedere di prepararci bene al delicato mandato
ricevuto, esclamiamo insieme con tutto il cuore, oggi, suo ge-
netliaco: « Maria, aiuto dei cristiani, prega per noi! ».
31

4.4 Page 34

▲back to top
2
IL SOGNO DEI DIECI DIAMANTI
2.1. LA SCELTA DI UNO SCHEMA APPROPRIATO
DI RIFLESSIONE
Non mi è costato troppo individuare uno schema particolar-
mente atto a presentarvi lo spirito salesiano. Il 10 settembre
(domani!) ricorre il centenario del Sogno di Don Bosco sui dieci
diamanti. Dapprima mi son detto: lo pubblicheremo e invite-
remo a rileggerlo. Quando però mi sono messo a rifletterci su e
ho trovato i commenti che ne fece don Rinaldi, è stata per me
una scoperta assai attraente e interessante che mi ha invogliato
anche a commentarlo con una lettera circolare. Ebbene, i dia-
manti di questo sogno ci offriranno lo schema delle nostre ri-
flessioni.
Certo: scegliere un sogno come tema per un corso di Eser-
c1z1 può suscitare delle riserve. Che valore ha un sogno? Che
importanza dare ai sogni di Don Bosco? Io non intendo affron-
tare qui un argomento tanto complesso; so che è molto delicato
e particolarmente difficile; però so anche che le strade della
Provvidenza e le iniziative dello Spirito Santo sono molto varie
e si possono servire di tutti i mezzi umani. La Sacra Scrittura
ce ne dà degli esempi anche a proposito di sogni; nell'Antico
Testamento i fratelli di Giuseppe lo chiamavano appunto « il
sognatore ».
Don Bosco si caratterizza tra i santi anche per essere un
«sognatore»! Non tutti i suoi sogni avranno la stessa importan-
za, alcuni saranno piuttosto frutto della sua fantasia, altri però
- pensiamo a quello dei nove anni ripetutosi varie volte e a cui
Don Bosco stesso attribuì un significato per il futuro - certa-
mente invitano a una riflessione assai più seria.
32

4.5 Page 35

▲back to top
Leggendo la critica di alcuni studiosi, ci sembra di non riu-
scire a percepire nei loro giudizi tutta la verità; la « scienza »
è posteriore per natura alla « realtà»; cerca d'interpretarla; ma
non la può manipolare. Nella realtà c'è molto di più di ciò che
può analizzare la scienza.
Voglio leggervi qui una paginetta di un autore svizzero, un
pastore protestante, Walter Nigg. Nel suo libro Don Bosco
un santo per il nostro tempo 1 ha un capitolo intitolato « Un
sognatore ». È bello e profondo, globalmente acuto e rispettoso
del dato reale. Fa piacere sentire questi rilievi da un prote-
stante impressionato dal\\a singolare santità di Don Bosco. Ec-
co il suo pensiero: Don Bosco è un santo e un educatore; la
psicologia potrebbe interpretare i suoi sogni come effetto del suo
« essere educatore ». Per una vera interpretazione, però, prima
che dell'educatore bisogna parlare del Santo. « La categoria
di "santo" deve avere la precedenza rispetto a quella di "edu-
catore". Qualsiasi altra graduatoria falserebbe la gerarchia dei
valori [in Don Bosco]. D'altra parte il santo è l'uomo nel quale
il naturale sconfina nel soprannaturale; e il soprannaturale è
presente in Don Bosco in misura notevole. Nel Processo infor-
mativo, un testimone parlò di una levitazione di Uon Bosco, a
cui egli aveva assistito con i propri occhi. Il santo era del tutto
aperto al soprannaturale e la sua comunicazione con quel mon-
do si è manifestata particolarmente nei sogni ».
Vedete l'impressione che ha questo scrittore? I sogni di Don
Bosco nel loro insieme appaiono come una mediazione singolare,
quasi come un ponte lanciato verso il soprannaturale. E, sempre
riferendosi ai sogni, prosegue: « Occupano, nella vita del santo,
uno spazio così ampio che la sua esistenza può essere conside-
rata come un susseguirsi di sogni . Ma qui ci troviamo di fronte
a un enigma che ancora oggi attende di essere risolto. Quando si
parla di sogni, oggi, si pensa immediatamente, per associazione
di idee, alla interpretazione psicanalitica del mondo dei sogni.
Ammettiamo pure che questo sia un modo per interpretarli, ma
non è certamente l'unico. Già i romantici consideravano i sogni
in modo sostanzialmente diverso; è certo che anche il loro punto
1 W. NIGG, Don Bosco un santo per il nostro tempo, Elle Di Ci, Leu-
mann (Torino) 1980, 75-80,
33

4.6 Page 36

▲back to top
di vista era legittimo. Perciò il mondo dei sogni non deve es-
sere affrontato partendo da un'unica posizione preconcetta: an-
che a questo riguardo occorre avere larghezza di vedute. [ .. .]
Se vogliamo cogliere più da vicino il significato dei sogni di
Don Bosco, dobbiamo rifarci in primo luogo ai sogni di cui par-
la la Bibbia. [ ... ] Questi testi biblici si possono interpretare
come si vuole: sta di fatto che nei sogni una parola viene rivolta
agli uomini. Pensiamo a quale effetto impensabile ha avuto il
sogno di Paolo a Troade quando gli furono rivolte queste paro-
le: "Vieni in Macedonia e aiutaci! " . Senza questo sogno, forse,
Paolo non avrebbe mai messo piede in Europa e l'Occidente
probabilmente non sarebbe diventato così presto cristiano ». È
una pagina che ci aiuta a riflettere con più oggettivo rispetto.
2.2. UN SOGNO CHE DESCRIVE TIPOLOGICAMENTE
IL NOSTRO SPIRITO
In una nota della lettera scritta a voi per il centenario della
morte di Madre Mazzarello vi ho parlato di tutte le peripezie
che hanno sofferto insieme i nostri predecessori, a principio del
secolo. Dopo essere nati insieme ed essere vissuti insieme, con
lo stesso spirito, hanno dovuto dividersi, obbedendo. alle Normae
secundum quas emanate dalla S. Sede nel 1901. Povera madre
Daghero! Povero don Rua! Meno male che il vostro grande ami-
co, il Cardinal Cagliero, ha poi lavorato con intelligente perse-
veranza fino a ottenere, nel 1917, una certa reintegrazione. Allo-
ra don Albera ha scritto una bella lettera in cui, commentando
la sua nomina a primo Delegato Apostolico per le Figlie di
Maria Ausiliatrice, afferma: « Cammineremo così insieme, in
modo che le nostre menti e i nostri cuori uniti a Don Bosco ci
aiutino a raggiungere lo scopo a cui egli mirava per i Salesiani
e le Figlie di Maria Ausiliatrice ». (Anch'io, nel giorno della ce-
lebrazione del centenario a Nizza, ho fatto alle Madri e Suore
presenti una omelia sull'avverbio « insieme », che è per noi una
parola carismatica) .
Madre Daghero, dal canto suo, in una lettera circolare dove
palesava tutta la sua gioia, rifaceva un po' la storia dell'Isti-
tuto, la sua dimensione mariana e ricordava che Don Bosco, ap-
34

4.7 Page 37

▲back to top
punto per ispirazione di Maria, « aveva voluto l'Istituto fin dagli
inizi - queste sono parole di madre Daghero - con lo stesso
spirito e l'identica missione della Società Salesiana ».
Ecco quindi un sogno - quello dei diamanti - che ci deve es-
sere comune, perché ci offre la possibilità di riflettere insieme
su un aspetto della vocazione salesiana molto importante oggi: .
la nostra fisionomia spirituale. Ho detto su « un aspetto »; in-
fatti il sogno non parla di tutto il « patrimonio salesiano »; pre-
suppone tanti altri elementi. Don Bosco ha avuto questo sogno
durante gli Esercizi spirituali dei direttori e dei confratelli, quan-
do era preoccupato soprattutto della loro identità spirituale e del
loro cuore salesianamente apostolico. Non si preoccupava in quel
momento né dei destinatari, né dei criteri e dei metodi di azione,
né delle opere; li supponeva; questi altri elementi nel sogno
non ci sono, anche se sono importanti.
Così la nostra specifica missione nella Chiesa è presupposta;
quali siano i nostri destinatari, i nostri criteri in campo pasto-
rale, quale il tipo di opere che dobbiamo assumere, ecc., si sup-
pone conosciuto e non viene indicato nel sogno.
Tutta la nostra attenzione è invitata a concentrarsi sul cuore
del Salesiano, sullo spirito che deve permearlo così da dargli la
sua propria fisionomia . È ciò che io ho chiamato « cuore ora-
toriano ». L'espressione ha fatto fortuna. E ha fatto fortuna
non perché l'ho detta io, ma perché tocca l'essenza, fa centro
sulla nostra caratteristica. Noi non siamo Religiosi delle Scuo-
le Cattoliche, anche se siamo veri educatori; noi siamo missio-
nari della gioventù, e l'opera che rimarrà per sempre modello
e tipo della nostra pastorale giovanile è l'« Oratorio». Certo,
non potremo farlo oggi con gli strumenti e lo stile del secolo
scorso, però sempre ci sentiamo fondati per prolungare l'« Ope-
ra degli Oratori », anche attraverso le scuole!
Com'è un « cuore oratoriano »? Qual è l'autentico « spirito
salesiano »? Questo sogno dà una risposta molto interessante a
tali interrogativi. Descrive la fisionomia spirituale e tutta la ner-
vatura portante di questo cuore salesiano.
Vedete, quando mi sono proposto di approfondire il vostro
« spirito di Mornese », in partenza mi sono preoccupato di riu-
nire i dati che costituiscono tale spirito. È lavoro di pazienza:
leggere, annotare, mettere un po' di ordine nel materiale e, con
35

4.8 Page 38

▲back to top
l'aiuto di qualche esperto e studioso, si arriva a tale meta con
una certa facilità. Ma tutto questo lavoro costituisce solo una
prima tappa, di per sé insufficiente, soprattùtto in un'ora di rin-
novamento. Approfondire uno spirito esige andare più in là
dei vari elementi che lo compongono: si tratta di scoprirne
l'anima e la strutturazione dinamica. Sappiamo che in un trapas-
so culturale, come quello che viviamo oggi, cambiano profon-
damente lo stile e le modalità di vita che sogliono venire espres-
si da uno spirito; i singoli dati, considerati materialmente, pos-
sono soccombere al confronto.
Lo spirito di un fondatore, infatti, non è astratto e disin-
carnato; e come potrà rimanere genuino quando cambia la sua
espressione culturale? Se oggi è cambiata la cultura ottocente-
sca di Mornese, che cosa rimane dello « spirito di Mornese»?
Per dare una risposta oggettiva e soddisfacente, non basta più
elencare materialmente gli aspetti concreti individm,ti nello spi-
rito delle origini; bisogna ripensarli con intelligenza, nel senso
etimologico di « intelligere » ossia di « intus legere »: bisogna
leggere dal di dentro, andare a fondo.
Quali sono, nello spirito di Mornese, gli elementi che gli con-
feriscono organicità, dinamismo vitale, forza per inculturarsi
altrove e capacità di permanenza viva anche in un trapasso cul-
turale? Come si può vivere in un'altra modalità umana, ma ri-
manendo fedeli allo stesso spirito? Non è facile realizzare que-
sto ripensamento, se non « leggendo dentro»!
Avevo già tentato un approccio di questo tipo d'approfondi-
mento qualche anno fa proprio a Mornese (cf Non secondo la
carne, ma nello Spirito); 2 poi ho sentito come una sfida per me
l'impegno di scrivervi la lettera per il centenario della morte di
madre Mazzarello; e infine ho avuto anche l'invito della Madre
per ricordare il centenario del sogno dei dieci diamanti.
Mi sono messo quindi a riflettere e a studiare. A un certo mo-
mento mi è parso che questo sogno potesse essere come una
specie di lampada che illuminasse dal di dentro lo spirito sa-
lesiano e, quindi, lo spirito di Mornese, per scoprire in esso qua-
li siano i suoi elementi vitali e permanenti che debbono prolun-
garsi vigorosamente anche se cambia lo stile culturale, la ma-
2 E. VIGANÒ, Non secondo la carne ma nello Spirito, FMA, Roma 1978.
36

4.9 Page 39

▲back to top
niera di vestirsi, di parlare, le forme particolari delle opere,
della pastorale, ecc.
Credo allora che non sia inutile usare il tempo tanto impor-
tante di preparazione spirituale al Capitolo per riflettere su que-
sto sogno. Vi metterà, lo spero, in un clima particolarmente sale-
siano, in unione con il « Protagonista » dell'esito dei lavori, crea-
tore e suscitatore del nostro carisma, per prepararvi bene al
vostro lavoro sulle Costituzioni; quello su cui rifletteremo insie-
me non dovrà essere portato di peso in esse, ma aiuterà a creare
l'ambiente adatto e l'atmosfera propizia per una appropriata vi-
sione d'insieme che permetta di giudicare e discernere.
2.3. IMPORTANZA DI TALE DESCRIZIONE
Don Bosco ha dato molta importanza a questo sogno . Partia-
mo di lì perché a noi interessa conoscere quale era il pensiero
del nostro Padre e Fondatore al riguardo.
Osservate la solennità con cui ne introduce la descrizione:
« La grazia dello Spirito Santo illumini i nostri sensi e i nostri
cuori. Amen! » . Pare che chi scrive voglia comunicare una qual-
che ispirazione divina. Altro che psicanalisi!
Don Bosco innanzitutto, appena svegliato - a S. Benigno
e non a Valdocco - prese nota del sogno per non dimenticare
dettagli preziosi. Poi personalmente lo scrisse per intero nel mese
di novembre. Porta la data del 21, giorno della Presentazione
della Madonna al Tempio. Il nostro archivio centrale conserva
l'originale, scritto con calligrafia affrettata e contorta e con nu-
merose correzioni. Don Bosco stesso disse: « Non tutte le cose
me le ricordavo bene » . Infatti in alcuni punti si nota qualche
dubbio.
Nella conclusione del sogno risaltano le parole di monito:
questi contenuti siano oggetto di predicazione al mattino, a mez-
zogiorno, alla sera: sempre. Quasi a voler dire che siano un
tema di formazione per tutti i Salesiani... e le Salesiane.
Il nostro archivista ha rintracciato un notes interessante; me
l'ha portato proprio l'altro giorno. È del 1889, appartenente a
un chierico che si chiamava Ercole Maria Barchi di Galbiate
(Novara), il quale era ascritto a Foglizzo nel 1887; poi andò
a Valsalice, fece la professione perpetua nel 1888, compagno di
37

4.10 Page 40

▲back to top
don Beltrami e di don Balzola. Non abbiamo ulteriori notizie
su di lui. Ebbene, che cosa c'è in questo suo taccuino? I suoi
propositi, le sue preoccupazioni di novizio salesiano. Nella prima
paginetta si trova un disegno , non molto artistico, in cui egli die-
de una collocazione ai dieci diamanti del nostro sogno (i dia-
manti del « Premio » e del « Digiuno » invece di essere posti
sotto quelli della « Povertà » e « Castità » sono collocati a
fianco). Ciò fa pensare che il sogno fu oggetto di alcune delle
conferenze con cui il maestro di allora formava le nuove ge-
nerazioni.
Don Rua deve aver guardato a questo sogno con tanta spe-
ranza, perché allora lo si considerava (ed era) anche una profe-
zia. Io nell'attuale edizione ho fatto togliere le date, perché og-
gi potrebbero diminuirne l'interesse. Però dobbiamo pensare che
il sogno è del 1881; don Rua, che successe a Don Bosco nel
1888, dovette trovare in questo sogno un argomento di sicu-
rezza nello svolgimento delle sue alte responsabilità, special-
mente nei momenti estremamente difficili che ebbe da affrontare.
Per avere un'idea di tali difficoltà basti ricordare che cosa si
pensò di fare della nostra Congregazione. È morto Don Bosco,
gran santo, famoso dappertutto. Aveva formato un gruppo non
molto numeroso di Salesiani e di Figlie di Maria Ausiliatrice.
Arriva don Rua a Roma. Alcuni cardinali e monsignori lo guar-
dano: magrolino, timido... Non c'è nulla in lui che, all'apparen-
za, possa dare affidamento di capacità di governo della giovane
Congregazione: meglio provvedere altrimenti. Vi leggo la pagina
degli Annali della Società Salesiana che descrive la situazione:
« Se per altro all'interno la successione non sollevava proble-
ma di sorta né dava luogo a incertezze, fuori, a Roma, c'era
chi temeva e chi addirittura presagiva la catastrofe. Il cardinale
Ferrieri, già Prefetto dei Vescovi e Regolari, aveva sempre ri-
guardato la Società come una combinazione posticcia e precaria,
destinata quindi a risolversi in nulla non appena fosse scom-
parso colui che l'aveva architettata. Comunque si fosse creato
questo convincimento, egli non poteva tenerlo per sé solo sen-
za metterne a parte i suoi collaboratori, i quali alla loro volta
non avevano obbligo di segreto. In morte di Don Bosco il Car-
dinale non viveva più; ma il dubbio gli ·sopravvisse. Allora
pertanto alcuni Prelati, pensando che bisognasse correre ai ri-
38

5 Pages 41-50

▲back to top

5.1 Page 41

▲back to top
pan, msinuavano esservi un unico rimedio: sciogliere la Con-
gregazione e incorporarne i membri in un'altra di no_n dissimile
scopo. Secondo costoro, essa mancava di uomini formati, capaci
di reggerla in modo da salvarla dallo sfacelo. Perfino Leone XIII
inclinava a credere che fosse opportuno ricorrere a un tal prov-
vedimento. Egli aveva veduto poche volte e di sfuggita don
Rua, che in quel suo atteggiamento dimesso e con quel suo par-
lare tra semplice e ingenuo gli era parso uomo di una bontà
scompagnata da alte doti di intelligenza, quali si richiedevano
per succedere a un gigante come Don Bosco. Lasciò dunque tra-
sparire l'intenzione di fondere i Salesiani con gli Scolopi ».3
Che ve ne pare?
Il sogno, dunque, appariva a don Rua (e sempre è stato pre-
sentato così nei primi decenni) come una profezia sulla Con-
gregazione.
Don Albera, che vede un po' superata la tempesta, lo inter-
preta sempre più come un sogno di formazione. Nella sua let-
tera del 1920 su « Don Bosco nostro modello nell'acquisto della
perfezione religiosa », c'è un paragrafo dedicato al sogno dei
dieci diamanti, quasi a dire: qui troviamo descritta la nostra
caratteristica, l'indole propria della nostra vocazione religiosa-
salesiana .
Ma chi più di tutti ha valorizzato questo sogno è don Ri-
naldi, il quale lo ha pubblicato due volte - nel 1924 e nel
1930 - negli Atti del Consiglio Superiore e ne ha fatto argo-
mento delle sue conferenze. Per fortuna, alcuni che erano pre-
senti presero degli appunti, conservati ora nell'Archivio centrale,
e io li ho letti.
Impressionato dalle sue riflessioni sono andato a rileggere
anche le sue circolari, nei punti in cui parla del sogno. Se non
avessi letto quegli appunti non avrei colto facilmente il valore
delle sue acute affermazioni, che aiutano a pensare a tutta l'ori-
ginalità del nostro spirito.
Cercate di percepirne la profondità leggendo di nuovo il so-
gno; si sveglierà anche in voi un desiderio di riflessione che vi
aiuterà a comprendere meglio tale originalità.
3 E. CERIA, Annali della Società Salesiana, 4 volumi, SEI, Torino 1941-
51, qui I 747.
39

5.2 Page 42

▲back to top
Don Rinaldi insiste molto su di essa; e noi abbiamo bisogno
oggi di riscoprirla. Il Vaticano II, quando afferma la differen-
ziata identità degli Istituti religiosi, parla di « indole propria »;
cioè di quella specificità che evidentemente non sta nei valori
sostanziali, necessariamente comuni a tutti, non sta nell'enume-
razione materiale delle virtù (ogni religioso dovrebbe avere tutte
le virtù), ma è in una loro caratteristica armonizzazione, in certe
sottolineature peculiari e ben definite. Si tratta di per sé di acci-
dentalità; però sono appunto tali modalità che tratteggiano la
fisionomia della nostra identità. Perciò a voi interessano enorme-
mente perché sono quelle che bisognerà saper sottolineare nelle
Costituzioni. Il sogno, dunque, ci aiuterà ad affrontare ed avere
in mente i principali elementi che specificano la nostra fisiono-
mia spirituale. I « principali » ma non tutti, lo ripeto . Anche qui
posso invocare l'autorità di don Rinaldi: a chi gli domandava,
con certa apprensione: « Ma dove è l'umiltà? », egli rispondeva
bonariamente, ma con acutezza: « L'umiltà c'è : il Salesiano l'ha
dentro! ». Bello! L'umiltà salesiana è robusta, ma non appare
si mette in vista; risulta dall'insieme. Vedremo in seguito che
entra soprattutto nella « Temperanza » e nel « Digiuno ».
2.4. DELICATO ACCENNO MARIANO
Leggo: « La grazia dello Spirito Santo illumini i nostri sensi
e i nostri cuori. Amen.
AD AMMAESTRAMENTO DELLA PIA SOCIETÀ SALE-
SIANA.
Il 10 settembre anno corrente (1881), giorno che S. Chiesa
consacra al glorioso Nome di Maria... ».
Notiamo qui un elemento interessante: l'aspetto mariano del
sogno. A prima vista sembra di trovarsi di fronte a un errore
di data. Nella nostra vita, fino a questi ultimi anni, abbiamo
festeggiato la celebrazione del Nome di Maria il 12 settembre.
Qui, invece, Don Bosco parla della notte dal 10 all'l l. Ma non
è un errore. In realtà la festa fu fissata il 12 settembre solo al-
l'inizio di questo secolo. Ai tempi di Don Bosco il Nome di
Maria si festeggiava la prima domenica dopo la Natività; e
nel 1881 quella domenica cadeva precisamente il 10 settem-
40

5.3 Page 43

▲back to top
bre. Quindi il sogno ci aiuta a imparare anche un po' di storia
delle celebrazioni liturgiche!
Ma l'osservazione importante da fare è che Don Bosco ci
tiene a sottolineare questa circostanza mariana, così come più
avanti ricorderà, nella postilla, che lui ha potuto redigere per
intero il sogno proprio il giorno della Presentazione della Ma-
donna al Tempio, il 21 novembre successivo.
Questi due accenni mariani sono assai significativi, e ci rive-
lano tutta la filiale e delicata devozione alla Madonna che il
nostro Padre nutriva nel cuore. Ascoltavo l'altra sera una « buo-
na notte » del nostro direttore della Casa generalizia alla Pisa-
na; una sua affermazione mi ha colpito. Egli diceva che i so-
gni di Don Bosco hanno avuto, di fatto, un legame speciale con
la Madonna, quasi a confermare che ogni ponte di contatto con
il soprannaturale nella vita di Don Bosco passa attraverso Ma-
ria e dar così ragione della famosa affermazione: « È Maria che
ha fatto tutto! ».
Riprendendo il testo del sogno leggiamo: « .. .i Salesiani, rac-
colti in San Benigno Canavese, facevano gli Esercizi Spirituali »
(erano i dirett0ri e alcuni confratelli).
Anche questo dettaglio è interessante. Don Bosco sembra
voler rimarcare che i contenuti del sogno sono un tema per
Esercizi spirituali; quindi, un argomento , diciamo così, stra-
tegico per la vocazione salesiana, particolarmente atto ad ali-
mentarne lo spirito e il processo d'identificazione.
Dunque: « Nella notte dal 10 all'll, mentre dormivo - con-
tinua Don Bosco - la mente si trovò in una gran sala splendi-
damente ornata.
Mi sembrava di passeggiare coi Direttori delle nostre case,
quando apparve tra noi un uomo di aspetto così maestoso che
non potevamo reggerne lo sguardo. Datoci uno sguardo, senza
parlare si pose a camminare a distanza di qualche passo da noi.
Egli era così vestito : Un ricco manto a guisa di mantello gli
copriva la persona. La parte più vicina al collo era come fascia
che si rannodava davanti, ed una fettuccia gli pendeva sul
petto.
Sulla fascia stava scritto a caratteri luminosi: "La Pia So-
cietà Salesiana", e sulla striscia d'essa fascia portava scritte que-
ste parole: "Quale deve essere".
41

5.4 Page 44

▲back to top
Dieci diamanti di grossezza e splendore straordinario erano
quelli che ci impedivano di fermare lo sguardo, se non con gran
pena, sopra quell'augusto Personaggio.
· Tre di quei diamanti erano sul petto, ed era scritto sopra di
uno "Fede", sull'altro "Speranza", e "Carità" su quello che
stava . sul cuore.
Il quarto diamante era sulla spalla destra ed aveva scritto
"Lavoro"; sopra il quinto nella spalla sinistra leggevasi "Tem-
peranza".
Gli altri cinque diamanti ornavano la parte posteriore del
manto ed erano così disposti:
Uno più grosso e più folgoreggiante stava in mezzo come
il centro di un quadrilatero, e portava scritto "Obbedienza".
Sul primo a destra leggevasi "Voto di Povertà".
Sul secondo più abbasso "Premio".
Nella sinistra sul più elevato era scritto "Voto di Castità".
Lo splendore di questo mandava una luce tutta speciale, e mi-
randolo traeva ·ed attaccava lo sguardo come la calamita tira il
ferro.
Sul secondo a sinistra più abbasso stava scritto "Digiuno".
Tutti questi quattro ripiegavano i luminosi loro raggi verso il
diamante del centro ».
Ecco la prima parte del sogno.
Permettetemi, qui, un'osservazione utile: quando Don Bosco,
nel 1881, parla di « Pia Società Salesiana » bisogna pensare che
anche le Figlie di Maria Ausiliatrice vi facevano parte, in quanto
« aggregate » !
Quindi, dovete vedere nel sogno anche una descrizione del
vostro peculiare spirito.
Ma cerchiamo di mettere in rilievo la caratterizzazione della
fisionomia salesiana che ci propone questa prima parte del so-
gno.
2.5. IL « PERSONAGGIO »
Il "pi·imo elemento da considerare è il Personaggio. Io sin-
ceramente non avevo pensato mai chi potesse essere questo
Personaggio. Però ci ha pensato don Rinaldi. Negli ultimi anni
42

5.5 Page 45

▲back to top
del suo rettorato, parlando di questo sogno dice: È evidente
che il sogno tratteggia « il modello del vero salesiano »; per noi
oggi, la forma più logica di interpretarlo è quella di identificarlo
con lo stesso Don Bosco.
Quando si vuol sapere come dovrebbe essere il Salesiano nel
suo « vero » spirito, bisognerà confrontarlo con questo Perso-
naggio. Ogni Salesiano presente e futuro deve rispecchiarsi in
Don Bosco!
« Egli è stato in tutta la sua vita - ci dice don Rinaldi -
l'incarnazione vivente di questo simbolico Personaggio: tutti i
suoi diamanti hanno una luce propria, ma queste molteplici luci
convergono in unico arco policromo e splendente: Don Bosco!
Lui è il nostro modello concreto ». È importante sottolinearlo.
Voi pensate spontaneamente a madre Mazzarello. È ovvio!
Però pensateci a fondo . Dove trovava madre Mazzarello il suo
modello? Essa ripeteva: « Guardiamo a Don Bosco! ». Una cosa
bellissima nella vostra Madre è appunto quella di guardare a
lui come all'esemplare, al tipo del suo stile di santificazione e
di apostolato.
Leggendo i volumi della vostra Cronistoria, mi ha impressio-
nato una frase incredibile detta da Maria Mazzarello: « Se an-
che, per impossibile, don Pestarino lasciasse Don Bosco, io re-
sterei con Don Bosco » .4 Ques to dice che era ben chiara in lei
la convinzione che l'indole propria dell'Istituto si rifaceva a
Don Bosco . D'altra parte era anche cosciente del paradosso che
conteneva la sua affermazione, perché sapeva benissimo che don
Pestarino era salesiano e guardava a Don Bosco come a suo mo-
dello (anche se dobbiamo ammettere che in qualche modo l'ot-
timo don Pestarino era già un santo sacerdote prima di divenire
salesiano; lo spirito di Don Bosco infatti non consiste propria-
mente nell'avere una maggiore o minore santità, ma piuttosto nel
vivere la santità secondo un tipico stile apostolico).
Madre Mazzarello poi ha sempre guardato a Don Bosco « vi-
vo », ossia ancora creativo e in crescita, non come noi che ci
riferiamo a lui dopo la sua morte. Quindi, la sua maniera di
guardare a Don Bosco era piena di fiducia e aperta a tutte le
4 Cronistoria dell'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, 5 volumi
a cura di G. CAPETTI FMA, Roma 1972 ss. Qui II 106.
43

5.6 Page 46

▲back to top
nuove prospettive che venissero da lui. Non guardava a un mo-
dello in qualche modo già terminato, ma tuttora in divenire. È
un'osservazione, questa, che mi sembra aumenti ancor più la
qualità del riferimento.
D'altra parte, anche noi dobbiamo imitare un tale atteggia-
mento perché il carisma dato dallo Spirito al Fondatore non ri-
mane chiuso e statico con la sua morte; non è un reperto da
museo ormai immutabile. Quel famoso n. 11 di Mutuae relatio-
nes afferma che lo stesso carisma dei fondatori si rivela come
un'esperienza di Spirito Santo trasmessa ai propri discepoli,
che devono custodirlo, promuoverlo e incrementarlo con una
fedeltà creativa in sintonia con la crescita del corpo di Cristo
che è la Chiesa.
Quando poi madre Mazzarello, già sul letto di morte, si rife-
risce a Don Bosco, ci fa sentire con quale ammirazione e affet-
to riservasse un posto privilegiato per lui nel suo cuore; anzi,
possiamo dire che tale atteggiamento costituiva un aspetto so-
stanziale della sua vocazione di « confondatrice ». In quanto
« confondatrice » madre Mazzarello vede tutto con lo spirito e
l'orientamento del Fondatore.
Anche se lo Spirito Santo ha messo intorno a Don Bosco altre
persone che noi dobbiamo considerare, in certa maniera, stret-
ti « collaboratori di fondazione » (innanzitutto, il papa Pio IX
e poi una piccola serie di nomi conosciuti, quali ad esempio don
Rua e don Cagliero) , c'è nel Personaggio del sogno, ossia nel-
la figura di Don Bosco, qualche cosa di unico, voluto dallo Spi-
rito Santo che dona i suoi carismi a chi vuole e come vuole.
Il carisma di fondatore ha una sua originale unicità. Ripeto,
non è per una maggiore quantità di santità, ma è per una tipica
maniera di seguire Gesù Cristo.
Vi dicevo già nella mia lettera indirizzata a voi in quest'anno
centenario che ci sono almeno tre caratteristiche proprie di Don
Bosco fondatore .
La prima è « un'originalità speciale». Vedete, Don Bosco in-
cominciò a camminare nella sua vocazione non volendo fare
il fondatore; desiderava farsi religioso, magari francescano, e
poi divenire prete, ma con nel cuore la predilezione per i
giovani. Era attento e disponibile ai suggerimenti dello Spirito
del Signore. Ebbene: non ha potuto trovare altra strada per
44

5.7 Page 47

▲back to top
realizzare la sua vocazione se non quella di fondatore. Ossia,
la sua vocazione aveva delle esigenze così originali da dover
dare inizio a uno stile proprio di santificazione e di apostolato.
È così che lo Spirito Santo suscita i fondatori con una loro
novità.
La seconda caratteristica è « una forma straordinaria di san-
tità » per cui il fondatore organizza - si può dire - tutte le
virtù in una sinfonia tutta sua, cioè secondo una « indole pro-
pria». L'originalità speciale si riferisce a tutto: carisma, spirito
e missione, e soprattutto al tipo di interiorità con cui il suo cuo-
re risponde alle mozioni dello Spirito Santo. Non si tratta di
« grado » di santità, ma di « tipo » di santità. Forse non è im-
possibile che qualche Salesiano (o Salesiana) divenga più santo
di Don Bosco, ossia possa avere un « grado » più intenso di
carità. In questo senso, ad esempio, don Cafasso può essere più
santo di Don Bosco, perché no? Però nessuno di noi confratelli
e di voi suore potrà mai essere più « salesiano » di Don Bosco,
ossia superarlo nel « tipo » di . santità che gli è caratteristico
come fondatore.
La terza caratteristica è « un dinamismo generatore di po-
sterità spirituale », che fa del fondatore una specie di « patriar-
ca» ... padre di molte genti. Come si spiega che noi oggi siamo
così numerosi nel mondo intorno a lui? A ragione Paolo VI
ha parlato del « fenomeno salesiano »: è un dono dello Spirito
del Signore. Avranno concorso anche le belle doti umane che·
possedeva in abbondanza Don Bosco, ma la sua fecondità spi-
rituale non si spiega senza un continuo intervento dello Spirito
Santo.
Dunque, ritornando al sogno, una prima e importante osser-
vazione è quella di saper interpretare l'identità del « Personag-
gio»!
2.6. LA PECULIARE DISPOSIZIONE DEI DIAMANTI
Un'altra osservazione di rilievo - è sempre don Rinaldi che
ci fa meditare - è la disposizione stessa dei diamanti. Dove
sono messi e perché.
È proprio questa visione d'insieme che è stata per me un
po' una rivelazione. Perché alcuni diamanti sono posti di fronte
45

5.8 Page 48

▲back to top
e perché altri a tergo? Don Rinaldi ha insistito su una interpre-
tazione penetrante, in bella armonia con la nostra tradizione spi-
rituale.
La disposizione dei diamanti posti sul davanti vuol significare
il tipo della nostra testimonianza nella società e nella Chiesa:
come se si volesse mettere in mostra gli aspetti caratteristici del-
la nostra fisionomia. A tergo, nella parte posteriore del manto, si
delinea la struttura di spinta - quasi nascosta e meno visibile
- che dà forza e assicura l'esito. È un tutto unito e indivisibile,
ma con un aspetto da proclamare esplicitamente in pubblico e
un altro da riservare all'esercizio personale e domestico di
allenamento e di « performance » atletica. Questa mi sembra
un'osservazione assai attinente!
Noi siamo nati nella Chiesa non per apparire come « frati e
monache » - ecco una nostra originalità - ma per essere un
gruppo di consacrati pubblicamente nella Chiesa, con caratte-
ristiche accettabili in una società ormai in processo di secola-
rizzazione. Vi leggo le parole che Pio IX ha detto a Don Bosco
quando lo guidava nell'opera di fondazione della nostra comu-
ne Socie'tà Salesiana; si trovano nel volume XIII delle Memorie
biografiche, pp. 82-83.5 (Guardate che ve le leggo con la respon-
sabilità di Rettor Maggiore e in clima di Capitolo generale!):
« Io credo di svelarvi un mistero! - disse il Papa - . Io so-
no certo che questa Congregazione sia stata suscitata in questi
tempi dalla Divina Provvidenza, per mostrare la potenza di Dio:
sono certo che Dio ha voluto tenere nascosto fino al presente un
importante segreto, sconosciuto a tanti secoli ed a tante altre
Congregazioni passate. La vostra Congregazione è la prima nel-
la Chiesa, di genere nuovo, fatta sorgere in questi tempi in ma-
niera che possa essere Ordine religioso e secolare, che abbia
voto di povertà ed insieme possedere, che partecipi del mondo
e del chiostro, i cui membri siano religiosi e secolari, claustrali
e liberi cittadini. [ ...] Fu istituita perché si vegga e vi sia il
modo di dare a Dio quello che è di Dio, a Cesare quel che è
di Cesare».
5 G. B. LEMOYNE - A. AMADEI - E . C ERIA , Memorie biografiche di
S, Giovanni Bosco, 19 volumi, S. Benigno Canavese, Se. tip. libr. sales.
1898-190.7 voi. I-VII; Torino, Libr. sales. 1909-1939 voi. VIII-XIX.
46

5.9 Page 49

▲back to top
: Quando medito le circolari di don Rinaldi che hanno sotto-
lineato questi aspetti, mi vien da pensare che egli vivesse in una
particolare intimità con lo Spirito Santo. Si trovano facilmente
in lui delle intuizioni geniali. Quando scrive, ad esempio, a pro-
posito delle Costituzioni ritoccate del 1921 mettendo in evidenza
che la caratteristica delle Costituzioni nostre è la duttilità,
l'adattabilità ai tempi, l'elasticità, esprime un'intuizione propria
di chi ha l'abito della santità e un'intimità profetica con Dio.
Così la sua interpretazione del sogno dei diamanti. Secondo
don Rinaldi, dunque , il sogno mette in rilievo quale deve es-
sere il nostro volto in società, che cosa deve vedere la gioventù
che ci guarda. È una spiritualità che dev'essere simpatica all'uo-
mo d'oggi, utile per la società attuale; essa non si presenta come
residuo di una cultura antiquata, ma come un modo nuovo di
essere santi.
2.7. PRECISAZIONI SIGNIFICATIVE
Oltre alla disposizione globale d'insieme, « davanti » e « a
tergo », c'è al di dentro di ogni gruppo di cinque diamanti un
altro aspetto di mutua correlazione organica che merita di essere
messo in rilievo.
L'organicità del quadrilatero a tergo emerge subito: al cen-
tro c'è il diamante dell'« Obbedienza » verso cui convergono
gli altri quattro. Noi siamo, infatti, un Istituto di vita attiva, in
cui la caratteristica spirituale che guida la permanenza nell'im-
pegno non è più, come per il monaco, la stabilità, ma piuttosto
la disponibilità alla missione, la docilità a un mandato autentico.
Con l'esperienza degli anni ci si va accorgendo che questo è
un aspetto spirituale assai concreto della nostra vita salesiana.
Anche nella disposizione dei cinque diamanti posti sul da-
vanti del manto si trova una caratteristica organicità dinamica:
« Se la guardiamo di fronte - scrive don Rinaldi - la vita sa-
lesiana, considerata nella sua attività, è "lavoro e temperanza",
vivificati dalla carità del cuore nella luce sempre più luminosa
della fede e della speranza ».
Ecco una bella « descrizione tipologica » del volto salesiano.
Non c'è in essa la preoccupazione astratta di determinare delle
47

5.10 Page 50

▲back to top
priorità ontologiche. Non ci si chiede che cosa, di per se, e
più importante. Non è questo che deve richiamare la nostra at-
tenzione. Qui c'è una tipologia: è indicato quale tipo di faccia
dobbiamo mostrare! Nei lineamenti di un volto ci sono delle ca-
ratteristiche significative: una descrizione tipologica più che un
ordinamento di priorità d'importanza; dei tratti caratteristici, più
che dei primati ontologici. Ciò è da tener presente anche nella
revisione delle Costituzioni: non è consigliabile lasciarsi guidare
solamente da criteri logici e ontologici, mettendo sempre prima
quello che è, di per sé, più importante, e poi logicamente quello
che lo sarebbe, in se stesso, di meno. Le Costituzioni non sono
un trattatello di teologia; sono, invece, la descrizione di un'espe-
rienza originale di Spirito Santo. Devono tracciare un cammino
di vita facendo risaltare ciò che vi è di più caratteristico, anche
se ontologicamente derivato. Pur essendo indispensabile avere
chiara coscienza di ciò che è, in se stesso, più importante per sa-
perlo esprimere in forma adeguata e con esplicita chiarezza, tut-
tavia ciò che caratterizza l'indole propria di un progetto evan-
gelico si desume da elementi esperienziali vissuti in una determi-
nata armonia di convergenza.
Mi sono preoccupato di conoscere come Don Bosco ha re-
datto le vostre prime Costituzioni. Guardando i titoli - per ve-
dere che ordine ha seguito - mi sono convinto che era un uomo
pratico. Dori Bosco ha fatto le vostre e le nostre Costituzioni
servendosi di tante cose (ha però anche aggiunto che lui avreb-
be fatto la brutta copia e noi la bella: speriamo sia vero!). Eb-
bene, ecco l'ordine che segue nella redazione: scopo e mis-
sione dell'Istituto; legame con la Congregazione Salesiana; re-
gime interno dell'Istituto; formazione e vocazioni; virtù prin-
cipali proposte allo studio delle novizie e alla pratica delle pro-
fesse , con una magnifica sintesi tra azione e contemplazione; voti
e, infine, alcune regole generali (cf Cron., III 431-452). Vedete
che ordine curioso? Don Bosco non ha la preoccupazione del
professore, ma quella di un fondatore e di un prassiologo. Era
preoccupato di assicurare l'originalità del vostro volto, piutto-
sto che di fare un piccolo studio sulla vita religiosa e la sua
consacrazione.
Ma torniamo ai diamanti. Don Rinaldi vede una descrizione
'di òrganicità dinamica nei primi cinque diamanti posti davanti,
48

6 Pages 51-60

▲back to top

6.1 Page 51

▲back to top
nel senso che considera tutto il manto sorretto dai due diamanti
del lavoro e della temperanza; infatti Don Bosco voleva appunto
che lo stemma della Congregazione fosse « lavoro e temperan-
za». Il diamante della carità, poi, è posto proprio sul cuore
come centro motore di tutto alla luce della fede nel dinamismo
creativo della speranza!
2.8. UN AUTOREVOLE MONITO
Il sogno mostra, nella seconda parte, i pericoli che incom-
bono sulla nostra vita salesiana. C'è una scena drammatica che
ci fa percepire appunto il contrario del vero Salesiano. Può ri-
sultare un richiamo molto utile in quest'ora di crisi.
Per prevenire questi pericoli c'è un monito assai autorevole.
Sul nastro color rosa che serviva di orlo nella parte inferiore
del manto è scritto: « Argomento di predicazione al mattino, a
mezzogiorno e a sera ».
Quasi a dire che se ci preoccupiamo di approfondire le ca-
ratteristiche spirituali della nostra indole propria, potremo su-
perare o eludere questi gravi pericoli.
Come conclusione, poi, il messaggio di un giovane: « Ascol-
tate bene e intendete. La meditazione del mattino e della sera sia
costantemente sull'osservanza delle Costituzioni. Se ciò farete,
non vi verrà meno giammai l'aiuto dell'Onnipotente. Diverrete
spettacolo al mondo e agli angeli e allora la vostra gloria sarà
gloria di Dio ».
2.9. L'AIUTO DI MARIA
Concludo . Questo sogno si è iniziato, come abbiamo visto,
sotto l'auspicio materno della Madonna; Don Bosco l'ha potuto
stendere al completo nella festa della Presentazione di Maria al
Tempio; il testo mostra ancora, dopo la postilla (nello scritto
in bella copia di don Berto) questa giaculatoria: « Maria, aiu-
to dei cristiani, prega per noi! ».
Ecco, noi dobbiamo proprio considerare l'Ausiliatrice quale
Maestra e Guida non solo di Don Bosco ma di tutta la vita
49

6.2 Page 52

▲back to top
I
salesiana e anche di questo vostro Capitolo generale. Riservia-
mole, perciò, il posto che le spetta anche n~lla descrizione delle
caratteristiche della nostra indole. Dobbiamo chiedere a lei,
in un tempo così difficile ma così bello, in quest'ora di .transi-
zione culturale, che impegna le nostre intelligenze nell'individua-
zione e nella promozione dei valori permanenti del nostro ca-
risma, che ci aiuti a farlo, come ha aiutato Don Bosco.
Essa vi ha già aiutato molto, e sono sicuro che vi sta aiutando
e vi aiuterà maternamente. Maria è qui a presiedere, non solo
con l'effigie, il vostro Capitolo e vi sorreggerà nel mettere in
bella copia le vostre Costituzioni. Ringraziamola!
50

6.3 Page 53

▲back to top
3
PRIMO DIAMANTE
LA FEDE
Abbiamo fatto alcune osservazioni generali d'introduzione
al sogno . Incominciamo ora a riflettere sul significato dei primi
cinque diamanti che caratterizzano la nostra fisionomia eccle-
siale e sociale. Ci mostrano, come dicevamo, i lineamenti più
espressivi del volto di Don Bosco, le « linee tipologiche » (più
che una lista teologica di « virtù »), nelle quali si configura la
nostra fisionomia. Non si tratta di vedere in essi solo cinque
« virtù » da approfondire teologicamente come tali; più che in-
dicare delle « virtù », i diamanti vogliono significare e proporre
degli atteggiamenti globali di vita, che implicano, oltre alle
virtù segnalate dai nomi, tanti altri aspetti complementari e
vitali.
Sotto la parola « Fede », intesa come atteggiamento esisten-
ziale, entrano tanti aspetti che possono appartenere, nell'analisi
formale di un teologo, ad altre virtù. La realtà viva della fede
si presenta complessa e globale, e non semplicemente come una
formalità astratta. Ci sono aspetti che toccano un po' tutto;
quindi non ci avviciniamo a questo diamante con la preoccu-
pazione del professore che vuole definire qual è l'oggetto spe-
cifico di questa virtù. Lo facciamo con un'ottica tipologica più
esistenziale e libera, e quindi anche più attraente. È un po' come
quando si fa una pellicola: non si pretende dare la definizione
di una persona, ma mostrare i suoi sentimenti, il suo volto, il
suo sorriso, i suoi denti, i suoi capelli, insomma la sua mani-
festazione esistenziale.
51

6.4 Page 54

▲back to top
I
3.1. I CINQUE DIAMANTI
DELLA PARTE ANTERIORE DEL MANTO
Nel presentare i primi cinque diamanti del sogno dobbiamo
dire che, tra essi, sono messi in rilievo innanzitutto i tre grandi
dinamismi dello Spirito Santo nell'animo del Personaggio: la
fede, la speranza, la carità. Sono i dinamismi che divinizzano
l'interiorità umana, di qualunque battezzato. Per questo si
chiamano dinamismi « teologali ». La grazia di Cristo opera in
noi attraverso la reale e feconda inabitazione dello Spirito
Santo.
Il primo effetto che lo Spirito Santo produce in noi è un 'in-
tuizione illuminatrice della nostra capacità di conoscenza: ci
infonde un'intima coscienza della nostra identità cristiana me-
diante la « fede », irrobustendola con la convinzione e la gioia
e il sapore spirituale che permeano sempre l'intelligenza divina.
Il secondo atteggiamento della vita nello Spirito in noi è il
dinamismo della « speranza », inseparabile da quello della fede;
lo accompagna sempre e lo spinge all'attività. La speranza ci
lancia ad operare secondo la fede in vista di quei beni che
essa ci scopre e ci fa contemplare.
Fede e speranza, poi, hanno il loro compimento nella « ca-
rità », che è l'espressione suprema della nostra partecipazione
alla vita nello Spirito a cui siamo generati nel battesimo. La
carità permea, nutre e vitalizza la fede e la speranza, facendo
del cuore umano il centro e il motore di un modo di amare e
di agire divino.
Questi tre atteggiamenti fondamentali dell'essere definiscono
l'essenza della vita spirituale del Personaggio, che è vita batte-
simale e cristiana. Noi come Salesiani dobbiamo appunto te-
stimoniare che siamo veri cristiani.
3.2. FEDE, SPERANZA, CARITÀ:
I TRE DINAMISMI FONDAMENTALI
DELLA VITA NELLO SPIRITO
proprio su questi tre modi di essere che insiste san Paolo,
fin dall'inizio del cristianesimo. Egli sempre mette insieme que-
sti tre modi, questi dinamismi. E li mette insieme perché di
52

6.5 Page 55

▲back to top
fatto sono una realtà unica. A volte mette prima la carità, poi
la speranza e la fede. Cambia l'ordine liberamente; non ha la
preoccupazione degli schemi logici degli studiosi; descrive dati
sperimentati nella sua esistenza.
È interessante considerare anzitutto « i tre insieme », così
come appaiono già nel primo documento del Nuovo Testa-
mento: la prima epistola di san Paolo ai Tessalonicesi, scritta
verso l'anno 50. Nel capitolo 1,3-5 Paolo dice: « Quando siamo
di fronte a Dio, nostro Padre, pensiamo continuamente alla
vostra fede molto attiva, al vostro amore molto impegnato, alla
vostra speranza fermamente rivolta verso Gesù Cristo, nostro
Signore. Sappiamo, fratelli, che Dio vi vuol bene e vi ha scelti
per farvi essere suoi. Infatti, quando vi abbiamo annunziato
il messaggio del vangelo, ciò non è avvenuto solo a parole, ma
anche con la forza e l'aiuto dello Spirito Santo. Come ben sa-
pete, abbiamo agito tra voi con profonda convinzione, e per
il vostro bene ».
A partire già da questo primo documento san Paolo descrive
l'essere cristiano, o l'inabitazione e la nuova creazione dello
Spirito Santo nel cuore del battezzato, come la sintesi dinamica
della fede, della speranza e della carità « insieme ».
Anche se noi qui parleremo prima della fede, poi della spe-
ranza, poi della carità, è bello notare come san Paolo le pre-
senti nella loro « unità vitale », quale inabitazione dello stesso
Spirito Santo in noi.
Tutte e tre sono atteggiamenti di fondo e definitivi, perché
sono partecipazioni della vita divina. Nonostante ciò, tutte e
tre hanno anche degli aspetti caduchi, perché vivono in noi
secondo il divenire del tempo. Cadrà ciò che c'è di caduco in
esse, ma rimarrà per sempre il dinamismo proprio della fede,
la conoscenza di Dio nella visione beatifica; rimarrà per sempre
la forza conquistatrice della speranza nella gioia della vittoria,
nel possesso dei beni eterni e nella soddisfazione di aver realiz-
zato tutto in Lui. Rimarrà, infine e in pienezza, la carità, perché
Dio è Amore. Vengono, dunque, spogliate solo della loro prov-
visorietà, ma svelate e pianificate in tutto ciò che possiedono
di duraturo.
Nella prima epistola ai Corinzi, capitolo 13,13, Paolo dice:
« Adesso poi "rimane" [in singolare!] la fede, la speranza e la
53

6.6 Page 56

▲back to top
carità, questi tre modi di essere; ma tra questi il più grande
è la carità! ». Enrico Schlier, un grande specialista delle lettere
di san Paolo convertito dal protestantesimo, sottolinea il nu-
mero « singolare » del verbo greco « rimane ». È interessante,
perché il soggetto sono insieme la fede, la speranza e la ca-
rità. Eppure Paolo non dice « rimangono », ma « rimane»;
mette dunque in rilievo il senso di unità dei tre dinamismi. La
triade, poi, si raccoglie nella carità come il più centrale e più
grande dinamismo di vita cristiana.
Anche voi, da « buone cristiane », nell'art. 29 delle Costitu-
zioni (1975) avete messo in evidenza questi dinamismi della
vita divina in noi. Leggiamo l'articolo perché ci aiuta a co-
gliere l'accordo con la fisionomia salesiana descritta nel sogno.
« Siamo, per un dono divino, comunità di fede, di speranza e di ca-
rità. Ci affidiamo totalmente al Padre, ascoltiamo quanto egli ci dice nella
Chiesa e cerchiamo di scoprire la sua presenza nelle persone e negli
avvenimenti, anticipando già su questa terra le realtà che un giorno vi-
vremo nella luce della visione di Dio.
Associate al mistero pasquale di morte e di risurrezione, e sapendo
che "le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla glo-
ria futura che dovrà essere rivelata in noi", attendiamo il ritorno del Si-
gnore lavorando con ottimismo e sollecitudine alla costruzione della cit-
tà presente, in modo da renderla prefiguraZlione della Gerusalemme ce-
~~-
.
Con un cuore solo e un'anima sola tendiamo verso la pienezza del-
l'amore di Dio e dei fratelli, cercando di adempiere il comandamento
nuovo che contradd~stingue i discepoli di Gesù. Così ognuna di noi abita
in Dio, e Dio, che è Carità, abita in noi».
Che bel commento ai primi tre diamanti del Sogno!
Dunque: nella parte anteriore del manto del Personaggio si
mette in evidenza o, se volete, si espone « in vetrina » (per i
Salèsiani e per le Figlie di Maria Ausiliatrice) la grande triade
cristiana: fede, speranza e carità, dinamismi divini che vivono
insieme in una fusione di vitale unità.
3.3. LA FEDE: COSCIENZA DELLA PROPRIA
NASCITA BATTESIMALE
Soffermiamoci a riflettere sui valori del primo diamante.
Si possono dire molte cose sulla fede, e bisognerebbe poi
54

6.7 Page 57

▲back to top
ripeterle per la speranza e per la carità, e viceversa, precisa-
mente perché costituiscono una triade intercomunicante. Ora
però, parlando della fede, cercheremo di restare nell'ambito
proprio di questo dinamismo di conoscenza soprannaturale. Non
pretendiamo esaurire il tema; solo lo enunciamo. Si potrebbe
dedicare ad esso tutto il corso degli Esercizi; noi ci fermeremo
solo su alcune riflessioni riguardanti il contenuto della fede
in sé, per tutti; e poi su alcune caratteristiche con cui la vi-
viamo noi alla scuola di Don Bosco.
Consideriamo la fede come la presenza in noi dello Spirito
Santo, che ci assicura e ci intensifica la coscienza della nostra
identità cristiana. È assai importante assodare e far crescere
tale coscienza!
La fede è un dinamismo che mi obbliga a pensare « chi
sono io »: chi sono io rispetto al mondo, rispetto agli altri,
rispetto alle culture e all'opinione pubblica, rispetto ai giovani,
rispetto alla Chiesa, all'Istituto e alla Famiglia salesiana? È
sempre un atteggiamento di riflessione, di dialogo, di risposta,
di testimonianza. Ci fa prendere coscienza della nostra nascita
battesimale, della « nuova creazione » che si è compiuta nel
nostro cuore, della vita intima di Dio in noi, della Provvidenza
con cui ci accompagna. Per essa incominciamo a guardare alla
realtà così come la conosce lo Spirito del Signore. Per essa ab-
biamo una coscienza chiara di essere discepoli di Gesù: ecco
l'oggetto centrale della sua contemplazione. Con Cristo sentiamo
la presenza di Dio nella vita, negli avvenimenti, nelle persone.
Dalla fede riceviamo gli elementi sufficienti e il coraggio di
saper guardare con capacità critica alla realtà che ci circonda,
a non accettare i disvalori, a saper contestare evangelicamente
il male, non per spirito di lotta o per fare polemica, ma perché
vogliamo mettere in luce e testimoniare i valori propri della
sequela di Gesù Cristo. Questo ci dà una personalità cristiana:
cosa tanto importante! Avere una personalità significa posse-
dere convinzioni chiare, saper dialogare con tutti, sorridere ed
essere comprensivi, ma senza cedere nei riguardi della verità
salvifica, senza lasciarsi plagiare dalla moda, dall'opinione pub-
blica, dalla maggioranza, cosa che purtroppo succede oggi con
una certa facilità. In un tempo di trapasso culturale è indispen-
55

6.8 Page 58

▲back to top
sabile avere convinzioni robuste su ciò che è il Vangelo, su
chi è Gesù Cristo, per saperlo testimoniare con chiarezza e
senza paura.
3.4. NEL CRISTIANESIMO
LA FEDE HA DIMENSIONE STORICA
Se consideriamo l'esperienza dei grandi credenti, percepiamo
subito che la fede è una conoscenza inserita nella storia; non
è una astrazione o un semplice sentimento interiore. È un modo
di conoscere apparso di fatto nella storia umana inabitata da
Dio e che ci immette, a sua volta, nella storia che ci circonda
e che ci tocca vivere. Sì: la fede ci porta a considerare l'av-
ventura umana con una determinata ottica, che la perfora e
la sviscera nei suoi ultimi significati.
La fede ci avvicina ai fatti e alle persone, agli avvenimenti
e alle vicissitudini, soprattutto agli eventi pasquali di Cristo in-
dicandoceli come chiave di lettura del divenire dell'uomo nel
tempo. Così per la fede siamo immessi nella storia, ma attra-
verso la fede noi perforiamo la storia, esploriamo l'energia
nucleare nascosta in essa, ciò che la storia porta dentro come
forza atomica, fondante il grande futuro di tutta l'esistenza. Non
parlo di fisica o di scoperta delle meraviglie del mondo mate-
riale; parlo della storia come divenire dell'uomo: la fede ci
assicura che nell'avventura umana l'Alfa e l'Omega di tutto è
Cristo. È lui che ha portato l'uomo alla sua meta; e tutta la
storia deve giungere a costruire una nuova umanità che si ri-
trovi nella grandezza e nella bellezza del Risorto, divenuto il
Signore della storia.
Quindi la fede non è un'alienazione che fa di noi dei non-
cittadini, delle persone alienate che emigrano sulla luna; al
contrario, ci fa essere più presenti, come testimoni del meglio,
appunto per orientare ciò che sta succedendo. Guardando le
molteplici religioni naturali che hanno permeato tante culture,
vediamo che c'è questa enorme differenza tra loro e il cristia-
nesimo.
Già nell'Antico Testamento, presso il popolo ebraico, ciò
che era fondante e alla vista di tutti era una singolare ade-
56

6.9 Page 59

▲back to top
sione al Dio vivente, creatore di tutto. Abramo è il padre nella
fede, anche se solo nella « promessa ». Con Gesù Cristo inco-
mincia_ un'epoca nuova nella storia, è l'epoca della fede ma-
turata nella pienezza della realtà salvifica, ossia della conside-
razione dell'evento « Pasqua e Pentecoste », appunto come realtà
inserite nella storia per orientarne lo sviluppo e guidare l'uma-
nità alla sua grande meta definitiva.
Oggi, quando guardiamo alle varie ideologie di moda (il
cristianesimo non è un'ideologia: è tutto fondato in dati esi-
stenziali, in persone, in eventi) o ad altre culture ispirate a
particolari princìpi religiosi, che cosa vediamo? Per il marxi-
smo: l'ideale è - o almeno dovrebbe essere - la giustizia sociale.
Per l'illuminismo: l'ideale è la ragione umana. Per la mentalità
consumistica: l'ideale è la libertà del benessere, che porta fa-
cilmente all'edonismo e all'erotismo. Per le religioni naturali: è
una vacillante ricerca di salvezza e di trascendenza che sbocca in
atteggiamenti, magari in nobili, ma infarciti di superstizione
e che ormai non reggono all'urto del progresso e alla critica
scientifica.
Sono tutte cose buone: la giustizia sociale, la ragione umana,
iì benessere e l'amore, la liberazione dal male e la trascendenza;
però sono mancanti e parziali, portate a egemonizzare la cul-
tura come se fossero verità complete, capaci in se stesse di dar
senso e libertà a tutto l'uomo, e invece non lo sono. Inoltre
vengono spesso interpretate falsamente, intaccando e sviando i
valori del genuino progetto-uomo, con il pericoloso risultato di
declassare una cultura e renderla non più pienamente « uma-
na » perché non c'è più posto in essa per il « vero uomo » nella
sua integralità.
Invece il cristianesimo, che si fonda su una fede storica, non
si riferisce a una impalcatura dottrinale da assumere (a volte
qualcuno, però, lo ideologizza!), ma alle relazioni vitali di ogni
uomo con Gesù Cristo e con gli eventi della sua vita, visti in
sintesi nella sua morte in croce, nella sua risurrezione, nella
sua regalità lungo i secoli. Pasqua, Pentecoste, Chiesa: sono
èlementi dinamici inseriti nella realtà integrante della storia,
anche se gli « storici » di professione, seguendo le esigenze
fenomenologiche di una metodologia scientifica, non possono
documentarli con argomentazioni di evidenza razionale.
57

6.10 Page 60

▲back to top
La storia della salvezza, inserita nella vita stessa dell'uma-
nità, è di fatto tutta centrata nella Pasqua e nella Pentecoste;
tanto è vero che il mondo cammina oggettivamente verso la
Parusia del Signore anche se molti non ci credono e non se
ne accorgono!
E la visione della nostra fede non si esaurisce in Gesù Cristo.
Egli ne è la Persona centrale, il nucleo del grande mistero.
Però intorno a Lui si espandono delle rifrazioni che ne vengono
a manifestare e a rendere più vicine le molteplici ricchezze.
Così il mistero di Cristo si rifrange particolarmente in Ma-
ria: la Pasqua splende particolarmente in Maria, ormai defini-
tivamente viva nella risurrezione; essa è assunta al cielo con
Cristo vittorioso; la Pentecoste esplode in Maria quale vergine
sposa dello Spirito Santo. È affascinante anche l'aspetto ma-
riano della nostra fede storica . Maria con Cristo, i due Risu-
scitati, interviene davvero nel divenire della Chiesa lungo i
secoli. Noi che la veneriamo sotto il titolo di « Ausiliatrice »
siamo abituati a considerarla in questa sua continua iniziativa
materna. Sarebbe bello - come io ho proposto una volta ai
Superiori generali - scrivere alcuni volumi (con l'aiuto di
competenti scelti tra le principali Famiglie religiose), in cui si
facesse vedere l'intervento di Maria. nella vita carismatica della
Chiesa. La nostra Famiglia salesiana potrebbe redigere un ca-
pitolo mariano abbastanza lungo e interessante sulle origini e
la vita della propria vocazione.
Non si tratta, qui, di aprirsi a un tema, quello di Maria,
tanto vasto e a voi specificamente caro. Stiamo parlando della
dimensione storica della nostra fede che da Cristo si rifrange
su Maria, e vediamo con quanta luce e con quale vastità di
orizzonti.
Poi il mistero di Cristo si estende largamente alla sua Chiesa.
Anzi, dobbiamo appunto dire che tutto ciò che Maria è « per-
sonalmente », lo è e lo sarà la Chiesa tutta « comunitariamente ».
Potremmo considerare lungo i secoli la svariata fioritura dei
Santi, parole vive di Dio in ogni vicissitudine umana. All'in-
terno della Chiesa, poi, il mistero di Cristo si concentra parti-
colarmente nei suoi Sacramenti. Potremmo, per esempio, ve-
dere la fede attraverso l'Eucaristia, che è un elemento così im-
portante nella vita salesiana.
58

7 Pages 61-70

▲back to top

7.1 Page 61

▲back to top
Non solo si potrebbe approfondire la fede attraverso i Sa-
cramenti, ma anche attraverso il Magistero della Chiesa, ossia
in riferimento a quella mediazione qualificata che ci dà la ca-
pacità di considerare il Vangelo come messaggio autentico per
l'oggi, adeguato alle interpellanze dei tempi. Anche quest'aspetto
è un'altra caratteristica inerente allo spirito salesiano.
Inoltre, lo sguardo penetrante della fede va rivolto allo spes-
sore sacramentale del « prossimo », che anche rifrange reali-
sticamente il paradossale mistero di Cristo, soprattutto i po-
veri, i bisognosi: « Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare,
ho avuto sete e mi avete dato da bere ... » (Mt 25,35). Così la
fede ci porta a sommergerci nella vera realtà umana, ad es-
sere protagonisti dell'oggi, a impegnarci per risolvere problemi
e ad amare i bisognosi.
Vedete come la fede non ci sottrae alla complessità della ·
storia, ma al contrario vi ci immerge con tutto il nostro es-
sere. La fede ci apre, allora, l'aspetto più umano del mistero
di Dio: quello di essersi avventurato nella nostra storia per
salvarci: Iddio Padre ha tanto amato il mondo che ha inviato
Gesù Cristo non per giudicarlo, ma per salvarlo!
3.5. STRUTTURA DEL DINAMISMO DI FEDE
Qual è la struttura propria di un atteggiamento di fede?
Leggendo soprattutto le lettere di san Paolo ne possiamo sco-
prire vari elementi.
Il primo è quello dell'ascolto; un ascolto di chi ha fiducia
e non semplicemente di chi ha curiosità; un atteggiamento fi-
liale, aperto e docile, con distacco dH sé. Tale ascolto porta
spontaneamente all'espressione pratica più caratteristica della
fede, l'inclinazione all'obbedienza: l'obbedienza al Padre! La
fede porta spontaneamente il credente a un quotidiano atteg-
giamento di docilità al volere di Dio. Inizialmente, la fede non
appare come espressione di attività perché non mette l'io e i
progetti personali al primo posto; si preoccupa dell'ascolto di
Lui. Ma è attiva nel senso che esige attenzione e dedizione;
un'attenzione dimentica di sé, una dedizione così preoccupata
59

7.2 Page 62

▲back to top
di percepire la Parola di Dio e così filiale da non centrare l'at-
tenzione sul proprio io. È un comportamento estatico, anche
se non alienato, attento alla percezione della volontà divina,
per essere così realista da saperla compiere nella storia ; perciò
guarda all'obbedienza come al primo valore della sua filiazione:
fare la volontà del Padre, obbedire nel senso profondo ed evan-
gelico della parola; l'obbedienza della fede vissuta come istinto
radicale ·di docilità.
Un secondo elemento della struttura di fede è la dimensione
contemplativa del credente. La vita salesiana, come qualunque
vita cristiana, ha alla base una dimensione contemplativa, per-
ché la fede è fondamentalmente un grande ascolto pieno di fi-
ducia. Un vero credente vive di contemplazione, tanto più in-
tensa e tanto più convinta quanto più grande è la sua fede .
Qui non si tratta di distinguere la vita contemplativa dalla vita
attiva. Il credente, chiunque esso sia, eremita o apostolo, è
tanto più credente quanto più sa mettersi in atteggiamento di
contemplazione: quello di conoscere e di sentirsi conosciuto!
San Paolo, al riguardo, ha una bella espressione: « Ma ora avete
conosciuto Dio; anzi è Dio che vi conosce» (Gal 4,9)! La
contemplazione ci fa entrare in Dio e ci dà la coscienza di
essere conosciuti da Dio. Quindi, anche quando il credente
guarda se stesso si vede come verità in Dio, ossia guarda Dio
e, nel suo mistero, considera anche se stesso. Ciò è molto diffe-
rente dal guardare a noi stessi semplicemente con la psicologia
del profondo...
Un terzo elemento della struttura di fede è che sia l'ascolto
sia la dimensione contemplativa fanno crescere nel credente
la coscienza della filiazione, quasi sperimentasse la nascita ad
una stirpe nuova. Uno sente, per la fede, di divenire davvero
una nuova creatura, come dice san Paolo, di essere qualcosa
di nuovo, di non essere solo umano, di essere vero figlio di
Dio, di partecipare al mistero della vita intima della Trinità:
« consortes divinae naturae »! Il credente capisce di essere nel
vero quando dice « Padre nostro ... ». E così sente riempirsi di
gioia il suo cuore.
Un quarto elemento della struttura di fede è un tranquillo
senso di coraggio di fronte a chiunque. San Paolo chiama questo
coraggio « parresia »: la franchezza, la capacità di testimoniare
60

7.3 Page 63

▲back to top
ciò che siamo, senza paura e senza rispetto umano. Questo
coraggio è come lo scudo della fede; ci assicura, nel Cristo,
l'accesso al Padre, nonostante le difficoltà. Non avremo così
più paura di tanti problemi, dei cambiamenti, del pluralismo
culturale, delle ideologie di moda. Quest'audacia della fede in-
fonde nel cuore un vero istinto di martirio, non come una
specie di masochismo eroico, ma come una coraggiosa capacità
di testimonianza (martirio vuol dire testimonianza). Non a caso
la vita religiosa è paragonata al martirio, perché in essa si giura
di testimoniare in forma radicale il mistero di Cristo; questo
non perché abbiamo davanti una pistola puntata (il cui effetto
micidiale durerebbe, in tutti i casi, pochi minuti), ma perché
lo si sceglie per tutta la vita!
Questi elementi della struttura di fede in ogni vero credente
devono permeare tutto lo spirito salesiano. Vediamo così che
il primo diamante dà il tono e un livello di qualificato cristia-
nesimo a tutti gli altri diamanti.
3.6. DON BOSCO: UN FORMIDABILE CREDENTE
Le grandezze della fede or ora accennate le vediamo chia-
ramente in Don Bosco, il nostro « Personaggio»: un grande
credente! In lui la fede, questo atteggiamento di sintonia con
Dio, era profonda e operativa. Il suo carattere, le esigenze
della sua terra e della sua epoca, la cultura da cui prove-
niva, lo portavano al realismo (e si può dire lo stesso di madre
Mazzarello); gente pratica, mentalità contadina, intuito peda-
gogico, inclinazione operativa. Don Bosco percepiva quasi spon-
taneamente lo spessore storico della fede cristiana. Anche come
studioso e come scrittore, egli è un entusiasta degli aspetti
concreti della storia della salvezza. Infatti, più che un pensa-
tore, è un narratore di Dio; un narratore della storia sacra,
un narratore della vita dei Santi, della storia della Chiesa, della
storia d'Italia, ecc. Aveva una struttura mentale che l'aiutava
proprio a scrutare e a percepire in Dio la sua ineffabile pre-
senza e avventura tra gli uomini.
Per capire qual era la fede di Don Bosco bisognerebbe ri-
61

7.4 Page 64

▲back to top
leggere il libro di don Ceria Don Bosco con Dio. È un'opera
scritta cinquant'anni fa, in occasione della sua beatificazione,
ma che non tramonta: è sempre attuale. Don Ceria ha colto
nel segno. Ha saputo mettere in rilievo la più profonda carat-
teristica di Don Bosco.
La fede, e gli altri due diamanti della tr.iade inseparabile,
brillano sul petto del Personaggio, per significare il centro mo-
tore di tutto lo spirito salesiano.
Un articolo delle Costituzioni dei Salesiani ripete, in rife-
rimento al nostro Padre, quella bella espressione: « sembrava
che vedesse l'invisibile » (art. 49). È proprio vero; sembrava
che lo vedesse. I grandi atteggiamenti della fede permeavano
tutto il suo essere .
Leggiamo alcune frasi che Don Bosco vede scritte, nel sogno,
sui raggi del primo diamante: « Imbracciate lo scudo della
fede affinché possiate lottare contro le insidie del demonio » .
Ecco una conseguenza pratica e di spessore storico dell'inten-
sità di fede vissuta da Don Bosco . Vi si percepisce immediata-
mente quel « senso del coraggio » di cui parlava san Paolo: lo
scudo della fede!
E poi su un altro raggio l'affermazione di san Giacomo: « La
fede senza le opere è morta ». Precisamente: la dimensione
contemplativa di Don Bosco si è tradotta sempre in operosità
salvifica.
Sullo stesso raggio leggiamo ancora: « Non chi ascolta, ma
chi pratica la legge possederà il regno di Dio » . Se scorriamo
le Memorie Biografiche possiamo trovare tante prove per illu-
strare queste parole. Io ve ne leggerò solo due o tre, come
commento pratico.
Un giorno don Dalmazzo andò da Don Bosco: « ... Al ve-
dere che ella ha compiuto tante cose straordinarie... sicché lo
chiamano un santo, che cosa deve dire di se stesso? ... Don
Bosco, raccoltosi un istante e alzati gli occhi al cielo, rispose:
Io credo che se il Signore avesse trovato uno strumento più
vile, più debole di me, si sarebbe servito di questo per com-
piere le sue opere » (MB 18,587). Qui non si tratta di sotto-
lineare un evidente senso di umiltà in Don Bosco nella con-
siderazione di se stesso, ma di mettere in evidenza la sua fede
o il suo senso della presenza di Dio nella sua vita. Sappiamo
62

7.5 Page 65

▲back to top
che Don Bosco aveva straordinarie qualità umane; Pio XI ha
affermato di lui che in qualunque campo sarebbe risultato un
grande. Nella risposta data a don Dalmazzo Don Bosco vuol
sottolineare oggettivamente che egli ha sperimentato nella sua
vita una forza di Dio e che, accettandola, chiunque sarebbe
andato avanti, nonostante le proprie personali incapacità. In-
fatti, nel 1886, Don Bosco stesso disse un giorno a don Ma-
renco: « Se io avessi avuto cento volte più fede , avrei fatto
cento volte più di quello che ho fatto» (MB 18,587). Anche
qui, non c'è tanto da guardare all'umiltà di Don Bosco, quanto
alla sua fede. Egli afferma ciò che sente come verità e la sua
costatazione è oggettivamente verissima. Don Bosco, qui, non
si dedica a parlar male di sé, ma a parlare bene di Dio! Ci
mostra così la robustezza della sua fede, sperimentata in prima
persona, guardando a se stesso.
Un'altra volta un buon . sacerdote raccomanda a Don Bosco
un collega prete, bisognoso d'aiuto spirituale, chiedendogli di
pregare per lui. Don Bosco evidentemente promette di farlo,
però soggiunge: Gli dica che, oltre a far pregare gli altri, si
dedichi a pregare anche lui perché « la fede è quella che fa
tutto » (MB 10,90). Non cito questa affermazione per caso; se
ne potrebbero trovare in proposito altre mille. Vorrei che ser-
visse per far vedere come Don Bosco è convinto che la fede
comporta una coscienza chiara che c'è Dio nella vita e che
è Lui che fa tutto, nell'ambito della crescita del suo Regno,
evidentemente.
Nelle difficoltà Don Bosco soleva dire ad alcuni dei suoi,
sfiduciati da tanti ostacoli e persecuzioni: « Non dubitiamo
di nulla » (noi oggi crediamo di vivere nei tempi più difficili
del mondo, però quelli di Don Bosco non erano meno difficili;
il cambio culturale che stiamo vivendo noi è incominciato al-
lora). « Io ho sperimentato - continua Don Bosco - che
quanto più mancano gli appoggi umani, tanto più Dio vi mette
del suo» (MB 7,319).
Altre volte diceva: « In mezzo alle prove più dure ci vuole
una grande fede in Dio ». Spessissimo usciva in questa invo-
cazione: « Se l'opera è vostra, Signore, voi la sosterrete; se
l'opera è mia sono contento che cada» (MB 7,319).
63

7.6 Page 66

▲back to top
3.7. L'ORIZZONTE CONGLOBANTE
.DELLA FEDE CRISTIANA
Ciò che io credo più interessante in Don Bosco, come in
ogni vero credente, è lo sguardo globale della sua fede. È
proprio questo un aspetto intrinseco alla fede cristiana, che le
dà un orizzonte di visione globale, non imprigionato in un
tassello, ma con l'ottica unitiva e sintetica dell'intero mosaico
della vita e della storia.
La fede di per comporta sempre uno sguardo d'insieme.
In Don Bosco lo si percepisce in una forma molto chiara . Egli
vede Dio come un tutto presente nella storia, illuminata dal
progetto salvifico del Padre, con il mistero di Cristo al centro,
con la bella notizia del suo Vangelo: la nuova creazione della
risurrezione e la sicurezza della parusia (nell'ottica dell'affer-
mazione di san Giovanni, 1 Gv 5,4: « Questa è la vittoria che
vince il mondo: la vostra fede »!) e con la presenza potente
e santificante dello Spirito Santo. Ciò Jmprime nell'atteggia-
mento di fede due caratteristiche molto importanti per la vita-
lità dello spirito salesiano di Don Bosco: fa nascere cioè nel
cuore un senso vivo di « gratitudine » e anche di « ottimismo ».
Innanzitutto, un senso vivo di « gratitudine» che si esprime
massimamente nell'Eucaristia; anzi, fa che la persona stessa
divenga « eucaristia ». Non è facile essere eucaristia, ossia rin-
graziare, nutrire in cuore un'abbondante gratitudine di figli
perché si è percepito tutto il bene che c'è nel mondo e nella
propria esistenza. Domandate a un marxista se ha gratitudine.
Quando si dedica a fare l'analisi critica della società, gli sembra
di scoprire la preponderanza del male con tale settorialismo
che alla fine non può se non maledire i colpevoli e promuovere
la lotta di classe; si sente l'unico vero protagonista della giu-
stizia .
Questa atmosfera temporalista dell'uomo-prometeo si è in-
filtrata purtroppo nel clima culturale di oggi e quindi anche in
tanti cristiani. A volte mi domando come si possa partecipare
vitalmente alla Messa con questa mentalità; l'Eucaristia, in-
fatti, come dice la sua stessa significazione greca, è gratitudine,
è ringraziamento. E il marxista di che cosa e a chi può essere
grato?
64

7.7 Page 67

▲back to top
Allora bisogna scoprire non solo il male, ma anche qualche
cos'altro, ossia soprattutto il bene! Non dico che non ci siano
ingiustizie, ma bisogna essere capaci di perforare la realtà con
il raggio della fede. Il credente sente profondamente di essere
figlio; scopre che Dio è Padre, e non semplicemente con una
affermazione astratta, ma nel concreto della vita di tutti i
giorni. Lo scopriva nella sua povertà Mamma Margherita, la
quale, essendole morto il marito, non sapeva come andare
avanti; eppure, indicando le stelle, diceva ai suoi figli: « Guar-
date che belle cose ha fatto il Signore! ».
Mi ha colpito uno degli ultimi scritti di Papini quando,
mezzo cieco, ringraziava il Signore per tutto quello che ancora
vedeva . È bello! E uno spirito di fede, di gratitudine. Un altro
avrebbe potuto imprecare per l'indebolimento tanto grave della
vista; lui, invece, ringraziava!
Il senso di gratitudine è frutto dell'ampia visione globale della
fede: non si guarda solo a un tassello nero, ma alla policromia
artistica di tutto il mosaico! Coltivare nel cuore sentimenti di
riconoscenza è un esercizio che dobbiamo saper fare. Ho cono-
sciuto un architetto argentino, passato dal marxismo allçi fede,
il quale affermava che nel cristianesimo la caratteristica più
significativa e attraente per lui era stata la gratitudine. Come
marxista non era capace di pensare verso chi e per cosa si
potesse avere gratitudine. Poi, a poco a poco, ha capito che
Iddio è impegnato veramente nella storia; che la Bibbia lo
chiama « Colui che viene»; che l'escatologia di Cristo è una
energia storica che tutto abbraccia e fermenta, che non si tratta
di un'alienazione dal presente in un futuro utopico, bensì di
una proiezione della forza della risurrezione. Così ha capito che
Cristo è il futuro di Dio nella storia!
Un altro frutto della visione globale della fede è l'« ottimi-
smo ». Non si tratta di ingenuità, né di superficialità; non si-
gnifica assenza di percezione delle difficoltà e delle ingiustizie.
Noi « superiori » che vediamo come « i nodi arrivano al pet-
tine », ci rendiamo conto ogni giorno che le difficoltà sono
grosse, che i problemi sono intricati e che c'è tanto da soffrire.
L'ottimismo di cui parliamo non trasporta il credente in un
limbo, ma lo allontana dai piccoli tasselli neri per fargli per-
65

7.8 Page 68

▲back to top
cepire la bellezza di tutto il mosaico. Quando io mi sento schiac-
ciato da qualche problema, sapete qual è l'espressione che mi
viene più spontaneamente sulle labbra? È l'« adiutorium no-
strum »: « Il nostro aiuto è nel nome del Signore», con la
preziosissima costatazione che lo segue: « il Quale ha fatto il
cielo e la terra ». Diamine! mi dico, se ha fatto il cielo e la
terra farà pure qualche altra cosa, no? Non tanto per tirar
fuori me dai pasticci, ma perché gli stessi pasticci sono al di
dentro di una grande vittoria! I pasticci sono dei tasselli; la
vittoria è raffigurata nel magnifico mosaico.
Questi due forti sentimenti derivati dalla fede (« gratitudi-
ne » e « ottimismo ») brillano nel cuore di Don Bosco e sono
caratteristiche visibili del suo spirito salesiano, che lo rendono
assai simpatico, soprattutto ai giovani . Sappiamo come egli edu-
cava i ragazzi alla gratitudine e alla riconoscenza: ne faceva
una festa! Si può avere fede con la faccia grave e magari acci-
gliata .. . L'espressione salesiana della fede non è così. San Fran-
cesco di Sales diceva: « Se una persona ha 99 difetti e una
virtù, noi guardiamo la virtù»; troviamo sempre qualcosa per
sorridere e ringraziare, convinti della maggior forza storica del
bene, anche se apparisse piccolo come un seme. Il nostro spirito
è l'opposto della mentalità atea di oggi che cerca tutte le cose
da condannare e da odiare. Non è che non ce ne siano, ma è
proprio del nostro spirito essere alimentato da una fede che
trova giornalmente elementi concreti per ringraziare Dio Padre.
La gratitudine!
Una fede, inoltre, che guarda i problemi, le difficoltà, le si-
tuazioni con una visione globale tale che, anche quando non
si sa più èome fare e ci si sente oppressi da un grave peso, si
vede che più in là c'è una luce, c'è una vittoria, c'è l'aiuto di
Colui che « crea il cielo e la terra ».
Ecco come deve brillare sul petto del Salesiano il diamante
della fede. Qui si incomincia a percepire la simpatia del nostro
spirito; un volto che presenta al mondo dei lineamenti attraenti;
una vocazione ·che soddisfa. Chi ci osserva deve poter pensare:
questa è una persona realizzata, non amareggiata, ha un cuore
contento, ha scoperto il senso della vita, sente di essere impor-
tante nella storia, conosce il suo compito di piccolo protago-
66

7.9 Page 69

▲back to top
nista chiamato a collaborare con il grande Protagonista divino
della storia; un cuore convinto che Dio non è alternativa al-
l'uomo, ma è il suo aiuto e la sua esaltazione.
3.8. MARIA: COLEI CHE HA CREDUTO!
Non si può concludere questa riflessione sul diamante della
fede senza aggiungere ancora un'osservazione: la Chiesa vede
l'atteggiamento di fede più alto e più attraente nella persona
di Maria. La Sacra Scrittura la definisce: « Beata te, che hai
creduto! ». Don Bosco contemplava sovente la profondità e la
bellezza della fede di Maria. Come è affascinante, sublime e
semplice insieme, l'atteggiamento credente della Madonna!
Quanta profondità di ascolto e quale concretezza di contem-
plazione; come splende in lei la coscienza della sua filiazione
e la meraviglia per la nuova creazione sbocciata nel suo seno;
che fortezza e che coraggio nonostante la sua piccolezza; quanto
eccelso il suo sguardo globale e sintetico sulla storia umana;
quali espressioni di gratitudine e di ottimismo sgorgano dal
suo cuore!
Ripensate al « Magnificat »: quando lo canterete cercate di
assaporarne gli immensi contenuti di fede. Davvero Maria è
per antonomasia « Colei che ha creduto »! .
E la Madonna non è solo il perfetto modello del credente;
essa stessa entra a far parte del mistero contemplato dalla nostra
fede, perché su di essa si rifrange la pienezza del Cristo. E
in questo senso Maria è davvero per antonomasia l'« Ausilia-
trice »!
E così possiamo concludere on una bella affermazione ma-
riana di Don Bosco, tanto espressiva della sua fede: « Solo in
cielo potremo, stupefatti, conoscere ciò che ha fatto Maria
Santissima per noi» (MB 10,1078).
. 67

7.10 Page 70

▲back to top
4
SECONDO DIAMANTE
LA SPERANZA
Stiamo riflettendo sullo spirito salesiano di Don Bosco, in-
cominciando dalla considerazione dei tre diamanti (la triade in-
separabile della vita teologale) collocati sul petto del Perso-
naggio del sogno. Ora guardiamo al diamante della « Speran-
za ». Procedendo nella riflessione, ci accorgeremo come andrà
aumentando progressivamente la simpatia del volto salesiano.
La speranza è stata vissuta da Don Bosco in maniera assai
intensa. Dopo alcune riflessioni sull'atteggiamento cristiano della
speranza, ci intratterremo brevemente su alcune caratteristiche
salesiane dedotte dal « come » la visse Don Bosco.
Nell'art. 29 delle vostre Costituzioni (1975), letto ieri, c'è
anche un riferimento alla speranza così espresso: « Associate
al mistero pasquale di morte e risurrezione, e sapendo che "le
sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla
gloria futura che dovrà essere rivelata in noi ", attendiamo il
ritorno del Signore lavorando con ottimismo e sollecitudine alla
costruzione della città presente, in modo da renderla prefigu-
razione della Gerusalemme celeste » .
4.1. INTIMA UNIONE E AFFINITÀ
TRA « FEDE » E « SPERANZA »
La prima cosa da osservare è che tra fede e speranza c'è
affinità e intima unione. La triade che « rimane » - fede, spe-
ranza e carità - , come abbiamo visto, esprime aspetti diffe-
renti di un unico dinamismo dello Spirito Santo nel cuore del
cristiano. Non esiste pienamente l'una senza l'altra; quindi, vi-
68

8 Pages 71-80

▲back to top

8.1 Page 71

▲back to top
tale interscambio tra fede e speranza. I pagani sono definiti da
san Paolo come « Coloro che non hanno speranza »! La ragione
che egli dà è appunto perché« non credono». È una costatazione
reversibile: chi crede, vive nella speranza; e chi spera, vive
di fede!
Voi conoscete quella famosa frase di san Giacomo riferita
ai demoni: « Credono, ma tremano» . Quel loro credere non è
fede-ascolto-fiducia, bensì una certa conoscenza del mistero di
Dio che li spinge a ribellarsi e a tremare.
La speranza, come la fede, viene dall'alto. È frutto dell'ina-
bitazione dello Spirito Santo; non è una realtà semplicemente
umana. Lo ricorda san Paolo scrivendo ai Romani: un'epistola
un po' difficile, ma ricchissima a questo proposito. « Dio che
dà speranza - esclama l'Apostolo -, ricolmi voi che credete
di gioia e di pace, e per mezzo dello Spirito Santo accresca la
vostra speranza» (Rm 15,13).
Non basta, dunque, riflettere su questo atteggiamento spiri-
tuale con le categorie della speranza umana. È dono che viene
dall'alto e proietta la fede oltre se stessa. « Sperare » non è
semplicemente «credere»; è qualcosa di più, che ne integra la
vitalità.
Nella contemplazione dei grandi eventi del mistero di Cristo,
il credente mette in rilievo - con la speranza - il capovolgi-
mento radicale operato dalla risurrezione come « inizio » della
nuova creazione che deve crescere e coinvolgere tutti. L'obbe-
dienza della fede e la gioia della filiazione si traducono in un
impegno operativo di « sequela del Cristo » e di partecipazione
attiva alla sua « missione salvifica », in attesa e preparazione
della vittoria finale. L'immersione nella risurrezione di Cristo
s'inizia con il Battesimo, ma la sua pienezza apparirà solo nel
giorno della Parusia del Signore.
Per la speranza il credente si sente coinvolto responsabilmente
nel disegno storico della salvezza, dove c'è da impegnarsi molto
per attendere e preparare la Parusia. Qualcosa c'è già, ma qual-
cosa manca ancora; e allora si aspetta, si desidera e si lavora
per arrivare alla pienezza.
La speranza vive intimamente unita a quell'obbedienza di
fede (da non confondersi semplicemente con il voto di obbe-
dienza a un superiore religfoso), che è docilità a tutto il piano
69

8.2 Page 72

▲back to top
di Dio, centrato nell'immane m1ss10ne salvifica di Gesù Cristo.
Una missione nella storia e per la storia, ma che tende a far
che l'umanità sia capace di trascendere la storia stessa. Tale
trascendenza si chiama « salvezza » o « santificazione », e si
traduce in un duplice impegno operativo: uno legato alla cre-
scita personale nella novità del Battesimo, la « sequela del Cri-
sto » o la propria santificazione; l'altro in rapporto all'uma-
nità vista come prossimo, la « missione salvifica » o redenzione
o liberazione integrale dell'uomo. In entrambi, qualcosa c'è già,
ma rimane ancora molto da impegnarsi per raggiungere una
maggiore pienezza.
4.2. IL « GIÀ » E IL « NON-ANCORA »
Dunque: il coinvolgimento radicale nella risurrezione di
Cristo si « già », ma la sua pienezza « non-ancora ». Il di-
venire della storia esige nel cristiano i grandi impegni della
speranza.
Rifacciamoci a san Paolo, sempre nell'epistola ai Romani.
Nel capitolo 4 l'Apostolo ci parla di Abramo descrivendoci il
segreto della sua grandezza: « Abramo credette, sperando contro
ogni speranza» (4,18). Varie traduzioni cambiano un po' la
frase perché si presenta a prima vista difficile; ma è interes-
sante appunto perché difficile e richiede così più impegno per
capirla.
« Abramo credette ». San Paolo perciò presenta Abramo come
il padre nella fede , in un tempo in cui imperava la legge; e
sottolinea: non è la legge che l'ha fatto padre dei credenti
la circoncisione, ma la « promessa ». La fede in una promessa
che sembrava utopica, impossibile: lui di cento anni, la sua
sposa sterile, eppure sarebbe divenuto padre di molti popoli.
Poi, come se non bastasse, doveva sacrificare il suo figlio unico.
Così si capisce la densità dell'affermazione: « Abramo credette » .
Una fede così forte che lo portò a « sperare » contro ogni
speranza.
Quando san Paolo dice: « sperando », vuol significare la
speranza che segue alla fede, ossia un dono soprannaturale dello
Spirito Santo che coinvolge Abramo con sicura prospettiva nel
70

8.3 Page 73

▲back to top
piano di Dio. Aggiunge poi: « contro ogni speranza», volendo
indicare la speranza del prossimo futuro in senso umano, con
le previsioni normali legate alla fecondità biologica sua e della
sposa; infatti non poteva calcolare e prevedere di avere molti
figli, e che questi figli potessero generare a loro volta numerosi
discendenti .
Il caso di Abramo ci fa capire bene l'altezza della speranza
soprannaturale e il suo legame con la fede. Forse vale la pena
di leggere ancora qualche versetto della lettera ai Romani, anche
per invogliarvi a leggerne tutto il capitolo. « Dio promise ad
Abramo che i suoi discendenti avrebbero avuto in eredità il
mondo intero. Questa promessa fu fatta non perché Abramo
avesse obbedito alla legge, ma perché Dio l'aveva considerato
giusto a motivo della sua fede» (4,13) . Anche qui - notia-
mo - le opere della legge non giustificano. E prosegue: « Se
gli eredi fossero quelli che ubbidiscono alla legge di Mosè, la
fede diventerebbe inutile e la promessa di Dio non avrebbe più
alcun senso. La legge infatti provoca la collera di Dio, ma
dove non c'è nessuna legge non ci può essere nemmeno una
disubbidienza . Quindi, si diventa eredi della promessa di Dio
perché si ha la fede. L'eredità è data per grazia. Solo così la
promessa è sicura per tutti i discendenti di Abramo. [ ... ] Egli
è nostro Padre dinanzi a Dio perché ha creduto in Colui che
fa vivere i morti e chiama all'esistenza le cose che ancora non
esistono. Al di là di ogni umana speranza, egli credette che
sarebbe diventato padre di molti popoli, perché Dio gli aveva
detto: "Tale sarà la tua discendenza" . Abramo aveva allora
circa cent'anni e si rendeva conto che il suo corpo e quello di
Sara erano come morti, cioè ormai incapaci di avere figli. Ep-
pure continuò a credere. Egli non dubitò minimamente della
promessa di Dio, anzi rimase forte nella fede e .diede gloria a
Dio. Egli era pienamente convinto che Dio era in grado di
mantenere ciò che aveva promesso» (4,14-21).
Dunque la speranza fonda la sua sicurezza sulla fede, così.
che non si può avere speranza se non c'è una fede chiara, pro-
fonda. Con l'aiuto della fede percepisce la grandezza e la po-
tenza di un « già », che però è largamente aperto a un « non-
ancora ».
Che cos'è questo « già »? E, in definitiva, l'evento della n-
71

8.4 Page 74

▲back to top
surrezione di Cristo, la Pasqua, la Pentecoste, la realtà della
Chiesa, il mio Battesimo. Tutto questo c'è « già », però ha bi-
sogno di una fede che lo contempli continuamente e capisca
che per me e per i miei contemporanei questo già è a maniera
di seme, che dovrà sbocciare e crescere nel tempo. 1
Ecco: la speranza ha bisogno di una visione di fede dei con-
tenuti divini del « già » . Però non è speranza se a questo non
aggiunge la prospettiva e l'impegno del « non-ancora ». Ma qual
è l'orizzonte vero del « non-ancora »? Manca qualcosa d'impor-
tante; la realizzazione totale della promessa è ancora aperta.
Quel « non » ha bisogno di una spiegazione. A che cosa si ri-
ferisce? Il« non » indica limitatezza, mancanza, negazione, male;
la sua espressione massima è la morte; e la storia ci mostra che
essa domina ancora il tempo. Quanto male, quante privazioni,
quante difficoltà, quanta morte c'è ancora nonostante la risur-
rezione di Cristo. La speranza, con il suo « non-ancora » tende
a trascendere il tempo. A volte noi confondiamo questo « non-
ancora » con il concetto di futuro storico e lo identifichiamo
semplicemente con un « dopo » nel tempo, quello che succe-
derà domani, dopodomani, fra dieci anni, fra cento... ma è
sempre nel tempo. La speranza invece ci fa guardare al futuro
assoluto, ci obbliga a un salto di qualità. Ci fa vedere più in
là del « dopo » o, se volete, « più in su » . Di fatto il « non-
ancora » della speranza è inseparabile dal suo « già », vi è
dentro come la vitalità nel seme. Quindi non viene propria-
mente e solo « dopo », ma cresce « dal di dentro ». Così è
l'escatologia cristiana: la realtà storica ne è pregna, ma in
prospettiva di trascendenza. La risurrezione di Cristo è motore
interno anche al futuro storico, non per portare il tempo ad
essere eternità, ma per costruire nel tempo gli elementi della
nostra vita definitiva nel Cristo risorto.
Forse risulta un po' difficile, ma è certamente assai interes-
sante. Qui scopriamo la segreta bellezza della speranza cri-
stiana. Proviamo a spiegarci con un esempio . Supponiamo, per
assurdo, che la medicina arrivasse a inventare una vittoria bio-
logica sulla morte. Assomiglierebbe la sua conquista a ciò che
costituisce la meta definitiva a cui tende la speranza? Tutto
« già » senza nessun « non-ancora », la piena sconfitta della
morte? Assolutamente no! L'oggetto della speranza cristiana
72

8.5 Page 75

▲back to top
non è di ordine biologico, non è neppure un miracolo come
quello della risurrezione di Lazzaro; ma è un mistero, quello
di dare una vita nuova, la vita di Dio a tutti i credenti di
ogni tempo. Supponiamo che la medicina scopra quell'impos-
sibile farmaco prodigioso: avrà risolto davvero il problema della
morte? Ma, e quelli che sono già morti? Quante generazioni
in tanti secoli! E loro? E poi, si tratterebbe solo di una vita
biologica, a cui non si toglierebbero i malanni, anzi se ne ac-
cumulerebbero mille altri peggiori.
La speranza cristiana è la salvezza di tutti i credenti da
Abramo in poi. E la medicina questo non lo potrà mai fare!
Nel concetto biblico di morte va incluso, poi, il peccato con
tutte le sue conseguenze, le ingiustizie, i danni morali, le man-
chevolezze, le deficienze. Contro tutto ciò si muove imperter-
rita la speranza cristiana, sicura di superare nel Cristo ogni
«non».
Ma poi nel « non-ancora » non c'è solo la morte, il male,
ma anche l'esigenza di crescita nella durata del tempo: un
bambino non è ancora un uomo, un seme non è ancora un
frutto, un progetto di vocazione cristiana non è ancora la san-
tità. C'è dunque anche un « non-ancora » che ha bisogno di
cura, di pedagogia, di crescita.
Su tutto questo grande orizzonte s'affaccia la speranza come
dinamismo di vittori:a che procede dalla potenza dello Spirito
Santo. Nel grande giorno della parusia del Signore tutte le cose
saranno « liberate dal potere della corruzione per partecipare
alla libertà dei figli di Dio », come dice san Paolo: « E non
soltanto il creato, ma anche noi, che già abbiamo le primizie
dello Spirito, soffriamo in noi stessi perché aspettiamo che Dio,
liberandoci totalmente, manifesti che siamo suoi figli. Perché
è vero che siamo salvati, ma soltanto nella speranza. E se ciò
che si spera si vede, non c'è più speranza: evidentemente nes-
suno spera in ciò che già vede. Sé invece speriamo in ciò che
non vediamo ancora, lo aspettiamo con pazienza» (Rm 8,21-25).
Questa è una prospettiva che entusiasma. La speranza cri-
stiana infonde mistica! Non dimentichiamolo: i santi sono vis-
suti in questo clima; Don Bosco ha fondato la sua santificazione
e il suo apostolato sulla piattaforma della speranza.
È indispensabile partire da essa per capire che, in definitiva,
73

8.6 Page 76

▲back to top
le aspettative umane del futuro storico, dei progetti politici, dei
calcoli e delle pianificazioni, sono tutte subordinate e secon-
darie, non perché siano da disprezzare, ma perché esse stesse
hanno bisogno di essere sorrette dalla speranza infusa in noi
dallo Spirito del Signore. Come ci assicura san Paolo: « Poiché
il Cristo che vi ho annunziato è diventato il solido fondamento
della vostra vita, non vi manca nessuno dei doni di Dio, mentre
aspettate il ritorno di Gesù Cristo, nostro Signore. Dio vi man-
terrà saldi fino alla fine e così nessuno vi potrà accusare quando
nel giorno del giudizio verrà Gesù Cristo, nostro Signore . Dio
stesso vi ha chiamati a partecipare alla vita di Gesù Cristo,
suo figlio e nostro Signore, e Dio mantiene le sue promesse »
(1 Cor 1,6-7; cf 15,50-56).
Tra i primi ascoltatori di Paolo, i Tessalonicesi si entusiasma-
rono tanto con queste affermazioni che smisero di lavorare. Ma
l'Apostolo li riprese; questa non è una conclusione della spe-
ranza, anzi è il rovescio. La speranza cristiana dà impulso al-
l 'operosità .
4.3. « IN SPERANZA NOI SIAMO STATI SALVATI»
(Rm 8,24)
Questa affermazione di san Paolo, mentre è fonte di gioia,
esige impegn~ seri e concreti. Perché « è vero che siamo sal-
vati »: c'è effettivamente un grosso « già » per la nostra sal-
vezza. Ma siamo salvati « soltanto nella speranza»: ossia, la
nostra salvezza è aperta a un « non-ancora » che esige operosa
e costante dedizione.
Parlando della salvezza, l'Apostolo la riferisce a « noi ». Che
significa questo « noi »? È molto chiara la risposta; si riferisce
alla salvezza di tutti i credenti: io e il prossimo. Io: quindi
<< salvezza personale »; e poi il prossimo, tutta l'umanità : quindi
« salvezza universale ». Così la speranza ci interpella forte-
mente su due versanti: quello della nostra santificazione per-
sonale nella « sequela del Signore »; e quello della salvezza del
mondo nella partecipazione alla missione salvifica di Cristo e
della sua Chiesa.
Così per la speranza siamo salvati « già » e « non-ancora»;
74

8.7 Page 77

▲back to top
perciò ci dobbiamo impegnare con Cristo (« Colui che viene »,
che è già nel tempo, ma che aspettiamo trionfante nella Paru-
sia) a santificare noi stessi, me, la mia persona, e a salvare
gli altri. .Quindi: « sequela » e « missione ». Il « non-ancora »
della sequela Io maturiamo con la ricerca e lo sforzo della san-
tità personale nel progetto evangelico della nostra vita religiosa.
Il « non-ancora » della missione Io maturiamo nell'impegno apo-
stolico caratterizzato dal dono di predilezione verso la gioventù.
L'aspettativa della speranza non è quella del turista che, se-
duto in stazione, attende l'arrivo del « Settebello ». È piutto-
sto l'intensa operosità di preparazione di chi vuole accogliere
adeguatamente l'arrivo del suo grande Re e Signore. Così la
speranza cristiana manifesta l'alacre certezza del credente nel
superare il « non-ancora » della storia con l'incontenibile po-
tenza dello Spirito Santo.
4.4. DON BOSCO, GIGANTE DELLA SPERANZA
Don Bosco è stato uno dei grandi della speranza. Ci sono
tanti elementi per dimostrarlo; io non mi fermo su questo. Il
suo spirito salesiano è tutto permeato delle certezze e dell'ope-
rosità così caratteristiche di questo dinamismo audace di Spirito
Santo.
Soffermiamoci a ricordare brevemente come abbia saputo
tradurre nella sua vita l'energia della speranza sui due ver-
santi dell'impegno per la santificazione personale e della mis-
sione di salvezza per gli altri; anzi - e qui risiede una carat-
teristica centrale del suo spirito - la santificazione personale
attraverso la salvezza degli altri.
Ricordate la famosa formula delle tre « S »: « Salve, sal-
vando salvati ». Sembra un gioco mnemonico detto così sem-
plicemente, a modo di slogan pedagogico, ma è profondo e
indica come i due versanti della santificazione personale e della
salvezza del prossimo siano strettamente legati tra loro.
Nella «Strenna» di quest'anno (« Lavoro e Temperanza»,
stemma salesiano), si percepisce che la speranza è stata vissuta
da Don Bosco come progettazione pratica e quotidiana di
un'instancabile operosità di santificazione e di salvezza. La sua
75

8.8 Page 78

▲back to top
fede lo porta a prediligere, nella contemplazione del mistero di
Dio, il suo ineffabile disegno di salvezza. Vede nel Cristo il
Salvatore dell'uomo e il Signore della storia; nella sua Madre,
Maria, l'Ausiliatrice dei cristiani; nella Chiesa, il grande Sacra-
mento della salvezza; nella propria maturazione cristiana e nella
gioventù bisognosa, il vasto campo del « non-ancora ». Perciò
il suo cuore erompe nel grido: « Da mihi animas », Signore
concedimi di salvare la gioventù e toglimi pure il resto! La se-
quela del Cristo e la missione giovanile si fondono, nel suo
spirito, in un unico dinamismo teologale che costituisce la
struttura portante del tutto.
Ma per comprenderlo meglio, individuiamo prima alcuni
aspetti inerenti alla speranza.
4.5. ELEMENTI COSTITUTIVI DELLA SPERANZA
Quali elementi propri possiamo individuare nella speranza
cristiana per capire meglio lo spirito di Don Bosco? Ne ricordo
tre, che considero costitutivi; su di essi matureranno i frutti
che abbelliscono, come vedremo, il nostro spirito salesiano.
La certezza del « già »
Quando noi domandiamo alla teologia qual è l'oggetto for-
male della speranza, ci risponde che è l'intima convinzione
della presenza di Dio « che aiuta », che soccorre e assiste; la
certezza interiore circa la « potenza dello Spirito Santo »; l'ami-
cizia con Cristo vittorioso: « omnia possum in Eo ».
Il primo elemento costitutivo della speranza è, dunque, la
certezza del « già » . La speranza stimola la fede a esercitarsi
nella considerazione della presenza salvatrice di Dio nelle vi-
cissitudini umane, della potenza dello Spirito nella Chiesa e
nel mondo, della regalità di Cristo sulla storia, dei valori bat-
tesimali che in noi hanno iniziato la vita della risurrezione.
Bisogna avere viva nell'animo una tale percezione dell'avven-
tura di Dio nel tempo e della sua s.pecifica volontà di aiuto,
che porti la nostra coscienza a esprimersi spontaneamente e
76

8.9 Page 79

▲back to top
audacemente con l'esclamazione dell'Apostolo: « Io posso tutto
in Colui che mi dà forza»! (Fil 4,13).
Il primo elemento costitutivo della speranza è, perciò, un
esercizio della fede sui contenuti del « già », sull'essenza di
Dio come Padre misericordioso e salvatore, su ciò che ha già
fatto Gesù Cristo per noi, sulla Pentecoste come inizio del-
l'epoca dello Spirito Santo, su ciò che c'è già dentro di noi
per il Battesimo, per i sacramenti, per la vita nella Chiesa,
per l'appello personale della nostra vocazione.
Occorre riflettere che fede e speranza si interscambiano in
noi i loro dinamismi, si stimolano e si completano a vicenda
e ci fanno vivere nel clima creativo e trascendente della po-
tenza dello Spirito Santo.
Chiara coscienza del « non-ancora »
Il secondo elemento costitutivo della speranza è la coscienza
del « non-ancora ». Non sembra molto difficile averla; però la
speranza esige una chiara coscienza non tanto di ciò che è male
e ingiusto, quanto di ciò « che manca » alla statura di Cristo
nel tempo, e, quindi, di ciò che è ingiusto e peccato e anche
di ciò che è immaturo, parziale o rachitico nella costruzione
del Regno.
Ciò suppone, come quadro di riferimento, una chiara cono-
scenza del progetto divino di salvezza, su cui s'innesta la ca-
pacità critica e di discernimento da parte di colui che spera.
Così la critica dell'uomo di speranza non è semplicemente psi-
cologica o sociologica, ma trascendente, secondo l'orbita teolo-
gale della « nuova creatura »; si serve anche degli apporti delle
scienze umane, ma le oltrepassa di gran lunga .
Con la coscienza del « non-ancora », chi spera percepisce
ciò che è male, ciò che non è ancora maturo, ciò che è seme
in ordine al Regno di Dio, e s'impegna per far crescere il bene
e per combattere il peccato con la prospettiva storica di Cristo.
La capacità di discernimento del « non-ancora » è misurata
sempre dalla certezza del « già ». Quindi anche, e direi soprat-
tutto, nei tempi difficili, chi spera spinge e stimola la sua fede
a scoprire i segni della presenza di Dio e le mediazioni che
ci guidano nell'orbita da Lui tracciata. B questa una qualità
77

8.10 Page 80

▲back to top
I
molto importante oggi: saper individuare i semi per aiutarli
a schiudersi e a crescere.
Come si fa a sperare se non c'è questa capacità di discerni-
mento? Non basta saper percepire tutto il peso del male, bisogna
essere sensibili anche alla primavera « che brilla d'intorno » .
Quindi in questi tempi, che noi diciamo difficili (e lo sono
realmente, paragonandoli con quelli che abbiamo vissuto prima
di una certa tranquillità), la speranza ci aiuta a percepire che
c'è anche tanto bene nel mondo e che qualcosa sta crescendo.
Ricordate quel proverbio cinese assai espressivo: « Fa più
rumore un albero che cade che non una foresta che cresce »!
Operosità salvifica
Un terzo elemento costitutivo della speranza è la sua esi-
genza operativa accompagnata dall'impegno concreto di santi-
ficazione, di inventiva e di sacrificio apostolici. Bisogna colla-
borare con il « già » in crescita, urge muoversi per lottare contro
il male in noi e negli altri, soprattutto nella gioventù bisognosa.
Il discernimento del « già » e del « non-ancora » ha bisogno
di tradursi nella pratica della vita aprendosi ai propositi, ai
progetti, alla revisione, all'inventiva, alla pazienza, alla co-
stanza. Non tutto risulterà « come speravamo»; ci saranno degli
insuccessi, dei contrattempi, delle cadute, delle incomprensioni.
La speranza cristiana partecipa connaturalmente anche alle oscu-
rità della fede.
4.6. ALCUNI FRUTTI DELLA SPERANZA
Dai tre elementi costitutivi della speranza, che ho appena
indicati, derivano alcuni « frutti » particolarmente significativi
per lo spirito salesiano di Don Bosco.
" Dal primo elemento costitutivo - la certezza del « già » -
deriva come frutto più caratteristico la gioia. Ogni vera spe-
ranza esplode in gioia. ·
Rileggete l'Esortazione apostolica di Paolo VI sulla gioia,
quale componente di un atteggiamento autenticamente cristiano.
Lo spirito salesiano assume la gioia della speranza per una
78

9 Pages 81-90

▲back to top

9.1 Page 81

▲back to top
affinità tutta propria. Persino la biologia ce ne suggerisce qualche
esempio. La gioventù che è speranza umana (e quindi suggerisce
una certa analogia con il mistero della speranza cristiana),
è avida di gioia. E noi vediamo Don Bosco tradurre la spe-
ranza in un clima di gioia appunto per la gioventù da salvare.
Domenico Savio, cresciuto alla sua scuola, diceva: « Noi fac-
ciamo consistere la santità nello stare sempre allegri ». Non
si tratta di un'ilarità superficiale propria del mondo, ma di un
gaudio interiore, di un substrato di vittoria cristiana, di una
sintonia vitale con la speranza, che esplode in allegria. Una
gioia che procede, in definitiva, dalle profondità della fede e
delia speranza.
C'è poco da fare. Se siamo tristi è perché siamo superficiali.
Capisco che c'è una tristezza cristiana: Gesù Cristo l'ha vis-
suta. Nel Getsemani la sua anima si è rattristata fino alla morte,
ha sudato sangue. Si tratta certamente di un altro tipo di tri-
stezza.
Però, l'afflizione o la malinconia per cui una suora ha l'im-
pressione di non essere capita da nessuno, che le altre non la
prendano in considerazione, che abbiano invidia o incompren-
sione delle sue qualità, ecc., è una tristezza che non si deve
alimentare. A questa bisogna contrapporre la profondità della
speranza: Dio è con me e mi vuole bene; che importa che
altri non mi considerino tanto?
La gioia, nello spirito salesiano, è clima quotidiano; deriva
da una fede che spera e da una speranza che crede, ossia da
quel dinamismo di Spirito Santo che in noi proclama la vit-
toria che vince il mondo! ... indispensabile la gioia per testi-
moniare con autenticità quello in cui crediamo e speriamo.
Lo spirito salesiano è anzitutto e soprattutto questo, e non
una riduzione a sole osservanze e mortificaz_ioni. La speranza
ci porterà anche a fare molte mortificazioni, ma come allena-
menti di volo e non come punzecchiature da prigione! Quindi:
dalla speranza tanta gioia!
Vedete, il pagano (e ce ne sono tanti oggi !) cerca di distrarsi.
Il mondo cerca di superare la sua limitatezza e il suo diso-
rientamento con una vita pletorica di sensazioni eccitanti . Col-
tiva la promozione e il soddisfacimento dei sensi, il film pun-
gente, l'erotismo, la droga, ecc. una maniera di evadere da
79

9.2 Page 82

▲back to top
una situazione caduca che sembrn non avece senso ,/ , per
cercare qualche cosa che sconfini verso una caricat 1ra di tra-
scendenza.
Un altro « frutto » della speranza - che procede dalla
coscienza del « non-ancora » - è la pazienza. Ogni speranza
comporta un indispensabile corredo di pazienza. La pazienza
è un atteggiamento cristiano, legato intrinsecamente con la spe-
ranza nel suo non breve « non-ancora », con i suoi guai, le sue
difficoltà e le sue oscurità. Credere alla risurrezione e operare
per la vittoria della fede mentre si è mortali e immersi nel
caduco esige una struttura interiore di speranza che porta alla
pazienza.
L'espressione più sublime di pazienza cristiana l'ha vissuta
Gesù soprattutto durante la sua passione e morte. È una pa-
zienza fruttuosa, precisamente per la speranza che la anima.
A ragione diceva Pio XI che Gesù Cristo ci ha redenti e ci
ha salvati più con la sua passione e morte che con i suoi di-
scorsi e i suoi miracoli. Qui, nella pazienza, più che di inizia-
tiva e di azione, si tratta di cosciente accettazione e di passi-
vità virtuosa che sopporta in vista della realizzazione del piano
di Dio.
Noi abbiamo ascoltato tante discussioni nei confronti di
«contemplazione» e «azione»; ebbene, la pazienza ci tra-
sporta più in si.ì, al di là della contemplazione e dell'azione, e
ci situa nella passione, che unifica in fede e speranza, otte-
nendo così una sintesi superiore di azione e contemplazione .
La pazienza nella passione è al vertice della vita cristiana sul
Calvario, nel martirio, nella sofferenza vittimale.
Ebbene, lo spirito salesiano di Don Bosco ci ricorda sovente
la pazienza. Nell'introduzione alle Costituzioni Don Bosco ri-
corda, alludendo a san Paolo, che le pene che dobbiamo sop-
portare in questa vita non hanno confronto con il premio che
ci attende. « Era solito dire: - Coraggio! La speranza ci sor-
regga, quando la pazienza vorrebbe mancare - » (MB 12,458);
« Ciò che sostiene la pazienza, dev'essere la speranza del pre-
mio » (ivi).
Anche madre Mazzarello insisteva su questo punto. Il Mac-
cono afferma che la speranza la confortò sempre sostenendola
80

9.3 Page 83

▲back to top
nei suoi patimenti, nelle sue infermità, nei dubbi, e la ralle-
grò nell'ora della morte. « La sua speranza era molto viva e
attiva. Mi pare - testificò una suora - che la speranza l'ani-
masse in tutto e che ella cercasse di infonderla nelle altre. Ci
esortava a portare bene le piccole croci giornaliere, e a fare
tutto con grande purità d'intenzione ».1 Svilupperemo questo
aspetto parlando del diamante del « Premio », posto sul retro
del manto. È però evidente che esso è strettamente vincolato
con la speranza. La speranza è madre della pazienza; e la
pazienza è difesa e scudo della speranza.
• Dal terzo elemento costitutivo . della speranza - « l'ope-
rosità salvifica » - procede un altro frutto: la sensibilità peda-
gogica. È una iniziativa d'impegno adeguato, sia nell'ambito
della propria santificazione (sequela del Cristo), sia nell'ambito
della salvezza degli altri (missione). Comporta impegno pra-
tico, misurato e costante, tradotto da Don Bosco in una me-
todologia concreta.
Eccone alcune caratteristiche.
- Innanzitutto l'avvedutezza (o santa «furbizia»): quando
si tratta di avere iniziative, di risolvere problemi, Don Bosco
ce la mette tutta senza pretese di perfezionismo, ma con umile
praticità; è ripetuta da lui molte volte la frase: « l'ottimo è
nemico del bene ».
- Un'altra caratteristica è l'ardimento. Il male è organiz-
zato, i figli delle tenebre agiscono con intelligenza. Il Vangelo
ci dice che i figli della luce devono essere più scaltri e corag-
giosi. Quindi, per lavorare nel mondo, bisogna armarsi di ge-
nuina prudenza, ossia di quell'« auriga virtutum » che ci rende
agili, tempestivi e penetranti nell'applicazione di una vera in-
trepidezza nel bene. Non c'è bisogno di richiamare qui innu-
merevoli episodi della vita di Don Bosco.
- Un'altra caratteristica è la magnanimità. Non dobbiamo
rinchiudere il nostro sguardo dentro le pareti di casa. Siamo
1 F. MACCONO, Santa Maria Domenica Mazzarello Confondatrice e
prima Superiora Generale delle FMA,- 2 volumi, FMA, Torino 1960
ristampa, voi. I, p. 398.
81

9.4 Page 84

▲back to top
I
stati chiamati dal Signore a salvare il mondo, abbiamo una
missione storica più importante di quella degli astronauti o
degli uomini di scienza ... Siamo impegnati nella liberazione
integrale dell'uomo. Il nostro animo deve aprirsi a visioni molto
ampie. Don Bosco voleva che fossimo « all'avanguardia del
progresso » (e si trattava, quando disse questa frase, di mezzi
di comunicazione sociale).
Passando qualche mese fa da Montevideo, mi hanno fatto
dono di una lettera inedita di Don Bosco a mons. Lasagna,
in cui gli diceva, più o meno, così: « Caro Lasagna, ho com-
perato una cartiera (quella di Mathi) e, sai, converrebbe che
tu ti interessassi presso i giornali e gli stampatori di Montevideo
(i buoni che non attaccano la Chiesa, si capisce) per offrire
loro carta; io potrei vendergliela con il 20 % di sconto ... ».
Capite? Sono cose da santi? Eppure sì; sono cose da Don Bosco!
Conosciamo la magnanimità di Don Bosco nel lanciare i
giovani alle responsabilità apostoliche; pensate, per esempio,
alle vostre prime missionarie: le prime che sono partite per
l'America erano delle «ragazze »! Voi, oggi, le mandereste
così in Africa? Don Bosco si muoveva in orizzonti vasti; non
gli bastava né Valdocco, né Mornese; non poteva rimanere solo
dentro i limiti di Torino, del Piemonte, dell'Italia o dell'Euro-
pa. Il suo cuore palpitava con quello della Chiesa universale
perché si sentiva quasi investito della responsabilità di sal-
vezza di tutta la gioventù bisognosa del mondo. Voleva che i
Salesiani sentissero come propri tutti i più grandi e urgenti
problemi giovanili della Chiesa per essere disponibili ovunque.
E, mentre coltivava la magnanimità dei progetti e delle inizia-
tive, era concreto e pratico nella loro realizzazione, con il senso
della gradualità e con la modestia degli inizi . Vedete con quante
propaggini si dirama la speranza nello spirito salesiano!
San Pio X disse: « Il maggior ostacolo per l'apostolato è la
timidezza e la pusillanimità dei buoni ». Sul volto del Salesiano
deve sempre brillare, come nota di simpatia, la magnanimità:
non deve essere una testolina senza visioni, ma avere grandezza
d'animo perché ha un cuore inabitato dalla speranza.
· Péguy, con la sua acutezza un po' violenta, ha scritto : « Una
capitolazione è in sostanza un'operazione in cui si incomincia
82

9.5 Page 85

▲back to top
a spiegare .invece di attuare. I codardi sono stati sempre delle
persone di molte· spiegazioni ». Sul volto salesiano deve sempre
brillare, come nota di simpatia, anche la mistica della decisione
e l'ardimento umile della praticità. Don Bosco era deciso negli
impegni di bene, anche se non poteva incominciare con l'otti-
mo; diceva che le sue opere si iniziavano magari nel disordine
per tendere poi verso l'ordine una consolazione per i supe7
riori e le superiore!) .
La speranza mette sul volto del Salesiano, accanto alla pro-
fondità della contemplazione, alla gioia della filiazione divina,
all'entusiasmo della gratitudine e dell'ottimismo (che proven-
gono dalla « fede »), anche il coraggio dell'iniziativa, lo spirito
di sacrificio della pazienza, la saggezza della gradualità pe-
dagogica, l'utopia della magnanimità, la modestia della prati-
cità, la prudenza della furbizia e il sorriso dell'allegria.
Osservate come va crescendo, dopo ogni meditazione, la
simpatia di questo volto! ...
4.7 . LA DEVOZIONE ALL'AUSILIATRICE
ESPRESSIONE DI SPERANZA
Per concludere lasciatemi sottolineare un altro tratto della
speranza salesiana nella devozione di Don Bosco alla Madonna.
Il nostro Padre, dopo il 1862, concentrò il suo affetto ma-
riano sul titolo « Ausiliatrice » . Ripensiamo alla difficile situa-
zione del tempo . Era in gestazione la caduta degli Stati Pontifici;
a noi può sembrare qualcosa di non tragico, ma allora c'era
chi pensava che stesse per cadere la Chiesa; quindi, una situa-
zione di profonda ansietà. Stava emergendo la società secolare,
laicista. Don Bosco sentiva la gravità degli eventi. Alberto Ca-
viglia, nella sua introduzione alla Storia d'Italia, descrive con
pagine dense e assai significative la grandezza d'animo e la
praticità operativa di Don Bosco in una situazione tanto de-
licata.
Ed ecco il punto. Di fronte alle difficoltà dei tempi Don
Bosco approfondisce la sua devozione a Maria, sottolineandone
la materna protezione verso la Chiesa e il popolo cristiano . E
così ha guardato più intensamente a Maria nella luce della spe-
83

9.6 Page 86

▲back to top
ranza. Qual è l'elemento specificativo della speranza? La cer-
tezza dell'aiuto dall'alto . Ha incominciato, perciò, a onorare e
invocare Maria come ;<Ausiliatrice ». Non ha inventato lui il
titolo, perché era già conosciuto e venerato dal Popolo di Dio,
ma ne ha intensificato la devozione presentando Maria come
« la Madonna dei tempi difficili». Noi siamo nati alla Chiesa
come Famiglia salesiana proprio in quei tempi difficili; e ab-
biamo ereditato una missione da attuare in tempi difficili!
Il titolo di Ausiliatrice ci viene a ricordare continuamente
che la Madonna è il sostegno e la madre della nostra speranza.
Voi, poi, che vi chiamate « Figlie di Maria Ausiliatrice», do-
vete esserne le più convinte e attraenti testimoni. Che le ra-
gazze e le giovani scoprano sempre sul vostro volto la luce
della speranza cristiana.
E che Maria Ausiliatrice ottenga per tutta la Famiglia sale-
siana di Don Bosco l'abbondanza di una fede che spera e di
una speranza che crede, in conformità alla sentenza scritta sui
raggi del diamante del sogno: « Sperate nel Signore non negli
uomini. I vostri cuori siano sempre intenti a conquistare la
vera gioia »!
84

9.7 Page 87

▲back to top
5
TERZO DIAMANTE
LA CARITÀ
Vediamo come la carità viene presentata nel sogno. È detto:
« Tre di quei diamanti erano sul petto, ed era scritto [ ... ] ''. Ca-
rità" su quello che stava sul cuore ».
5.1. SUL CUORE
.
Questa presentazione indica già un elemento di sottolineatura
della collocazione, che pone in rilievo l'importanza e la centra-
lità di questo diamante. Certamente è il più vitale e prezioso
dei tre perché è sul cuore.
Nelle vostre Costituzioni (1975) avete parecchi articoli sulla
carità; essa infatti è un elemento centralissimo di tutta la vita
cristiana e anche dello spirito salesiano. Nell'art. 4 si legge:
« Viviamo la consacrazione-missione nello stile salesiano ispi-
rato al Sistema Preventivo, che deve animare le nostre comu-
nità e tutta l'azione pastorale. Nella carità paziente e benigna,
che tutto spera, tutto sopporta, ecc. ». Nell'art. 29, in cui si
parla della comunità fraterna, è detto: « Con un cuore solo
e un'anima sola tendiamo verso la pienezza dell'amore » . Nel-
l'art. 59 si dice: « La carità apostolica ci spinge, secondo la
nostra vocazione salesiana, a ricercare di preferenza la gioventù
povera e abbandonata per offrirle i mezzi necessari per una
normale maturazione umano-cristiana ». Nell'art. 74: « La ca-
rità di Don Bosco e di madre Mazzarello, sensibile ad ogni
bisogno del prossimo; ci spinge, quando la necessità lo richiede,
a prestare il nostro servizio anche in altre opere di assistenza
e di promozione sociale non contrastanti con le finalità del-
l'Istituto » .
85

9.8 Page 88

▲back to top
A proposito, in questo articolo e in quello che abbiamo letto
precedentemente - il 59 - c'è una cosa interessante. Sen-
tite: « Costituiscono per noi un appello: il disagio economico,
la carenza affettiva, la pov_ertà moràle e spirituale, o quelle
forme di indigenza che compromettono la fede in Dio e nel
valore della vita ». La ragione di scelta dei destinatari è la
carità. Poi, guidati dalla carità, pratichiamo il Sistema Preven-
tivo. Non è una qualche interpretazione della « preventività »
che ci fa scegliere, bensì la carità! Essa ci fa scegliere discer-
nendo le necessità, secondo l'urgenza di determinate situazioni;
poi, nell'area di una opzione concreta della carità, operiamo
realizzando il nostro spirito.
5.2. LA DISPOSIZIONE PAOLINA DELLA TRIADE
Abbiamo parlato della triade: fede, speranza, carità, come
di una sola realtà. La carità non esiste senza fede e senza spe-
ranza e la fede e la speranza sono vive solo se sono informate
e animate dalla carità.
La successione con cui san Paolo, nel famoso versetto 13
del capitolo 13 della prima epistola ai Corinzi, presenta questa
triade, manifesta una intensificazione dell'unica realtà vitale
che va crescendo e ha il suo punto culminante o la sua pie-
nezza nella carità. L'inabitazione dello Spirito Santo si esprime
in forma piena e vitale in una fede e in una speranza che sono
vivificate continuamente nella carità.
La carità è il vincolo della perfezione, è la pienezza della
vita cristiana, è l'espressione della grazia santificante, è l'ele-
mento che ci fa dinamicamente partecipi della natura divina.
La carità è la forma di tutte le virtù. Nessuna virtù funziona
cristianamente se non è animata dalla carità, se non è spinta
e mossa dallo Spirito Santo. Il dono della grazia è vita nello
Spirito Santo; e l'espressione piena di questa vita nello Spirito
Santo è la carità. Nessuna virtù è viva, ossia è espressione di
vita eterna e di partecipazione al mistero di Gesù Cristo, se
non è animata dalla carità. Di qui la sua centralità per · qual-
siasi spirito e quindi anche per lo spirito salesiano. Infatti, il
diamante è posto sul cuore.
86

9.9 Page 89

▲back to top
5.3. IL MISTERO DELLA CARITÀ
Dobbiamo persuaderci bene che la carità è un mistero: essa
viene dall'alto, non è un'iniziativa umana, è partecipazione
alla vita intima di Dio. Non è quindi da identificarsi sempli-
cemente con l'amore naturale; essa ha certamente anche una
dimensione umana, nel senso che noi la viviamo e la tradu-
ciamo in espressioni umane, ma non nasce dall'amore di sim-
patia o di benevolenza proprio degli uomini.
È importante percepire subito e bene questa natura essen-
ziale dell'amore-carità. Se c'è un valore che oggi viene rovi-
nato dalla cultura, dai mezzi di comunicazione sociale, dalla
mentalità corrente, dall'opinione pubblica, è proprio l'amore.
Si suole usare questa parola per significare il contrario di ciò
che viene indicato dall'amore-carità in senso cristiano. Per molti
l'amore si identifica concretamente con il piacere. E invece noi
vediamo che Gesù Cristo ci insegna che nessuno ha un amore
più forte per l'altro di chi dà la vita per lui. Il segno supremo
dell'amore cristiano è la croce, mentre nella mentalità mate-
rialista e secolarizzata si suole affermare che quanto meno
c'è di croce, tanto meglio è. L'erotizzazione dell'amore ha ro-
vinato il valore centrale e supremo della vita umana.
L'amore vero, cioè la carità, ci fa entrare vitalmente nella
natura stessa di Dio. Che cosa significa entrare nella natura di
Dio? San Giovanni è certamente l'agiografo che ha meditato
più profondamente e più felicemente su questa realtà . La pa-
rola « agàpe » - termine greco che indica amore - ricorre
tante volte nei suoi scritti. Nella sua prima lettera egli definisce
Dio come agàpe: « Dio è carità, Dio è amore! ». Questa non
è un'espressione uscita dalla bocca di Gesù e che gli evange-
listi hanno conservato; si trova solo in san Giovanni. È la
maturazione della sua riflessione su ciò che ha visto, toccato,
sperimentato nella sua convivenza con Gesù Cristo: chi era?
che cosa emergeva nella sua persona? Nessuno sa chi è Dio,
solo attraverso Gesù Cristo possiamo saperne qualche cosa.
Ebbene: san Giovanni meditando gli eventi di Gesù Cristo è
arrivato a questa conclusione: Dio è amore.
Infatti, ciò che più si manifesta nell'esistenza di Gesù Cristo
è l'amore, la carità. È interessante leggere in proposito qualche
87

9.10 Page 90

▲back to top
passo di Giovanni, ad esempio: « Era ormai vicina la festa
ebraica della Pasqua. Gesù sapeva che era venuto per lui il
momento di lasciare questo mondo e tornare al Padre. Egli
aveva sempre amato i suoi discepoli che erano nel mondo, e
li amò sino alla fine» (Gv 13,1). Nella sua prima epistola Gio-
vanni dice ancora: « Dio ha mandato Gesù, suo Figlio, per
salvare il mondo. Noi l'abbiamo visto e ne siamo testimoni.
Se uno riconosce pubblicamente che Gesù è il Figlio di Dio,
allora è unito a Dio e Dio è presente in lui. Noi sappiamo
e crediamo che Dio ci ama. Dio è amore, e chi vive nell'amore
è unito a Dio, e Dio è presente in Lui » (1 Gv 4,14-16).
Questa è come la conclusione suprema, tanto bella, di tutta
la meditazione teologale di san Giovanni sul mistero di Gesù
Cristo. Sottolinea continuamente che l'aspetto più importante
della rivelazione di Cristo è scoprire in lui la natura di Dio
come amore. Solo i suoi confidenti, i suoi amici - « non più
servi, vi ho chiamato amici » - capiscono e sentono che Dio
è amore, sono coinvolti nel clima di Gesù e sperimentano il
mistero della carità.
Anche san Paolo ha espressioni simili a queste nell'epistola
a Tito. Dice che Gesù Cristo è l'epifania della benignità , del-
l'amore e della simpatia di Dio per l'uomo: « Apparuit benignitas
et humanitas Salvatoris nostri Jesu Christi » (Tt 3,4).
Ci possono essere vari tipi di carità distinti tra loro per la
maniera e l'accento differente di contemplare l'amore di Dio.
È in questa molteplice tipologia di carità che trova la sua
radice il pluralismo degli spiriti.
Definendo Dio in senso negativo, si potrebbe dire che Dio è
l'Essere che non può non amare. È bello, nello spirito di Don
Bosco, pensarlo ·così: Dio è sempre e totalmente « buono »,
misericordioso; comprensivo, salvatore. Altri spiriti, diversi dal
nostro, si ispirano ad altri aspetti del mistero della carità: sono
tanti! A noi interessa moltissimo lo splendore della bontà e
dell'impegno nella missione salvifica. È particolarmente con-
fortante riflettere che non si può pensare a Dio se non come
all'Essere misericordioso, generoso, comprensivo, buono, che
vuole il bene di tutti; un Essere che vuole il bene anche dei
suoi nemici; un Padre che ama tanto il mondo da inviare il
suo Unigenito e il suo Spirito a salvarlo dal male.
88

10 Pages 91-100

▲back to top

10.1 Page 91

▲back to top
È interessante sottolineare anche un altro aspetto che san
Giovanni mette in evidenza ogni volta che presenta Gesù Cristo
rivelatore dell'amore del Padre: l'amore di Dio non è una ri-
sposta all'amore dell'uomo. Noi, nel nostro amore umano, quando
vediamo che nell'altro c'_è qualcosa che ci piace, entriamo in
simpatia con lui e nasce l'amore. Così il nostro amore è una
specie di risposta. L'amore di Dio, invece, è creativo. Dio non
ci ama perché siamo buoni, ma siamo buoni perché Egli ci
ama. Questo originalissimo atteggiamento è partecipato anche
dalla nostra carità, che ci fa vivere creando il bene degli altri.
La carità è un dinamismo che tende a creare il bene, la
bontà, la simpatia dove non c'è e persino dove si è disprezzati.
L'amore di Gesù Cristo ha soppresso il nemico, nel senso che
lo perdona e lo aiuta nel bene. Sua Santità Giovanni Paolo II,
quando poté pronunciare le prime parole dopo l'attentato, disse:
io perdono! La carità ha proprio anche questa dimensione: il
perdono. È un atteggiamento umanamente impensabile; solo
la rivelazione di Dio ce lo insegna; di per sé non c'è mai stato
nella storia. Nelle leggi degli Stati ci si propone di « fare giu-
stizia »; però la vera anima della giustizia è l'amore. Il Nuovo
Testamento ha portato nelle relazioni tra uomo e uomo un co-
mandamento nuovo: l'amore.
Gesù ha proclamato: « Un comandamento nuovo io vi do»
ed è quello dell'amore. Gesù non è venuto a insegnarci la ri-
cerca del sapere o del potere, ma la creazione del bene che
si esprime n~l distacco da sé, nell'impegno di assumere la po-
vertà, vivere in umiltà, donarsi per gli altri fino allo svuota-
mento di sé. San Paolo parla di « kénosi », ossia di annienta-
mento in Gesù della sua forma di Dio per assumere la forma
dell'uomo, senza fare sfoggio della sua potenza divina, ma
adeguandosi a tutte le umiliazioni e le bassezze umane, meno
il peccato. In realtà Gesù è diventato persino « peccato » - dice
san Paolo - non nel senso morale di azione cattiva, ma nel
senso sacrificale di essere la vittima del peccato.
E così l'amore di carità ci fa scoprire anche il nostro essere-
per-gli-altri in un clima di solidarietà assai esigente. Nel cri-
stianesimo non si concepisce mai una persona sola, non ha
senso l'individualismo. Dio. stesso sussiste in tre Persone che
si amano, che sono in comunione, che si donano. La perfe-
89

10.2 Page 92

▲back to top
zione di una persona, incominciando da Dio stesso, consist:,:
nel donarsi, nel fare comunione. Noi che abbiamo imparato
dalla metafisica il concetto di persona come di una realtà tutta
sussistente in sé e incomunicabile, corriamo il pericolo di
proiettare una definizione filosofica e astratta, anche se giusta
e molto profonda, nel campo della vita soprannaturale di Dio
e della nostra spiritualità. Non c'è persona se non in relazione,
in solidarietà; e la perfezione che conferisce pienezza alla per-
sona è l'amore, il quale non può esistere se non tra varie
persone.
La carità è partecipare alla natura di Dio che è Persona in
comunione. Ci fa scoprire che la persona, ogni persona, o è
Dio Padre, Dio Figlio, Dio Spirito Santo, o è un essere intelli-
gente creato a immagine di Dio: « Facciamo l'uomo a immagine
e similitudine nostra» (Gn 1,26).
Tutto il dinamismo della carità punta dunque sulle « per-
sone » e le persone puntano sulla comunione, sul vivere in-
sieme, sull'essere fratelli. La figliolanza di Dio, la partecipa-
zione alla sua natura divina nella fede, nella speranza e nella
carità diviene necessariamente fraternità. Siamo fratelli perché
tutti siamo figli dello stesso Padre.
Concepita così, la carità si estende a tutti gli uomini. Noi,
però, abbiamo nel nostro particolare carisma la sottolineatura
della predilezione verso la gioventù. « Mi basta - diceva Don
Bosco - sapere che siete giovani perché io vi ami ». Come
esprimono bene la nostra vocazione queste parole! Sono un
lampo geniale che determina più concretamente la misura di
Dio sul nostro tipo di carità.
Ecco la nostra vocazione: la carità tradotta in bontà di
amore con una particolare predilezione verso la gioventù. Non
esclude nessuno; però, per un disegno dello Spirito del Signore,
si dedica principalmente ai giovani poveri e bisognosi.
5.4. ALCUNE CARATTERISTICHE DELLA CARITÀ
San Paolo, nella prima epistola ai Corinzi, ci descrive alcune
caratteristiche del mistero della carità come splendore di bontà.
« Chi ama è paziente e premuroso. Chi ama non è geloso,
non si vanta, non si gonfia di orgoglio. Chi ama è rispettoso,
90

10.3 Page 93

▲back to top
non va in cerca del proprio interesse, non conosce la collera,
.dimentica i t0rti: Chi ama rifiuta l'ingiustizia, la verità è la
sua gioia. Chi ama tutto scusa, di tutti ha fiducia, tutto sop-
porta, non perde mai la. speranza. Cesserà il dono delle lingue,
la profezia passerà, finirà il dono della scienza, l'amore mai
tramonterà » (1 Cor 13,4-8).
Vedete come è esigente lo splendore della bontà! Dio è
così; e noi siamo chiamati a vivere la vita di Dio nello Spirito
Santo. Facciamo quello che possiamo, però questo è il seme
che abbiamo nel cuore e che deve crescere fino al giorno della
parusia; allora scoppierà vigoroso, chiaro, in ognuno di noi, e
Dio sarà tutto in tutti: che bello!
Nel capitolo precedente Paolo aveva sottolineato un'altra
caratteristica: la carità è al di là di tutti i carismi. Dopo aver
enumerato i carismi, conclude dicendo: « Non tutti sono apo-
stoli o profeti o catechisti. Non tutti hartno il dono di fare
miracoli, di compiere guarigioni, di parlare in lingue .scono-
sciute o di sapere interpretarle. Cercate di avere i doni migliori.
Ora vi insegno io qual è il dono migliore» (1 Cor 12,29-31).
E qui incomincia il capitolo 13 sulla carità. Questo è il dono
migliore, al di là dei carismi.
Un'altra caratteristica importante nel capitolo 13: la carità
è il criterio ultimo per giudicare tutto. Come è importante
questo! Quando qualche ideologia vuole farsi strada, sostituisce
il criterio ultimo della carità con altri criteri: bisogna saperli
sempre confrontare col cri.terio della carità.
Sentiamo che cosa dice san Paolo: « Se io so parlare le
lingue degli uomini e degli angeli, ma non posseggo l'amore,
sono come una campana che suona, come un tamburo che rim-
bomba. Se io ho il dono di essere profeta, di svelare tutti i
segreti, se ho il dono di tutta la scienza, anche se ho una
fede che smuove i monti: se non ho l'amore, che vale? Se
distribuisco ai poveri tutti i miei averi, e come martire lascio
bruciare il mio corpo; senza l'amore niente io ho » (1 Cor
13,1-3).
È il criterio per giudicare tutte le cose. Perciò, quando certi
princìpi, certi atteggiamenti, certe ideologie ci portano all'odio,
certamente sono anticristiani: se non ho l'amore nulla mi serve.
San Paolo parla di un'altra caratteristica della carità nel ca-
91

10.4 Page 94

▲back to top
pitolo 12, versetti 9-16 della lettera ai Romani: « Il vostro
amore sia sincero! Fuggite il male, seguite fermamente il bene.
Amatevi gli uni gli altri, come fratelli. Siate premurosi nello
stimarvi gli uni gli altri. Siate impegnati, non pigri: pronti a
servire il Signore, allegri nella speranza, pazienti nella tribo-
lazione, perseveranti nella preghiera. Siate pronti ad aiutare i
vostri fratelli quando hanno bisogno e fate di tutto per essere
ospitali. Chiedete a Dio di benedire quelli che vi perseguitano;
di perdonarli, non di castigarli. Siate felici con chi è nella gioia .
Piangete con chi piange. Andate d'accordo tra di voi. Non in-
seguite desideri di grandezza, volgetevi piuttosto verso le cose
umili. Non vi stimate sapienti da voi stessi! », ecc.
Insomma, se noi sfogliamo un po' le pagine della Sacra Scrit-
tura troviamo certe descrizioni sia della carità in sé, sia dei
suoi frutti, sia della maniera di applicarla, che sono di una
straordinaria esigenza e di una affascinante bellezza: ci fanno
veramente sentire Dio tra gli uomini.
5.5. LA DINAMICA INTERNA
DEL MISTERO DELLA CARITÀ
Il comandamento nuovo della carità ci dice di amare Dio
con tutto il cuore e il prossimo come noi stessi. Due oggetti. È
importante approfondire la dinamica interna di questo duplice
amore: l'amore di Dio come « causa » dell'amore del prossimo.
In Dio è la fonte della nostra capacità di amare il prossimo.
Se non si ama Dio non si fa il resto. Il prossimo è inseparabile,
ma non è la causa di questo amore. È il sacramento, è il luogo
dove Dio si manifesta bisognoso, assetato, affamato, nudo, e
ha bisogno di noi. È il luogo privilegiato della manifestazione
di Dio ed esige l'espressione dell'amore. Però l'amore del pros-
simo ha la sua spiegazione solo nell'intensità dell'amore di Dio.
A volte si sentono teorie che sono il rovescio di questo, e allora
vediamo persone dedicarsi tanto al prossimo fino a... lasciare
Dio . Vuol dire che il loro amore non è vera carità, perché
non procede, per dinamica interna, dall'amore di Dio come sua
fonte d'origine e di crescita.
Nel nuovo Catechismo degli adulti della Conferenza Episco-
92

10.5 Page 95

▲back to top
pale Italiana, viene presentata un po' questa dinamica. Leg-
giamo:
« Per il suo grande amore, il Padre ci ha amati nel FigHo con tutto il
suo Spirito: "L'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo
dello Spirito Santo che ci è stato dato" (Rm 5,5).
La carità è l'amore con cui Dio ci ama e che ci comunica attraverso
lo Spirito di Gesù Cristo. Mediante la carità possiamo amare Dio e i
fratelli con l'amore con cui il Padre ama il f ,iglio e noi.
In ciò consiste la novità cristiana dell'amore: il nostro amore, avendo
origine divina, non è tanto una manifestazione della nostra buona vo-
lontà, bensì una partecipazione allo stesso amore di Dio che ci viene
comunicato. [Non è un eroismo della nostra generosità, è un'umile par-
tecipazione del mistero immenso di Dio!].
Prima di tutto, Dio ci dona la capacità di amare lui; ed è su questo
dono che ,s'innesta l'amore al prossimo: " Chiunque crede ohe Gesù è il
Cristo, è nato da Dio; e chi ama Colui ohe ha generato, ama anche chi
da lui è stato generato. Da questo conosciamo di amare i figli di Dio:
se amiamo Dio ·e ne osserviamo i comandamenti " (1 Gv 5,1-2).
Con altrettanta chiarezza san Giovanni espone l'altra dimensione es-
senziale deH'amore cristiano: "Chi non ama il proprio fratello che vede,
non può amare Dio che non vede" (1 Gv 4,20). L'uomo, qualsiasi uomo,
è l'eterno roveto ardente di Dio, il permanente luogo della sua manife-
stazione» (p. 355).
Vedete che l'amore di Dio ci obbliga a far funzionare la fede
e la speranza, ossia a perforare la realtà, per trovare in essa,
nell'uomo, ciò che c'è di Dio, e amarlo.
Abbiamo detto che ogni persona è immagine di Dio: potrà
essere rattrappita, sudicia, indolente, ribelle, distratta; però bi-
sogna amarla. Per questo Gesù ha indissolubilmente unito l'amore
del prossimo a quello di Dio e ne ha fatto un solo comanda-
mento. Amare Dio significa incontrare l'uomo e servirlo, fare
il cammino con l'uomo vuol dire incontrare Dio, principio e
ragione di ogni amore.
Qui c'è il grande punto strategico da assicurare: ciò che in
noi è amore è innanzitutto e soprattutto opzione per Gesù Cristo.
Partendo di lì, dal nostro amore a Cristo, non ne scapita nessun
altro amore, anzi ci guadagna, si intensifica, diviene costante,
diviene efficace, diviene operoso fino alla morte.
Dunque, è fondamentale la carità: per questo il suo dia-
mante è posto sul cuore! Nella triade delle virtù teologali ab-
biamo visto la verità (fede), la potenza (speranza), l'amore (ca-
93

10.6 Page 96

▲back to top
rità); però sintesi di tutto è l'amore. L'amore è _potente se è vero;
la verità è potente se permeata di carità; e la potenza è vera
se piena di amore.
Fede, Speranza, Carità: i tre diamanti che sono sul petto del
Salesiano. Ecco i grandi valori che dobbiamo saper mettere
« in vetrina »! In noi la gioventù deve scoprire che siamo per-
sone piene di verità, di capacità di lavoro, di comprensione, di
perdono, di misericordia, di bontà.
5.6. LA CARITÀ DI DON BOSCO
Gua_rdiamo ora un po' brevemente come Don Bosco, il « Per-
sonaggio », abbia partecipato del mistero della carità.
Penso ci siano due aspetti nel suo tipo di amore sopranna-
turale; la sua è stata una carità « pastorale » e una carità
« pedagogica ». Sono due sottolineature caratterizzanti.
La carità pastorale traduce nella vita l'avventura di Dio per
salvare gli uomini; è legata intimamente con la funzione spe-
cifica dei Pastori nella' Chiesa; viene alimentata e irrobustita
con il sacramento dell'Ordine. È un amore sacerdotale illu-
minato dalla fede e che vivifica profondamente la dinamica
della speranza, per lottare contro il male, per aiutare il pros-
simo, soprattutto la gioventù, nell'opera di salvezza: « Da mihi
animas, coetera tolle! ». La carità pastorale di Don Bosco è
sorretta da un'energia vitale che è stata chiamata « la grazia
di unità »: ossia, il sapere far vivere insieme, nella carità,
l'azione e la contemplazione; come vi diceva il nostro Padre
nelle Costituzioni: far « andare di pari passo la vita attiva e
contemplativa ritraendo Marta e Maria, la vita degli Apostoli
e quella degli Angeli» (Cost. 1885, tit. XIII). D'altra parte si
afferma qualcosa di simile nel famoso n. 8 del Perfectae ca-
ritatis.
E poi la carità pedagogica. La carità pastorale è propria dei
vescovi, dei sacerdoti, di tanti Istituti di vita attiva nella
Chiesa . La carità pedagogica, invece, è caratteristica di Don
Bosco, soprattutto come l'ha presentata lui. È un amore in-
teressato all'efficacia di una metodologia basata sulla ragione,
la religione e l'amorevolezza. Queste parole dicono tutto. È
una carità in cui brilla lo splendore della « bontà ».
94

10.7 Page 97

▲back to top
Tutto il Sistema Preventivo, che è l'ortoprassi della carità
salesiana, è stato definito da Alberto Caviglia come « la bontà
eretta a sistema ». Don Bosco scrisse nella sua famosa lettera
da Roma (10 maggio 1884) che nella nostra carità non basta
amare, ma bisogna saper far capire ai giovani che sono amati.
Sant'Agostino, acuto teologo, con una frase geniale aveva
esclamato: « Ama e fa' ciò che vuoi! » . Don Bosco, originale
pedagogo, dice ai Salesiani: « Non basta amare, bisogna farsi
amare! ». Ecco l'aspetto pedagogico della nostra carità. Qui si
concentra la simpatia del volto salesiano. La nostra carità deve
essere simpatica; dobbiamo farci amare perché l'educazione dei
giovani « è cosa di cuore » . Se non c'è clima di confidenza, se
non c'è ambiente di amicizia, non si può educare. Non si tratta
di far obbedire, bisogna impegnarsi per costruire valori, con-
vinzioni, persuasioni che portino a vivere un progetto cristiano.
È particolarmente urgente riflettere su questo aspetto peda-
gogico della nostra carità, perché farsi amare non è facile . Bi-
sogna farlo nella genuinità e nella santità, senza deturpare la
carità e degradarla in concupiscenza. Per fare ciò occorre un
esercizio ascetico appropriato . Si capisce, non pensiamo che le
Figlie di Maria Ausiliatrice e i Salesiani siano angeli: di qui
l'esigenza dell'ascesi e della penitenza. Ne tratteremo parlando
dei diamanti della Castità e del Digiuno.
È dunque la carità pastorale e pedagogica che ci fa essere
i segni e i portatori dell'amore di Gesù Cristo alla gioventù.
Dovremmo essere segni affascinanti! Quello che si diceva a
Ginevra di san Francesco di Sales dovrebbero poterlo dire
anche di noi i giovani: « Si vede in lui la simpatia di Gesù
Cristo! » . Così hanno visto Don Bosco i ragazzi di Valdocco.
I Figli di don Orione, a conclusione del loro Capitolo (al-
cuni mesi fa), hanno preso una decisione che stava tanto a
cuore a don Orione, ma che egli non aveva potuto stabilire: ai
tre voti unirne un quarto, il voto di adesione incondizionata,
fino alle ultime conseguenze, al Papa. Bello!
Nelle nostre Costituzioni - e anche nelle vostre - quando
si parla dell'obbedienza o del governo della Congregazione, ri-
conosciamo come primo Superiore diretto il Papa, al quale ub-
bidiamo anche per il voto di obbedienza. Il nostro voto di
obbedienza contiene già un'adesione incondizionata al Papa e
95

10.8 Page 98

▲back to top
tutta la nostra tradizione spirituale lo conferma. Quanto a un
nostro « quarto voto » sapete quale potrebbe essere? Ce lo sug-
gerisce il nostro stesso nome di « Salesiani ». Perché ci chia-
miamo Salesiani? Perché Don Bosco ha scelto la bontà di san
Francesco di Sales come programma di vita per noi; un pro-
gramma che ci impegna a essere amorevoli, pazienti, buoni e
simpatici con i giovani.
B interessante vedere come Don -Bosco, nato da poveri con-
tadini del Piemonte, e con un temperamento personale forte e
non facile, sia andato a cercare un santo aristocratico, fine, un
figlio di prìncipi. Certamente non aveva la preoccupazione di
superare una incipiente lotta di classe; san Francesco di Sales
era sì il santo della sua patria, Savoia-Piemonte, ma ciò che
Don Bosco ammirava in lui era la finezza della sua carità. Nel
nostro nome abbiamo, dunque, un appello forte e continuo
alla bontà.
Nella storia della nostra Congregazione ci sono stati dei
difetti e a volte si è dimenticato che la bontà doveva essere
eretta a sistema. Sappiamo che Don Bosco scrisse in Argen-
tina, ad alcuni che menavano un po' le mani, una bella let-
tera sulla nostra metodologia di bontà. Ebbene, come frutto
di quella lettera, vari confratelli fecero il voto di osservare il
Sistema Preventivo (cf MB 17,629). Possiamo quindi quasi par-
lare di un nostro quarto voto già collaudato dall'esperienza.
Alberto Caviglia, in una conferenza, disse espressamente: « Il
quarto voto del Salesiano è la bontà. Il Salesiano senza bontà
non è Salesiano ». Io credo che il commento più bello a questo
è l'insistenza di Don Bosco nel dire che l'educazione è cosa di
cuore.
Che bel materiale per la nostra riflessione sullo spirito sa-
lesiano di Valdocco e di Mornese!
5.7. CARITÀ E « VITA INTERIORE»
Con la riflessione sulla carità, noi abbiamo preso v1S1one
dei diamanti della triade teologale. La carità è la realizzazione
più intensa e più piena della fede e della speranza portate
alla loro perfezione vitale.
Possiamo ora dire qualcosa di conclusivo di tutti e tre questi
96

10.9 Page 99

▲back to top
diamanti . I tre insieme costituiscono l'espressione di ciò che
si chiamava e che si soleva chiamare « vita interiore ». La
« strenna » di quest'anno, desunta da una circolare inviata a
voi da don Rinaldi., ci ha invitati a intensificare « la vita in-
teriore».
Oggi non si usa tanto parlare di « vita interiore »; si pre-
ferisce dire « vita nello Spirito Santo», per evitare il pericolo
dell'« intimismo » o del sentimentalismo spirituale. La « vita
interiore », infatti, deve apparire esternamente, quasi fosse il
volto della nostra spiritualità. Non si vede forse chi è buono,
chi ha carità, chi ha fede, chi ha speranza? Se deve esprimere
la bontà e suscitare la simpatia come segno dell'amore di Dio,
questo deve essere percepito nelle modalità della vita quoti-
diana. Infatti ci accorgiamo subito quando uno ha « vita in-
teriore » o quando è superficiale.
Don Bosco ripeteva evangelicamente che gli altri devono ve-
dere le nostre opere buone per lodarne il Signore. Noi dob-
biamo farci amare; e i dinamismi della nostra amabilità si
esprimono attraverso la fede, la speranza e la carità. E. per
mezzo di essi che i giovani possono vedere Dio in noi e non
già attraverso la ricerca del nostro io, le nostre reazioni, le
nostre passioni. E così sono portati ad amarci.
Dobbiamo dunque far vedere anche all'esterno la nostra « vita
nello Spirito » come dice il documento Mutuae relationes:
« Pertanto, prima di considerare la diversità dei doni, degli uffici e dei
·compiti, è necessario ammettere come fondamentale la vocazione comu-
ne all'unione con Dio per la salute del mondo. Ora questa vocazione
richiede in tutti, come criterio di partecipazione alla comunione ecclesiale,
il primato della vita nello Spirito, in base a cui si hanno in privilegio
l'ascolto della Parola, la preghiera interiore, la coscienza di vivere come
membro di tutto il Corpo e la sollecitudine dell'unità, il fedele adempi-
mento della propria missione, il dono di nel servizio e l'umiltà del
pentimento » (MR 4) .
I tre diamanti posti sul petto del Personaggio del sogno sono
l'espressione di tutto ciò che c'è di più vitale nel nostro cuore,
sono l'espressione e la sostanza della nostra « vita nello Spi-
rito Santo ». Tutte le altre attività devono spiegarsi ed essere
vivificate da quelle della fede, della speranza e della carità:
ossia da una esuberante « vita nello Spirito ».
97

10.10 Page 100

▲back to top
Possiamo dunque concludere affermando che lo spirito sale-
siano è tutto centrato nel far crescere il dinamismo della ina-
bitazione dello Spirito Santo nel nostro cuore, curando la fede,
la speranza e la carità. Il primato della « vita nello Spirito »
è l'elemento più profondo e più vitale del cuore di Don Bosco
e di madre Mazzarello: la « vita interiore » come anima di
tutto!
Orbene: ci sono due forti punti di appoggio della « vita
nello Spirito », che dobbiamo saper curare sempre; in essi si
esercita e cresce la fede, la speranza e la carità. Sono: un
tempo privilegiato e · un esercizio preferito. Il tempo privile-
giato è quello della preghiera. L'esercizio preferito è il dono
di sé nel sacrificio.
Nel commento alla « Strenna » di quest'anno vi ho detto
che « la preghiera è il respiro indispensabile di ogni vita in-
teriore». Non si allude qui materialmente alle pratiche di
pietà; si parla piuttosto di « preghiera ». Dobbiamo assicurarle
un tempo veramente privilegiato: · come persone, prima di tutto,
e poi anche come comunità. Dobbiamo trovare il ritmo, la pe-
dagogia, le strutture che difendono questo tempo indispensa-
bile da dedicare alla preghiera. Salesianamente possiamo ripe-
tere quella famosa espressione latina: « Non multa sed multum ».
Noi non abbiamo molte ore di pratiche di pietà. Don Bosco
non voleva che noi stessimo in cappella in ginocchio tutto il
giorno, voleva che lavorassimo; però esigeva la cura di deter-
minati tempi forti quotidiani, settimanali, mensili, trimestrali,
annuali che assicurassero permanentemente la pienezza della
carità. Infatti, avere una carità che faccia diventare il lavoro
preghiera e che trasformi la vita in liturgia, non è cosa tanto
facile. Certo: con la carità possiamo trasformare in liturgia
tutta la nostra esistenza; però, per avere una tale carità, è
indispensabile curare la « vita nello Spirito », sapere raccogliersi,
avere spazi di silenzio, di riflessione personale. Occorre privi-
legiare il primato della persona, perché, se ogni persona non
è orante, se ognuno è superficiale, quale comunità volete che
ne risulti? Una comunità è profonda se è comunione di per-
sone con vita interiore. Spero di potervi parlare di nuovo, più
avanti, sulla preghiera come vertice della carità da cui esplode
la mistica del « Da mihi animas ».
98

11 Pages 101-110

▲back to top

11.1 Page 101

▲back to top
Il secondo punto d'appoggio è l'esercizio preferito del dono
di sé nel sacrificio. Nessuno ha mai amato di più di colui che
la propria vita per l'altro: è Vangelo. Quindi, bisogna far
fruttificare la « vita interiore » attraverso un concreto e quoti-
diano spirito di sacrificio.
5.8. UN CUORE DI MAMMA
Per concludere, ricordiamo una frase di Mamma Margherita
ai primi ragazzi di Valdocco. Quando disturbavano con i loro
disordini, Mamma Margherita diceva a Don Bosco: « Poveri
figliuoli! Se loro non si parla chiaro, non capiscono! Ma ho
schiuse ad essi le orecchie e vedrai che cambieranno condotta!
Sono di buon cuore! Ma sono tanto giovani! Riflettono così
poco! Usiamo loro carità. La carità trionfa sempre» (MB 3,369).
Per capire bene lo spirito salesiano dobbiamo riflettere sulle
origini. La carità e la bontà propria del Sistema Preventivo le
troviamo in questa prima ora dell'Oratorio, quando con Don
Bosco c'era Mamma Margherita e quando le cose funzionavano
proprio secondo il cuore: un cuore permeato dall'amore dello
Spirito Santo.
Sapete perché ho voluto citare Mamma Margherita? Perché
l'amore, la bontà, la carità pedagogica, il cuore si esprimono
più esemplarmente in una mamma. Don Bosco ha avuto sempre,
più in là di Mamma Margherita (quando è morta è andato
alla Consolata, a dirlo alla Madonna) , una Mamma celeste che
fin dai nove anni, nel primo sogno, è stata la sua Maestra e
la sua Guida.
Non c'è un'espressione più simpatica della bontà che la ma-
ternità: « In dolce atto di amore - come dice il poeta -
che intendere non può chi non è madre ».
Nel nostro spirito c'è proprio anche questo indispensabile
tocco mariano. La Madonna è presente in ogni comunità sa-
lesiana per dare il tono appropriato alla sua carità. Chiediamo
a lei, Madre del divino Amore e Ausiliatrice nostra, che ci
insegni ad essere fedeli a questa bellissima caratteristica dello
spirito di Valdocco e di Mornese, la « vita nello Spirito Santo»:
fede, speranza, carità, sintetizzate nella bontà salesiana, come
irradiazione e splendore dell'amore soprannaturale di Carità.
99

11.2 Page 102

▲back to top
6
QUARTO DIAMANTE
IL LAVORO
Il quarto diamante è quello del « Lavoro », che è posto sulla
spalla destra. Sui suoi raggi si legge: « Rimedio alla concupi-
scenza; arma potente contro tutte le tentazioni del demonio ».
Sulla spalla sinistra, come accompagnatore inseparabile, brilla
il diamante della « Temperanza » .
Premettiamo, dunque, una breve riflessione d'insieme su « la-
voro e temperanza »: infatti, tutti e due costituiscono insieme lo
stemma dello spirito salesiano. Osserviamo che i due diamanti
stanno sulle spalle, quasi a sostenere (come diceva don Rinaldi)
tutto il manto.
6.1. « LAVORO E TEMPERANZA »
Ci è utile rileggere alcune righe del sogno del « toro furi-
bondo » fatto da Don Bosco nel 1876.
« Vieni, ti farò vedere il trionfo della Congregazione di S. Francesco
di Sales. Monta su questo sasso e vedrai!
Era un gran macigno in mezzo a quel piano sterminato, ed io vi
montai sopra. Oh che vista immensa si affacciò ai miei occhi! Quel cam-
po che non avrei creduto tanto vasto, mi comparve come se occupasse
tutta la terra. Uomini di ogni colore, d'ogni vestito, d'ogni nazione,
vi stavano radunati. Vidi tanta gente che non so se il mondo tanta ne
possegga. Cominciai ad osservare i primi che si affacciarono al nostro
sguardo. Erano vestiti come noi italiani. Io conoscevo quei delle prime
file e vi erano tanti Salesiani che conducevano come per mano squadre
di ragazzi e ragazze. Poi venivano altri, con altre squadre; poi ancora
altri ed altri che più non conosceva e più non poteva distinguere, ma
erano in numero indescrivibile. Verso il mezzodì comparvero ai miei
occhi: siciliani, africani ed un popolo sterminato di gente che io non
conosceva. Erano sempre condotti da Salesiani, i quali io conosceva nel-
le prime file e poi non più ».
100

11.3 Page 103

▲back to top
E continua a descrivere una visione staordinaria·e prometten-
te; poi a un certo punto indica le condizioni necessarie perché
tutto questo avvenga.
« Vedi quanto sia immensa la messe? Questo campo immenso in cui
ti trovi è il campo in cui i Salesiani devono lavorare. I Salesiani che
vedi sono i lavoratori di questa vigna del Signore. Molti lavorano, e
tu li conosci. L'orizzonte poi si allarga, a vista d'occhio, di gente che tu
non conosci ancora; e questo vuol ·dire che non solo in questo secolo,
ma ben anche nell'altro e nei futuri ·secoli, i Salesiani lavoreranno nel
proprio campo. Ma sai a quali condizioni si potrà arrivare ad eseguire
quello che vedi? Te 16 dirò io. Guarda: bisogna che tu faccia stampare
queste parole che saranno come il vostro stemma, la vostra parola d'ordi-
ne, il vostro distintivo. Notale bene: Il lavoro e la temperanza faranno
fiorire la Congregazione Salesiana. Queste parole le farai spiegare, le ri-
peterai, insisterai. Farai stampare il manuale che ·le spieghi e faccia capir
bene che il lavoro e la temperanza sono l'eredità che lasci alla Con-
gregazione, e nello stesso tempo ne saranno anche fa gloria » (MB 12,
466-467).
Scrivendo l'anno seguente (1877) a don Fagnano che si tro-
vava a S. Nicolas de los Arroyos, opera da poco fondata, Don
Bosco gli dice: « Ma tu ricorda sempre a tutti i nostri Salesiani
il monogramma da noi adottato: Labor et temperantia. Sono
due armi con cui noi riusciremo a vincere tutti e tutto » (MB
13,326).
Don Rinaldi, quando spiega la disposizione dei diamanti, fa
osservare che il manto del Personaggio è sorretto dai due dia-
manti del « Lavoro » e della « Temperanza », e aggiunge: « La
vita salesiana, considerata nella sua attività, è lavoro e tempe-
ranza, vivificati dalla carità del cuore nella luce sempre più
luminosa della fede e della speranza » (« Atti Capitolo Supe-
riore» 56, 1931, p. 934).
Ecco la maniera salesiana di incarnare i tre dinamismi divini
(fede, speranza e carità) che sono nel nostro cuore: tradurli
in lavoro e temperanza! Questo è il nostro stemma. Qualcuno
poi l'ha cambiato in « lavoro e preghiera»; è anche bello, però
il nostro stemma rimane « lavoro e temperanza».
Al termine della: meditazione quotidiana, nell'atto di affida-
mento alla Madonna, i Salesiani pregano così: « Maria Ausilia-
trice, insegnaci a imitare le virtù di Don Bosco, in particolare
l'unione con Dio, la sua vita casta, umile e povera, l'amore al
101

11.4 Page 104

▲back to top
lavoro e alla temperanza, la bontà e la donazione illimitata ai
fratelli, la sua fedeltà al Papa e ai Pastori della Chiesa ». La
sintesi pratica dello spirito salesiano è concentrata nel lavoro e
nella temperanza.
Lo stesso Don Bosco conclude gli Esercizi spirituali di Lanzo
nel 1869, dicendo: « Lavorare con fede , speranza e carità »
(MB 9,712).
Nelle Costituzioni di noi Salesiani c'è un articolo che riassume
il pensiero di Don Bosco così:
« " Il lavoro e la temperanza faranno fiorire la Congregazione". La
ricerca ,delle comodità e delle agiatezze ne saranno invece la morte. Il
Salesiano si dà alla sua missione con operosità instancabile. Il lavoro apo-
stolico è Ia sua mistica perché ne percepisce la grandezza divina e l'ur-
genza; è la sua ascetica perché ne accetta le dure esigenze. È pronto
a sopportare il caldo e il freddo, la sete e la fame, le fatiche e il di-
sprezzo ogni volta che si tratti della gloria di Dio e della salvezza delle
anime » (Cost. art. 42).
Dunque, « lavoro e temperanza »: un binomio da vivere uni-
tamente.
Ma ora riflettiamo un po' sul « lavoro » .
6.2. DON BOSCO E IL LAVORO
Sono andato a rileggere una famosa conferenza di Alberto
Caviglia di cui certamente avrete sentito parlare . Incomincia la
conversazione sul lavoro così: « Ecco lo scandalo di un santo: .
dice molte più volte "lavoriamo" che non "preghiamo" ». Ed è
proprio vero !
Don Bosco alla giovane Maria Mazzarello e alle Figlie dell'Im-
macolata manda un bigliettino con questo breve consiglio: « Pre-
gate pure, ma fate del bene più che potete» (Cron. I 118).
Più tardi, nel 1869, quando fa quell'orario-programma coi fa-
mosi quattro consigli, nel secondo raccomanda: amore al la-
voro, in modo tale che ciascuna possa dire: mi mantengo con
il sudore della mia fronte (cf Cron. I 225).
Ascoltiamo altre testimonianze del nostro Padre: « Don Bosco
ai preti e ai chierici che l'accompagnavano nella stanza, il 7
maggio del 1871 , dopo la buona notte ai giovani disse: Io
102

11.5 Page 105

▲back to top
non penso mai che la morte possa troncare i miei disegni, ma
faccio ogni cosa come se fosse l'ultima di mia vita. Incomin-
cerò qualche impresa, forse non avrò tempo di condurla a ter-
mine, ma non importa; farò quanto potrò, fosse pure quello
l'ultimo dei miei giorni. Lavoro sempre come se dovessi vivere
ancora per lunghi anni » (MB 6,933).
Parlando al Consiglio Superiore, la sera del 10 dicembre 1875,
afferma: « Per riguardo alla Congregazione, io vedo, benché
si vada ripetendo essere necessario che ci consolidiamo, che,
se si lavora molto, le cose vanno meglio: il consolidamento
si può fare più lento, ma resterà fors 'anche più duraturo. E noi
lo vediamo proprio ad occhi chiusi: finché c'è questo gran
moto, questo gran lavoro, si va avanti a gonfie vele e nei mem-
bri della Congregazione c'è proprio una gran voglia di lavorare »
(MB 11,409).
Io ho potuto costatare la verità di tale affermazione. Ho visto
religiosi di altri Istituti con ideologie abbastanza squilibrate;
tra i nostri confratelli fortunatamente ne ho trovati pochi con
simili idee. Sapete perché? (questa è una mia interpretazione)
perché non hanno tempo di elucubrare tante teorie; devono ri-
solvere problemi urgenti e lavorare, soprattutto se sono missio-
nari.
Sempre Don Bosco, di ritorno da un viaggio in Francia, nel
1877, fece visita ad Alassio alle vostre consorelle. Interrogatele
se avessero molto lavoro e avuta risposta affermativa: « Ebbene,
guardate, - disse - quando io vado nelle case e sento che c'è
molto da lavorare, vivo tranquillo. Dove c'è lavoro, non c'è
il demonio» (MB 13,116).
Un'altra volta, in una conferenza affermò: « Chi vuole entrare
in Congregazione, bisogna che ami il lavoro. [ ... ] Non si la-
scia mancare nulla del necessario, ma bisogna lavorare. [ ... ]
Niuno vi entri con la speranza di starvi con le mani sui fianchi
[ ... ] » (MB 13,424). I fannulloni non sono per i nostri novi-
ziati. E il motto: « pane, lavoro e paradiso » è uno slogan pa-
radigmatico.
Era un'insistenza costante del nostro Padre: « Non state mai
inoperosi, se non lavorate voi, lavora il demonio» (MB 13,433).
E in questo fu sorretto anche da un consiglio del Papa: « An-
date avanti! - gli aveva detto Pio IX - Il demonio ha più
103

11.6 Page 106

▲back to top
paura di una casa di lavoro, che di una casa di sola preghiera»
(MB 17,661).
Per questo il nostro buon Padre non ha temuto di affermare
che: « Quando avverrà che un Salesiano soccomba lavorando
per le anime, allora direte che la nostra Congregazione ha
riportato un gran trionfo» (MB 17,273).
Il medico che lo curava negli ultimi anni, parlando dello
stato di salute di Don Bosco disse: « È un uomo morto dalla fa-
tica e tutti i giorni continua nel lavoro. Mangia poco e vive.
Questo per me è il massimo dei miracoli » (Dottor Combal).
« Si è consumato per troppo lavoro. Non muore di malattia»
(Dottor Fissore) (MB 18,500).
Ci sono poi i discorsi di Pio XI per la beatificazione e per la
canonizzazione di Don Bosco. Papa Ratti ha fatto una cosa che
oggi sembrerebbe impossibile. Ha voluto che il nostro Padre
fosse canonizzato il 1° aprile, giorno di Pasqua, nell'Anno San-
to {1934), quasi a mettere in evidenza uno stile di santità per
la nuova cultura emergente.
Nell'udienza del 3 aprile 1929 concessa, dopo la beatifica-
zione di Don Bosco, a don Ricaldone che accompagnava un folto
numero di Salesiani, Figlie di Maria Ausiliatrice, cooperatori e
alunni, Pio XI disse: « "La gloria del Padre siano i figli saggi".
Il vostro Padre sarà glorificato con la gloria più bella che an-
che umanamente gli può arridere, se voi sarete i figli sapienti
di tanto padre; se saprete come ora, anzi sempre più e sempre
meglio intendere lo spirito suo e dell'opera sua, se saprete sem-
pre meglio continuarla precisamente come egli voleva, senza
misurare il lavoro (ricordiamo quello che egli stesso diceva, glo-
riosa divisa: Chi non sa lavorare non è Salesiano), senza mi-
surare (ci sembra ancora di vederlo con gli occhi nostri) la de-
dizione, anzi l'abdicazione intera di tutto quanto riguardava la
propria persona ad ogni cosa che potesse contribuire al bene
delle anime » {MB 19,157) .
In un'altra udienza (19 novembre 1933) disse: « Quest'uomo
che non ha avuto tempo se non per l'attività e l'azione, il la-
voro costante e incessante in me~zo a piccoli fanciulli, a giovani,
a vecchi, ha saputo scrivere moltissimo: sono oltre una settan-
tina, infatti, le sue pubblicazioni, i suoi scritti dati alle stampe,
alcuni dei quali, ancor lui vivente, hanno avuto un numero favo-
104

11.7 Page 107

▲back to top
losO di edizioni... ». Poi continua con una lista di tutte le cose
fatte, delle Congregazioni fondate, ecc. (cf MB 19,234).
Alberto Caviglia citando questi discorsi del Papa Pio XI dice:
<< Noi siamo i veri proletari della Chiesa, i lavoratori nel senso
nobile della parola! ». Davvero che il lavoro - come dice an-
cora Pio XI ...:_ è il distintivo, la tessera del Salesiano (cf MB
19,235).
Anche madre Mazzarello,' abituata già da ragazza al lavoro, lo
raccomanderà alle sue suote: « Sorelle, lavoriamo il più che
possiamo, non perdiamo un momento di tempo. Il nostro Padro-
ne ci darà la paga ben abbondante» (MAccoNo, II 160). « Rac-
comando a tutte di lavorare senza ambizione, solo per piacere
a Gesù » (Lettera 22).1 « Lavorate tanto per guadagnarvi ìl
Paradiso» (Lettera 19). « Lavoriamo di cuore per guadagnar-
ci un bel posto in Paradiso; lavoriamo solo per Gesù» (Cron.
II 338). « Lavoriamo tanto e più che pOssiamo, se vogliamo
la benedizione del Signore sulla casa» (Cron. III 264). « Lavo-
rate, lavorate tanto nel campo che il Signore vi ha dato, non
stancatevi mai; lavorate sempre con la retta intenzione di fare
tutto per il Signore; ed ecco un bel tesoro di meriti per il
Paradiso» (Lettera 59). Ella ha ben capito la lezione!
Dunque, siamo sicuri che questa ·è una caratteristica della
nostra indole propria. Il nostrò Padre ha anche detto che l'abi-
to dei Salesiani · potrebbe essere quello di andare in maniche
di camicìa. Non tanto per andare vestiti alla buona, come a
volte si vede oggi, quanto per voler stare coi poveri e lavorare
tutto il giorno.
6.3. TESTIMONIANZA PROFETICA
PER UNA CIVILTA DEL LAVORO
Il lavoro e la temperanza possono essere un elemento costi-
tutivo di originalità spirituale? Sì! San Giovanni Bosco e santa
Maria .Domenica Mazzarello sono dei testi qualificati. Io direi
che in essi si può leggere una profezia per la . nuova cultura.
. 1 Lettere di .S. Maria Domenica Mazzarello, confondatrice dell'Istitu-
to' delle FMA . Introduzione e note· a cura -di M. E. PosAoA'. Prefazione di
S. Em. il card . G. M. Garrone, Ancora, Milano 1975 .
105

11.8 Page 108

▲back to top
C'era bisogno di una testimonianza profetica, fatta religiosa-
mente, in un'epoca culturale d'ispirazione materialista, caratte-
rizzata dalla civiltà tecnica e industriale.
Lo Spirito Santo suscita i suoi santi quando si aprono spazi
e orizzonti nuovi nella storia, anche per assumere e conservare
valori presenti nella cultura popolare dell'epoca. Spariscono nel-
la cultura susseguente, ma permangono sugli altari come · profe-
zìa di santi, perché sono dei valori che non devono perdersi.
Così è avvenuto anche durante la caduta dell'Impero Romano:
una vasta cultura in decomposizione, ma alcuni dei suoi valori
furono tradotti in profezia di futuro. Abbiamo santi che hanno
testimoniato nella Chiesa alcuni grandi valori della cultura ro-
mana: Ambrogio, Agostino, Paolino da Nola, ecc. Tra questi
alcuni erano stati uomini politici e, nell'assumere il Vangelo,
seppero dare un senso cristiano a certi magnifici valori della
loro cultura. Il cristianesimo, infatti, assume tutto ciò che è va-
lido nella vita dei popoli, soprattutto quando è espressione di una
maturazione in umanità.
Noi pensiamo che la cultura contadina del secolo scorso,
almeno qui in Europa, sia ormai un ricordo del passato. Un
recente artistico film, « L'albero degli zoccoli », facendo rivivere
scene di quei tempi, ci aiuta a costatare come il cristianesimo
aveva permeato l'esistenza quotidiana. Si tratta di gente sem-
plice come Mamma Margherita, come il babbo e la mamma di
Maria Domenica: famiglie che erano più cristiane di noi reli-
giosi di oggi.
Ebbene: il nostro stemma « lavoro e temperanza » è radicato
nel vissuto delle famiglie cristiane di quei tempi, espressione
di tanti valori di quella cultura popolare.
Noi veniamo da gente povera: guardate ai Becchi. Andate a
Mornese a vedere da dove venite. Veniamo dai poveri, da una
cultura popolare. Ed è un disegno di Dio, perché siamo per
i poveri, per il popolo . Siccome la cultura popolare dell'epoca
aveva dei grandi valori, ecco che questi santi li hanno assunti
nella loro santità e li hanno trasmessi come spiritualità no-
stra. Dobbiamo pensare a questo non per rimpiangere la cul-
tura contadina di allora, ma per lanciare una profezia in una
civiltà che ha bisogno di quei valori reinterpretati su misura di
attùalità.
106

11.9 Page 109

▲back to top
E qual è questa attualità? Siamo all'aurora di una nuova cul-
tura che è stimolata dalla civiltà del lavoro; è l'ora della tecnica
e dell'industria, dove il lavoro occupa un posto centrale.
Ebbene: quando parliamo del nostro lavoro, vorremmo sen-
tirci « profeti » e non dei semplici « asceti». Dobbiamo parlare
del lavoro in modo profondo e ampio. Non è solo un moralismo
di condotta, dovrebbe essere una profezia religiosa, dove c'è
anche un posto non indifferente per l'ascesi, ma dove c'è tutta
una testimonianza per la gente d'oggi, evangelicamente utile al
mondo del lavoro.
Ho voluto suggerirvi questa ampia cornice d'impostazione per-
ché si tratta del nostro spirito. Dobbiamo saperlo incorporare
in un quadro storico e culturale importante, per evitare il grave
pericolo di ridurlo a un semplice consiglio moralistico in vista
di evitare delle tentazioni. Lo spirito del Fondatore è anzitutto
la testimonianza di una speciale « esperienza di Spirito Santo »,
animata dalla fede, dalla speranza e dalla carità. Quindi il la-
voro non servirà solo per scappar via dalle tentazioni; esso ca-
ratterizza la fisionomia del nostro volto spirituale!
Pensando all'attuale situazione sociale in cui il lavoro ha
assunto un'importanza tanto grande e problematica nella velo-
cità dei cambiamenti socio-culturali, credo sia opportuno tratte-
nerci a considerarlo brevemente almeno in due ottiche. Sono
tutte e due illuminanti, anche se per noi sarà più importante la
seconda.
6.4. IL LAVORO COME DATO OGGETTIVO
La prima ottica è quella di considerare il lavoro come dato
oggettivo, quale componente sociale. Da questo punto di vista
noi viviamo in un'epoca dove c'è una grande novità: il lavoro
messo al centro della società. Non è più l'attività dello schia-
vo, dove l'« otium », nel senso di potersi dedicare ad altre
cose, era proprio dei liberi, e gli schiavi invece « lavoravano ».
Il lavoro è elemento centrale della società umana, dell'uomo li-
bero, tanto che invece di parlare dell'uomo « sapiens » si parla
dell'uomo « faber »: il lavoratore, l'uomo che costruisce, che mo-
107

11.10 Page 110

▲back to top
difica il mondo; e così il valore del lavoro acquista un'impor-
tanza straordinaria.
Gli Stati moderni sono organizzati sul lavoro. Si è anche pub-
blicizzato un mito di lavoratore: lo « stakanovista » - quello
che sa lavorare più ore, con maggiore intensità, che produce di
più, ecc. - come ideale dell'uomo, oggi, in uno Stato di lavo-
ratori.
Il lavoro, anche se è sfigurato da certe ideologie, è davvero un
valore centrale nella società e nella cultura di oggi. Fa emergere
un aspetto della missione dell'uomo nel mondo: quello di do-
minare la natura per umanizzarla e metterla a servizio della per-
sona: « dominate la terra»! (Gn 9,7).
Pensiamo, ad esempio, alla scienza che si traduce in tecnica:
quante cose ha apportato nel campo del lavoro, dell'industria;
pensiamo a come viaggiava Don Bosco e a come viHggiamo noi,
oggi. C'è una bella differenza! E dobbiamo riconoscere che non
è un male avere la possibilità di vivere meglio. La parola « co-
modità » suole avere un peso morale pessimistico; però a tutti
piace stare meglio, avere una casa più funzionale, possedere
mezzi più efficienti e puliti per riscaldarsi quando fa freddo, ecc.
Noi però che siamo credenti, quando guardiamo a tutto que-
sto, ci accorgiamo che insieme a vantaggi positivi c'è anche una
controparte negativa. Bisogna stare attenti a non innalzare la
comodità a idolo, come qualcuno fa. Il « benes·sere » è un valore
ambiguo che ha bisogno di rettifica, non per sopprimerlo, ma
per farlo conoscere in favore dei valori veramente umani.
Nell'aspetto economico: la maggior produzione di beni è, di
per sé, un dato positivo; però troppo spesso essa è accompa-
gnata da un calo di umanesimo: meno fraternità, più discrimina-
zione, più accaparramento. C'è chi sta molto bene - ed è da
desiderare che tutti gli uomini stiano meglio - e invece c'è
chi sta molto male, e vive nella miseria.
Nell'aspetto socio-politico: un frutto importante del lavoro
odierno è la socializzazione. Il lavoro è stato un fattore che
ha suscitato nuovi rapporti nella società, ha intensificato la so-
lidarietà. Dove si verifica il fenomeno dell'urbanesimo? A fian-
co dei centri industriali. Quanti abitanti aveva Torino, senza
la FIAT, ai tempi di Don Bosco, e quanti ne ha adesso? Sono
nati i sindacati, che di per sé sono un bene. Si è intensificata
108

12 Pages 111-120

▲back to top

12.1 Page 111

▲back to top
\\
la partecipazione, che è un bene. Però, insieme a questo è an-
che apparsa la lotta di classe, l'odio, l'interpretazione manichea
della convivenza: solo per il fatto di essere da una parte o dal-
l'altra (padroni e proletari), senza giudicare le azioni e le per-
sone, si è buoni o cattivi.
Nell'aspetto culturale: è per opera del lavoro organizzato che
è nata la civiltà tecnico-industriale, come una nuova tappa nella
crescita umana. Basta, per esempio, vedere l'agricoltura antica
e osservare come si fa oggi a coltivare le colline dei dintorni
di Roma che una volta non si potevano arare. L'industrializza-
zione dell'agricoltura permette una possibilità di alimento per le
popolazioni prima impensabile, e non sappiamo quanto ancora
potrà progredire.
Dunque, il lavoro ha causato un salto di qualità nel modo di
vivere come uomini, ha reso - ecco il suo valore positivo -
possibile una vita più umana. Invece di faticare per settimane
a vangare la terra è sufficiente il lavoro per poche ore di una
macchina ... e si produce di più.
L'umanizzazione della natura attraverso il lavoro esprime un
elemento molto positivo della creazione di Dio, che ha fatto
l'uomo padrone del mondo. Però, insieme cresce la mentalità
materialista. Il benessere diventa un idolo da adorare: avere
una casa, avere la macchina, divertirsi; oppure avere uno Stato
potente, con le armi più sofisticate, per un « imperialismo dei
lavoratori ». E così cresce la sperequazione sociale e l'assogget-
tamento dei popoli. Tanto che qualcuno potrebbe affermare che,
in realtà, il lavoro non ha umanizzato la terra. E così il lavoro,
come dato oggettivo, risulta ambivalente e bisognoso di evange-
lizzazione.
Tra le cose positive del lavoro, visto come dato oggettivo della
componente sociale, ci sono alcuni aspetti da assumere e colti-
vare con aggiornata serietà, come la professionalità, la compe-
tenza nelle differenti funzioni, l'organizzazione, la razionalizzà-
zione, la formazione adeguata e l'aggiornamento, ecc. La strut-
turazione e il funzionamento di un'industria mette in rilievo
molti valori concreti per chi ha una missione di promozione uma-
na come la nostra (evangelizziamo « educando»!) .
La nostra formazione dovrà prendere in considerazione le e_si-
genze di un lavoro professionale che accompagna necessaria-
109

12.2 Page 112

▲back to top
mente la vocazione salesiana. Il lavoro, infatti, non è soltanto
quello che implica :1a forza dei muscoli, ma anche lo studio e la
competenza tecnica. Per far funzionare una macchina, un cer-
vello elettronico, per insegnare una disciplina, per dirigere un
gruppo, per vincere l'analfabetismo, ecc., ci vuole una prepa-
razione.
6.5. IL LAVORO COME VALORE SOGGETTIVO
La seconda ottica con cui consideriamo il lavoro è il suo
aspetto soggettivo. Qui, più che guardare al lavoro in sé come
dato oggettivo, guardiamo alla persona che lavora, al lavoratore
in quanto agisce. L'uomo nasce come un progetto e deve co-
struire la sua personalità. La descrizione concreta di una per-
sona non si esaurisce nella definizione metafisica, ma coinvolge
la storia di un individuo con le sue azioni e i suoi impegni. Il
lavoro è una delle attività con cui l'uomo fa se stesso. Qui vo-
gliamo sottolineare questo aspetto soggettivo del lavoro, ossia la
persona che lavora; i motivi e l'atteggiamento con cui lavora,
più che la qualità oggettiva del lavoro stesso.
A noi interessa in modo particolare riflettere sul come la
fede, la speranza e la carità spingono il Salesiano ad essere un
grande lavoratore nella Chiesa: la triade spirituale è la sor-
gente del suo impegno, la luce delle sue motivazioni, l'anima
che mette in moto quotidianamente il suo lavoro. Perché lavora
il Salesiano? Quali devono essere gli atteggiamenti del suo
cuore?
Il Salesiano si identifica innanzitutto non per una « profes-
sione », bensì per la sua « vocazione ». Però la sua vocazione
gli esige delle competenze concrete e oggettive. Il suo è sempre
un .lavoro qualificato da una motivazione « apostolica » o « pa-
storale », però comporta anche la professionalità del professore,
ingegnere, agricoltore, cuciniere, ecc. Qui ci interessa insistere
sull'indispensabile aspetto apostolico o pastorale del suo lavoro.
L'apostolato e l'impegno per la costruzione del Regno non
sono una professione che entri nei ranghi del ministero del la-
voro, o nei cataloghi di un 'sindacato. È un'attività originale,
che assume anche le professioni umane, ma che conserva sempre
110

12.3 Page 113

▲back to top
\\
una sua propria caratteristica che sgorga solo dal cuore di chi
la realizza. Si traduce in lavoro, in attività, in cose da fare, in
impegni da assumere, ecc.; ma è amore, quale espressione di
fede, di speranza e di carità. Perciò il lavoro si va come trasfor-
mando in attività di testimonianza. La « triade » che lo muove
fa trascendere i fini immediati, i vantaggi materiali, i risultati
tecnici, e mette questo tipo di lavoro al servizio dell'uomo in un
mondo da preparare al « momento in cui Dio mostrerà il vero
volto dei suoi figli» (Rm 8,19).
Ed ecco, allora, che il Salesiano intende proclamare col suo
lavoro un messaggio alla gioventù, che dia attualità e importanza
ai grandi valori della fede, della speranza e della carità, quali
veri dinamismi storici che entrano a cambiare radicalmente l'esi-
stenza umana, la propria e quella della società.
Quindi, alla radice di tutto, un lavoro-testimonianza! Certo:
sappiamo che tale testimonianza non esclude l'assunzione di un
mestiere o di una professione anche salariata. Pensiamo a un
Istituto secolare: consacrati che lavorano nel mondo e che at-
traverso il loro lavoro nella secolarità danno testimonianza del
Regno. Pensiamo, inoltre, a tanti lavori domestici necessari al
vivere quotidiano: cucina, lavanderia, orto, portineria, servizi
vari, che la consacrazione trasforma in feconda testimonianza.
Ebbene: tenendo presente questa doppia ottica del lavoro,
ci conviene arricchire la nostra riflessione con alcuni spunti of-
ferti dalla « teologia del lavoro ».
6.6. « TEOLOGIA DEL LAVORO »
· Si è parlato in questi anni di una « teologia del lavoro » .
Il primo a scrivere su questo tema fu il padre Chenu, un do-
menicano francese. Ma è già cresciuta la bibliografia al riguardo.
Vediamone alcuni spunti che ci illuminino.
La riflessione teologica sul lavoro è fondata sui due elementi
portanti del mistero della storia della salvezza: la creazione e
la redenzione. Dio Padre che crea il mondo, Dio Padre che
invia Gesù Cristo a salvarlo.
La creazione, innanzitutto, non è un'azione divina limitata a
miliardi di anni fa, ossia una cosa del passato. Essa è un dina-
111

12.4 Page 114

▲back to top
mismo divino in continuazione; la creazione è il mistero del-
l'amore creativo di Dfo 'Padre anche oggi; non è un'azione del
passato già finita, è un'attività di Dio sul divenire, l'oggi ·di Dio;
è un'azione . permanente che anima l'essere e lo sviluppo del
cosmo. Ecco un primo elemento importante.
· Cosi si dovrà concepire il lavoro umano come un'attività che
incorpora la . persona del lavoratore nella dinamica della crea-
zione, · che lo fa « co-creatore », non per fabbricare delle ga-
lassie, ma per rendere il mondo umano, per trasformare il mon-
do in storia, per crescere e dominare la terra. Chi fa umana la
terra? Chi° struttura la città? L'uomò! Dio l'aiuta, però il pro-
t_agonista diretto è l'uomo.
Quindi c'è, nel lavoro, una dimensione di collaborazione con
Dio per lo sviluppo e l'umanizzazione del mondo; è qui anche
la radice di una « laicità » fondamentale o creaturale dei di-
stinti lavo,ri da imprendere.
Da questo primo elemento può sgorgare tutta una « mistica »
dèl lavoro umano, del senso profondo di una sana « secolarità »,
dell'importanza anche spirituale di una « professionalità», che
fa pensare alla bellezza e alla grandezza dell'essere lavoratore.
E poi il secondo aspetto: la redenzione. Purtroppo l'attività
dell'uomo nella storia è ferita dal peccato, per cui c'è tanto
mal~; non comporta solo delle ambivalenze, .ma anche vera per-
versione delle cose: basti pensare alle sperequazioni e alle in-
giustizie che sperimentiamo oggi nella con~ivenza sociale. · C'è
bisogno, allora, di liberare i frutti del lavoro dell'uomo da non
poche deviazioni, per dare alla vita umana sulla terra il senso
della fraternità, nell'impegriO di strutturare la civiltà dell'amore.
A tale scopo Cristo si è incarnato, è morto e risuscitato; si
è fatto il Redentore dell'uomo. E nel compiere questa sua mis-
sione ha assunto il Javoro , dando alle sue esigenze e alla sua
fatica Ùna dimensione liberatrice. Egli ha voluto nascere tra i
poveri e vivere tra i lavoratori, a Nazaret (« Che cosa viene di
buono da Nazaret? »); Giuseppe è un umile lavoratore e la sua
sposa Maria appartiene al suo stesso livello sociale; una famiglia
in strettezze, che risolve il problema quotidiano dell'esistenza
col lavoro applicando ciò che la Genesi dice: « Mangerai con il
sudore della tua fronte ... » {3,19).
E così la fatica ,, il peso del lavoro diventa mediazione di re-
112

12.5 Page 115

▲back to top
\\
deniione. Il cristiano concepisce il lavoro umano anche come
un'attività che incorpora la persona del lavoratore nella dina-
mica della .redenzione, che lo fa « co-redentore », non per in-
ventare la Pasqua, ma per completarla . Perciò trova un senso
profondo nell'aspetto ascetico del lavoro, con i suoi elementi
di croce. Anche gli elementi di fatica, di costante impegno, di
umile dedizione, di pazienza nelle svariate difficoltà che accom-
pagnano storicamente il lavoro, assumono significato redentivo
che riveste di nobiltà divina il cuore del lavoratore, e lo aiuta
a far bene il suo làvoro e ad assicurargli un influsso più posi-
tivamente efficace nella ·società.
Il lavoro·, così concepito, aiuta a superare certe prospettive
concettuali negative che sogliono danneggiare la concezione del-
l'uomo e la sua convivenza sociale.
· ··
·Il dualismo tra materia e spirito. Il lavoro obbliga a unire
l'intelligenza dell'uomo con la materia inerte quasi a costruirne
un'unità di destino: approfondisce, così, la peculiare maniera
umana di essere nell'unità sostanziale di spirito e materia.
Il dualismo tra temporale e spirituale , tra l'ordine delle cose
temporali e quello delle realtà spirituali. Non sono due mondi
separati o due settori a differente quota, ma un'unica realtà
storica. Noi Salesiani, quasi senza accorgercene, abbiamo impa-
rato da Don Bosco a coniugare insieme promozione umana ed
evangelizzazione.
Il dualismo tra persona e struttura, quasi che le strutture op-
primessero, per se stesse, la persona. Il lavoro obbliga, invece,
a vedere nelle strutture un complemento e un servizio per le
persone.
Il dualismo tra individuo e collettività. Il lavoro, come abbia-
mo visto, porta alla socializzazione e a capire l'indispensabilità
della collettività.
·Il dualismo tra tempo ed eternità, tra terra e cielo, tra storia
e Regno di Dio. La .Gaudium et spes ci presenta l'attività uma-
na come forgiatrice di una continuità di crescita che va dalla
terra al cielo, dal tempo all'eternità. Non sappiamo come è il
salto, però è da questa terra che procedono i cieli nuovi; da
questa nostra esistenza temporale procede la vita della risurre-
zione.
Dunque: il lavoro fa superare queste prospettive concettuali
11 3

12.6 Page 116

▲back to top
culturalmente in conflitto, aiutandoci a superare i dualismi no-
civi. Così il lavoro influisce sulla cultura, invitandola a superare
sia la tentazione di materialismo sia quella di spiritualismo.
Il lavoro così concepito aiuta, inoltre, ad approfondire in
forma positiva la verità del rèale. Ci dà una concezione più
integrale di tutto, una vera « spiritualità della materia ». La ma-
teria è una componente essenziale della nostra realtà umana, ed
essa, con noi, è fatta per la risurrezione, come ha ricordato san
Paolo.
In un'intervista a Giorgio La Pira, due giornalisti venuti dal-
la Russia lo apostrofarono: « Lei è cristiano, pensa alla risur-
rezione, all'al di là; ma allora è un evaso, un alienato della
storia ». E egli subito rispose: « Noi cristiani siamo più materia-
listi di voi, perché crediamo che la materia acquista nell'uomo
un significato permanente, ed ha un suo posto nella risurre-
z10ne.1 ».
Dunque, vedete che un po' di teologia del lavoro eleva molto
le nostre riflessioni. Non pensiamo al lavoro semplicemente con
categorie sociologiche o moralistiche, ma vediamolo nella sua
grandezza cristiana.
Da una riflessione teologica non sarà difficile passare a una
spiritualità del lavoro.
6.7. UNA SPIRITUALITÀ DEL LAVORO
La spiritualità del lavoro demitizza anzitutto ogni idolatria
a suo riguardo. Il lavoro non è fine a se stesso; non ha in sé
un valore assoluto. È un· modo importante di esprimere la per-
sona come « co-creatrice » o « co-redentrice » sulla terra e nel
tempo . Per noi diviene testimonianza della triade spirituale:
fede, speranza e carità. In questo senso, non è tanto la qualità
del lavoro a rendere grande la persona, ma le motivazioni
e il cuore con cui lo si compie, ossia la misura dell'amore di
carità che lo permea.
Quindi non diremci mai: « Nonostante il molto lavoro Don
Bosco si è fatto santo »; ma piuttosto il contrario: « Proprio
perché ha lavorato molto, egli si è fatto santo! ».
In più, esso ci incorpora nella categoria dei poveri. Le no-
114

12.7 Page 117

▲back to top
\\
stre Costituzioni dicono: « Il lavoro assiduo e sacrificato è [ ... ]
espressione concreta della nostra povertà. Nella quotidiana ope-
rosità ci associamo ai poveri che vivono della propria fatica e
testimoniamo agli uomini d'oggi il senso umano e cristiano
del lavoro » (Cost. SDB 87).
Il lavoro ci rende anche più concreti nell'umiltà, in quanto ci
spinge a prestare . noi stessi gli umili servizi del vivere, della
casa, e, soprattutto, ad attenerci alle esigenze della professio-
nalità dedicandoci con assiduità ad acquisire tutta la serietà
richiesta. Ci obbliga ad essere veramente competenti nei settori
di promozione umana a cui ci dedichiamo, ci invita ad aggior-
narci, ad essere creativi, ad avere disciplina, a programmare,
a prendere in considerazione ed abilitarci nell'organizzazione.
Il lavoro ci fa crescere nella solidarietà, nella corresponsa-
bilità, nella comunione, nel servizio agli altri, facendoci sentire
più concretamente collaboratori di Cristo. Ci allontana dall'ozio
« padre di tutti i vizi»; come diceva Don Bosco: « Dove c'è
il lavoro non c'è il demonio »; « se non lavorate voi, lavora il
demonio »!
Il lavoro non è, di per sé, una virtù; ma può concentrare nel
suo dinamismo tutte le virtù del lavoratore; nella sua ottica
soggettiva è un'espressione della personalità che si fa testimo-
nianza soprattutto della fede, della speranza e della carità. Per
noi diviene soprattutto collaborazione con Cristo, per salvare la
gioventù; è una espressione pratica e ininterrotta del « Da mihi
animas »!
6.8. QUALITÀ DEL LAVORO SALESIANO
Quali caratteristiche comporta il lavoro salesiano? Il dia-
mante del « Lavoro » brilla di luce intensa nella nostra modalità
di sequela del Cristo. Raccoglie in sé i vari stimoli di spiritua-
lità or ora descritti. Qui possiamo aggiungere alcune qualità
che caratterizzano il lavoro salesiano. Certamente se ne possono
enumerare anche altre; io ve ne dico alcune importanti.
- Innanzitutto l'alacrità. Il lavoro salesiano è alacre: ciò
significa che io lo voglio fare e lo faccio con gioia; ne sono con-
115

12.8 Page 118

▲back to top
vinto;' mi piace; non mi comporto come chi va a lavorare di
mala voglia, come uno schiavo, per costrizione, ecc.
- La spontaneità. La giaculatoria del Salesiano, come affer-
mava Alberto Caviglia, è: « Vado io». Invece la bestemmia sa-
lesiana è: « Non tocca a me ».
- La generosità senza misura... Anche se Don Bosco qualche
misura la voleva, e ad Alassio, alle vostre consorelle, ha parlato
di « temperanza nel lavoro»! Ad ogni modo, esso non deve
essere né scarso né ridotto a un orario facile, ma « fool time ».
- L'iniziativa. Il Salesiano è spinto da un'intelligenza che si
industria, magari per creare il lavoro quando non c'è... e per
perfezionarsi al fine di lavorare meglio. Alberto Caviglia diceva
che la autodidassi è una delle grandi eredità salesiane. Questo
non per disprezzare gli studi programmati dell'università, ma
perché un bel po' di autodidassi è veramente indispensabile
nella vita (la formazione permanente!). Siamo tutti autodidatti;
l'esperienza che cos'è? Non ci si può rinchiudere solo in quello
che si è imparato una volta.
- Perciò un'altra qualità che l'accompagna è: l'impegno di
studio e di aggiornamento, esigito dalla nostra specifica missione
e dagli odierni cambiamenti culturali. Anche lo studio entra nel-
l'ambito di lavoro: soprattutto per acquisire più competenza
nelle scienze della fede e in quelle dell'uomo. Si deve studiare
non tanto per divenire intellettuali ·di fama, bensì dei buoni
e aggiornati pastori. Don Bosco aveva un po' di paura dell'in-
tellettualismo tra noi; ricordate il sogno dei diavoli. Il più fur-
bo tra loro suggerisce come tentazione demolitrice della nostra
vocazione quella di « persuaderli [i Salesiani] che l'essere dotti
è quello che deve formare la loro gloria principale » (MB 17,
387). Quindi anche lo studio, ma uno studio che ha il senso
del servizio pastorale e non della vanagloria.
- L'ascesi: ossia tutto il valore pedagogico della fatica del
lavoro, del senso di partecipazione al mistero della croce di
Cristo e alla sua condizione di lavoratore a Nazaret.
116

12.9 Page 119

▲back to top
\\
- Infine l'estasi dell'azione: come spinta mistica, nel senso
spiegato da san Francesco di Sales, come testimonianza di una
forte interiorità.
6.9. LA VISITA DI MARIA A ELISABETTA
Maria ci è Maestra e Guida anche nella spiritualità del la-
voro. Qual è l'evento più alto e personale che doveva costituire
l'oggetto preferito della sua contemplazione? Penso sia l'annun-
ciazione: il momento in cui Dio le chiede il sì per essere Ma-
dre. Maria avrebbe potuto restare a contemplare il valore di tan-
to mistero, i suoi contenuti, le sue prospettive, la gioia indicibile
che da esso fluivano. Che cosa ha fatto invece? È uscita di
casa; ha camminato dalla Galilea alla Giudea per siare vari
mesi con la sua parente Elisabetta e aiutarla. E proprio la visita
a Elisabetta che ci ricorda l'intuizione di san Francesco di Sa-
les nel fondare (« inizialmente»!) le Visitandin~: imitare la
generosità pratica e attiva di. Maria.
Lo spirito di Don Bosco tende proprio a questa caratteristica:
saper tradurre la vita interiore in un'azione che ci fa uscire
da noi stessi per vivere d'amore per Dio negli altri.
Dopo l'annunciazione Maria ha appunto tradotto la sua inef-
fabile interiorità in un'estasi di azione. Chiediamole che ci aiuti
a far sì che il lavoro salesiano sia sempre espressione della vita
interiore della fede, della speranza e della carità.
117

12.10 Page 120

▲back to top
7
QUINTO DIAMANTE
LA TEMPERANZA
Se il « lavoro » lancia la persona nell'azione, la stimola al-
l'inventiva, la spinge ad una certa affermazione di sé e la invia
al mondo, la « temperanza » concentra la persona sulla revi-
sione di se stessa, modera le sue inclinazioni, cura una ragio-
nevole negazione di e ama una certa fuga dal mondo.
Ho scelto affermazioni che sembrano contrapposte l'una al-
l'altra. Non sono contrapposte ma complementari: è la realtà
della vita che esige da una parte entusiasmo e dall'altra ri-
nuncia, da una parte impegno e dall'altra moderazione. Questo
lo dice anche l'evangelista Giovanni quando parla del mondo
in due sensi ben differenti.
7.1. DUPLICE SIGNIFICATO DEL «MONDO»
Nella Gaudium et spes il Concilio parla del mondo come
teatro dell'avventura umana e dice che Iddio ha tanto amato il
mondo da inviare il suo Figlio per salvarlo . Sentiamo qui l'eco
giovannea del dialogo tra Gesù e Nicodemo: « Dio ha tanto
amato il mondo da dare il suo unico Figlio perché chi crede in
lui non muoia ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Fi-
glio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo
sia salvato per mezzo di lui » (Gv 3, 16-17) .
Ma poi c'è anche il mondo come « concupiscenza della car-
ne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita ». Anche
questo è mondo. Lo stesso san Giovanni afferma che « il mondo
è posto sotto il maligno» (1 Gv 5,19).
118

13 Pages 121-130

▲back to top

13.1 Page 121

▲back to top
Quindi c'è un aspetto della realtà del mondo che è positivo
e deve crescere: è la creazione che diviene e si perfeziona; e
c'è un aspetto negativo del mondo introdotto .nella storia del
peccato dell'uomo con la sua concupiscenza. Così san Gio-
vanni afferma in una sua epistola: « Noi sappiamo di apparte-
nere a Dio, e sappiamo che tutto il mondo intorno a noi si
trova sotto il potere del diavolo» (1 Gv 5,19). Perciò compren-
diamo la famosa preghiera di Gesù al Padre: « Io ho dato loro
la tua parola. Perciò essi non appartengono più al mondo, come
io non appartengo al mondo. E il mondo li odia. Io non ti pre-
go di toglierli dal mondo, ma di proteggerli dal Maligno. Essi
non appartengono al mondo, come io non appartengo al mondo.
Fa' che appartengano a te mediante la verità: la tua parola
è verità » (Gv 17,14-15).
7 .2. LA TEMPERANZA
COME ATTEGGIAMENTO ESISTENZIALE DI BASE
È qui, in un mondo ambivalente, che interviene il senso della
temperanza. Essa viene concepita come una custodia di sé, una
moderazione delle inclinazioni, degli istinti, delle passioni, una
cura del ragionevole, una rottura con le mondanità non fuggen-
do nel deserto ma restando tra gli uomini con padronanza del
proprio cuore: stare nel mondo, senza essere del mondo!
Tale temperanza ·è un atteggiamento esistenziale di fondo,
di dominio di sé. Noi qui non parliamo di una virtù a sé stante
e unica, preoccupati della sua formalità. Parliamo piuttosto di
un atteggiamento esistenziale che comporta parecchie virtù. La
temperanza è, allora, la prima e la principale tra tutte le virtù
moderatrici, che girano come satelliti intorno ad essa.
Ebbene: il diamante posto sulla spalla sinistra del Personag-
gio significa tutto questo insieme di virtù, vincolate con la
temperanza come àl proprio cardine. A ragione la tradizione
teologica parla della temperanza come di una « virtù cardina-
le »: un asse di rotazione su cui fanno perno vari e complemen-
tari atteggiamenti di dominio di sé. Infatti, state a sentire quali
virtù ruotano intorno al nucleo centrale della temperanza:
11 9

13.2 Page 122

▲back to top
- la continenza, contro ·1e tendenze della lussuria;
- l'umiltà, contro le tendenze della superbia. Entrambe lot-
tano contro la concupiscenza: l'una contro la concupiscenza del-
la carne, l'altra .contro la concupiscenza dello spirito, che è la
superbia (vedete, dunque, _che c'è un posto, e di rilievo, anche
per l'umiltà nel Sogno ~t?i diamanti!);
- la mansuetudine, contro gli scatti dell'ira (il Sistema Pre-
ventivo esige con · speciale urgenza la moderazione di queste
tendenze);
- la clemenza, contro certe inclinazioni alla crudeltà e alla
vendetta;
- la mod(!stia, contro le vanità dell'esibizione del corpo
(la moda!);
- la sobrietà e l'astinenza, contro gli eccessi nelle bevande
e nel cibo;
- l'economia e la semplicità, contro le liberalità dello sper-
pero e del lusso;
- l'austerità nel tenore di vita (una vita spartana); contro le
tentazioni di comodismo.
'
.
'
Tutto quest9 insieme _di virtù costituisce un fQrte atteggia-
mento globale di domtnio su noi stessi, di signoria sul nostro
cuore, di regalità sul microcosmo della nostra persona. Ci fa-
miliarizza con la non-comodità, con la moderazione, con la ra-
zionalizzazione dei desideri e dei sentimenti, . con la signoria
sulle passioni, con l'equilibrio nella convivenza, con la giusta
riservatezza, con una sana furbizia (la furbi~ia, come espressione
di intelligente buon senso, è una caratteristica non indifferente
dello spirito di Don Bosco!); il tutto alla luce e sotto la guida
della ragione. Sì: la temperanza modera le cose secondo ragione.
Non facciamo del masochismo, sorretti dalla soddisfazione di
essere padroni di noi stessi. Viviamo invece la regalità battesi-
male che, nonostante le rinunce, genera gioia, letizia, in un cli-
ma· di semplicità e di genuina umiltà.
È una simile temperanza che ·fa da aureola al sorriso sale-
siano; ed è con una simile temperanza, unita al lavoro, che si
tratteggiano i lineamenti portanti della fisionomia salesiana!
120

13.3 Page 123

▲back to top
Anche la temperanza, come il lavoro, è una concreta testimo-
nianza dei grandi valori teologali della fede, della speranza e
della carità. Per esercitare la regalità battesimale su se stessi
ci vuole la motivazione e l'energia della triade: fede, speranza,
carità.
Noi abbiamo visto che la carità salesiana ha come caratte-
ristica originale farsi amare per poter orientare la gioventù ver-
so Gesù Cristo. « Farsi amare » è una gran bella affermazione,
ma al di dentro di una spiritualità costituisce un autentico ardi-
mento. Quanti desiderano di « farsi amare », ma certamente
non come mediazione di santità.
La nostra carità pedagogica affronta questo ardimento alle-
nandosi con una speciale temperanza, che non consiste nel ca-
stigare il nostro io o il nostro corpo, perché non siamo dei
masochisti che cercano il gusto della flagellazione. No! Noi
cerchiamo l'amore, quel tipo di amore di cui abbiamo parlato
e, senza la temperanza, è impossibile realizzare un tale amore.
7.3. DON BOSCO
CURAVA UNA FORTE PEDAGOGIA ASCETICA
Il nostro buon Padre diceva che dobbiamo far consistere
la santità nello stare sempre allegri, che dobbiamo farci amare,
che la nostra è una santità simpatica, che è una santità che
costituisce àmicizia, che l'educazione è opera di cuore: ora, tut-
to questo è assai bello, ma non è affatto facile. Non dobbiamo
lasciarci portare dalla faciloneria. Certi monaci austeri che han-
no -fatto il voto quaresimale per tutta la vita, che non man-
giano mai carne o si danno anche a gravi penitenze, guardando
noi forse diranno: - Com'è bello quel tipo di vita: sport, pas-
seggiate, gioia, movimento, sempre in mezzo alla gioventù;
non malati, non moribondi, non vecchi!
Ci sono anche anziani fra noi, ma abitualmente viviamo tra i
giovani, siamo sempre in mezzo alla primavera. Avete mai pen-
sato che un tale ambiente ci può anche portare a una defor-
mazione professionale? Quella di non accorgerci che nel mon-
c'è la malattia, la vecchiaia, il cimitero, perché noi siamo
sempre in cortile coi giovani.
121

13.4 Page 124

▲back to top
Tornando a Don Bosco e alle difficoltà di vivere lo stile di
santità da lui voluta per i suoi Salesiani, viene naturale ri-
chiamare il sogno del pergolato di rose: un bel sogno che
propone la nostra stessa obiezione e presenta la vera soluzione
delle difficoltà. Leggiamone qualche tratto.
« Intanto tutti coloro, ed erano moltissimi, che mi osservavano a
camminare per quel pergolato dicevano: " Oh, come don Bosco cammi-
na sempre sulle rose: egli va avanti tranquillissimo; tutto gli va bene".
Ma essi non vedevano le spine che laceravano le mie povere gambe.
Molti chierici, preti e laici da me invitati si erano messi a seguitarmi
festanti , allettati dalla bellezza di quei fiori, ma quando si accorsero che
si doveva camminare sulle spine pungenti e che queste spuntavano da
ogni parte, incominciarono a gridare dicendo : " Siamo stati ingannati".
Io risposi: " Chi vuol camminare deliziosamente sulle rose torni indie-
tro: gli altri mi seguano" ».
Alla fine Don Bosco si fa spiegare il sogno dalla Madonna.
« Allora la Vergine SS., che era stata la mia guida, mi interrogò:
"Sai che cosa significa ciò che tu vedi ora e ciò che hai visto prima? "
"No, risposi: vi prego di spiegarmelo". Allora Ella mi disse: "Sappi
che la via da te percorsa tra le rose e le spine significa la cura che tu
hai da prendere della gioventù: tu devi camminare colle scarpe della
mortificazione [noi della mortificazione parleremo trattando del diaman-
te del "Digiuno", qui diremmo delle scarpe della temperanza ]. Le spine
per terra rappresentano le affezioni ,sensibili, le simpatie e le antipatie
umane che distraggono l'educatore dal vero fine, lo feriscono, lo arre-
stano nella sua missione, gli impediscono di procedere e raccogliere
corone per la vita eterna. Le rose sono simbolo della carità ardente
che deve distinguere te e tutti i tuoi coadiutori. Le altre spine signi-
ficano gli ostacoli, i patimenti, i dispiaceri che vi toccheranno. Ma non
vi perdete di coraggio: con la carità e con la mortificazione [ ... la
temperanza!] tutto supererete e giungerete alle rose senza spine» , ecc.
(MB 3, 34-35).
Dunque, abbiamo coscienza chiara che la nostra vocazione
si presenta come un progetto simpatico e che il nostro spirito
deve essere attraente. Al centro di esso, però - come in ogni
spiritualità cristiana - vi è un posto non indifferente per il mi-
stero della croce.
Don Bosco ci ricorda spesso che la temperanza è la difesa
della triade teologale che anima il nostro spirito. Infatti, il Sa-
lesiano che fosse intemperante si espone a indebolire, fino a per-
122

13.5 Page 125

▲back to top
f
I
dere, la fede, la speranza e la carità, perché « il demonio tenta
di preferenza gli intemperanti » (MB 4,183).
Nonostante il suo entusiasmo, il suo parlare continuo del-
l'importanza del lavoro, Don Bosco vuole che ci sia buon sen-
so e temperanza persino nel lavoro. Ad Alassio, il 3 gennaio
1879: « Don Bosco radunò tutte le suore e, prima di ragionare
d'altro, fece far loro una specie di rendiconto, cominciando
dalla Direttrice e interrogando come si trovassero per il vitto,
se fossero abbastanza provvedute di tutto il necessario, se aves-
sero sufficiente riposo, se dormissero bene di notte. Raccoman-
data poi loro la fedele osservanza delle Regole "in quanto al
lavoro, disse, lavorate, lavorate pur molto; ma fate anche in
maniera di poter lavorare a lungo. Non accorciatevi la vita con
privazioni e fatiche soverchie o con malinconie o con altre
cose che siano fuor di proposito" » (MB 14,254). A noi Salesia-
ni dice lo stesso: « Lavorare quanto comporta la sanità e non
di più, ma ognuno si guardi dall'ozio» (MB 14,634). E ai missio-
nari: « Abbiatevi cura della sanità. Lavorate ma solo quanto le
proprie forze consentono» (MB 11,390).
Come vedete, è una temperanza che esige sano equilibrio in
tutte le cose. Quando parliamo di questo atteggiamento, siamo
soliti pensare solo al dominio della concupiscenza della carne
e della superbia della vita; certo, dobbiamo aver molto presen-
te tale aspetto, ma bisogna guardare anche al resto, a tutto
l'insieme. La temperanza che ci propone Don Bosco con que-
sto diamante è l'equilibrio e la moderazione in tutte le cose,
persino in quella che potremmo chiamare la nostra dimensione
più caratteristica: il lavoro.
A ragione vi dicevo che il nostro Padre era uomo concreto
e pratico: lo notiamo in particolare nel rilievo giusto che egli
dà a questi due caratteri di base: il lavoro e la temperanza.
Era uomo di « buon senso » e « furbo », cioè intelligente, dut-
tile, prudente, e sapeva approfittare di tutte le situazioni per
poter fare il bene: santamente furbo! Dobbiamo distinguere tra
« furbo » e « astuto », anche se il significato di « furbo » è
ampio nella sua applicazione. « Furbo » è una parola difficile
da tradurre in altre lingue, senza cadere in un senso peggio-
rativo, non applicabile alla santità. È noto il caso di quel fa-
moso canonico di Torino, beneficato da Don Bosco; quando lo
123

13.6 Page 126

▲back to top
si invitò a deporre per la causa della beatificazione e canoniz-
zazione del nostro Padre, rispose: « lo non vengo. Don Bosco
era troppo furbo per essere santo »!
Eppure la nostra temperanza implica anche la furbizia: os-
sia una acuta prudenza nell'approfittare santamente e sanamente
delle situazioni. Il Salesiano - secondo don Rinaldi - sa fre-
narsi, non va con gli occhi chiusi, li apre, ma non va più in là
del conveniente. Se una cosa non sta bene, ci ripensa. Domina-
tore di sé anche nel gioco. Misurato con il ragazzo che lo fa
disperare; capace di tacere, di dissimulare certe molestie, di
far finta di niente, di parlare a tempo debito, ossia di essere
« furbo ». Nella nostra tradizione capiamo bene il significato
di questo termine e ci accorgiamo che la temperanza è un tale
dominio di sé che serve a farci diventare simpatici, perché ci
aiuta a dominare- noi stessi in tal modo che appaia sempre
l'amore, la carità pedagogica e disinteressata.
In definitiva, quindi, la misura della nostra temperanza è
l'impegno di amare facendoci amare! E l'esperienza ci insegna
che tale misura non è né piccola né facile. Dunque, « tempe-
rante » per noi significa: controllato, equilibrato, di buon senso,
al grado giusto, non eccessivo, conforme a ragione, signore di
sé, amabile .
7.4. SENSO DI EQUILIBRIO
NELLE NOVITÀ SOCIO-CULTURALI
La temperanza, dunque, sviluppa la nostra regalità battesi-
male. Qui vorrei sottolineare che essa non è semplicemente un
orientamento morale e ascetico contro le passioni in astratto,
ma deve essere un atteggiamento esistenziale rivestito di reali-
smo quotidiano e incarnato in concrete espressioni culturali del-
la nostra vita nello Spirito Santo. Ciò significa che dobbiamo
proporci di tradurre in atteggiamenti di convivenza sociale di
oggi (non di 50 anni fa) la nostra fede, la nostra speranza, la
nostra carità, il nostro lavoro. Ossia, per vivere una autentica
temperanza sarà necessario essere sensibili a tante modalità at-
tuali, a ciò che piace o dispiace alla gioventù, ai segni dei tempi,
a tutti i vasti settori del rinnovamento della Chiesa.
124

13.7 Page 127

▲back to top
I cambiamenti avvenuti ci sommergono in parecchie tensioni,
ed è più facile che in altri tempi squilibrarsi. Con facilità ci
si cataloga mutuamente di «progressisti» o « conservatori», di
« impegnati » o « spiritualisti », di « pastori » o « professori;»,
ecc. La temperanza ci riequilibra; essa vuol essere contestatrice
non dell'attualità, ma dell'eccesso. Quest'opera di moderazione
esige però, come condizione di base, che siamo ubicati nell'at-
tualità.
La temperanza così intesa comporta una ncività spirituale e
ci colloca in un divenire continuo: essa non ripete materialmente
ciò che hanno fatto i nostri predecessori, ma si ispira ai vàlori
di dominio e di prudenza che li hanno guidati nell'operare. Ri-
peto: essa non è un freno al processo di cambio, ma una vigi-
lanza contro gli squilibri e le deviazioni.
Così, per essere veramente temperanti bisogna incominciare col
vivere nell'oggi. Un teologo domenicano francese studiando in
teologia morale il tema della temperanza scrive: La questione
della temperanza è uno dei punti dai quali si riconosce la
« sanità» di una teologia (cioè se è equilibrata, oggettiva e
preoccupata della verità, o piuttosto avventata e preoccupata
più di essere alla moda che di essere vera). Infatti l'uomo non
è soltanto spirito né soltanto carne, ma spirito e carne.
Una sana teologia prende atto di tutte le esigenze dello spi-
rito e di tutte le esigenze della carne che Dio ha creato, ossia,
prende atto anche delle realtà culturali e delle situazioni stori-
che. Allora ci si apre davanti un aspetto particolarmente inte-
ressante, cioè che la temperanza e tutta l'ascesi cristiana non
è una normativa stereotipata, fatta una volta per sempre, bensì
una realtà in divenire, sempre in vitale ricerca.
Considero assai importante questa osservazione perché vi-
viamo un momento di trapasso culturale, nel quale non si trat-
ta di ripetere un determinato tipo di rinunce, ma di dominare
se stessi secondo le esigenze attuali.
Ogni programmazione ascetica dev'essere relativa all'antropo-
logia culturale del tempo in cui si vive. E oggi la temperanza
deve tener conto del concetto più approfondito di uomo, delle
scoperte acquisite dalle scienze antropologiche (specialmente dal-
la psicologia), delle caratteristiche della nostra realtà somatica,
del valore profondo della sessualità, del processo di persona-
125

13.8 Page 128

▲back to top
lizzàzione, della situazione di pluralismo, dell'importanza della
dimensione comunitaria, delle esigenze della socializzazione, ecc.
In tutti questi settori bisognerà adeguarsi al progresso della
«verità»; non dico della « scienza», perché a volte ciò che
si chiama scienza fa passare per verità la semplice ipotesi o
l'opinione di uno studioso. Così in sociologia Marx e in psico-
logia Freud hanno scoperto dei nuovi continenti; ma lo hanno
fatto con occhiali materialisti proponendoci anche molte cose
non vere. Però i loro errori non ci devono far chiudere gli oc-
chi al progresso della verità : volesse il cielo che apparissero dei
geni che sapessero approfondire la realtà senza prescindere dal-
la ~luce della fede!
Ad ogni modo, non possiamo negare che dai tempi di Don Bo-
sco e di madre Mazzarello ad oggi in questo campo si sono
fatti dei salti qualitativi enormi. Sarà indispensabile tenerli in
considerazione perché influiscono sul tipo di ascetica da pra-
ticare. Non fanno cambiare il dominio su noi stessi, però ci ob-
bligano a vedere le cose in senso giusto, con un sano equili-
brio di attualità, con il buon senso di oggi.
Se guardiamo la storia dell'ascesi nel corso dei secoli cri-
stiani, vediamo che è andata cambiando. E noi, in questo tra-
passo culturale che stiamo vivendo, abbiamo sentito che ca-
devano le strutture di una ascetica legata a una cultura ormai
superata; purtroppo però non sempre abbiamo sostituito ai me-
todi di ieri iniziative nuove. E questo può essere un disastro!
Credete che sia possibile vivere il nostro amore senza ascesi,
senza temperanza? No, assolutamente! Possiamo essere d'accor-
do che certe espressioni, per esempio quella della cosiddetta
« castità selvaggia », non sono più di attualità. Ma si sono
buttate via tante norme senza sostituirle; e allora occorre cer-
care nuovi elementi in piena conformità con l'antropologia vera
di oggi, tali però che ,conservino il significato, la sostanza, l'orien-
tamento dell'atteggiamento fondamentale della temperanza evan-
gelica.
Anticamente nella · storia del cristianesimo i monaci, gli ere-
miti, avevano un'ascesi di austera mortificazione. Ricordate ciò
che raccontano di san Simone stilita: 40 anni sulla colonna!
(Per noi non è salesiano nemmeno il castigo di mettere alla co-
lonna!). Si è servito di una particolare ascesi per la sua san-
126

13.9 Page 129

▲back to top
tità. Noi oggi ammmamo ancora quella santità, ma lo stile del-
la sua ascesi né ci convince né ci commuove.
Anticamente si insisteva di più sul castigo del corpo e su un
tipo di mortificazione molto austera. Forse influì in questo anche
una concezione antropologica dualista. Non dimentichiamo certe
eresie di quei tempi.
Inoltre, pur prescindendo dalla differenza culturale, anche
la diversità delle molteplici vocazioni nella Chiesa esige una
ascesi differenziata. Certamente l'ascesi e la temperanza del con-
templativo è diversa da quella del religioso di vita attiva. Noi Sa-
lesiani non possiamo imitare materialmente i Trappisti o i Be-
nedettini o le Clarisse. Non perché abbiano un'ascesi antiquata.
Essi, in conformità alla propria vocazione, si esercitano in una
appropriata pedagogia ascetica. Non si tratta di contrapposi-
zione alle modalità della loro temperanza, o di disprezzo per
il passato; anzi, noi li ammiriamo e possiamo imparare molto
da loro. Non vogliamo criticare nessuno, bensì sottolineare che
c'è una evoluzione, un divenire, una necessità di riattualizza-
re l'ascesi e di sentirci portatori di una concreta novità spiritua-
le, per prolungare nella Chiesa un determinato tipo di tempe-
ranza e di ascesi che ci aiuti ad essere genuinamente e specifica-
mente salesiani. C'è un'acculturazione che cambia, ma un cre-
scere omogeneo della stessa temperanza cristiana.
7.5. PRIMA E PIÙ IN LÀ
DELLA « MORTIFICAZIONE »
Parlando della temperanza, io vorrei sottolineare, a questo
punto, che non si tratta in primo luogo di semplice « mortifi-
cazione ». Di essa tratteremo più avanti, parlando del diamante
del « Digiuno ». Qui stiamo parlando dei diamanti del « volto »
e quindi dello spirito salesiano che deve apparire in pubblico e
che sta alla base della sua dimensione di simpatia e della sua
capacità di attrazione.
La mortificazione, come dice la parola « morte » da cui essa
deriva, incomincia in certo modo dalla fine; la temperanza in-
vece si riferisce alla nascita e alla crescita da curare e incre-
127

13.10 Page 130

▲back to top
rhentare. Noi siamo nati alla vita divina nel Battesimo. Certo,
il rito battesimale ci parla anche della morte al peccato; ma
noi sottolineiamo in esso prima di tutto la nascita, la crescita,
l'impegno, la primavera, la necessità di sviluppo. Quindi, guar-
diamo la temperanza o l'ascesi in primo luogo come cura
pedagogica per crescere nella nostra vocazione.
Così, prima e più in là della mortificazione, la temperanza
è una disciplina metodologica di educazione al dono di sé
nell'amore. Ci insegna ad allenarci ad amare e a farci amare:
non primariamente a castigarci. Non è il momento della pota-
tura, anche se arriverà il tempo per farla.
È il momento dello sviluppo dell'amore: se io mi dono a
Dio, devo cercare di far crescere in me la capacità di donazione,
sapendo frenare tutto ciò che può essere occulta ripresa del dono.
L'amore salesiano, poi, si caratterizza con il dono di sé nel-
l'azione; quindi la temperanza sarà un allenamento ad accettare
tante esigenze non facili né gradevoli del lavoro quotidiano. Al
Salesiano interessa particolarmente una spiritualità dell'azione,
e quindi ne scruta la complessità e ne assume le conseguenze,
le rose con tutte le spine. Ci alleniamo per essere atleti della
carità del « da mihi animas ».
È un po' quello che dice san Paolo ai Corinzi:
« Sapete che nelle gare allo stadio corrono in molti, ma uno solo ot-
tiene il premio. Dunque, correte anche voi in modo da ottenerlo! Sa-
pete pure che tutti gli atleti, durante i loro allenamenti, si sottopon-
gono a una rigida disciplina. Essi l'accettano per avere in premio una
corona che presto appassisce; noi invece corriamo per avere una corona
che durerà sempre. Perciò, io mi comporto come uno che corre per
raggiungere il traguardo, e come un pugile che non tira colpi a vuoto.
Mi sottopongo a dura disciplina, e cerco di dominarmi per non essere
squalificato proprio io che ho predicato agli altri» (1 Cor 9,24-27).
Che bello! Abbiamo fatto la scelta dell'amore, della bontà,
dell'amicizia, del farci amare, vogliamo essere campioni in que-
sto. Forse per voi non viene tanto bene il paragone del pugile,
bisognerà cercarne un altro ... però, ecco, la nostra temperanza
è disciplina di campionato nel Sistema Preventivo. Essa è tutto
qùell'insieme di virtù che abbiamo descritto in principio, che aè-
compagnano il nostro lavoro e ci aiutano a crescere nell'amore.
128

14 Pages 131-140

▲back to top

14.1 Page 131

▲back to top
In definitiva la misura della nostra temperanza salesiana non
è la somma delle rinunce, ma è la crescita nella prassi della
carità pastorale e pedagogica. Quando sappiamo amare e farci
amare senza troppi difetti, siamo temperanti: questa è la mi-
sura. Quindi, il metro della nostra temperanza non sta nel met-
tere un sassolino in più nelle scarpe o il cilicio sul corpo o un
pezzo di legno nel letto. Questo lo si potrà anche fare, ma per
motivi particolari.
Se si pensa che la nostra fede , speranza e carità si traducono
in un lavoro pastorale e che l'apostolato non è semplicemente
« autorealizzazione », ma oggettiva realizzazione di un disegno
del Signore, e che l'apostolo un inviato che agisce quasi come
strumento nelle mani di Dio, quante esigenze di dominio di sé,
di equilibrio, di sagacia, di rinunce, ossia di temperanza, si sen-
tono!
Questo è uno degli aspetti più concreti per il lavoro di forma-
zione del noviziato e delle tappe successive: formare le nuove
generazioni, attraverso le esercitazioni apostoliche, a non cer-
care se stesse anche se devono farsi amare; è il punto strate-
gico. La pedagogia ci insegna che questo non si può fare senza
tollerare dei difetti. Pazienza! La cosa più importante è misu-
rare che il vero amore cresce sempre di più, appoggiarlo, non
scoraggiare e non meravigliarsi se le prime esperienze nell'apo-
stolato non riescono alla perfezione. Bisogna accompagnare la
crescita con il buon senso, convinti che mai un'azione nostra è
perfetta. Se pretendiamo incominciare facendo delle azioni per-
fette, senza difetti, non ne faremo nessuna: « l'ottimo è nemico
del bene », anche qui!
Non deve però mancare la revisione, l'esercizio di un'autocri-
tica profonda, che porti alla conclusione di ogni revisione: la
conversione!, ossia la chiara visione dell'ideale da raggiungere
e il proposito di correggere quello che si è trovato mancante,
senza scoraggiarsi.
Dunque, si tratta di una pedagogia di crescita nell'amore
che comporta tante qualità: capacità di vigilanza, di revisione,
di fedeltà a un programma, di adesione viva alle Costituzioni,
di fedeltà al dovere {Don Bosco quanto insisteva sul dovere!),
di realismo di vita e non di artificiosità (nella temperanza sale-
siana non si dà molto spazio alle artificiosità!). Nell'articolo
129

14.2 Page 132

▲back to top
costituzionale che abbiamo letto: « la fame, la sete, ecc. », non
si insinua di cercare cose stravaganti, si insiste sull'ordinario,
s_ul quotidiano, sul genere di vita austero di tutto .l'anno. Non si
chiedpno a intermittenza momenti... «.eroici »; si esige una ma-
niera « spartana» di vivere che sia continua e costante.
Quando uno pensa anche solo all'orario, al lavoro, al vitto di
Mornese e di Valdocco e un po' di tutte le prime case salesiane,
coglie subito la natura della temperanza salesiana. Certo, oggi
è cambiata la situazione socio-culturale, ma deve rimanere lo
stesso spirito. Per arrivare oggi a una forma di temperanza in
sintonia con l'attuale trapasso culturale ci vuole l'illuminazione
continua e specifica della fede, della speranza e della carità,
perché questa triade costituisce il dinamismo centrale dello spi-
rito salesiano. Il criterio di scelta non può essere il concetto di
peccato e di non-peccato. Ci sono infatti cose che non sono pec-
cato, ma che non aiutano la crescita della nostra vocazione; non
sono in consonanza con il nostro carisma.
Ricordiamoci che la nostra non è una vita semplicemente
« morale » (di chi osserva la legge e i comandamenti), ma è una
vita « sacramentale » che intende testimoniare una scelta evan-
gelica, che va più in là della legge e dei comandamenti. Chi
giudica solo con il criterio di peccato e di non-peccato, non vi-
vrà mai la vera temperanza dello spirito di Don Bosco.
7.6. ALCUNE QUALITÀ
DELLA TEMPERANZA SALESIANA
Conoscendo gli elementi costitutivi della temperanza, pos-
siamo ora indicare, in forma assai breve, alcune qualità che l'ac-
compagnano nella tradizione di Valdocco e di Mornese.
- Deve essere allegra: non c'è bisogno di pubblicare che io
oggi ho fatto un determinato sforzo per dominarmi; nessuno
deve accorgersene. Gli altri devono solo percepire in genere che
mi domino; per il resto dovrei saper nascondere le difficoltà
o le punture delle spine e dimostrarmi abitualmente allegro. Di
Don Bosco si diceva che quando sembrava più allegro del solito
130

14.3 Page 133

▲back to top
doveva avere maggiori difficoltà. L'allegria nella temperanza ser0
ve a rendere concretamente simpatica la nostra vocazione.
- Deve essere quotidiana: non c'è bisogno di commento;
non si tratta, dicevamo, di momenti saltuariamente « eroici »,
ma del « terribile quotidiano ».
- Deve essere gentile: la gentilezza è una caratteristica del-
la vostra femminilità . Non dovete perderla per ragioni cosiddette
di virtù. Una suora grossolana, maleducata, di poco equilibrio,
sgarbata, suscettibile, vendicativa, ecc., diviene subito antipa-
tica, ed è un guaio soprattutto se è una educatrice. Per essere
« gentili», in certi momenti, bisogna dominarsi. Oggi non è
come anticamente quando in casa non entrava nessuno e c'era-
no meno contatti con le persone d'altro sesso . È quindi indispen-
sabile far progredire tanti altri elementi di dominio di sé e di
espressione di garbatezza eh~ prima forse non si usavano.
- Deve poi essere semplice, cioè così spontanea da non ave-
re nulla di complicato.
- Deve essere intelligente, cioè una temperanza realizzata
senza ostentazione, ma con la strategia della tempestività e del-
l'opportunità.
- Deve essere eroica: tutte le qualità prima enunciate non
tolgono nulla alla durezza della temperanza; ci sono dei mo-
menti particolarmente esigenti.
- Soprattutto deve essere simpatica: si tratta insomma di
assumere quotidianamente la croce di Cristo con coraggio, fa-
cendolo però senza suonare il campanello, in una forma piacevole
e attraente, che metta in evidenza che la vita salesiana non è
un rovo di spine ma un pergolato di rose, anche se queste,
oltre al profumo, alla bellezza e alla primavera, comportano con-
tinue e sanguinanti punzecchiature.
Ecco come è importante la temperanza nel nostro spirito. Anzi,
· Don Bosco ci dice che dobbiamo saper esprimere esistenzialmen-
te tutto il nostro essere-salesiano nel grande binomio del « lavoro
e temperanza ».
131

14.4 Page 134

▲back to top
7.7. IL VOLTO SPIRITUALE DEL SALESIANO
Fin qui abbiamo riflettuto sui cinque diamanti della parte
anteriore del manto, ossia sul « volto salesiano ». Ci è apparso
un volto di attualità: il Salesiano non è passato di moda, con-
soliamoci! È un bel volto, per ieri, per oggi e per domani!
Che cosa dovremmo saper fare in preparazione al 2000? La-
varlo un po'! Togliergli quella patina di polvere che in questi
cento anni si è depositata su di esso. Il cammino per le strade
della storia può sfigurare, per diverse ragioni, le fisionomie.
Togliere la polvere dal nostro volto per riportarlo alla niti-
dezza dei tratti delle origini non significa però « restaurazione»,
ma progresso e ringiovanimento nella crescita; non possiamo
contentarci di prendere certi elementi del passato, legati a una
cultura tramontata e far concentrare sulla restaurazione di essi
la nostra fedeltà. È necessario invece curare un volto di attualità
salesianamente simpatico. Non facciamo consistere la simpatia
nelf'ostentare un museo di glorie del passato! Voi sorridete :
capisco che queste sono frasi facili a dirsi, ma sono sostanzial-
mente vere. Si addice di più a noi l'officina disordinata dell'arti-
sta che il museo impeccabile delle cere!
Datemi un Salesiano o una Figlia di Maria Ausiliatrice vera-
mente animata dalla fede , dalla speranza e dalla carità, laborio-
sa e temperante, e io mi sento di arrivare fino all'audacia nel
dargli permessi anche per le esperienze più spericolate. Quando
ero Ispettore due confratelli mi vennero a chiedere di fare de-
terminate esperienze; ad uno dissi subito: « Certo, fallo pure;
io pregherò per te»; all'altro invece: « Non lo credo oppor-
tuno; tu non sei spirituale a sufficienza, sei poco temperante,
hai troppa fiducia in te stesso; non credo alla tua possibilità
di esito ». Quante esperienze di questi anni non sono riuscite
per la mancanza di zelo soprannaturale e di equilibrio ascetico
dei loro protagonisti!
7 .8. MARIA NEL MISTERO DELLA CROCE
Concludiamo anche questa volta con la Madonna . La chiamia-
mo anche Vergine « addolorata » perché nella sua vita terrena
132

14.5 Page 135

▲back to top
ha dovuto affrontare non poche né piccole difficoltà: « Una
spada attraverserà il tuo cuore », le aveva detto Simeone.
Ebbene, io non immagino, e il Vangelo non lo dice, che la
Madonna abbia inventato delle mortificazioni più o meno stra-
vaganti per guadagnarsi tale titolo. La vedo invece assumere
tutta la realtà difficile della vita con gioia, con confidenza nel
suo Signore. Mette in pratica quanto affermerà suo Figlio:
« Se qualcuno vuol venire con me, smetta di pensare a se
stesso, ma prenda ogni giorno la sua croce e mi segua. Chi
pensa soltanto a salvare la propria vita, la perderà; chi invece è
pronto a sacrificare la propria vita per me, la salverà » (Le
9,23-24).
Questo è quanto ha fatto la Madonna: in un paese povero,
in una situazione di indigenza, con la missione più grande che
si possa immaginare nella storia. Appena la inizia va ad aiuta-
re la sua parente Elisabetta; poi deve scappare in Egitto; poi
a suo Figlio tanto buono, ma il cui mistero non può essere pe-
netrato esaurientemente, dovrà dire: « Tuo padre ed io dolenti
ti cercavamo»; poi troviamo Maria presso la croce, in piedi.
Certamente non c'è rinuncia più grande di quella esercitata da
Maria sul Calvario.
La Madonna non è andata a cercare mezzucci masochistici:
si è dedicata a interpretare la realtà del vissuto con le esigenze
della fede, della speranza e della carità. Così, nella semplicità,
ha testimoniato la temperanza più perfetta fino a portarla all'api-
ce del mistero della Croce.
Chiediamole di saperla imitare in questa sua interpretazione
perfetta del Vangelo e di aiutarci ad essere fedeli alla vocazione
che ci ha dato in Don Bosco, con un volto tanto bello nel Per-
sonaggio del Sogno e che tutti noi vorremmo fosse il nostro
stesso volto . Sì, cerchiamo per noi una vera simpatia spirituale!
133

14.6 Page 136

▲back to top
8
SESTO DIAMANTE
L'OBBEDIENZA
Quest'oggi incominciamo nel « nome di Maria » (12 settem-
bre) l'altro aspetto dell'identità salesiana, ossia la riflessione sui
cinque diamanti posti a tergo del manto.
Abbiamo già visto le fattezze del volto salesiano per cui la
gente, soprattutto la gioventù, deve poter dire: come sarà bello
il volto di Cristo se è già così bello quello di Don Bosco! Essere
spiritualmente attraenti, farsi amare, testimoniare una santità
simpatica, attraverso robusti atteggiamenti pratici che ne assi-
curino la legittimità.
Per questo ho preparato una « Strenna » per l'anno prossimo
che vi leggo subito; è un programma non tanto dì austerità,
quanto di realismo nella cura della nostra bellezza spirituale.
« Lavoro e temperanza siano per noi alla scuola di Don Bosco testi-
monianza ascetica di carità pastorale, contestatrice di un mondo che pro-
muove il ·dissidio tra amore e sacrificio » .
Si tratta, come vedete, dei due diamanti posti sulle spalle del
Personaggio e su cui abbiamo riflettuto in questi giorni. Essi sono
espressione dei tre diamanti della fede, speranza e carità ma
restano strettamente vincolati anche con i cinque posti a tergo
del manto.
Passiamo ora ad approfondire il significato di questi ultimi.
8.1. LA NERVATURA NASCOSTA
DELLO SPIRITO SALESIANO
,Sono cinque diamanti indispensabili: obbedienza, povertà, ca-
stità, digiuno, premio; costituiscono la « nervatura » portante
dello spirito salesiano.
134

14.7 Page 137

▲back to top
La loro collocazione a tergo suggerisce di non mettere tale
'nervatura in pubblico, non perché non sia importante, ma per-
ché è meglio non pubblicizzarla. Infatti la società in processo di
secolàrizzazione già ai tempi di ·Don Bosco aveva difficoltà nel-
l'accettare la vita religiosa e la presenza di. una nuova Congre-
gazione. Tale ambiente è, in parte, cambiato, ma la secolariz-
zazione si è sviluppata ancor di più, deviando spesso in se-
còlarismo. Anche oggi c'è nella società, in genere, uri modo se-
colarista di guardare la vita religiosa.
Nei cinque diamanti posteriori del manto, Don Bosco ci indica
quasi un segreto, una forza che opera dal di dentro, che ci dà
la spinta e ci aiuta a sorreggere e difendere i grandi valori che
abbiamo visto nella parte anteriore.
La disposizione dei cinque diamanti è interessante; fa perce-
pire anche l'originalità e le caratteristiche della nostra maniera
salesiana di sequela del Cristo come consacrati. Evidentemente
(come ho già osservato altrove) il sogno non pretende parlare di
tutto: suppone la vita di comunità, suppone il tipo di missione,
suppone la scelta dei destinatari e insieme ì criteri di azione pa-
storale, suppone le strutture proprie della vita religiosa. Però,
supposto tutto questo, il sogno insiste sulle strutture spirituali
che sostengono, danno sicurezza e difendono lo spirito salesiano.
E qui bisognerà aggiungere un'osservazione che ho cercato di
sottolineare nella lettera che vi ho scritto in occasione del cen-
tenario: cioè, che tutto il lavoro di traduzione al femminile o
di inculturazione o di assimilazione da parte delle Figlie di Ma-
ria Ausiliatrice ha una sua specifica caratterizzazione nell'opera
svolta da madre Mazzarello come Confonda.trice. Ma l'impegno
di questo approfondimento è particolarmente vostro.
8.2. CENTRALITÀ DELL'OBBEDIENZA
Ciò che impressiona subito, a prima vista, è la centralità che
si dà all'obbedienza in quel famoso quadrilatero presentato nel
sogno. Leggiamone la descrizione:
« Gli altri cinque diamanti ornavano la parte posteriorè del
manto ed erano così disposti: uno più grosso e più folgoreggian-
te stava in mezzo come il centro di un quadrilatero, e portava
135

14.8 Page 138

▲back to top
scritto "Obbedienza"». Poi «Povertà», «Castità», « Digiu-
no», «Premio». Dopo la presentazione dei cinque diamanti, si
legge: « Tutti questi quattro {ossia la Povertà, la Castità, il Di-
giuno e il Premio) ripiegavano i luminosi loro raggi verso il dia-
mante del centro ».
Dunque: centralità dell'obbedienza. Sui raggi dell'obbedienza
c'è una frase molto interessante: « È la base e il coronamento
dell'edificio della santità». La nervatura interiore dello spirito
salesiano ha come centro dinamico caratterizzante l'obbedienza.
Don Bosco ripeteva spesso: « In Congregazione l'obbedienza
è tutto» (MB 10, 1059); « ... è la base e il sostegno di ogni
virtù » (MB 17,890); « ... è l'anima delle Congregazioni Reli-
giose» (MB 12,459).
Ricordiamo l'apologo del fazzoletto:
« Don Bosco intanto non perdeva di mira la Congregazione che do-
veva fondare. Sovente, e ciò per molti anni, trovandosi in mezzo ad un
crocchio dei suoi giovani o dei chierici, scherzando come al solito, fini-
va con sedersi in terra con le gambe incrociate e con gli alunni intorno
a lui egualmente seduti. Egli teneva allora in mano il suo bianco fazzo-
letto e formatane come una palla la faceva saltare da una mano al-
l'altra. I giovani silenziosi osservavano quel gioco, ed: - Oh! escla-
mava ad un tratto; se potessi avere con me dodici giovani dei quali
io fossi padrone di disporre come dispongo di questo fazzoletto, vor-
rei spargere il nome di N.S. Gesù Cristo non solo in tutta l'Europa, ma
al -di là, fuori dei suoi confini, nelle terre lontane. - E non aggiun-
geva altra spiegazione» .(MB 4,424).
(NB: Vi leggo questa pagina e le seguenti per farvi vedere quale im-
portanza dava Don Bosco all'obbedienza, e non per insinuarvi che cosa
debba fare una superiora... Ci mancherebbe altro che trattasse le sue
suore come fazzoletti! Vi dirò più avanti qualche cosa in proposito!).
Anche nel sogno della fillossera Don Bosco insiste: « Quando
in una casa si manifesta la fillossera dell'opposizione ai voleri
dei superiori, la noncuranza superba delle Regole, il disprezzo
alle obbligazioni del vivere in comune, tu non temporeggiare:
sradica quella casa dalle fondamenta, rigetta i suoi membri,
senza lasciarti vincere da una perniciosa tolleranza. Come della
casa, così farai dell'individuo» {MB 12,478-479).
Ricordate pure il sacco con le cuciture di cui parlava Don
Bosco alle prime suore: « Se togliete al sacco le sue cuciture
- diceva - il sacco lascia sfuggire ogni cosa; così la religiosa,
136

14.9 Page 139

▲back to top
se non ha la cucitura dell'obbedienza, non può conservare nes-
suna virtù e cessa di essere religiosa» (MB 13,210).
Tra i criteri che Don Bosco ha dato a don Pestarino per sce-
gliere tra le Figlie dell'Immacolata quelle che potessero servire
per il nuovo Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice figura il
seguente: cercale tra « ... quelle che sono ubbidienti anche nelle
cose più piccole » (MB 10,598).
Poi c'è il simpatico e acuto sogno delle castagne. Don Bosco
« ... disse a don Lemoyne che per una settimana intera questo
sogno si era rinnovato tutte le notti. [ ... ] Una volta la donna gli
parlò così: - Sta' attento alle castagne marce e a quelle vane.
Fa' la prova a metterle nell'acqua, dentro la pentola. La prova è
l'ubbidienza... » (e segue una dettagliata e sottile descrizione di
discernimento) (MB 15,366) .
Nelle nostre Costituzioni Don Bosco aveva sempre messo come
primo voto quello dell'obbedienza, pur con tutta la predilezione
che dimostrava per la castità. Penso che questo sia un tratto ca-
ratteristico del nostro spirito . Siamo un gruppo di apostoli di
vita attiva, lanciati al compimento di una missione con una
azione pastorale instancabile, però in forma organica, in forma
comunitaria, non lasciata all'arbitrio del singolo . Allora, ecco:
per poter realizzare una tale missione, la caratteristica prima di
cui c'è bisogno è la disponibilità che trova la sua concretezza
nell 'obbedienza.
Anche il nostro stesso tipo di comunità esige alla base l'ob-
bedienza. La nostra è una comunità d'intenso spirito di fami-
glia; una famiglia ben unita, ispirata allo stile, diciamo così,
« patriarcale » (che oggi non si vede più nella società occiden-
tale), e che è stata in qualche modo riprodotta anche nella co-
munità benedettina con la figura paterna dell'abate; questo tipo
di famiglia ci serve per richiamare un modo caratteristico di
vivere insieme nell'amore. In tale famiglia, il papà non fa con-
sistere la sua autorità nel comando, ma dirige, fa funzionare
le cose, anima, unisce. Se nelle nostre comunità viviamo con un
cuor solo ed un'anima sola si deve alla coscienza profonda
che la comunità nasce da una disposizione di obbedienza e vive
animata dal valore della disponibilità in essa racchiuso.
È interessante vedere come nella disposizione dei diamanti,
quello dell'obbedienza corrisponde, a tergo, a quello della ca-
137

14.10 Page 140

▲back to top
· rità sul petto. I due poli dinamici del nostro spirito: la carità
e l'obbedienza!
Dirò di più; la nostra obbedienza ci porta a vivere in con-
creto i cinque diamanti della parte anteriore: infatti la dispo-
nibilità dell'obbedienza procede innanzitutto dalla fede, come
espressione concreta della filiazione divina attraverso il batte-
simo: sentirsi figli del Padre. Inoltre l'obbedienza è una con-
cretizzazione della speranza: sentirsi coinvolti nella potenza
dello Spirito per realizzare .una missione. Essa è anche la te-
stimonianza della carità: realizzare il dono di sé non arbi-
trariamente ma secondo il misterioso disegno del Padre. L'ob-
bedienza è, poi, strettamente legata al lavoro: dirige la deter-
minazione concreta della mia azione pastorale. Essa collabora
intensamente all'opera costante della temperanza: la arricchi-
sce con una sua pedagogia di libertà interiore per il retto uso
delle iniziative di chi vive come figlio, come apostolo, secondo
una disciplina ascetica.
8.3. DI QUALE OBBED.IENZA PARLIAMO
Penso torni utile soffermarèi a chiarire alcuni aspetti dell'ob-
bedienza perché essa è uno dei grandi valori in crisi oggi nella
vita religiosa.
Quando parliamo di obbedienza dobbiamo precisare di qua-
le tipo di obbedienza si tratta, perché la parola obbedienza
ha vari significati. C'è un'obbedienza « civile », ce n'è un'altra
che è «militare»; c'è poi anche un'obbedienza «pedagogica»:
quella del ragazzo , del figlio , del minore.
Di nessuno di questi tipi di obbedienza vogliamo parlare noi,
perché l'obbedienza religiosa è situata in un piano diverso . Noi
non obbediamo né ad un semaforo, né ad un caporale; la no-
stra non è neppure un'obbedienza pedagogica, anche se essa è
uno strumento di formazione alla libertà. Quanto più matura
la libertà, tanto meno si ha bisogno di obbedienza pedagogica:
essa è necessaria quanto più uno è piccolo e debole, ma dimi-
nuisce con la formazione e la crescita della libertà. La mamma,
l'educatore devono saper dosare l'intervento di obbedienza in
proporzione alla maturazione della libertà del figlio o dell'edu-
138

15 Pages 141-150

▲back to top

15.1 Page 141

▲back to top
cando. L'obbedienza pedagogica interessa molto al nostro im-
pegno educativo, ma non è di questa obbedienza che parliamo.
La religiosa e il religioso non sono dei minorenni! Purtroppo nel-
le case religiose si trova, a volte, gente psicologicamente mino-
renne; in tal caso, la prima cosa da curare è un tipo di forma-
zione che faccia diventare maggiorenni tutte queste persone.
L'obbedienza religiosa, anche nel suo significato ampio e cri-
stiano proprio della Nuova Alleanza, è un atteggiamento spiri-
tuale che accompagna l'esercizio di una libertà matura! Alla base
di tutto, dunque, supponiamo una libertà matura. Il religioso
obbedisce proprio perché lo vuole, per una sua particolare co-
scienza di maggiorenne. Obbedire è per lui espressione co-
sciente della sua filiazione profondamente amata e totalmente
libera, entusiasta di realizzare la volontà del Padre; ha come mo-
dello non l'impiegato, non il soldato, non il ragazzo , ma Gesù
Cristo . Ecco il modello che spiega l'essenza e le caratteristiche
basilari dell'obbedienza religiosa!
8.4. L'ORIGINALITÀ E IL MISTERO
DELL'OBBEDIENZA CRISTIANA
Cristo ci ha portati nientemeno che nel mistero della Trinità
effuso nella dimensione umana dell'incarnazione del Figlio. La
volontà umana di Cristo, la sua libertà di uomo aderisce ·con
cercata pienezza alla volontà del Padre. Cristo, infatti, ha un'ani-
ma umana in perfetta armonia e sintonia .con la filiàzione divina.
Ciò che è del Padre, è suo: « Non la mia, ma la Tua vol01:ità »!
Questa è la luce di fondo che illumina il concetto di obbedienza
cristiana.
Il punto nodale è che la psicologia umana di Gesù s;abban-
doni alla volontà del Padre. Egli è intim.amente convfoto'chè ciò
che vuole il Padre è la missione migliore da compiere.
La radice di questo tipo di obbedienza non è un'inferiorità,
non è una mancanza di maturità, 11011 è una strumentalizzazione
delle proprie capacità, ma è l'atteggiamento più' intelligente
che può assumere una persona libera: · quello di fare il' meglio,
assolutamente il meglio. La 'libertà è fatta_pèr il bene, tanto è
vero che in cielo di fronte a Dio non si è « liberi » per scegliere
139

15.2 Page 142

▲back to top
ancora, ma « superliberi » perché si è già scelto, si è pienamente
aderenti a Lui con tutti i dinamismi della volontà.
Quindi il segreto dell'obbedienza cristiana è una psicologia
di filiazione, impegnata nel conoscere e realizzare la volontà
del Padre. Certo: il problema della psicologia di Cristo è diffi-
cilissimo per i teologi; non è da pensare che la sua psicologia
umana fosse divina; era umana. L'esclamazione del Getsemani:
« Passi da me questo calice », può farci vedere che in Gesù
c'è stato un primo movimento umano di fuga dalla morte.
Però subentra immediatamente l'atteggiamento filiale, che in
noi è guidato dalla fede.
Certamente il modo con cui la psicologia umana di Gesù ha
conosciuto e voluto i piani del Padre era più profondo della no-
stra fede e non aveva bisogno di tante mediazioni come suc-
cede per noi: lo muoveva l'intuizione di essere Figlio, come og-
getto abituale della sua contemplazione. Basti pensare quante
volte Gesù ha parlato della sua morte, della sua «ora»; vuol
dire che nella sua coscienza umana aveva percepito e aveva
aderito a questo piano divino su di lui.
Anche in noi la fede sviluppa il senso della nostra filiazione
che ci porta ad aderire al disegno del Padre conosciuto attra-
verso le mediazioni che ci presentano i segni della volontà di
Dio. La nostra obbedienza è atteggiamento di fede!
Voi l'avete espresso molto bene nell'art. 23 delle Costitu:
zioni ,(1975):
« Sull'esempio di Cristo venuto a compiere il volere del Padre e in
comunione con lui, che "obbedendo fino alla morte" si è fatto servo
dei propri fratelli per liberarli, noi Figlie di Maria Ausiliatrice, con
la professione di obbedienza offriamo a Dio la nostra volontà, entran-
do così più profondamente nel suo disegno di salvezza. La docilità
allo Spirito ci rende attente ai segni dei tempi e ci fa trovare nel Van-
gelo, nel magistero della Chiesa, nelle Costituzioni, nelle Superiore e
nella comunità le manifestazioni quotidiane della volontà di Dio».
Anche se non sappiamo mai con assoluta sicurezza quale sia
<Oggettivamente la volontà del Padre, abbiamo però dei segni
qualificati della sua volontà. Per questo noi abbiamo bisogno
di speciali mediazioni. Quando Abramo portava Isacco con sé
per sacrificarlo, gli sembrava che la volontà del Padre fosse il
sacrificio del figlio; ma in realtà non lo era. Tuttavia Dio esi-
140

15.3 Page 143

▲back to top
geva che egli aderisse alla proposta fattagli: è divenuto il no-
stro padre nella fede (cf Eb 11;17-19; 8-12);
Vediamo poi brillare questa obbedienza così profonda in Ma-
ria, che pronuncia il suo « fiat » nella fede e vive in pienezza
tutto il mistero di Cristo obbediente. Anche la Chiesa, sposa di
Cristo, vive nei secoli l'obbedienza della fede sul modello di Ma-
ria.
Cristo, Maria, la Chiesa ci danno gli elementi che costitui-
scono una solida base per la nostra riflessione sull'obbedienza
e che stanno a monte della « vita religiosa » nel suo significato
canonico. Ci presentano il mistero dell'obbedienza cristiana con
la sua profondità e originalità. E noi dovremo far consistere
il nostro essere religiosi nel vivere come autentici cristiani! La
vita religiosa non è un'eccezione o un privilegio, ma un modo
genuino di essere buoni cristiani.
Quindi la nostra obbedienza dev'essere profondamente cri-
stiana. Bisogna agire come ha fatto Maria, come hanno fatto
gli Apostoli, come fa la Chiesa. Ciò che insegna il Vangelo è
per tutti i cristiani, anche i consigli evangelici e le beatitudini;
non c'è una strada aristocratica esclusiva per la vita religiosa,
c'è per tutti il grande e sublime cammino del cristiano. La se-
quela di Cristo nel suo stesso atteggiamento di obbedienza, così
come il suo amore alla castità e alla povertà, come il difficile
ideale del « beati quelli che sono perseguitati », « beati quelli
che piangono », « beati quelli che cercano la giustizia », ecc.,
valgono proprio per tutti. La vocazione alla santità e alla filia-
zione è universale.
Pensiamo, ad esempio, alla. mamma di Don Bosco, al papà
di madre Mazzarello, ai nostri genitori, insomma a tanti buoni
cristiani che abbiamo conosciuto e che percepiamo essere più
santi di noi, ossia migliori cristiani: radicati in una fede che ha
come suo primo costitutivo un atteggiamento di filiazione nell'ob-
bedienza.
Oggi non si dice più che noi religiosi siamo in uno « stato
di perfezione »; non si parla più dopo il Vaticano II della no-
stra forma di vita come di un privilegio che abbia il monopolio
della santità. Certo: la nostra forma di vita cristiana determina
e testimonia meglio alcuni aspetti della sequela di Cristo; altre
forme testimoniano meglio altri aspetti. Quel « più » che c'è nei
141

15.4 Page 144

▲back to top
documenti del Concilio sulla nostra vita religiosa: « più vi-
cino », « più chiaro », ecc., si riferisce ai valori che la nostra
forma di vita mette in vista; però tutte le forme di vita cristiana
sono aperte alle vette della santità.
Dunque, ci diciamo « religiosi» non perché ci crediamo l'ari-
stocrazia della santità, ma perché il nostro genere di vita testi-
monia a tutto il Popolo di Dio una particolare radicalità nel se-
guire Gesù Cristo, proclamando che per poter essere veri cri-
stiani è indispensabile vivere lo spirito delle beatitudini proprio
del mistero di Cristo obbediente, vergine e povero.
Considero importante tale precisazione perché è solo dopo il
Concilio che si vengono chiarendo certe idee, che, senza togliere
nulla alla vita religiosa, la orientano meglio, con più verità e
con più umiltà. È su queste radici profonde del mistero di Cri-
sto, patrimonio di tutta la Chiesa e di tutti i cristiani, in partico-
lare sulla filiazione di obbedienza al Padre, che crescono nella
Chiesa forme differenti e complementari tra loro di seguire Gesù
Cristo nella sua testimonianza di obbedienza, di povertà e di ca-
stità.
8.'5. L'OBBEDIENZA RELIGIOSA
La nostra obbedienza religiosa è un tipo particolare di ob-
bedienza cristiana; ci sono infatti vari modi concreti di seguire
Cristo obbediente.
Perché queste forme differenti?
Il primo motivo è la densità del mistero di Cristo: nessun
uomo singolo né una sola forma di vita può manifestarlo in
pienezza; ci vogliono tanti santi e vari modi complementari che
lo manifestino. Nella stessa vita religiosa ci sono varietà, come
dice il Concilio: qualcuno manifesta di più Cristo contemplante
sul monte, altri in mezzo alla gente mentre la guarisce, mentre
benedice i giovani, ecc. (cf LG 46) .
L'altro motivo è la pluriformità umana sia delle persone sia
delle culture, per cui si può interpretare la sequela del Cristo
·in maniera svariata.
Questo dà origine anche a forme differenti di obbedienza cri-
stiana.
142

15.5 Page 145

▲back to top
L'obbedienza religiosa è radicata sul mistero di Cristo obbe-
diente, e vuole arrivare a vivere con radicalità l'esperienza del-
la filiazione come l'ha vissuta Gesù Cristo. A tal fine sceglie di
servirsi della mediazione di un « superiore » per discernere i
segni della volontà del Padre e vivere in una comunità dedita
a continuare l'esperienza spirituale di un fondatore.
Questa forma concreta non è di per migliore delle altre. È
bella, è pratica, è buona, ma ce ne sono anche altre che sono
belle e sono buone. Se parliamo della bellezza, della praticità
e della bontà della nostra obbedienza, non è per deprezzare
le altre, ma per capire la profondità e la concretezza della no-
stra.
Il nostro tipo di obbedienza è frutto di una scelta libera;
anzi dell'atto più importante della nostra libertà battesimale.
Tale atto fondamentale di libertà è la nostra professione reli-
giosa . In essa noi ci impegniamo a vivere l'unico cristianesimo,
che è la sequela di Cristo, con i consigli evangelici e le beatitu-
dini. È una scelta concreta, con un progetto pratico di sequela
del Cristo. Basta che noi ripensiamo alla formula della professio-
ne. Innanzitutto seguiamo Gesù Cristo secondo il progetto del
fondatore; diciamo infatti che facciamo voto di obbedienza « se-
condo le Costituzioni del "tale" Istituto ».
Per assicurare la concretezza del nostro modo di vivere la filia-
zione al Padre facciamo il voto di obbedienza a Dio attraverso
una persona concreta: il superiore o la superiora; non a una
comunità, ma a una persona! Guardate la formula della profes-
sione: « ...nelle mani della Madre ... delegata della Superiora
generale ». Ciò non significa che quella persona sia un mago
che sappia sempre qual è la volontà del Padre; la scegliamo come
una mediazione qualificata che ci aiuterà a discernere i segni
della volontà di Dio attraverso l'esperienza di Spirito Santo
vissuta da una comunità che conserva e sviluppa il carisma del
fondatore.
Senza dubbio, la volontà del Padre rimane sempre un mistero,
un mistero profondo, ma non è un problema: ossia, genera si-
curezza e chiarezza e non dubbi e difficoltà. Il mistero è den-
sità di luce che io non posso contemplare nella sua pienezza;
il problema invece nasce dalle difficoltà a volte insormontabili .
Il mistero della volontà di Dio ha tanta luce come il sole; non
143

15.6 Page 146

▲back to top
è che non sia chiaro; ma ha tanta luce che non lo posso guar-
dare. Non mi toglie la libertà, ma me la orienta, così come il
sole non mi toglie la luce, ma mi illumina e mi fa vedere tutto.
Non posso però fissarlo, perché i miei occhi non hanno forza suf-
ficiente; guardano però il panorama e le cose illuminate dal
sole .
La densità del mistero del Padre nei disegni della sua volontà
mi obbliga allora a non fissarlo in fronte , ma a cercarlo in tanti
segni visibili. Ho già detto che non sappiamo fin dove arrivava
la psicologia umana di Gesù Cristo nel percepire la volontà del
Padre. Certo, egli non è andato sul Calvario obbedendo al man-
dato di un « superiore », però vi è andato « obbedendo » perché
conosceva in forma eminente, da Figlio unico, il disegno del Pa-
dre nella pienezza del suo mistero.
Noi invece, per evitare ogni soggettivismo (tanto facile!) .e
per assicurarci di muoverci alla luce del mistero della volontà
del Padre, cerchiamo delle mediazioni che siano segni qualifi-
cati di tale volontà. Ecco la sostanza della forma propria alla
nostra obbedienza religiosa. Fondati sulle radici dell'obbedienza
di Cristo, come modello a cui ispirarci nel modo di vivere la
filiazione battesimale, scegliamo delle mediazioni che ci chia-
riscono praticamente la strada.
Le mediazioni sono fondamentalmente queste: il progetto del
fondatore espresso nelle Costituzioni con tutto ciò che l'accom-
pagna, e una persona qualificata, il superiore, che guida la ma-
niera pratica e viva di realizzare le Costituzioni. Tutta la co-
munità collabora in differenti maniere a far sì che il superiore
possa realizzare un adeguato discernimento della volontà di
Dio, che mi sarà presentata attraverso il segno qualificato della
sua decisione.
Mai potrò dire: Questa è certamente la volontà di Dio (ricor-
date Abramo!); dirò piuttosto: Questo è certamente un segno
della volontà di Dio . Ma questo è più che sufficiente per lanciar-
mi all'esecuzione; il Padre provvederà anche nel caso non im-
probabile di qualche difetto nel discernimento del superiore.
Se questa è, in rapida descrizione, la forma peculiare dell'ob-
bedienza religiosa, voi percepite subito l'importanza che ha in
essa la funzione del superiore. Quando si predica sull'obbedien-
za religiosa, si suole parlare ai sudditi. Ma qui io sto rifletten-
144

15.7 Page 147

▲back to top
do con delle superiore. Cerchiamo di approfondire l'ambito delle
nostre responsabilità! Il superiore deve dimostrare di essere il
primo obbediente in tutto, nel senso della ricerca della volontà
del Padre, non dei suoi capricci, non dei suoi sogni. Deve essere
un esperto di « filiazione »! L'abilità e la mediazione del supe-
riore consistono anzitutto nell'esercizio continuo che egli fa per
vivere la volontà del Padre nello spirito del fondatore e nell'am-
bito delle Costituzioni. Quanto meno è obbediente un superiore
- lo dico al maschile per parlare di quello che conosco io - ,
tanto meno è superiore; ossia, si rende inabile a ricercare la vo-
lontà del Padre per poi indicarla agli altri. Diventa un semaforo,
o un caporale, o un semplice pedagogo; ma allora non si tratta
propriamente di obbedienza religiosa.
8.6. CRISI DI OBBEDIENZA?
Quando noi ci poniamo questa domanda: « C'è crisi di ob-
bedienza, oggi?», che cosa possiamo rispondere? Io dico: ci
potrà anche essere crisi di obbedienza, ma essa dipende soprat-
tutto dall'inettitudine dei superiori.
Ho trovato delle frasi di Lutero al riguardo che considero in-
teressanti. Parlando del religioso e dell'obbedienza, questo rifor-
matore dice: « Con il voto che lo sottopone alla regola , il frate
non promette nient'altro se non ciò di cui ha fatto già voto fin
dall'inizio col Battesimo » . C'è una parte di verità in questa affer-
mazione. Non era certo stupido Lutero: era un religioso Agosti-
niano, intelligente. Nella professione religiosa, infatti, noi faccia-
mo voto di obbedienza appunto per poter vivere in pienezza la
consacrazione battesimale, ma aggiungiamo qualche cosa di spe-
cifico e di pratico che ci caratterizza e ci guida . Lutero però non
riconosce ciò che nella vita religiosa è mediazione qualificata.
Per questo poi aggiunge ironicamente in forma di preghiera:
« Signore, se volessi coglierne il significato, esso suonerebbe
così: mio Dio, io mi impegno con te mediante tale voto a non
voler essere sottomesso a tutti come vuole il tuo Vangelo, ma
solo al mio unico superiore e solo secondo la regola prescritta » .
Ossia: capisce, da una parte, che l'obbedienza religiosa è con-
cretamente esigente perché impone di obbedire a un superiore
145

15.8 Page 148

▲back to top
e a una regola determinata; ma, dall'altra, accusa di riduttivi-
smo e ridicolizza la funzione dell'autorità e delle Costituzioni.
È un'ironia, che però ci fa pensare ...
Senz'altro l'obbedienza religiosa non è sottomissione alla vo-
lontà dispotica e arbitraria di un superiore, né alle limitazioni
di una Regola, bensì è ricerca della volontà di Dio fatta attra-
verso concrete mediazioni umane. Voler realizzare l'obbedienza
battesimale attraverso tali mediazioni nori è esclusione di tutto
il resto, ma un mezzo ben collaudato nella Chiesa per esercitare,
senza arbitrarietà soggettive, la propria esperienza di filiazione
al Padre.
Per quanto riguarda la crisi attuale d'obbedienza, io direi che
essa comporta innanzitutto una crisi di comunità e di autorità.
Essa si è espressa o si esprime in due maniere in certo modo
opposte: l'autoritarismo e il democraticismo .
La prima agisce per eccesso: è abuso di autorità, per cui il
superiore non è il primo obbediente che cerca la volontà del
Padre, ma il primo « autonomo » che pretende di far _fare quel-
lo che gli è venuto in mente. L'autoritarismo è controproducente
e profondamente sbagliato; può forse servire nell'ambito civile
e militare di certi sistemi non rispettosi della persona umana,
ma falsifica la natura della vita consacrata. Le decisioni religiose
sono sostanzialmente oggetto di ricerca della nostra libertà ancor
prima di essere conosciute.
L'obbedienza religiosa non rende il Salesiano simile a un
« cadavere », o a un « bastone», e neppure a un « fazzoletto »
(anche se ci si può servire di questo paragone per indicarne
la grande disponibilità) . Nello spirito di Don Bosco la nostra
è un'obbedienza di famiglia , ragionata, parlata, cordiale, di con-
vinzione, illuminata dalla missione, dai destinatari, dal bene
comune della Chiesa, della Congregazione e dell'Ispettoria.
Il democraticismo è apparso proprio come reazione all'eccesso
dell'autoritarismo. Esso consiste in una specie di mitizzazione
della comunità, concepita come assemblea di base, senza « cu-
pole » dirigenti, e con l'orientamento della maggioranza dei suoi
componenti - tutti uguali! - ; si vota, un voto in più è segno
della decisione da prendere.
Questa non è certamente la spiegazione della natura di una
comunità religiosa, anche se in determinati casi e secondo le
146

15.9 Page 149

▲back to top
Costituzioni si prendono in considerazione anche le votazioni
(. .. come voi farete nel Capitolo!), La democrazia è indispen-
sabile nei tempi normali e nelle società mature . La comunità
religiosa però fa parte del mistero della Chiesa, si costruisce sul-
la fede, ed ha una natura atipica. Può anche darsi che un solo
membro della comunità ci aiuti a scoprire la volontà del Padre,
forse il più insignificante o il più giovane, come diceva san
Benedetto .
L'affanno democraticista all'interno delle comunità religiose
ha fatto abdicare tanti superiori e superiore al loro servizio
di autorità. Da un nocivo autoritarismo si è passati all'eccesso
contrario del permissivismo e della noncuranza. E allora entra
in crisi l'obbedienza. La consacrazione religiosa comporta per
natura la sottomissione a un « superiore », come elemento carat-
teristico della sua forma; non c'è obbedienza religiosa senza tale
elemento. Quindi nel democraticismo non solo si mette in crisi
l'obbedienza, ma si falsifica l'essenza stessa della vita religiosa.
C'è, oggi, una crisi di obbedienza? Sì, c'è; ma sarebbe meglio
dire che c'è una crisi di comunità e una crisi di autorità che la
producono.
8.7. COMUNIONE, ANIMAZIONE E MANDATO
I principali rimedi alla crisi sono i seguenti: far sì che la co-
munità viva di comunione, che l'autorità si eserciti attraverso
l'animazione e che il superiore riveda il modo di assegnare il
mandato. Tre parole che indicano un programma di rinnova-
mento in una buona riflessione sull'obbedienza religiosa.
Innanzitutto « comunione » e « animazione » stimolano dal di
dentro a cercare insieme la volontà del Padre e a trovarla attra-
verso le convinzioni, le adesioni della libertà, e non tanto con
le imposizioni segrete e personaliste. Noi superiori abbiamo la
responsabilità di tutto questo, una responsabilità personale in
sintonia anche con la modalità di tipo culturale di oggi.
Nelle Costituzioni {1975) voi avete degli articoli belli su que-
sto argomento.
Art. 25: « Obbedienza e autorità si vivono nel nostro Istituto in
spirito di famiglia; i rapporti vicendevoli tra sorelle e sUJperidre sono
147

15.10 Page 150

▲back to top
improntati a semplicità, lealtà e fiducia . Animate dalla fede e dall'amo-
re alla volontà di Dio, ci impegniamo a compiere l'obbedienza da per-
sone libere e responsabili, mettendoci totalmente a disposizione delle
superiore secondo le esigenze della nostra vocazione salesiana... >! - ..
L'art. 26 dice: « La superiora, esercitando il suo compito in spirito
di servizio e coordinando la realizzazione <lei progetto comunitario, ani-
merà la vita di consacrazione-missione secondo lo spirito del Fondatore
e il metodo educativo dell'Istituto. Docile per prima allo Spirito Santo,
favorirà il dialogo personale e comunitario in un clima di gioia e di se-
reni rapporti fraterni, -promuovendo l'unione delle forze "per il bene
dell'Istituto e della Chiesa" ».
L'art. 27 specifica ancora: « Nella comunità tutte collaboriamo alla
ricerca della volontà ,di Dio e verifichiamo insieme la fedeltà alla no-
stra vocazione... ».
Ecco delle indicazioni importanti e dirò perché. Uno dei com-
piti più delicati del superiore e della superiora salesiana è quel-
lo di dare il « mandato » ai confratelli e alle consorelle (la
« lettera d'obbedienza »); non si fa ogni cinque minuti e neppu-
re ogni anno per ogni confratello; perché un mandato guida
anni di vita di una persona nella sua esperienza di filiazione .
Questa vostra assemblea capitolare è il solo caso in cui il man-
dato non lo dà il superiore o la superiora, ma il Capitolo gene-
rale attraverso l'elezione. In tutti gli altri casi il mandato lo dà
il superiore o la superiora, cercando il bene della persona, il
bene della Chiesa, il bene dell'impegno dell'Istituto nella Chie-
sa . È una decisione complessa; io non entro adesso a esaminare
un problema tanto delicato. Voglio solo ricordare, parlando a
superiore, che si tratta di un servizio fondamentale, che può
essere alla radice di varie crisi e di tanti fastidi.
Ci sono decisioni prese male, fatte in fretta, pensate senza
molta preghiera, formulate senza la dovuta ricerca e l'indispen-
sabile dialogo, condotte con poco senso di famiglia , mentre si
tratta di un elemento assai importante per il retto funziona-
mento dell'obbedienza. Ogni Salesiano e ogni Figlia di Maria
Ausiliatrice deve fondare il suo atteggiamento di filiazione, ri-
guardo a tutto quello che fa, su tale « mandato » . Ciò che
realizza un Salesiano o una Figlia di Maria Ausiliatrice in una
casa è vincolato a questo mandato; ad esso si riferisce sia
la vita interiore del confratello e della consorella (.. . sono qui
148

16 Pages 151-160

▲back to top

16.1 Page 151

▲back to top
in questa casa e con questo ufficio non per capriccio, ma per
attenermi ai segni della volontà del Padre), sia la sua iniziativa
e creatività per realizzare un determinato compito apostolico.
Infatti, care sorelle, l'obbedienza salesiana (come diceva Al-
berto Caviglia) dà, insieme al mandato, uno spazio con molta
« aria » intorno, per dar respiro alla sua libertà, alla sua inven-
tiva, alla sua personale capacità. Il mandato non determina un
orario di asfissia, non indica ogni piccola cosa da fare , ma asse-
gna piuttosto un'orbita in cui muoversi a proprio agio e con
sana libertà. Si dice a un confratello o a una consorella: Tu
vai a fare il direttore o la direttrice in tale comunità, hai le
Costituzioni, ecc., hai la tua intelligenza, la tua creatività, la tua
libertà! Tu vai a fare l'incaricato o l'incaricata di Pastorale gio-
vanile nella tale comunità: ma lì devi essere intelligente, cercare,
industriarti; non c'è nessuno che ti dia una formula giornaliera
per tutto quello che dovrai affrontare.
Lo spirito di inventiva, caratteristico del lavoro salesiano, è
inerente al nostro tipo di obbedienza, anche se è legato a un
mandato.
Penso che un elemento indispensabile per rinvigorire tra noi
l'obbedienza sia migliorare i superiori; ossia, rinnovare in noi
l'esercizio dell'autorità. Ma un tale esercizio s'appoggia tutto sul-
l'animazione. Bisogna far capire alle consorelle, ai confratelli
qual è la natura della nostra comunità come partecipazione pe-
culiare al mistero della Chiesa.
Poi bisogna approfondire anche la funzione spirituale dell'au-
torità. Occorre far vedere che chi è investito dell'autorità è
chiamato a far funzionare una vera potestà religiosa, una forma
religiosa di servizio che comporta vera potestà nel senso indicato
dalle Costituzioni; e che chi è rivestito di essa porta nella sua
coscienza personale una peculiare responsabilità verso gli altri.
Chi ha l'autorità ha bisogno di una spiritualità circa il suo deli-
cato ministero, per cui deve cercare la volontà del Padre non
solo per sé, ma anche per i suoi confratelli o consorelle, per la
sua comunità; deve aiutarli a vivere di filiazione, non può abdi-
care a questo.
Ma soprattutto bisogna cercare il modo per dare uno stile
familiare al funzionamento dell'autorità: non a suono di de-
creti, ma con la fatica del dialogo e dell'animazione.
149

16.2 Page 152

▲back to top
Cosa vuol dire animare? Ecco il punto nevralgico del rinno-
vamento dell'obbedienza! Animare significa creare un clima che
fa crescere le convinzioni religiose delle persone, che le fa muo-
vere soprannaturalmente dal di dentro , in tal modo che la loro li-
bertà assuma con coscienza e con gioia il da farsi.
Questo esige la creazione di un ambiente dove si approfon-
discono i valori religiosi, il significato della vita consacrata,
il senso della nostra missione, i criteri della nostra pastorale, le
grandi esigenze della gioventù, l'urgenza di riportare il Van-
gelo alla cultura, l'indispensabilità di una genuina testimonianza .
Abbiamo urgente bisogno di formazione permanente! Essa con-
siste in una intensa opera di animazione per mettere la vocazione
di ogni confratello, di ogni consorella di fronte alla sfida dei ·
segni dei tempi, per rispondere con attualità. A ciò fare, biso-
gna favorire e stimolare la crescita di interiorità della persona .
L'esercizio dell'autorità deve privilegiare tale impegno .
Ci sono stati Istituti religiosi che hanno dedicato tutto un
Capitolo generale al tema dell'animazione, che costituisce il
modo concreto di cambiare lo stile di « governo » . È un po'
quello che sta facendo la Chiesa: il nuovo tipo di vescovo è
quello di primo animatore della comunità diocesana. E che cosa
fa il Papa? Disimpegna il più alto compito di animazione che
riguarda in profondità tutta la vita deila Chiesa.
Il superiore e la superiora sono un padre e una madre spiri-
tuali a diversi livelli, chiamati a far progredire le convinzioni
interiori per realizzare i disegni del Padre seguendo il progetto
del fondatore.
Senza un forte impegno di animazione l'autorità non funzio-
nerà a ·sufficienza e la crisi dell'obbedienza non troverà la via
d 'uscita .
8.8. ALCUNE ESIGENZE DEL RINNOVAMENTO
A questo punto vorrei suggerire alcune riflessioni di attualità
per prendere atto del trapasso culturale del nostro tempo. Quan-
to abbiamo detto circa la temperanza, bisogna ripeterlo analogi-
camente per l'obbedienza.
C'è un'antropologia rinnovata, approfondita , che influisce sul
15 0

16.3 Page 153

▲back to top
modo di vivere la vita religiosa. L'animazione deve conoscere
bene l'attuale processo di personalizzazione; deve pure essere
sensibile al nuovo senso sociale ed ecclesiale che esige più in-
tensa partecipazione e maggior decentramento.
Tutto questo tocca culturalmente lo stile dell'obbedienza.
O.uando avvertiamo· che essa non funziona più come prima, non
dobbiamo rifugiarci in sterili lamentele sulla mancanza di
fede ; di rispetto, di umiltà; urge invece la ricerca di un adat~
fomento in profondità. Guardiamo, per esempio, a due feno-
meni dell'attuale svolta culturale: la personalizzazione e il de-
centramento.
- Il processo di personalizzazione, ossia la presa di coscien-
za dei valori della persona e della sua dignità. Per voi questo è
strettamente unito anche al « segno dei tempi » della promozione
della donna. Come volete che questa crescita culturale non influi-
sca anche sulla vita religiosa? Se è un elemento culturale, pro-
cede dalla crescita in umanità, ossia da un bene, e non da una
iniziativa del diavolo. B un progresso, è un'esplosione di nuovi
valori da assumere.
Senza dubbio i segni dei tempi sono ambivalenti; sono accom-
pagnati anche da aspetti devianti che possono portare ad una in-
terpretazione di allontanamento dal Vangelo: il peccato è real-
mente presente nella storia. Però questo non deve farci pensare
che in essa tutto sia negativo e ci allontani dal progredire. L'eser-
cizio dell'obbedienza religiosa dovrà sapere tenere conto dei nu-
merosi valori emergenti.
- Un altro elemento del trapasso in atto e che esige dece,ntra-
mento è l'incremento del pluralismo culturale, dei valori delle
nazionalità (non del «nazionalismo»!), dell'importanza delle si-
tuazioni locali. Tutto questo ha portato il Concilio alla riscoperta
della Chiesa locale, con le sue particolari conseguenze di comu-
nione e di partecipazione alla vita diocesana, nazionale e conti-
nentale, con la valorizzazione delle caratteristiche proprie dei
vari popoli.
La Chiesa locale è la diocesi guidata dal Vescovo, ma anche
la nazione e la regione guidata dalla Conferenza episcopale,
e la parrocchia con le sue esigenze particolari. ·
151

16.4 Page 154

▲back to top
Tutto questo ha le sue ripercussioni sulla vita religiosa, so-
prattutto apostolica, e tocca a fondo la responsabilità dei supe-
riori e delle superiore nell'esercizio della loro autorità e, quindi,
tutto il campo dell'obbedienza.
Tornando ora al primo elemento del « processo di persona-
lizzazione » vediamo che esso esige un cambiamento nel modo di
formare le persone, le loro convinzioni, la loro maniera di pro-
cedere e, quindi, anche nel modo di realizzare l'obbedienza
che è al centro della nostra vita religiosa. Non si tratta di smi-
nuirne il valore, ma di viverla nella sua autenticità; però questa
autenticità non si può esprimere come si esprimeva nel secolo
scorso. Che volete farci? Non è colpa del secolo scorso, ma è
frutto di una crescita culturale. Se le scienze antropologiche han-
no fatto progredire la coscienza dell'uomo, ne sia benedetto
Iddio! Di questo non dobbiamo aver paura; i valori del Van-
gelo non appassiscono si rimpiccioliscono davanti all'emer-
gere dei segni dei tempi: « Cristo ieri, oggi e sempre »!
E, per tornare al decentramento, pensiamo alla distinzione che
c'è tra « missione » e « pastorale ». Vedete, tra « missione» del-
l'Istituto e « azione pastorale » concreta, c'è un salto: non si
identificano tra loro. La « missione » è a un livello di univer-
salità nel tempo e nello spazio: per noi deve essere sempre la
stessa nelle varie nazioni e attraverso i secoli. Così, la missione
della Chiesa è la stessa nel I e nel XX secolo; però la sua pa-
storale cambia. Cambia secondo i tempi, secondo le regioni, se-
condo le culture; l'azione pastorale deve cambiare per forza.
La « pastorale » è necessariamente legata alle diversità concrete
dei luoghi, delle opere, delle situazioni.
Ora, il riconoscere i valori delle varie culture, delle ·Chiese
locali, significa rivestire di pluriformità la nostra azione pasto-
rale specifica. Non possiamo difendere in Congregazione un'azio-
ne pastorale uniforme; anche se difendiamo l'unità della mis-
sione. L'unità della missione è data dal fatto che noi siamo per
i giovani con una criteriologia di illuminazione della pastorale
fondata sul Sistema Preventivo. Questo è per tutti. Ci chiedia-
mo: ma... come si fa qui? con questo gruppo di persone, con
questa cultura? ecc. Ecco, la nostra inculturazione in una re-
gione ci obbliga a pensare e a vedere secondo le esigenze cul-
turali ed ecclesiali del luogo.
152

16.5 Page 155

▲back to top
Come vedete, questo comporta necessariamente un decentra-
mento nel modo di governare un Istituto religioso, ossia obbli-
ga a guidare le cose non in vista dell'uniformità, ma come con-
vergenza pluriforme di unità vitale in confronto con l'essenza
della nostra identità fondazionale. E tutto questo esige una non
facile revisione dell'esercizio dell'autorità.
Possiamo considerare il decentramento a due livelli: a livello
locale in ogni casa, ossia riguardo al rapporto della direttrice con
le sue consorelle. In questo caso si tratta di far crescere la co-
munione e la partecipazione delle singole persone secondo la
loro ricchezza personale, con una vera responsabilità, con un
concreto mandato, lasciando lo spazio sufficiente(« tanta aria»!)
per farlo funzionare secondo le capacità di ognuna. La direttrice
che accentra tutto non fa un buon servizio all'obbedienza! Ma
perché voler fare tutto? ... Oltre ad essere mancanza di furbizia,
è anche falsificazione della vera obbedienza religiosa. Si deve ar-
rivare invece alla valorizzazione delle persone, delle loro quali-
tà, delle doti che Dio ha dato loro, ecc., perché avere la fun-
zione di superiore non vuol dire essere il più intelligente né il
più dotato e, meno ancora, il «factotum»: vuol dire invece
essere « servitore » della comunione e della partecipazione. « Il
direttore - diceva non Bosco - faccia il direttore, cioè sappia
far agire gli altri: invigili, disponga.. . ma per la smania del meglio
non si metta a far le cose esso » (MB 13,258).
Guardiamo ora il decentramento a livello di Istituto. Dopo
i Capitoli generali speciali abbiamo fatto tutti qualche passo
in avanti al riguardo. È un processo che aumenterà secondo il
tipo degli Istituti. Ci sono Istituti che sono quasi una federazione
di province: noi però non siamo così! Don Bosco ha voluto un
tipo di unità mondiale e ispettoriale molto concreto, come lo
conosciamo dalle Costituzioni e dalle modalità di strutture la-
sciate dal Fondatore.
Chi è superiore generale o ispettrice o ispettore ha qui un
elemento di riflessione sul come esercitare la sua autorità come
ministero di unità (non di uniformità!). Il decentramento, a que-
sto livello, non è soppressione dell'unità. Il decentramento ri-
chiede la capacità di far funzionare le responsabilità in armonia
con le esigenze della sussidiarietà e in comunione con il centro,
mentre comporta un'incarnazione sempre più chiara di ciò che
153

16.6 Page 156

▲back to top
è il progetto universale dell'Istituto nelle particolarità dei dif-
ferenti Paesi.
Ora: il superiore provinciale (l'ispettore e l'ispettrice) che sta
guidando questa incarnazione, deve essere il primo impegnato
a curare l'unità e l'identità in sintonia con la Comunità mondiale,
in leale e costante comunione con il Superiore o con la Supe-
riora generale. Il nostro tipo di autorità è così.
Ci sono degli Istituti con altre modalità; è utile saperlo. Le
strutture di servizio sono specifiche di ogni carisma: noi non ci
ispiriamo in questo alle fraternità francescane o domenicane.
Dobbiamo approfondire meglio il nostro spirito, le nostre Co-
stituzioni, la nostra tradizione, e non aver paura di dire in certe
riunioni: noi abbiamo un altro spirito, un'altra struttura. La
pluriformità delle forme di vita religiosa sono una ricca varietà
della Chiesa: perché dovremmo essere tutti uguali?
L'art. 103 delle Costituzioni (1975) presenta il vostro tipo di
governo; nell'ultimo paragrafo precisa: « L'unità voluta da Don
Bosco, promossa nel rispetto del principio di sussidiarietà dai
diversi organi di governo» , ecc. Ecco, ogni organo di governo
deve fare tutto quello che sa e che può al suo livello, senza
interferire né supplire. Il decentramento sta lì; quindi non è una
soppressione del centro, ma un'assunzione di responsabilità nella
periferia.
L'esercizio dell'autorità e quindi il clima dell'obbedienza ha,
nel decentramento, un assai concreto stimolo al rinnovamento.
8.9. UN CONSIGLIO DI DON BOSCO AL SUPERIORE
Rileggiamo l'art. 25 delle Costituzioni (1975). Vi troviamo
una frase che si ispira ad una importante lettera di Don Bosco
ai Salesiani (cf MB 8,828-830). Dice: « ... ci impegniamo a com-
piere l'obbedienza [ ... ] mettendoci totalmente a disposizione del-
le superiore», ecc. E bene fare una breve riflessione su questa
frase , perché può essere interpretata in forma ambigua.
La lettera di Don Bosco « A D. Rua e agli altri miei amati
figli » (9 giugno 1867) è assai interessante. Noi ne leggeremo
solo qualche tratto. Essa mette in luce quanto Don Bosco pen-
sava sulla sequela di Cristo, sulle disposizioni che bisogna ave-
154

16.7 Page 157

▲back to top
re nell'esercizio della filiazione battesimale. Scrive fra l'altro
che entrando nell'Istituto nessuno si deve credere necessario,
proprio nessuno! « Nemmeno con buon fine entra o rimane
nella Società chi è persuaso di essere necessario alla medesima.
Ognuno se lo imprima bene in mente e nel cuore: cominciando
dal Superiore generale [ che era lui!] fino all'ultimo dei soci,
niuno è necessario nella Società. Dio solo ne deve essere il
capo, il padrone assolutamente necessario ».
Tutti, dunque, senza , eccezione entriamo per cercare e fare
umilmente la volontà del Padre. Poi Don Bosco prosegue:
« Ognuno deve entrare in Società guidato dal solo desiderio di
servire Dio con maggior perfezione e di fare del bene a se
stesso, s'intende fare a se stesso il vero bene, bene spirituale
ed eterno. Chi si cerca una vita comoda, una vita agiata, non
entra con buon fine nella nostra Società. Noi mettiamo per base
la parola del Salvatore che dice: - Chi vuol essere mio disce-
polo vada a vendere quanto possiede nel mondo, lo dia ai po-
veri e mi segua ».
La professione deve ricordare, soprattutto a noi superiori,
proprio questo. Deve essere l'angolatura con cui il superiore
giudica tutto l'esercizio della sua autorità. Bisogna riconqui-
stare il primato dei valori della vita religiosa. Qui Don Bosco
è esigente: richiama le parole testuali del Vangelo: « Chi mi
vuol seguire, rinneghi se stesso, prenda quotidianamente la sua
croce e mi segua». « Ma fino a quando seguirlo? - dice Don
Bosco - . Fino alla morte e, se fosse mestieri, anche ad una
morte di croce ».
Parlando poi delle convinzioni da coltivare nel cuore aggiun-
ge: « Entrato un socio con queste buone disposizioni, deve mo-
strarsi senza pretese e accogliere con piacere qualsiasi ufficio
gli possa essere affidato. Insegnamento, studio, lavoro, predica-
zione, confessioni in chiesa, fuori di chiesa, le più basse occu-
pazioni devono assumersi con ilarità e prontezza d'animo, per-
ché Dio non guarda la qualità dell'impiego, ma guarda il fine
di chi lo copre. Quindi tutti gli uffizi sono ugualmente nobili,
perché ugualmente meritori agli occhi di Dio. Miei cari figliuoli,
abbiate fiducia nei vostri superiori: essi devono rendere stretto
conto a Dio delle vostre opere; perciò essi studiano la vostra
capacità, le vostre propensioni e ne dispongono in modo com-
155

16.8 Page 158

▲back to top
patibile con le vostre forze , ma sempre come loro sembra tor-
nare di maggiore gloria a Dio e per il vantaggio delle anime».
Quindi, la famosa frase che abbiamo citato (di mettersi to-
talmente a disposizione delle superiore) va interpretata in que-
sto contesto; in altra maniera potrebbe anche divenire non solo
ambigua, ma persino nociva. Sì, « a disposizione delle supe-
riore», però che cosa dice Don Bosco ai superiori? « Essi de-
vono rendere stretto conto a Dio delle vostre opere; perciò essi
studiano la vostra capacità, le vostre propensioni, ecc. ». Vedete
che responsabilità!
Allora, parlando dell'obbedienza religiosa, bisogna mettere
in evidenza la funzione del superiore che nella nostra forma di
vita ha una speciale incisività. Però, carissime sorelle, bisogna
sottolineare anche i compiti e le responsabilità di tale funzione
e, soprattutto oggi, metterla in armonia con le esigenze concrete
del momento storico di cambiamenti culturali profondi che at-
traversiamo.
La nuova cultura non l'abbiamo inventata noi: essa non nega
né diminuisce in assoluto né la funzione del superiore né i va-
lori dell'obbedienza, ma ci impone di viverli in novità e con
fedeltà dinamica. Non sarà un lavoro facile, né breve. Lo dob-
biamo affrontare con umiltà, con intelligenza e in continua pre-
ghiera.
8.10. L'« ANGELUS» E L'OBBEDIENZA DI MARIA
E concludo: che Maria ci aiuti! È lei che in un altro sogno
ha insegnato a Don Bosco a mettere il nastro dell'obbedienza
sulla fronte di alcuni giovani, se voleva che rimanessero con lui.
Io vi invito a ripetere lentamente, per conto vostro, una pre-
ghiera magnifica e densa di significato la cui meditazione ci
può aprire all'atteggiamento più vero dell'obbedienza: la recita
dell'« Angelus». I versetti scolpiscono un evento di obbedienza e
ne illuminano la ineffabile fecondità per tutta la storia della
salvezza. E quelle Ave Maria che intercalano i versetti cf
danno modo di pensare che cosa significhino le immortali pa-
role: « Ecco l'ancella del Signore, si faccia in me la tua vo-
lontà »... « e il Verbo si fece carne ed abitò tra noi »!
156

16.9 Page 159

▲back to top
Maria iniziò l'opera dell'incarnazione nell'obbedienza.
Cristo realizzò l'opera della salvezza nell'obbedienza.
La fede di « Colei che ha creduto » e la coscienza di filiazione
propria del Cristo si sono tradotte nella storia, per il bene di
tutti, in una concreta obbedienza.
Ecco: la libertà del religioso, la sua maturità e responsabilità
personale, la crescita nella comunione e nella partecipazione,
l'esercizio dell'autorità, l'animazione e il mandato, la personaliz-
zazione, la socializzazione, il decentramento e i diversi valori
dell'odierna novità culturale, devono concorrere in forma com-
plementare a costruire un clima di vera obbedienza cristiana,
che traduca la coscienza di filiazione propria della fede nell'at-
teggiamento operativo della Pasqua: « Non la mia, ma la Tua
volontà»!
Nella nostra Congregazione, come diceva Don Bosco, « ... Dio
solo deve essere il capo, il padrone assolutamente necessario.
Perciò i membri di essa devono rivolgersi al loro capo, al loro
vero padrone, al rimuneratore, a Dio, e per amor di Lui ognuno
deve farsi iscrivere nella Società, per amor di Lui lavorare,
obbidire, abbandonare quanto si possedeva ... » (MB 8,828).
I versetti dell'« Angelus » e questa riflessione di Don Bosco
offrono abbondante materiale di riflessione sul diamante del-
1'«Obbedienza», soprattutto per chi è incaricato di servire gli
altri, in spirito salesiano, con la delicata funzione dell'autorità
religiosa .
157

16.10 Page 160

▲back to top
9
SETTIMO DIAMANTE
LA POVERTÀ
Siamo ai diamanti del quadrilatero posteriore del manto. Nel
sogno Don Bosco vede alcune iscrizioni sui raggi del diamante
del « Voto di povertà »: « È dei poveri il regno dei Cieli ».
« Le ricchezze sono spine ». « La povertà non si vive a parole,
ma con l'amore e con i fatti ». « Essa ci apre 1e porte del
Cielo».
9.1. SIGNIFICATI DELLA POVERTÀ
Parliamo, dunque, della povertà. Ci troviamo di fronte a
un tema polivalente per il concetto di povertà di per sé ambi-
guo. Cerchiamo brevemente d'intenderci al riguardo.
Il concetto di povertà lo si può capire partendo dalla con-
siderazione di due verbi che aiutano a spiegare la crescita
della persona umana: « essere » e « avere ».
A volte si parla di questi verbi con uno schema dualista, come
se stessero in opposizione tra loro. Potremmo riflettere su di
essi in una linea astratta di privilegio dell'« essere », però dob-
biamo essere realisti, concreti, storici, umili e dire che l'essere
della persona umana, per crescere, ha bisogno di « avere ».
Per questo, Iddio ha creato j beni della terra per l'uomo, affin-
ché possa « essere di più ». Noi non possiamo aumentare il
nostro essere se non attraverso l'avere. Certo: non per l'« ave-
re » in se stesso, ma per aumentare l'essere della persona.
Questo è interessante: ci fa pensare alla bontà di Dio Padre
che ha creato tutto l'universo per noi; l'ha fatto attraverso il
Verbo e senza del Verbo non ha fatto niente. I beni economici
158

17 Pages 161-170

▲back to top

17.1 Page 161

▲back to top
non sono dunque un male, sono un bene ; li ha fatti Dio, li ha
fatti per noi, li ha fatti per il nostro essere. La povertà più
genuina non potrà, in definitiva, disprezzarli. La povertà evan-
gelica non è disprezzo della creazione: non lo sono né la po-
vertà, né la castità, né l'obbedienza. L'obbedienza non disprezza
la libertà, ma la porta a una maturità superiore; la castità
non disprezza il sesso, ma lo orienta a una capacità di amore
più grande; così la povertà non disprezza i beni economici,
ma li usa per il Regno. Ringraziamo, quindi, Iddio Padre di
averci dato la capacità di avere, e di essere stato generosissimo
nell'offrire tanti beni all'uomo; però facciamolo come persone
che vogliono crescere esse stesse e far crescere gli altri nel-
l'essere.
I beni economici sono creati da Dio per l'umanità. Mentre
si fa questa affermazione, così chiara nella Gaudium et spes,
si apre subito davanti a noi un panorama di costatazioni tristi
e di situazioni incredibilmente ingiuste . La brama di possedere
ha causato disordine, sofferenze e odio .
Di fronte ai beni economici si possono dare situazioni con-
trastanti e assumere differenti atteggiamenti. Vediamone alcuni,
tanto per incominciare ad introdurci nel tema.
- Il miserabile: privo di tutto, emarginato. È povero, su-
perpovero; ha bisogno di aiuto, di giustizia e soprattutto di
amore; Cristo si rispecchia in lui: « ho fame, ho sete ... ».
Questo tipo di povertà è un male sociale, un male da com-
battere. Certamente noi non facciamo voto di questa povertà.
- Il ricco: ha accumulato tanti beni, è opulento. Disprezza
ogni tipo di povertà ed ha concentrato i suoi ideali nel be-
nessere. Il Vangelo è severo a suo riguardo .
- Il padrone: si considera proprietario esclusivo; non ha
sensibilità verso la dimensione sociale dei beni: non crede alla
paternità di Dio che li ha creati per tutti. Coltiva in l'istinto
del possesso e del dominio, che è una pericolosa malattia del-
l'animo, di cui può soffrire il contagio anche l'emarginato im-
pegnato in una lotta di classe.
- L'artista: guarda ai beni economici con un raro distacco;
geniale e originale, simpatico, sommerso in altri valori e poco
159

17.2 Page 162

▲back to top
curante di ciò che è iniziativa economica. È un atteggiamento
curioso, di pochi, ma che vale la pena approfondire. Quando
vediamo il tale artista (un musico, un pittore, un poeta, un
genio del bello) che fa delle opere di pregio, ma che va vestito
male, che non sa amministrare i suoi beni, diciamo che gli
manca qualche cosa. È vero; però ha anche qualche cosa in
più e di molto valore: potrebbe avere anche molti beni se
sapesse e se volesse servirsi della sua genialità a questo scopo,
ma ha altri interessi.
Quando noi parliamo di povertà entriamo un po' in que-
st'ottica: un atteggiamento da artisti. L'artista non disprezza
i beni economici, ne ha bisogno; però lui è immerso in altri
valori che gli interessano di più, che gli sembrano più belli, ai
quali dedica la sua intelligenza, le sue iniziative e il suo tempo.
Certo: ci piacerebbe correggere in lui la trascuratezza eco-
nomica.
9.2. LA POVERTA EVANGELICA
Quando noi parliamo di povertà evangelica ci sentiamo più
vicini all'artista che agli altri. Però, per capirla e spiegarla og-
gettivamente non possiamo partire da nessun tipo d'uomo: noi
partiamo solo da Gesù Cristo.
Se volete, Gesù Cristo ci appare in certo qual modo come
l'artista della salvezza o della liberazione integrale; ha una
sua genialità: coltiva nel cuore valori speciali, di altro tipo,
non perché disprezzi i beni economici (di cui è creatore!), ma
perché vuole promuovere i valori della salvezza di cui hanno
bisogno tutti gli uomini; vuole chiarire e realizzare il signifi-
cato e la meta della storia stessa dell'uomo.
Ecco: la povertà evangelica, più che misurarla dalla priva-
zione economica o dalla mancanza di mezzi o dalla situazione
d'ingiustizia sociale, noi la valutiamo anzitutto per gli interessi
del cuore, gli orientamenti della genialità, del progetto di vita,
delle attività di servizio agli altri. Si riferisce anzitutto al
cuore e all'anima.
160

17.3 Page 163

▲back to top
La povertà evangelica guarda a Cristo come modello di vita
a cui conformarsi: « Beati i poveri in spirito »!
Ci rifacciamo a Gesù Cristo: vediamo che, già al momento
di farsi uomo, il Verbo ha immesso una speciale genialità, un
intuito di fondo nella sua futura psicologia umana. La « ké-
nosis » espressa nel famoso passo paolino è il cuore della sua
esistenza di Salvatore. « Comportatevi come Cristo Gesù - dice
l'Apostolo - . Egli era come Dio, ma non pensò di dover con-
servare gelosamente il fatto di essere uguale a Dio. Rinunziò
a tutto; scelse di essere come servo e diventò uomo fra gli
uomini. Tanto che essi lo riconobbero come uno di loro. Ab-
bassò se stesso e fu ubbidiente a Dio sino alla morte, alla morte
di croce. Per questo Dio lo ha posto al di sopra di tutto, e gli
ha dato il nome più grande che esiste » (Fil 2,5-9).
È l'artista che si prepara a realizzare il suo capolavoro: la
liberazione, la salvezza, la redenzione! Di qui parte tutta la
nostra maniera di riflettere sulla povertà evangelica. Gesù Cristo,
già all'inizio della sua esistenza umana, ha questo senso pro-
fondo di « kénosis »: non disprezza niente, ma concentra la
sua attenzione nel valore massimo; cresce con una psicologia
che lo porta a un'opzione fondamentale, a una grande idea
fissa nel cuore: costruire il Regno di Dio, dare agli uomini la
pienezza della vita e il vero senso della storia.
Per questo, quando si comunica, parla del Regno, presenta
il disegno del Padre, fa vedere il supremo ideale; ai suoi di-
scepoli dirà: « Cercate prima di tutto il Regno di Dio, e il testo
vi sarà dato in più» (Le 12,31).
Ecco la dinamica interna per cui si è svuotato di tutto e
si è fatto povero. È questo il suo ideale, la preoccupazione to-
talizzante del suo amore. Possiamo quindi dire che l'anima della
povertà è la sua carità, l'amore al Padre, per realizzare il suo
progetto di salvezza tra gli uomini.
Non basta però guardare il cuore di Gesù Cristo per avere
un'idea giusta della povertà evangelica. Infatti, questo cuore
di Gesù Cristo, che cerca prima di tutto il Regno dei cieli, è
legato al fatto concreto della scelta di una particolare condi-
zione sociale.
E qui sorgono certe esigenze pratiche della povertà evange-
lica. Quella voluta da Gesù è una condizione sociale che rientra
161

17.4 Page 164

▲back to top
nella costituzione stessa della povertà evangelica a cui noi
cerchiamo di ispirarci. Gesù Cristo si è fatto uomo non nella
casa dei prìncipi, dei ricchi, dei padroni, ma fra la massa dei
bisognosi, dei poveri, dei lavoratori, a Nazaret, nella famiglia
di un falegname; ha dovuto lavorare per guadagnarsi da vivere.
Quali sono, poi, i suoi destinatari preferiti? La prima volta
che va in una sinagoga a leggere e a parlare pubblicamente,
secondo quanto ci dice il Vangelo, apre il rotolo di Isaia dove
è scritto: « Evangelizare pauperibus misit me»: sono stato man-
dato per evangelizzare i poveri. E non solo i suoi destinatari
preferiti sono i poveri, ma, costatando che i ricchi con cuore
di « padrone » non capivano il Regno di Dio, ha parole du-
rissime circa il loro atteggiamento; non contro i beni econo-
mici, ma contro il cuore umano indurito dall'avidità del pos-
sesso. Noi non ci azzarderemmo a pronunciare certe maledi-
zioni: « Guai a voi. .. », veramente flagellanti; eppure Gesù le
proclama con straordinario coraggio.
Alle stesse conclusioni si arriva quando si cerca nel Vangelo
la spiegazione di certi fatti. Perché quel giovane non l'ha se-
guito? Perché aveva molti beni, era ricco. Gesù non fa discri-
minazioni nei riguardi delle persone ricche, non è un classista;
però costata di fatto che la ricchezza generalmente chiude i
cuori ai grandi orizzonti.
Gesù inoltre considera i poveri come sacramento della sua
presenza per la carità degli uomini: « Mi hai dato da mangiare,
mi hai dato da bere, mi hai visitato in carcere, mi hai vestito
perché ero nudo ... » (Mt 25 ,35-36). Il suo non è un atteggia-
mento assunto così per caso, è una scelta voluta e confessata
con insistenza.
Tra quali persone sceglie i suoi discepoli? Tra artigiani e
pescatori; non voglio dire che erano miserabili; erano lavora-
tori, gente del popolo. Solo Matteo era un pubblicano agiato.
Certo, ci sono attorno a Gesù anche persone che possedevano
beni, ma con il cuore aperto al Regno: Lazzaro, ad esempio;
le sue sorelle, le pie donne che l'accompagnavano e l'aiutavano
con i loro beni. Non ha disprezzato queste cose. Ma la sua
scelta è per i poveri e per « madonna povertà ». Sappiamo che
l'offerta fatta da Maria e Giuseppe al Tempio per il riscatto
del bambino Gesù è stata l'offerta dei più poveri: due colombe.
162

17.5 Page 165

▲back to top
Vediamo che durante la sua vita pubblica Gesù accetta tutti
i disagi della povertà e prospetta la stessa condizione ai di-
scepoli, invitandoli a lasciare tutto per seguirlo.
È su questo tipo di povertà che noi impostiamo la nostra
professione religiosa.
9.3. UNA PROFEZIA PER IL MONDO D'OGGI
Però, a questo proposito, prima di parlare della nostra scelta
specifica dobbiamo dire che questo tipo di povertà è per tutti
i cristiani, per tutti i discepoli: niente teologia aristocratica
per uno stato di perfezione! I consigli sono per tutti: anche
questo ideale della povertà. Le beatitudini sono per tutti: tutti
devono essere poveri in spirito. La povertà evangelica è un
atteggiamento di fondo di tutti i discepoli.
E noi vediamo che la prima comunità cristiana, nell'entusia-
smo della sequela di Cristo, fa suo in pieno tale atteggiamento,
mettendo anche in comune i beni. La comunione dei beni as-
sicurava il distacco del cuore e metteva i. beni a beneficio di
una crescita in comunione che servisse anche a risolvere i pro-
blemi dei fratelli più bisognosi. Il Signore ha sempre chiesto
a quelli che lo volevano seguire di lasciare i beni, di venderli,
di darli ai poveri. Quindi, questo . tipo di povertà è una qua-
lità che deve essere propria di tutti i discepoli. Essa ha però
la possibilità di essere vissuta con differenti forme.
La vita religiosa è un modo radicale di testimonianza di tale
povertà: in essa si assume l'impegno per una forma di vita in
cui il cuore prescinde dai beni economici che vengono usati
per aiutare i poveri e costruire il Regno .
Nell'assemblea dell'Episcopato latino-americano a Puebla
- dove si è parlato tanto della povertà e i Pastori hanno de-
ciso quella famosa opzione preferenziale per i poveri - s1 e
elaborata una descrizione della povertà evangelica che è par-
ticolarmente interessante. Vi leggo alcuni brani:
« Per il cristianesimo il termine "povertà " non è soltanto espressione
di una priv,azione e di un'emarginazione dalle quali dobbiamo liberarci.
Esso designa anche un modello di vita che già compare nell'AT nella
figura dei "poveri di Iahvè" e che è proclamato e vissuto da Gesù come
163

17.6 Page 166

▲back to top
beatitudine. San Paolo spiegò questo insegnamento dicendo che l'atteg-
giamento del cristiano .deve essere quello di chi usa dei beni di questo
mondo (le cui strutture sono transitorie) senza farne un assoluto, per-
ché sono soltanto mezzi per giungere al Regno. Questo modello di vita
povera è richiesto nel Vangelo a tutti coloro che credono in Cristo:
possiamo perciò chiamarlo "povertà evangelica". Questa povertà richie-
sta a tutti i cristiani viene vissuta in modo radicale dai religiosi, i quali
si impegnano con i loro voti a vivere i consigli evangelici» (n. 1148).
« La povertà evangelica unisce l'atteggiamento di apertura fiduciosa a
Dio con una vita semplice, sobria ·ed austera che allontana la tentazione
della cupidigia e dell'orgoglio» (n. 1149) .
« La povertà evangelica si mette in pratica, come dice san Paolo,
anche dando e dividendo i beni materiali e spirituali, non per impo-
sizione, ma per amore, affinché l'abbondanza degli uni sia rimedio alla
necessità degli altri» (n. 1150).
Potremmo dire ciò che hanno detto i Padri, ciò che ripeteva
lo stesso Don Bosco: il superfluo appartiene ai poveri. Certo,
i! superfluo è un concetto relativo: una cosa è la povertà ai
tempi di madre Mazzarello a Mornese e di Don Bosco a Val-
docco, e un'altra quella degli ambienti delle metropoli tecnico-
industriali. Basti considerare il contadino normale di oggi: c'è
un salto « economico » rispetto al secolo scorso. Oppure
cerchiamo di paragonare la povertà in India e la povertà negli
Stati Uniti: senz'altro il concetto di « superfluo » e quindi di
« povertà » è relativo, perché va in sintonia con il progresso
tecnico, la civiltà, le situazioni concrete, ecc. Però rimane
sempre l'elemento fondamentale di distacco, di sobrietà e di
superfluo.
Il documento di Puebla continua:
« La Chiesa si rallegra nel vedere che in molti dei suoi figli, soprattutto
della classe media più modesta, questa povertà cristiana è vissuta concre-
tamente» (n. 1151).
Pensiamo a tante famiglie cnstlane: hanno una proprietà
privata, indispensabile; lavorano e acquistano dei beni, ma non
vivono per divenire ricchi; vivono con generosità i problemi
dell'educazione dei figli, i problemi della collaborazione in par-
rocchia, l'aiuto ai più bisognosi, ecc.
Un altro breve paragrafo del documento di Puebla (n. 1152)
164

17.7 Page 167

▲back to top
lancia poi, attraverso la povertà evangelica, un messaggio pro-
fetico agli uomini impegnati a costruire una nuova società. L'at-
teggiamento evangelico dei cristiani può far sorgere un'alterna-
tiva ai sistemi economici che ci sono oggi nel mondo e che
non procedono dal Vangelo: il capitalismo, il marxismo, ispi-
rati al primato assoluto del benessere economico. Sono sistemi
materialistici per .i quali parlare del « Regno » equivale a
un'utopia veramente ridicola, così come qualcuno . può ridere
al vedere un artista che muore di fame, mentre potrebbe di-
venire ricco. Per tali sistemi l'elemento economico è un criterio
primario per giudicare tutto: la persona, la libertà, la storia,
la possibilità di felicità.
Ebbene, Puebla dice: « Nel mondo d'oggi questa povertà è
una sfida al materialismo, ed apre le porte a soluzioni alterna-
tive alla società dei consumi » (n. 1152).
Come vedete, qui c'è tutto un orizzonte profetico.
9.4. LA LEZIONE DELLE NOSTRE ORIGINI
Don Bosco e madre Mazzarello sono stati esimi testimoni
di povertà evangelica e ci hanno lasciato una tradizione assai
esigente al riguardo. Su tale argomento non c'è bisogno di in-
sistere molto: basta pensare da quali famiglie sono nati, come
sono vissuti, che cosa hanno fatto, a quali destinatari li ha
inviati il Signore, qual era la condizione economica delle case
agli inizi, che cosa mangiavano, quanto lavoravano, come si ve-
stivano, in che modo si riscaldavano, ecc.
Permettetemi di ricordarvi solo alcuni momenti significativi .
Ce n'è uno che mi ha impressionato parecchio quando l'ho
sentito per la prima volta da ragazzo; più tardi ho poi visto
grandi personaggi commuoversi nel leggerlo.
Don Dassano ha comunicato a Mamma Margherita che suo
figlio vorrebbe farsi Francescano. Giovanni un giorno dice alla
mamma: « Io spero che non avrete nulla in contrario su questa
decisione». Ed ecco le parole di Mamma Margherita (bisogna
pensare, a questo punto, che si tratta di una famiglia povera:
è morto il papà, ci sono tre figli da crescere e la prospettiva di
un figlio prete diocesano che potrebbe in futuro contribuire a
165

17.8 Page 168

▲back to top
mantenere la famiglia è allettante. Se invece si facesse France-
scano non potrebbe dare nessun aiuto economico):
« Io - esclamò la mamma - voglio assolutamente che tu esamm1
il passo che vuoi fare e che poi seguiti la tua vocazione, senza guardar
ad alcuno. La prima cosa è la salute della tua anima. Il parroco voleva
che io ti dissuadessi da questa decisione, in vista del bisogno che potrei
avere in avvenire del tuo aiuto. Ma io dico: In queste cose non c'entro,
perché Dio è prima di tutto. Non prenderti fastidi per me. Io da te
voglio niente: niente aspetto da te. Ritieni bene: sono nata in povertà,
voglio morire in povertà. Anzi te lo protesto: se tu ti risolvessi allo stato
di prete secolare e per sventura diventassi ricco, io non verrò a farti
una sola visita. Ricordalo bene! » (MB 1, 296).
E Don Bosco, a settanta e più anni, ricordava ancora l'aspetto
imperioso assunto da sua madre e il tono vibrato della sua
voce quando gli diceva queste energiche espressioni, e si sen-
tiva commosso fino alle lacrime.
Prima di morire, la stessa Mamma Margherita, accortasi della
gravità del suo male, volle dare gli ultimi ammonimenti ai suoi
figli. « Avuto solo Don Bosco, gli disse: - [ ... ] Non cercare
eleganza, splendore nelle opere. Cerca la gloria di Dio,
ma abbi per base· la povertà di fatto. Hai vari [ qui all'Orato-
rio] che amano la povertà negli altri, ma non in se stessi »
(MB 5,561-562).
Guardate che donna cristiana! Quando si trattava di una
decisione in cui era impegnato anche il suo proprio avvenire,
e poi ancora poco prima di morire, tra i consigli da dare al
figlio prete, sceglie appunto quello della povertà evangelica:
quanta sintonia con il Signore!
Don Bosco era molto pratico quando parlava della povertà.
Predicando gli Esercizi a Trofarello fece due istruzioni sulla
povertà. Nella seconda, riportata nelle Memorie Biografiche,
dice: « La nostra deve essere povertà di fatto» . E poi spiega:
« Nella cella, negli abiti, nella mensa, nei libri, nei viaggi, ecc.
[ ... ]; un religioso deve possedere quello che aveva Gesù Cristo;
[ ... ] non si dimentichi l'antica nostra condizione». (Lui pen-
sava alla sua, però parlava a Salesiani e Figlie di Maria Ausi-
liatrice quali sono normalmente, senza alludere ai casi del prin-
cipe Czartoryski, del conte Cays e di altri pochi. Siamo gente
del popolo, di quella classe modesta, di cui ·parla Puebla, in
166

17.9 Page 169

▲back to top
cui vive e brilla o può vivere e brillare la povertà evangelica).
« Se noi ci manterremo fedeli al voto di povertà - conti-
nua Don Bosco - noi saremo quasi mendichi, ma che molti
facciamo ricchi [ ... ] . Ma guai a quelle case religiose nelle quali
s'incomincia a vivere da ricchi! » (MB 9,701-703).
Quando qualcuno esclamava: « Siamo così poveri! », Don
Bosco diceva: « La povertà è la nostra fortuna, è la benedi-
zione di Dio! [ ... ] Leggete la Storia Ecclesiastica e troverete
infiniti esempi dai quali risulta che l'abbondanza dei beni tem-
porali fu sempre la causa della perdita d'intere comunità, le
quali, per non avere conservato fedelmente il loro primo spi-
rito di povertà, caddero nel colmo delle disgrazie. Quelle in-
vece che si mantennero povere, fiorirono meravigliosamente »
(MB 6,328-329).
E porta poi tanti esempi di esigenze che magari noi, dopo
cento anni, con un'altra cultura, possiamo considerare esage-
rati . È a questo proposito che parla anche dell'abito dei sale-
siani. « Alcuni venerandi Sacerdoti, tra i primi della Diocesi,
si recarono a visitarlo [ ... ] insistevano scherzando per sapere
quale tonaca avrebbero indossato i nuovi frati [lo prendevano
in giro, ma Don Bosco era più furbo di loro]. - Ebbene, re-
plicò Don Bosco; voglio che vadano tutti in maniche di ca-
micia come i garzoni muratori. A questo punto risa e motteggi
accolsero la strana rivelazione; e Don Bosco, dopo aver la-
sciato che a loro posta quei signori si ricreassero, egli pure
sorridendo, osservò: - Ho forse detto una stranezza? Non
sanno loro, signori, che andare in cam1c1a vuol dire povertà?
E che una Società religiosa senza povertà non può durare? »
(MB 2,410-411).
Possiamo dire, in sintesi, che Don Bosco certamente insisteva
molto sul distacco del cuore, ma anche su espressioni assai
pratiche di sobrietà, di privazioni, di stile di vita e di lavoro.
Ricordiamo le riflessioni che abbiamo fatto circa il lavoro e
il suo impegno per la gioventù povera e abbandonata.
Questi sono temi esplicitamente trattati dalle nostre Costitu-
zioni. Leggiamo alcuni articoli delle vostre attuali (1975):
« La povertà evangelica, abbracciata volontariamente per il regno
dei cieli - dice il vostro art. 16 - , ci rende partecipi dell'annien-
tamento del Figlio di Dio che, essendo ricco, si fece povero per noi.
167

17.10 Page 170

▲back to top
Con filiale abbandono alla provvidenza del Padre, seguiamo Cristo sce-
gliendolo come Sommo Bene e, più disponibili ad amare i fratelli, di-
veniamo per loro segno di speranza dei beni futuri».
Nell'art. 18 si parla specificamente del voto religioso:
« Nel vivere la nostra povertà personale dipendiamo, nell'uso dei
beni, dalla superiora e dalla comunità, ricordando che il solo permesso,
di cui ognuna è responsabile, non ci garantisce di essere povere nello
spirito delle beatitudini. Distaccate dalle cose procuriamo di acconten-
tarci del necessario e siamo pronte ad accettare con animo sereno
le conseguenze della povertà e quindi a ,soffrire caldo, freddo, fame,
sete, fatiche e disprezzi per amore di Dio e del prossimo ».
Come vedete, è un articolo esigente.
Va sottolineata la messa in comune dei beni, il concetto di
lavoro come espressione di povertà, la necessità di una testi-
monianza comunitaria: « La nostra povertà, per essere credi-
bile - dice l'articolo 21 - , esige una testimonianza comuni-
taria di distacco e un efficace impegno di promozione integrale
dei poveri sull'esempio di Don Bosco e secondo l'insegnamento
della Chiesa » . Si unisce l'impegno di prescindere dai beni
economici a quello del servizio e della promozione dei poveri.
Inoltre, continua il medesimo articolo: « Ogni nostra comu-
nHà, attenta alle condizioni del luogo in cui si trova, adotterà
un tenore di vita semplice e frugale e abiterà in ambienti mo-
desti e funzionali » .
Ecco: abbiamo un'idea di che cos'è la povertà evangelica
che vogliamo praticare, e sappiamo che il voto religioso stabi-
lisce una forma di sequela di Cristo povero in modo radicale,
secondo lo spirito di Valdocco e di Mornese.
9.5. NUOVI APPORTI CULTURALI
Anche in questo campo della povertà evangelica la nostra
forma di vita è legata con le culture in cui ci troviamo. Anche
qui, perciò, veniamo interpellati dal discorso del trapasso cul-
turale. Questo è infatti il grosso problema che oggi si pone
per tutto ciò che riguarda i voti e lo stile della vita religiosa.
Che cosa esige oggi da noi la cultura emergente per una pra-
tica attuale della povertà religiosa?
168

18 Pages 171-180

▲back to top

18.1 Page 171

▲back to top
Soffermiamoci su due osservazioni.
- Primo: la coscienza sempre più chiara e pubblica della
dignità della persona. I diritti dell'uomo povero ed emarginato
sono più conosciuti di prima, ma forse oggi come non mai
sono conculcati; ecco perché la Chiesa ha assunto atteggiamenti
coraggiosi e nuovi in questo campo.
- Secondo: la crescita del senso sociale, ossia la preoccu-
pazione mondiale per la giustizia nel rispettare i diritti non
solo della persona umana e dei poveri in genere, ma degli stessi
popoli. La condizione di sperequazione internazionale ha pro-
vocato un movimento che caratterizza soprattutto il terzo mondo:
il processo di liberazione! C'è un consenso comunitario circa
l'urgenza di un riassetto sociale a favore di tutti i popoli, con
una coscienza di superamento dei blocchi monopolizzatori dei
beni economici. Io non voglio qui entrare in politica; però
queste sono situazioni che toccano la nostra dimensione reli-
giosa e anche i nostri voti. Come l'obbedienza cristiana è toc-
cata da tutta la crescita della personalizzazione e della socia-
lizzazione, così la povertà cristiana è toccata da tutto questo
rivolgimento sociale.
Questa situazione ha portato in primo piano nella Chiesa il
tema della povertà; tanto da far sorgere anche delle deviazioni
nella sua interpretazione. Alcuni infatti vorrebbero spiegare
tutta la vita religiosa partendo solo dall'ottica della povertà
sociale. Così si può arrivare facilmente a strumentalizzare il voto
di povertà in favore di scelte più sociopolitiche che evangeliche.
L'ottica della nostra povertà non è propriamente quella so-
ciologica (anche se la prende in considerazione), ma quella
carismatica del proprio fondatore come discepolo radicale di
Cristo. Però non è profittevole polemizzare contro le esagera-
zioni di tipo sociopolitico senza percepire il significato sotteso
ad esse: in questo caso è evidente una forte interpellanza alla
Chiesa e alla vita religiosa di un maggiore e più attuale senso
di fedeltà al Vangelo.
Per questo la Chiesa latino-americana , che vive nel terzo
mondo, ha fatto la sua opzione preferenziale per i poveri. Anche
la nostra Famiglia è fortemente situata nel terzo mondo e ci
dobbiamo sentire profondamente interpellati.
169

18.2 Page 172

▲back to top
D'altra parte, quante volte il Papa stesso ci ha esortati a
preoccuparci di più dei bisognosi e dei poveri. Si tratta di un
impegno di coerenza con la professione di povertà evangelica.
Quindi, oggi, la povertà acquista una peculiare importanza
nel rinnovamento della vita religiosa. Non dico che adesso si
dovrà fare della povertà il primo dei nostri voti. Però, in questi
frangenti culturali, esso esige un'attenzione straordinaria. Se
siamo stati invitati dal Concilio ad un autentico rinnovamento,
non potremo realizzarlo senza rivede-re e reinventare il nostro
modo di seguire Cristo povero. La situazione culturale ci sfida
a ripensare con praticità e coraggio la forma radicale della
nostra povertà.
9.6. LA TRIPLICE OTTICA DEI NOSTRI VOTI
I pensatori della vita spirituale religiosa affermano che bi-
sogna guardare ai voti sempre sotto una triplice ottica,
La prima: è quella che si riferisce a Dio, per cui si pro-
clama il primato assoluto di Dio, di Gesù Cristo. Ogni voto
sempre una scelta teocentrica, anche se si rivolge al servizio
dell'uomo.
Ricordatevi quello che abbiamo detto della dinamica dei due
oggetti della carità: la carità verso il prossimo è frutto della
carità verso Dio. Ed è tanto più intensa e tanto più costante
quanto più è vera la carità verso Dio. Questo è particolarmente
indi spensabile per evitare oggi un'interpretazione della nostra
povertà che risulti, in definitiva, una povertà di tipo sociolo-
gico: « ,,, se distribuisco ai poveri tutti i miei averi e come
martire lascio bruciare il mio corpo: senza l;amore niente io
ho»! (1 Cor 13,3).
L'« homo faber » di cui abbiamo parlato, e che è tale sia
nella società consumista sia nella società collettivista, proclama
un altro primato: sommerso nell'ateismo, proclama il primato
dei valori economici. Messo di fronte al voto di povertà lo
considera un'alienazione, una scappatoia per evadere dalla realtà.
Per noi invece è un seguire Cristo, per inserirci più profonda-
mente nella realtà dei piccoli e dei poveri,
170

18.3 Page 173

▲back to top
Il nostro impegno « sociale ·» di religiosi si fonda tutto su
questa caratteristica teocentrica. E oggi è particolarmente im-
portante insistere su tale originalità.
La seconda ottica è quella che si riferisce alla Chiesa nella
sua missione di salvezza tra gli uomini. Il votò allora significa
assumere con radicalità la missione di Cristo in un clima ma-
terialista di benessere. Significa prendere sul serio la missione
della Chiesa per testimoniare che la salvezza, la liberazione o,
se vogliamo usare una parola classica, la grazia che ci salva,
vale molto di più dei beni economici .
Ricordo a questo proposito una famosa frase di san Tommaso:
« Il bene della grazia di uno solo è un valore più grande dei
beni naturali di tutto l'universo ». Sì: la nostra povertà deve
potere testimoniare che l'amore di Cristo vale più di tutti i
miliardi. Quindi, il voto religioso ha anche una dimensione
profetica contestatrice che dimostra con l'esistenza, i servizi, la
vita di comunità che ci sono dei valori che trascendono alta-
mente i beni economici.
Ricordate quello che affermava Pio XI di Don Bosco? Era
tanto acuto, attivo, costante, intelligente, organizzatore e furbo
che avrebbe potuto eccellere in tanti rami e avrebbe potuto,
quindi, farsi anche miliardario. Ma lui, in fedeltà alla predi-
lezione cristiana verso la gioventù, invece di fondare la FIAT ...
ha fondato noi!
A causa dei nostri voti noi siamo dei veri « impegnati ».
ossia, dedicati concretamente a risolvere un problema umano
testimoniando , fino alle ultime conseguenze, una verità libera-
trice di cui siamo convinti. Chi è impegnato nella Chiesa col
voto di povertà è dedicato a testimoniare che il bene del Regno
di Dio vale più di tutti i beni economici e deve essere offerto
soprattutto ai poveri.
e E poi la terza ottica: quella rivolta alla società; perché
il Vangelo è per gli uomini, la Chiesa è per l'umanità, per il
mondo. « Alla società » non vuol dire al tal governo, quasi per
assumerne l'ideologia o il progetto storico; vuol dire alla co-
munità umana di quartiere, di città, di paese, di regione, di
nazione, al di là delle coloriture ideologiche e degli interessi
di parte.
171

18.4 Page 174

▲back to top
I
Quest'ottica comporta, quindi, anche una certa e vera di-
mensione « politica », ma nel senso ampio e globale della
parola, fondato nel suo significato etimologico e nella sua ordi-
nazione al bene comune. Noi abbiamo un po' paura a parlare
di dimensione politica. Eppure la nostra povertà ha anche una
dimensione «politica»; forse sarebbe meglio dire una dimen-
sione « sociale », perché il termine « politica » è sempre ambi-
guo e si presta a interpretazioni non rette. Però, ecco: e im-
portante avere presente anche questa terza ottica della nostra
povertà religiosa.
L'odierna società lamenta tante strutture inadeguate e ingiu-
ste. Non si fa fatica a vedere in molti Stati l'egoismo e la
menzogna organizzati: si parla della dignità e della libertà del
cittadino, ma in realtà si schiavizza l'uomo, e, in definitiva,
ciò succede appunto perché non si lascia spazio per il Regno
di Dio. Quanti sistemi sociali di strutturazione politica si ispi-
rano ad ideologie ateistiche oppure agnostiche, con cui pla-
giano i cittadini con scopi di egemonie economiche.
C'è tanto bisogno di aiutare la gente, e soprattutto la gio-
ventù, a vedere con occhio critico l'attuale strutturazione so-
ciale. Don Bosco ci ha fondati per aiutare a costruire una so-
cietà nuova, educando i giovani, dando preferenza alla gio-
ventù povera, alla gioventù del popolo.
Urge davvero sfatare le menzogne ideologiche di certi quadri
culturali che pretendono di organizzare la società a loro gusto.
Non dobbiamo fare i tribuni sul pulpito, o sulle cattedre, certo.
Però dobbiamo testimoniare e illuminare: con intuito evange-
lico, con pazienza, con costanza ed equilibrio, e, poiché siamo
religiosi attivi, con i nostri servizi di educatori che sanno pre-
sentare l'alternativa della povertà evangelica come un atteg-
giamento originale di fronte ai beni economici in conformità
al progetto del Creatore, in vista di tutti gli uomini, e non
solo di alcuni padroni.
9.7. URGENZA DI REVISIONE
Vedete che, arrivati a questo punto, il nostro voto di povertà
ha un sapore un po' sconosciuto: non è solo un'osservanza
interna; è anche una testimonianza e una profezia. La cultura
172

18.5 Page 175

▲back to top
ci obbliga a rivedere il significato profondo dei nostri voti, e
la triplice ottica ci pone di fronte ad un'urgenza di revisione
delle nostre modalità di vita e di azione .
Leggendo gli articoli delle Costituzioni troviamo non pochi
argomenti per portare avanti una forte revisione, guardando sia
alla fedeltà del nostro voto, rendendolo più autentico, più ge-
nuino, sia alle sfide dei tempi, ai poverf di oggi, al terzo mondo,
ai destinatari che ci ha assegnati lo Spirito del Signore in
un'ora cruciale della storia.
Che cosa esige tutto questo? Un ritorno alla genuinità delle
origini, all'autenticità del Vangelo nella intensificazione del-
l'azione evangelizzatrice dei poveri, della gioventù bisognosa,
collaborando con la Chiesa a presentare il messaggio di Cristo
come fonte concreta di un'alternativa circa l'organizzazione
umana dei beni economici. Guardate che questo non è poco e
si traduce in un'esigenza di rendere più « pastorali » tante nostre
opere.
Siamo diventati, a volte, professori e professoresse di disci-
pline di erudizione, e lasciamo perdere l'educazione del cuore
e della mente su problemi concretissimi come l'uso dei beni
e il concetto di proprietà. È necessario migliorare tutta la nostra
azione educativa, la nostra catechesi. La catechesi non con-
siste solo nell'insegnare che Dio esiste, ma nel proiettare vigo-
.rosamente il Vangelo nel concreto vissuto dai giovani, aiutan-
doli a risolvere i problemi che assillano l'attuale società.
Un'altra esigenza urgente è la nostra testimonianza di po-
vertà: sincerità di cuore nel vivere l'atteggiamento evangelico
di Don Bosco in forma personale e in forma comunitaria. Dob-
biamo saper evangelizzare soprattutto con la nostra vita con-
creta.
Un'ulteriore esigenza è la ristrutturazione pastorale delle
nostre opere. È un impegno difficile, complesso e lungo, però
è necessario. Bisogna arrivare a una maggiore « popolarizzazio-
ne » delle nostre opere, ossia a fare in modo che continuino
davvero la missione iniziata dal Fondatore.
Io sono convinto che noi svolgiamo la nostra opera soprat-
tutto nel terzo mondo. Sì, siamo anche nel primo e nel secondo
mondo, ma soprattutto nel terzo. Questo dice bene della nostra
fedeltà. Ma i poveri del mondo ci interpellano da nuove posi-
173

18.6 Page 176

▲back to top
/
zioni . Siamo sorti con una particolare preoccupazione per il
mondo del lavoro e purtroppo ora non ci troviamo sufficien-
temente presenti in esso; un mondo con tanti giovani e che ha
bisogno più che qualsiasi altro di una profezia evangelica sulla
povertà.
Abbiamo bisogno, anche, di ringiovanire lo slancio missiona-
rio: le missioni, infatti, vanno incontro soprattutto ai poveri.
Siamo invitati a sperimentare « presenze nuove », in sintonia
con lo spirito di Don Bosco. Dobbiamo farlo con cura e cor-
responsabilità, cercando di impegnare persone capaci e di va-
lore e non quelle amareggiate e avventuriere.
Un'ultima cosa: in questo campo dell'opzione preferenziale
per i poveri è cresciuta enormemente la preoccupazione della
Chiesa. C'è, al riguardo, tutto un insegnamento sociale del
Magistero che va valorizzato e comunicato ai giovani. Sappia-
mo che il Papa ha portato a termine in queste settimane di
malattia un'altra enciclica sul lavoratore: Laborem exercens.
A Puebla egli ha insistito sul rilancio della dottrina sociale della
Chiesa perché i popoli non siano sempre più manipolati dalle
ideologie. E allora l'insegnamento sociale della Chiesa deve
essere un elemento importante nelle nostre relazioni con i po-
veri che sono i nostri destinatari.
La dimensione politica è uno dei valori che emergono nella
nuova cultura: « politica » nel suo senso più alto. Ebbene:
la nostra testimonianza di povertà non può trascurare questo
aspetto, anche se sappiamo che per tradizione chiarissima non
dobbiamo « fare politica di partito» .
9.8. LA POVERTÀ DI MARIA
Concludiamo. Questa volta pensiamo a Maria nel suo giorno
onomastico. Voi credete che Maria era povera? Bene. Un ar-
ticolo delle vostre Costituzioni (1975) dice così: « Maria, che
primeggia tra i poveri del Signore, vivifica il nostro umile
servizio con lo spirito del Magnificat » (art. 22); spirito del
Magnificat che rivela i profondi sentimenti e i grandi orizzonti
di un cuore evangelicamente povero: un cuore teocentrico, un
174

18.7 Page 177

▲back to top
cuore vincolato intimamente alla missione di salvezza, un cuore
interessato al divenire della storia umana.
Ecco la triplice ottica delle nostre riflessioni sulla povertà!
La povertà religiosa mette al primissimo posto nell'« avere »
le ricchezze di Dio che trasformano l'« essere » del cuore; s'im-
pegna con la Chiesa per realizzare la missione dell'evangeliz-
zazione dei poveri; si sente coinvolta nella solidarietà e nel
servizio evangelico dei socialmente bisognosi.
Certo: la povertà religiosa ha peculiari esigenze indicate
chiaramente nelle Costituzioni, come abbiamo letto; ma il suo
clima di vita è tutto in questa triplice ottica . Nella nostra
povertà non c'è solo spogliamento, ma soprattutto dono! Il
servizio dei poveri non deriva da una generosità che si aggiunge
all'oggetto della povertà religiosa; fa parte di questo oggetto
stesso. Quindi la nostra povertà non è solo austerità e compor-
tamento ascetico; è anche questo, e in forma assai concreta
(ricordate Mornese!); ma ci rimanda a una speciale correspon-
sabilità nella missione della Chiesa e ad impegni concreti, propri
della nostra missione salesiana, nell'edificazione di un mondo
di maggior giustizia.
E così vediamo che il diamante della « Povertà » concorre
come energia nascosta e forza interiore, a dar contenuto e tono
assai caratteristici ai due strategici diamanti del « Lavoro » e
della « Temperanza »; essi ci appaiono più concreti se ripieni
dei valori contemplati nella triplice ottica del voto di povertà.
Ci insegni Maria, supremo modello dei poveri del Signore,
a vivere la nostra povertà con lo spirito del Magnificat! ·
1.75

18.8 Page 178

▲back to top
10
OTTAVO DIAMANTE
LA CASTITÀ
Riflettiamo ora sul diamante della « Castità ». Si legge nel
sogno: « Nella sinistra, sul più elevato, era scritto: "Voto di
Castità ". Lo splendore di questo mandava una luce tutta spe-
ciale, e mirandolo traeva ed attaccava lo sguardo come la
calamita tira il ferro ». E sui raggi di questo diamante era
scritto: « Tutte le virtù si accompagnano ad essa. I mondi di
cuore vedono i segreti di Dio e contempleranno Dio stesso ».
E poi, sul guasto fatto dal tarlo: « Concupiscenza degli 0cchi
e -superbia della vita ».
10.1. LA POSIZIONE DEL DIAMANTE
È già per noi motivo di riflessione la posizione data al dia-
mante della « Castità». Non è posto « davanti», non è « al
centro » del quadrilatero, non è « il più grosso », « né il più
sfolgorante» (che è quello dell 'obbedienza) . Però è « il più
elevato » a sinistra, poi ha uno splendore « tutto speciale » e
questo splendore è così vivo che attrae a sé lo sguardo come
la calamita attira il ferro .
La sola considerazione di questi dati è sufficiente a far ri-
levare il ruolo, quasi direi complementare, e simultaneamente
l'importanza caratteristica della castità nello spirito salesiano.
Al centro del cuore salesiano c'è una « spiritualità della mis-
sione» (obbedienza!) , illuminata, però, e mai disgiunta da una
predilezione evangelica per la purezza.
Vale la pena sottolineare quanto è scritto sui raggi di questo
diamante e cioè, che « Tutte le virtù si accompagnano ad essa»;
176

18.9 Page 179

▲back to top
come pure l'accenno alla contemplazione: « I mondi di cuore
vedono i segreti di Dio e contempleranno Dio stesso ». Ci ri-
porta ai valori profondi della fede, della speranza e della ca-
rità con cui vive intimamente vincolata la castità.
Vedete quanti elementi e quanti dettagli offerti alla nostra
riflessione !
Poi è detto con chiarezza che ciò che attenta alla castità
è la concupiscenza: sia )a concupiscenza della carne come la
concupiscenza dello spirito, ossia la lussuria e la superbia.
Don Bosco ha parlato spesso, con entusiasmo e con particolare
ispirazione, della purezza o delle virtù che le fanno corona,
tanto che qualcuno l'ha accusato di moralismo e di poca vi-
sione teologale. La disposizione dei diamanti del sogno sfata
tale superficiale accusa. Nello spirito salesiano la castità è
assai importante; eppure la disposizione del suo diamante sul
manto non ci può trarre in inganno .
Dalla posizione di questo diamante si percepisce subito che
sarebbe un grosso sbaglio centrare tutto sulla castità con l'ot-
tica di un moralismo ossessivo, o con quella di una unidimen-
sionalità riduttiva, come se tutto lo spirito salesiano si concen-
trasse lì. Questo può anche consolarci un po', perché, pensando
alle nostre debolezze, non le potremo guardare con scoraggia-
mento depressivo: sono difetti che non sgretolano tutto l'edi-
ficio. Penso siano osservazioni, queste, di positivo interesse
per una spiritualità di vita attiva.
Dobbiamo anche aggiungere che il diamante della castità
proclama inoltre qualcosa di specifico per noi, per il nostro spi-
rito. Non solo perché la vita religiosa è fondata sul celibato
e su una castità radicale, ma perché Don Bosco ne sottolinea
un aspetto particolarmente importante per il nostro tipo di ca-
rità farsi amare»!). Sappiamo che san Benedetto insisteva
dicendo: « Amate la castità»; ebbene, Don Bosco soleva dire
qualcosa di più: « Amate lo splendore della castità ».
C'è uno « splendore » della purezza che è fatto proprio per
il nostro spirito, come un elemento di attrazione. Vedete dove
va a sfociare la ricerca del segreto della nostra simpatia: cer-
chiamo di « farci amare » soffusi dallo splendore di questo dia-
mante; ossia, proprio il contrario del farsi amare per concu-
piscenza!
lJ?

18.10 Page 180

▲back to top
10.2. LA SIMPATIA DELLA PUREZZA
I
Nello spirito di Don Bosco c'è u11 forte messaggio di purezza;
la tradizione salesiana e la testimonianza delle origini lo con-
fermano abbondantemente. Si tratta di un messaggio speciale
che possiamo chiamare la « simpati a della purezza »: un mes-
saggio tipico per la gioventù.
Don Bosco soleva ripetere: « Ciò che deve distinguere la
nostra Società è la castità, come la povertà contraddistingue i
figli di S. Francesco di Assisi e l'obbedienza i figli di S. Ignazio »
(MB 10,35).
Abbiamo visto che Do9 Bosco mette al centro del quadrila-
tero nella parte posteriore del manto il diamante dell' « Obbe-
dienza », come perno di tutta la nervatura. L'obbedienza, in-
fatti, nella descrizione tipologica del nostro spirito, è veramente
centrale e tutti i raggi degli altri quattro diamanti puntano su
di essa. Eppure, al di dentro di una struttura di disponibilità
per la missione attraverso l'obbedienza, ciò che un tono
caratteristico al nostro stile ascetico (al « coetera talle »!), che
lo riveste di una speciale capacità pedagogica e pastorale, è la
castità, proprio perché deve difendere e incrementare la capa-
cità di « farsi amare »; essa contribuisce a far sì che non ci
sia nessun sospetto di egocentrismo nel farsi amare: assicura
che la nostra amorevolezza è vera carità. La fonte pratica della
« bontà salesiana » è situata proprio nello splendore della pu-
rezza!
A persona non iniziata potrà sembrare che il « farsi amare»,
tanto richiesto dal nostro spirito, sia un 'utopi a impossibile. Ep-
pure sappiamo che è possibile, perché l'abbiamo visto in Don
Bosco e nei nostri primi ed è richi esto dalla nostra missione e
dalla nostra tradizione; è stato storicamente realizzato da tanti
confratelli e consorelle per più di cento anni.
La castità salesiana non comporta una faccia austera né un
tratto corazzato e scostante, ma il sorriso , la bontà e tutti gli
elementi propri dell'amorevolezza. Don 'Bosco soleva dire: « La
carità, la castità, l'umiltà sono tre regine che vanno sempre in-
sieme: una non può esistere senza le altre» (MB 9,706). La
carità pastorale dà l'ardore e il coraggio della presenza; lo
178

19 Pages 181-190

▲back to top

19.1 Page 181

▲back to top
splendore della castità dà la rettitudine dei contatti e la sim-
patia dell'amorevolezza; l'umiltà toglie la legna dal fuoco e as-
sicura la centralità di Dio.
10.3. SENSO EVANGELICO DELL'AMORE UMANO
Ma che cos'è la castità evangelica? Abbiamo dovuto formu-
lare una simile domanda riflettendo sull'obbedienza e sulla po-
vertà. Dobbiamo rinnovarla anche per la castità.
La virtù cristiana della castità si riferisce all'amore umano
nel tessuto concreto della sua sessualità. Comprendiamo benis-
simo che si riferisce a una realtà che tocca non solo la nostra
biologia, ma tutto il nostro essere.
L'« amore umano » di cui parliamo non è la carità - dono
dello Spirito Santo - ma un'espressione relazionale della nostra
personalità, spirito e corpo. Può essere più o meno egoista o
altruista, ma comporta naturalmente i dinamismi psicosomatici
della concupiscenza. Fa entrare in gioco il potenziale della ses-
sualità con i suoi valori e i suoi pericoli.
Sono molteplici le espressioni di amore umano, secondo le
età e gli stati di vita.
Nella prima età c'è lo sviluppo biologico, che richiede una
speciale educazione all'amore umano soprattutto nell'adolescenza
con il fenomeno delta pubertà.
Poi c'è la maniera di incanalare l'amore umano nello stato
matrimoniale o in quello di celibato; purtroppo c'è anche un
vasto spazio di libertinaggio in cui si muovono lo scapolo,
l'anormale e l'edonista.
Lo stato matrimoniale porta l'amore umano alla costruzione
della famiglia. Lo stato di celibato porta a testimonianze e
servizi utili agli altri. C'è una possibilità di celibato anche non
di motivazione religiosa per il pensatore, lo scienziato, il pio-
niere, ecc. , sempre però che il suo celibato sia la storia del
suo cuore, e non semplicemente una condizione di scapolo senza
responsabilità d'amore.
Noi, qui, concentriamo l'attenzione sull'amore umano vissuto
nello stato di celibato, ossia dove per una scelta di altri valori
179

19.2 Page 182

▲back to top
I
non si prende in considerazione, come ideale per sé, lo stato
matrimoniale.
Una simile scelta ha valore? Il Vangelo risponde categorica-
mente di sì e ci presenta Cristo come supremo modello di tale
scelta.
Il matrimonio ha, senz'altro, un grande valore: basta rileg-
gere le pagine inizi-ali dellà Bibbia e approfondire il progetto
divino della creazione dell'uomo a sua immagine e somiglianza.
Tutte le culture danno un posto di onore al matrimonio. Lo
vediamo già nelle culture veterotestamentarie, anteriori al Van-
gelo (e in Africa ne troviamo ancora oggi di tale tipo). In
esse la verginità, l'infecondità e il celibato non hanno senso;
sono un disvalore e una miseria su cui bisogna piangere chie-
dendo a tutti gli dèi l'aiuto per uscirne. (Noi oggi stiamo an-
dando missionari in un continente dove urge far vedere l'ori-
ginalità e la bellezza della verginità e del celibato. Non sarà
un compito tanto semplice!).
Una tale situazione culturale ci può servire per comprendere
meglio quanto sia costato a Gesù prospettare nel suo Vangelo
una castità radicale. Già quando afferma alcune esigenze pro-
prie del matrimonio, gli apostoli gli dicono: « Allora non val
la pena sposarsi »; immaginarsi quando si tratta di prescindere
persino dal matrimonio! « Non tutti capiscono questo insegna-
mento» (Mt 19,10).
È, infatti, una legge della creazione il « crescete e moltipli-
catevi ». Siamo fatti così nella struttura stessa del nostro essere
vivo; siamo tessuti biologicamente per esprimerci in questo
amore sessuato che di per sé ha come espressione normale e
positivamente feconda il matrimonio e la famiglia.
Il tessuto del nostro essere comporta sostanzialmente due
grandi valori fondamentali dell'esistenza umana: «l'amore» e
« la vita »! Essi sussistono vincolati intimamente tra di loro:
l'amore umano coniuga il sesso e la fecondità in un'amicizia
per la vita. Questo è patrimonio umano fondamentale celebrato
e difeso nelle differenti culture.
Se pensiamo ai tempi di Gesù Cristo, possiamo capire fa-
cilmente perché era disprezzato il celibato; anzi gli esegeti ci
dicono oggi che tra gli insulti rivolti a Gesù Cristo c'era ap-
punto que1lo di « eunuco ». Ma sappiamo come Egli rispose
180

19.3 Page 183

▲back to top
a questi attacchi e ironie contro il suo celibato: « Ci sono
degli eunuchi che sono così per nascita; altri che lo sono perché
li hanno fatti così gli uomini; e altri, poi, lo sono per servire
meglio il Regno di Dio . Chi può capire, cerchi di capire » (Mt
19 , 12).
Per una cultura aliena dal Vangelo non è cosa semplice per-
cepire i valori del celibato. E se a una cultura di questo tipo
si aggiunge una scienza antropologica che parte solo dall'esame
delle strutture biologiche e delle tendenze psicosomatiche, in
un clima in cui si prescinde dai valori trascendenti dello spirito
e del cristianesimo, allora cresceranno ancora di più le diffi-
coltà. Lasciate andare, per esempio, una suora da uno psicana-
lista che provenga da una simile scuola per liberarsi da qualche
suo malessere, e vedrete che genere di consigli riceverà.
10.4. ALLA . SEQUELA DI CRISTO VERGINE
Il celibato per il Regno, dunque, è uno .stato che il mondo
non capisce. Gesù Cristo ha introdotto nella storia una grande
novità, e il suo celibato è l'unico genuino modello della castità
radicale del Vangelo. È vero che, di per sé, è possibile (come
dicevamo) anche un celibato di tipo naturale; però non è cer-
tamente frequente e bisognerebbe esaminarlo in concreto, caso
per caso.
Noi parliamo propriamente del celibato evangelico, sorretto
dallo Spirito del Signore. Ad una umanità che interpretava i
valori dell'« amore » e della « vita » solo in un determinato
livello naturale, Gesù Cristo ha dato la possibilità di interpre-
tarli da una originale ottica di trascendenza . Ci voleva l'in-
carnazione di Dio per far capire quest'altra possibilità e per
farla praticare.
Si tratta di un vero salto di qualità. Vediamolo in Gesù Cristo
celibe. Il suo tessuto umano, i suoi dinamismi psicosomatici,
la sua sessualità, la sua vita, il suo amore umano, tutto ciò che
lo costituiva uomo come noi, nostro fratello, solidale negli
istinti e nelle passioni di tutta la stirpe , era intimamente e pro-
fondamente permeato dalla filiazione sostanziale al Padre. Gesù
181

19.4 Page 184

▲back to top
LoFiglio, tutto Figlio, completamente Figlio. Ecco~
i
tutta la sua straordinaria originalità.
L'amore umano di Cristo è pervaso, orientato e stimolato
dalla caratteristica della sua speciale filiazione in pienezza e
totalità. Ha un cuore umano indiviso, tutto rivolto al Padre e
tutto pieno del Padre. Nel suo amore di uomo si trasfonde la
dinamica della carità nella massima chiarezza. La dinamica in-
terna della carità, come abbiamo visto, ha due oggetti; si muove
tra due poli in mutua e costante attrazione secondo la legge
della dipendenza dell'amore del prossimo dall'amore di Dio.
Ebbene: la verginità di Cristo fa vedere che il suo amore
umano, elevato a carità, è tutto rivolto al Padre; ed è per questo
motivo che egli diviene l'uomo per gli altri, il primogenito
tra molti fratelli a cui si dona . E questo suo amore non è una
risposta, diciamo così, a un'attrazione naturale, ma è un dono
gratuito di sé ai fratelli bisognosi.
Solo così si capisce come Egli possa proclamare un mes-
saggio audace sulla sessualità; non la nega, però la esprime
con un salto di qualità, con un amore umano sublimato dalla
carità: una sublimazione resa possibile a tutti attraverso la
forza della sua risurrezione. Inviando lo Spirito Santo , Egli
rende capaci uomini e donne di dimostrare una maniera nuova
d'interpretare la sessualità nell'amore.
Certo, Gesù Cristo non ha esigito che tutti gli uomini fos-
sero celibi. Anzitutto ha purificato da tanta polvere di secoli
la verità dell'amore umano espresso nel matrimonio ; ha rifon-
dato, diciamo così, il matrimonio secondo il vero disegno della
creazione. Non solo: ha voluto inoltre elevare il matrimonio a
« sacramento » della Nuova Alleanza. Ne ha rivelato la dignità
portandolo ad essere l'espressione più profonda e più caratte-
rizzante del mistero dell'incarnazione e delle relazioni tra Lui
e la Chiesa : un sacramento grande!
Del celibato, invece, non ha fatto un sacramento; ne ha
fatto però un segno testimoniale della vita specifica e della san-
tità della Chiesa, un'espressione assai caratteristica e vitale della
sacramentalità globale di tutto il Popolo di Dio come « Corpo
di Cristo ».
Bisogna dunque unire insieme la stima e l'apprezzamento sia
del matrimonio che del celibato. Non sono due scelte che si
182

19.5 Page 185

▲back to top
oppongono: una buona e l'altra cattiva; tutt'altro. Sono due
scelte che nella Chiesa si completano e si illuminaµo vicende-
volmente; pensiamo, ad esempio, alla nostra consacrazione e
al matrimonio dei nostri genitori.
La verginità e il celibato di cui facciamo professione impli-
cano da una parte l'apprezzamento, la -stima, l'ammirazione
per il matrimonio, e dall'altra la predilezione per la castità
radicale in favore del Regno.
Quali sono i valori prescelti dal celibato? Ricordiamo la
triplice ottica dei voti religiosi; tali valori ruoteranno attorno:
al primato del mistero di Dio, al coinvolgimento radicale nella
missione della Chiesa, a un apporto sociale per il ricupero del-
l'amore umano tanto bistrattato nella società. Questi valori
sono racchiusi , come dice il Concilio, in un « cuore indiviso ».
La Lumen gentium ci parla della vocazione universale alla
santità e afferma che la carità è il vincolo della perfezione, che
ci sommerge nel mistero stesso della Trinità. Dio è amore e
la carità ci fa partecipare a questo amore con modalità (« vie
e mezzi ») particolarmente preziose. La prima di esse è il mar-
tirio: « Perciò il martirio - dice la Lumen gentium - , col
quale il discepolo è reso simile al Maestro che liberamente ac-
cetta la morte per la salvezza del mondo, e a Lui si conforma
nell'effusione del sangue, è stimato dalla Chiesa come il dono
eccezionale e la suprema prova della carità. Che se a pochi è
concesso, devono però tutti essere pronti a confessare Cristo
davanti agli uomini, e a seguirlo sulla via della croce durante
le persecuzioni, che non mancano mai alla Chiesa » (LG 42).
Nel documento conciliare, subito dopo l'accenno alla via su-
prema del martirio, si parla del dono della verginità e del ce-
libato: « La santità della Chiesa - leggiamo ancora - è in
modo speciale favorita dai molteplici consigli che il Signore
nel Vangelo propone all'osservanza dei suoi discepoli. Tra essi
eccelle questo prezioso dono della grazia divina, dato dal Padre
ad alcuni, di votarsi a Dio solo più facilmente e con cuore
indiviso nella verginità o nel celibato. Questa perfetta conti-
nenza per il Regno dei cieli è sempre stata tenuta in singolare
onore dalla Chiesa, come un segno e uno stimolo della carità
e come una speciale sorgente di spirituale fecondità nel mondo »
(LG 42).
183

19.6 Page 186

▲back to top
Parlando più avanti dei religiosi e della natura della loro
forma di vita, il Concilio si riferisce ai voti sottolineando una
caratteristica che si deve manifestare chiaramente nella testimo-
nianza della vita: il religioso - leggiamo - « ... si dona to-
talmente a Dio sommamente amato, così da essere con nuovo
e speciale titolo destinato al servizio e all'onore di Dio » (LG
44). Ecco la descrizione della radicalità della nostra sequela
del Cristo! Ora, il voto di castità manifesta in forma più espli-
cita e meglio intelligibile questa donazione totale di sé a Dio.
Nella società attuale pervasa di edonismo, dove l'amore ormai
è profondamente deturpato e sfigurato, la caratteristica evan-
gelica dei religiosi che appare più chiaramente intelligibile e
importante è certamente quella del voto di castità. Anche gli
altri voti sono, senz'altro, segni leggibili del Vangelo, ma questo
ha una capacità significativa tutta speciale. La nostra povertà
e i servizi ai bisognosi trovano, tra la gente, anche altre spie-
gazioni; della nostra obbedienza molti non se ne accorgono
neppure; tl,1tti però sono sorpresi dalla nostra castità e la scru-
tano con occhio molto critico e quasi incredulo.
Nel numero della Lumen gentium sopra citato si afferma
ancora che, con la professione dei consigli evangelici, il re-
ligioso intende liberarsi dagli impedimenti che potrebbero di-
stoglierlo dal fervore della carità e questo ha una sua peculiare
applicazione alla castità. Il cuore indiviso dà la capacità di
stare più direttamente, più intensamente, più costantemente de-
diti a Dio nella comunione della Chiesa per il servizio del pros-
simo .
Cristo Vergine è, dunque, il supremo modello della nostra
castità radicale. Ma non si può tralasciare di alludere qui, im-
mediatamente, a sua Madre, Maria Immacolata e Vergine. Tanto
è vero che negli ambienti cristiani dire « la Vergine » significa
riferirsi a Maria, la Madre di Gesù. In lei noi possiamo costa-
tare che la pienezza evangelica della castità proviene da una
iniziativa speciale dello Spirito Santo, che inaugura in lei i
tempi nuovi.
Perché Maria Immacolata è Vergine? Proprio perché deve
essere la Madre di Dio: il mistero stesso di Cristo illumina
tutta la sua purezza e castità. Vediamo realizzarsi in Maria,
in una forma più intensa che in tutti gli altri, quanto afferma
184

19.7 Page 187

▲back to top
san Paolo: il nostro corpo è tempio vivo dello Spirito Santo!
Orbene, se c'è una persona il cui corpo possa essere defi-
nito in pienezza come tempio vivo dello Spirito Santo è proprio
quello di Maria: non solo perché è Immacolata, ma perché è
Vergine con una forma eccezionale di maternità che dà al mondo
il Figlio del Padre, il Salvatore dell'umanità.
La castità evangelica ci schiude davvero dei panorami to-
talmente nuovi e delle immense possibilità di amore e di fe-
condità. Il nostro celibato non è la infecondità o la sterilità
deprecata da tante culture aliene dal Vangelo, e meno ancora
l'egoismo edonista delle odierne culture materialiste. È piut-
tosto una pienezza di amore, di donazione e di servizio, di
paternità e di maternità in vista del frutto più desiderato dal-
l'umanità dopo il peccato originale: la generazione del Messia
salvatore. La verginità di Maria e il celibato di Cristo sono
portatori della fecondità più ambita nei secoli per la felicità
dell'uomo.
10.5 . UNA GRANDE ENERGIA D I SPINTA
Nello spirito salesiano fa castità evangelica vissuta in radi-
calità è, insieme all'obbedienza e alla povertà di cui abbiamo
già parlato, una « vis a tergo », una « energia di spinta », una
« forza dal di dentro », che si espande, si sviluppa e si realizza
nell'ambito dei cinque diamanti anteriori che tratteggiano il
volto salesiano . Infatti: la castità evangelica viene vissuta nella
Fede, nella Speranza, nella Carità, nel Lavoro e nella Tempe-
ranza di cui difende l'integrità dei valori e la permanenza dello
splendore.
In questi giorni a Roma si parla di un governo « pentapartito »
(5 partiti). Ebbene, approfittando della fantasia creatrice di
vocaboli, possiamo dire che i diamanti posteriori del manto
sono tutti « pentaorientati », perché ognuno di essi è, da una
parte, permeato di Fede, Speranza, Carità, Lavoro e Tempe-
ranza e, dall'altra, serve di adeguata difesa per ognuno di questi
cinque diamanti.
Del « pentaorientamento » dell'obbedienza abbiamo detto
qualcosa; di quello della povertà abbiamo solo fatto cenno so-
185

19.8 Page 188

▲back to top
/
prattutto per il Lavoro e la Temperanza, ma è facile per voi
svilupparlo personalmente. Parliamo ora di quello della Castità.
Ecco i titoli del suo « pentaorientamento ».
Riguardo alla Fede: la coscienza della filiazione nella sua
piena espressione;
alla Speranza: la scelta dei valori per il Regno dei cieli;
alla Carità: il cuore indiviso, che sottolinea la dinamica
interna e teocentrica della carità;
al Lavoro: uscire da sé nell'estasi dell'azione per i fratelli;
alla Temperanza: custodire se stessi in sano equilibrio per-
ché tutto sia al servizio di un vero amore.
Bisognerà vivere i valori dei cinque diamanti anteriori con
l'energia di spinta che viene dal quadrilatero posteriore. I va-
lori, poi, dei cinque diamanti posteriori si manifestano con chia-
rezza solo nella Fede, nella Speranza, nella Carità, nel Lavoro
pastorale e nella Temperanza salesiana.
Così l'armonia e il vicendevole permearsi dei valori di tutti
i diamanti aiutano a infondere in ognuno di essi e in tutti e
dieci insieme la loro specificazione salesiana.
10.6. L'ATTUALE DIVARIO CULTURALE
Oggi ci sono almeno tre aspetti culturali che toccano il voto
di castità. Dobbiamo saperli interpretare: sessualità, promo-
zione della donna, evoluzione familiare.
• Il primo elemento è una più profonda conoscenza e una
nuova valutazione dei valori della sessualità. Si è fatto un
progresso enorme da parte delle scienze antropologiche in
questo campo. Sono apparsi non pochi elementi negativi, sviati,
esagerazioni, interpretazioni freudiane di tipo materialista; però
c'è anche e soprattutto la scoperta di un continente importan-
tissimo. Questo deve essere assunto e valutato per ripensare
tante cose.
La sessualità è una componente importante della persona;
186

19.9 Page 189

▲back to top
il nostro sesso permea tutta la nostra realtà, entra in tutte le
nostre virtù e dà un tono anche alla nostra consacrazione. È
un dono di Dio che dobbiamo saper conoscere, ammirare,
orientare e utilizzare, ringraziando Iddio di avercelo dato.
Un secondo elemento che tocca questo voto è la promozione
della donna. Oggi tale processo è forse tra quelli che gene-
rano più ricerca di rinnovamento e suscitano più problemati-
che, alcune assai delicate e fortemente pericolose.
Facevo alcune riflessioni su questo argomento con l'Arcive-
scovo di Torino proprio in occasione delle feste centenarie di
madre Mazzarello. Abbiamo fatto colazione insieme nella vostra
casa di Torino. A tavola, fra l'altro, il card. Ballestrero disse
che la cultura moderna ha desacralizzato totalmente la donna
ed è oggi più difficile fare pastorale giovanile tra le ragazze e
le giovani che tra i ragazzi e i giovani. E portava degli esempi,
attingendoli da quest'ultimo periodo di storia, dal dopoguern
in qua, almeno per quanto riguarda l'Europa.
Bisognerà prendere in considerazione, dunque, anche que-
st'esplosione di promozione e purtroppo anche di dissacrazione
della donna. Considerando certe proposte femministe , si preve-
dono conseguenze terribili non solo per la donna, ma per tutta
la società.
• Un terzo elemento è quello dell'evoluzione sociale del ma-
trimonio e della famiglia. Non si accetta più che il matrimonio
dipenda da un piano divino; quindi lo si può manipolare a
proprio gusto. Osservate, poi, alcune legislazioni recenti - anche
di Paesi cristiani da secoli - sul divorzio e sull'aborto. In-
taccano i due valori fondamentali a cui, nel disegno di Dio,
dovrebbero servire il matrimonio e la famiglia: l'amore e la
vita.
Nell'ultimo Sinodo dei vescovi (a cui per grazia del Signore
ho potuto partecipare e di cui aspettiamo la Esortazione apo-
stolica . del Papa) si è affrontato questo delicato e complesso
problema con alcune osservazioni importanti che toccano anche
la consacrazione religiosa.
Un vescovo belga, con un intervento molto profondo, ha
fatt0 osservare che la crisi attuale è una delle più pericolose;
essa proviene dalla cosiddetta « morte del Padre ». Non si ri-
1187

19.10 Page 190

▲back to top
conosce più Dio Padre, i protagonisti della storia e i padroni
della terra siamo noi e siamo tutti uguali; di qui tutta una nuova
concezione della vita umana e tanti guai. La « morte del Padre »
ha provocato, in particolare, la deturpazione dell'amore umano
e la paura della vita. Ha ferito i due grandi valori umani del-
1'amore e della vita. Le famiglie non hanno quasi più figli;
preferiscono la scelta di una convivenza comoda per la loro
personale soddisfazione; non c'è più la generosità verso la
vita né il senso genuino dell'amore umano; c'è un egoismo in-
dividuale e a coppie che falsifica l'amore umano interpretan-
dolo in assoluto dissidio dal sacrificio; non c'è più uno spazio
valido per il dolore: non si sa perché e per chi soffrire.
In questa prospettiva ne perde la famiglia, il matrimonio, la
castità; si pretende anche di darne delle giustificazioni che
vorrebbero essere scientifiche.
Permettetemi di leggervi un intervento molto bello fatto da
un vescovo del Cile, mons. Francesco Huneens Kox. Ne dico
il nome perché il Papa l'ha recentemente nominato Segretario
del nuovo organismo vaticano per la Famiglia.
« L'uomo d'oggi - ha detto il vescovo - vive angustiato da un cu-
mulo di problemi; quello della famiglia non è semplicemente uno in più
tra tanti altri; se la Chiesa ha creduto opportuno dedicargli un Sino-
do specifico è perché la famiglia rappresenta un luogo privilegiato per
affrontare, partendo da essa, la problematica globale del mondo con-
temporaneo.
Noi qui nel Sinodo vogliamo riflettere sulla famiglia non per co-
municare agli uomini alcune verità su aspetti parziali di essa, bensì il-
luminare il nuovo significato della sua realtà con il vangelo del Dio-
famiglia, Padre, Figlio e Spirito Santo che ci ha creati a sua immagine
ed ha inviato sulla terra il suo Figlio unigenito per fare di noi, con il
prezzo del suo sangue, la famiglia di Dio, famiglia di figli e di fratelli.
La famiglia è il punto di appoggio di cui abbiamo bisogno per muo-
vere il mondo verso Dio e ridonargli la speranza. La famiglia è minu-
scola, ma possiede in una energia superiore a quella dell'atomo. Dal-
l'umile piccolezza di milioni ·di focolari la Chiesa può rilanciare la po-
tenza dell'amore necessaria a fare di se stessi il sacramento dell'unità
tra gli uomini ».
Questo intervento mi ha fatto pensare tante cose. Due di
esse, che credo importanti, sono le seguenti: che la nostra ca-
stità religiosa dovrebbe essere apostolicamente orientata in fa-
vore della famiglia; e, in secondo luogo, che l'amore umano
188

20 Pages 191-200

▲back to top

20.1 Page 191

▲back to top
del celibato, almeno di quello salesiano, dovrebbe fiorire in un
genuino spirito di famiglia. Così la famiglia dovrebbe divenire
itn forte punto di riferimento dell'amore vissuto con la nostra
castità. All'interno delle nostre comunità si dovrebbe sentire il
calore di una comunione che è espressione di sano e concreto
amore umano, perfezionato dalla carità. Ecco un metro inte-
ressante per valutare il funzionamento del voto di castità.
Ma poi dobbiamo riferirci alla famiglia reale per ripensare
tutta la nostra attività di lavoro, di azione pastorale. Non si
deve fare pastorale giovanile senza la prospettiva della famiglia.
Purtroppo molte volte bisogna farla senza prendere in conside-
razione la famiglia perché, di fatto, non esiste; però bisogna
lavorare a far sì che esista, tant'è vero che dove non c'è noi
cerchiamo di sostituirla con un appropriato ambiente salesiano.
Urge formare i giovani all'amore e alla vita per prevenire il
catastrofico sfacelo familiare.
Questo riferimento alla famiglia ci fa anche prendere co-
scienza che quando noi educhiamo siamo dei collaboratori, non
dei padroni: i principali responsabili sono i genitori. A volte
non lo sanno; spieghiamoglielo. Ma ripensiamo tutta la pasto-
rale giovanile con questa esigente ottica familiare.
10.7. IL DONO DELLA SESSUALITÀ
Il Sinodo ha parlato molto sulla sessualità, non tanto per
condannare gli errori di oggi, quanto per presentare la sessua-
lità come uno dei più grandi doni che Dio ha dato alla persona
umana. La Chiesa ne ha una particolare stima e desidera che
se ne approfondiscano i valori. Vuole che se ne consideri la
delicata importanza nel modo di formare i giovani, i religiosi,
i sacerdoti; insiste sulla necessìtà di una adeguata « educazione
sessuale ». Dobbiamo quindi tenere presente questo impegno.
Per quanto riguarda la donna e la sua promozione oggi, il
vescovo cileno or ora citato ha affermato in un altro suo in-
tervento:
« Il tema della donna tocca le radici della cultura moderna; impor-
tanti pensatori hanno descritto la nostra civiltà scientifico-tecnica come
189

20.2 Page 192

▲back to top
una civiltà unilateralmente mascolinizzata, il culto dell'efficienza è una
deformazione tipicamente maschile. Un antico proverbio dice che un
uomo costruisce una casa e che la donna la trasforma in focolare.
Però la nostra cultura non è così. Il femminismo continua a parlare di
uguaglianza tra la -donna e l'uomo, la fa diventare operaia, la mette
nelle fabbriche, la mette nell'esercito . Così rimane come ideale l'uomo,
il "maschio", secondo il modo con cui è presentato nell'attuale cultura
che è una cultura sbagliata».
Vedete: forse voi non pensavate che la riflessione sulla ca-
stità ci portasse a parlare di questi temi e a orientare pratica-
mente la vostra azione apostolica a una ripensata formazione
all'amore umano, preoccupandovi intensamente della prepara-
zione delle giovani, istillando nei loro cuori e nelle loro menti
l'idea chiara di ciò che dev'essere una donna oggi nella so-
cietà, qual è la sua dignità, la sua grandezza, la sua missione
sociale, il suo servizio all'amore e alla vita. Bisogna convin-
cerle ad avere personalità femminile e acuta capacità critica
verso un certo tipo di civiltà o di cultura mascolinizzante, anche
se si presenta etichettata di femminismo.
Dicevamo che i valori dell'amore e della vita sono fonda-
mentali nell'esistenza umana. Bene! Alcune ideologie moderne
purtroppo li stanno pervertendo; e la perversione di questi va-
lori si percepisce in modo particolare nella donna. Riguardo
all'amore: l'erotismo fa di essa un oggetto venale di piacere
e di egoismo. E riguardo alla vita: il cosiddetto controllo di
natalità e l'aborto hanno fatto del suo seno - come qualcuno
ha detto - non una zolla di primavera, ma una tomba di ci-
mitero. Vediamo delle autentiche perversioni presentate in pub-
blico come espressioni di progresso o di giustizia! Più che pre-
dicare contro queste deviazioni, urge formare la donna per una
società del futuro con i valori autentici dell'amore e della vita.
Dobbiamo persuaderci dell'importanza sociale della nostra
castità apostolica. Non vinceremo certe deviazioni dell'attuale
cultura con maledizioni. Don Bosco non era un tribuno che
andava in piazza a gridare: ha evitato queste forme di esibi-
zionismo. Il nostro Padre era un uomo pratico: nel costatare
che qualcosa non andava, s'impegnava a trovare una soluzione
concreta e a formare la gioventù per una nuova società. Do-
vremmo saper,lo imitare e dedicarci con competenza e zelo al-
190

20.3 Page 193

▲back to top
l'educazione dell'amore umano, della sessualità, della prepara-
zione al matrimonio, della vita di famiglia, ecc.
Vedete, quindi, che la nostra castità non è per alienarsi dalla
società, bensì per apportarle una preziosa profezia evangelica.
10.8. VERGINITÀ E MATRIMONIO
Le relazioni tra matrimonio e celibato-verginità sono intime.
Quando la famiglia non funziona, diminuiscono le vocazioni
al celibato per il Regno; e quando fioriscono le persone con-
sacrate, se ne sente il benefico influsso nella vita delle famiglie.
Il fiore più bello di una famiglia cristiana è una vocazione al
celibato e l'azione più grande del celibato è aiutare la famiglia
ad essere cristiana. Noi lo sentiamo nell'esperienza della nostra
esistenza, pensando alla nostra famiglia e alla nostra vocazione.
La nostra castità deve quindi avere la preoccupazione di
rendere un servizio alla società, in un momento di trapasso
culturale tanto delicato e tanto complesso soprattutto per voi:
se c'è un'ora nella storia che possiamo chiamare ora della
donna, è questa, per il bene e per il male.
Il cardinale Ratzinger, che era il moderatore del Sinodo, in
un intervento sull'importanza della verginità nella società umana
ha detto:
« Dove si rende possibile la verginità come forma di vita,
ivi si percepisce in maniera luminosa l'infinito valore dell'uomo
non unicamente per la sua alta funzione di trasmissione della
vita: matrimonio, ma specificamente per il fatto sublime di es-
sere persona. [Ecco: il celibe per il Regno testimonia fino alle
sue ultime conseguenze in che cosa consiste la dignità della
persona! J. Inoltre, vivendo un'esistenza celibe, l'uomo è chia-
mato ad una relazione speciale verso la comunità, nella quale
raggiunge per sé una nuova libertà, una libertà per cui la sua
esistenza non è solo per sé o per i suoi, ma anche per tante altre
persone provenienti da diverse famiglie. Con esse stabilisce una
profonda comunione che è stata chiamata giustamente "fami-
glia di Dio" ».
Noi ci facciamo casti per gli altri; non tanto per assicurarci
1'91

20.4 Page 194

▲back to top
il Paradiso personalmente, quanto in vista del Regno, ser-
vendo alla salvezza di tutti. Ci interessa la salvezza degli altri,
soprattutto della gioventù, e usiamo tutti i mezzi, gli stessi che
ha usato Gesù Cristo per superare il male. Vorremmo poter
partecipare all'amore di Dio Padre che « amò tanto il mondo
da mandare suo Figlio per salvarlo ». Amiamo tanto i nostri
fratelli, la gioventù, che facciamo voto di obbedienza, di po-
vertà, di castità in particolare, e viviamo nello stato di celibato
appunto per Dio e per loro.
10.9. IMPORTANZA DELLA CASTITÀ
NELLO SPIRITO SALESIANO
Il Perfectae caritatis parlando della castità religiosa dice che
« essa rende libero in maniera speciale il cuore dell'uomo, così
da accenderlo maggiormente di carità verso Dio e verso tutti
gli uomini, e per conseguenza costituisce un segno particolare
dei beni celesti, nonché un mezzo molto adatto offerto ai re-
ligiosi per poter generosamente dedicarsi al servizio divino e
alle opere di apostolato » (PC 12). Più avanti afferma che « l'os-
servanza della continenza perfetta tocca intimamente le incli-
nazioni più profonde della natura umana » (PC 12). Una simile
affermazione ci fa pensare che la possibilità di vivere in forma
genuina ciò che tocca le energie più intime del nostro essere
ci viene solo dalla grazia della risurrezione di Cristo. È la forza
della vita nuova di Cristo Risorto, è l'inabitazione dello Spirito
Santo, che rivestono di soprannaturale energia la nostra de-
bolezza.
Questa costatazione ci porta simultaneamente a pensieri di
umiltà e di speranza, di poco affidamento alle nostre inclina-
zioni e gusti e di profonda certezza che ci sono in noi le con-
dizioni indispensabili per una riuscita.
Appunto perché il vivere la castità è qualcosa che tocca le
nostre inclinazioni più profonde, dobbiamo considerarlo un
compito di tutti i giorni, non riservando la vigilanza ai soli
anni della formazione. Tutte le età hanno le loro crisi nel
campo dell'amore umano. C'è sempre da approfondire, da di-
192

20.5 Page 195

▲back to top
scernere, da lottare. Certo: è anche una lotta che esige rinunce
e mortificazioni.
Non bisogna spaventarsi, però, di tutto ciò che si sente; certe
reazioni spontanee non costituiscono una mancanza di virtù,
ma sono la ·costatazione della nostra realtà . Se qualche volta
questo « sentire » porta un po' più lontano, bisogna saper va-
lutare e, se è il caso, pentirsene; ma senza farne una tragedia.
Abbiamo già detto altre volte di non far consistere la nostra
santità nel non avere difetti: no, no; noi facciamo tutte le
cose con dei difetti. La nostra santità si misura dall'amore di
carità. Noi vivremo sempre in compagnia di difetti; basta non
fare la pace con loro. Non meravigliamoci, dunque, che nel-
l'ambito della castità sorgano prove e ci siano difetti; penso
che sai·ebbe anormale se non ce ne fossero. Non spaventiamo-
cene! Lo scoraggiamento depressivo e il perfezionismo ange-
lista sono forse i due difetti più gravi al riguardo.
La castità manifesta, come dicevamo, in forma particolar-
mente chiara e accessibile al mondo di oggi la speciale con-
sacrazione della professione religiosa; è forse la testimonianza
che fa riflettere di più la gioventù.
Per noi salesiani, poi, essa è vincolata strettissimamente con
la caratteristica della bontà, cioè del « non basta amare, bi-
sogna farsi amare». Sembra un paradosso: la castità salesiana
pretende costruire in noi una più alta amabilità . Dobbiamo
farci amare: la nostra castità lo ricerca con tutte le forze.
L'amore che pretendiamo suscitare intorno a noi è proprio
un amore umano, fatto di sentimenti, di simpatia, di confidenza,
di convivenza, di collaborazione, di amicizia. Ci sforziamo di
creare un ambiente di vita dove ci sia come stile giornaliero
l'amorevolezza, lo « spirito di famiglia ». Un ambiente, quindi.
di fiducia, di semplicità, di allegria, di comunione: tutti questi
valori intessuti con profondi e sinceri sentimenti.
I sentimenti non sono da disprezzare; è il sentimentalismo
che va eliminato. « L'educazione - diceva Don Bosco - è
cosa di cuore» (MB 16,447); la nostra castità non è per es-
sere «selvaggi»; è per « avere cuore»: certo, avere un cuore
amabile come quello del nostro buon Padre. Alberto Caviglia
soleva affermare: « Chi non ha cuore non è Salesiano»!
193

20.6 Page 196

▲back to top
Di « cuore » voi, sorelle, ne avete più di noi; ne sia ringra-
ziato Iddio. Ma allora c'è bisogno di una cura appropriata
alla castità religiosa femminile. Tra voi si deve coltivare una
maniera tutta speciale per raggiungere il giusto equilibrio del
« farsi amare». Qui l'opera di madre Mazzarello nel « tra-
durre al femminile » lo spirito salesiano è stata veramente su-
perlativa .
La nostra castità salesiana è poi specificamente interpellata
da quello che possiamo considerare il problema centrale del-
l'adolescenza: crescere rettamente nell'amore umano mentre si
illumina la coscienza della propria sessualità. Il fenomeno ca-
ratteristico dell'adolescenza è proprio la pubertà, che è una
specie di risveglio di tutto l'organismo. È un'età preziosa per
l'orientamento dell 'amore umano e presenta il vantaggio che un
adolescente è sempre suscettibile di essere orientato bene. Don
Bosco diceva: datemi un adolescente, io ne farò un uomo one-
sto. Ed ha inventato il Sistema Preventivo dell'amorevolezza
con dei ragazzi poveri ed abbandonati. Nonostante i loro di-
fetti e i gravi pericoli, era convinto della possibilità di riuscita.
In questo mondo giovanile brilla lo splendore della castità
di Don Bosco come una fonte di nuova pedagogia cristiana e
come una profezia di salvezza dell'amore umano.
Non dimentichiamo, però, il sogno del pergolato di rose: le
spine che trapassavano persino gli scarponi indicano certi af-
fetti sensibili e sensuali devianti. C'è da vigilare! Non bisogna
aver paura di sentire simpatie e inclinazioni, ma bisogna eser-
citarsi per non coltivarle morbosamente.
Ripeto: ci sono delle reazioni che sorgono spontaneamente
dalla nostra maniera di essere; la costatazione della loro pre-
senza non ci deve spaventare; deve piuttosto far entrare in
azione i valori del diamante della « Temperanza » e del dia-
mante del « Digiuno ».
Nella tradizione salesiana c'è una speciale attenzione nella
scelta e ammissione dei futuri membri della Congregazione.
Questo è uno dei punti su cui Don Bosco insisteva di più nella
pastorale vocazionale: assicurarsi della maturità, della coscienza
retta, dell'equilibrio in questo campo, perché chi non ha l'equi-
librio sufficiente troverà troppe tentazioni.
194

20.7 Page 197

▲back to top
10.10. INTELLIGENTE INSISTENZA
DI MADRE MAZZARELLO
Ho accennato a madre Mazzarello e all'apporto originale da
lei dato nel tradurre al femminile lo spirito salesiano soprat-
tutto per quanto riguarda l'amorevolezza tipica del nostro me-
todo educativo.
·· Vi leggo qualcosa di quanto ho scritto per voi, in proposito,
nella lettera del centenario: « La trasposizione di tutto ciò
[l'amorevolezza!] in un ambiente salesiano femminile doveva
certamente far sorgere qualche difficoltà; il rischio era o di
lasciarsi travolgere dall'emotività e dal sentimentalismo, com-
promettendo sia la propria consacrazione nella castità sia l'azione
educativa, o comprimere talmente i movimenti del cuore da
tradire il sistema educativo di don Bosco ».1
Il voler introdurre, assumere e tradurre l'amorevolezza sale-
siana nell'ambiente femminile sembra, a prima vista, una spe-
ciale difficoltà che può portare o a espressioni di sdolcinatezza
(che sono il contrario del Sistema Preventivo) o a una severità,
o magari selvatichezza della propria castità che rovinerebbe la
bontà salesiana.
« Nella Memoria storica del card. Cagliero viene riportato il
seguente discorso che la Madre fece alle suore di Mornese:
- ... Noi che abbiamo la stessa missione verso le giovanette,
dobbiamo usare del cuore come Don Bosco: ma Don Bosco è
un santo, e noi non lo siamo ancora; perciò dobbiamo temere
di noi stesse, perché per natura noi e le ragazze siamo più
cuore che testa! e, per giunta, cuore sensibile, attaccaticcio e
debole (MACC0N0 II, 135). Il Cagliero ci ha conservato anche
un'altra testimonianza: - Ricordo come nell'ultima sua ma-
lattia, nell'ultimo colloquio con me, la sera prima della sua
morte, mi raccomandasse, dopo gli interessi dell'anima sua, la
vigilanza sulle velleità del cuore, le tendenze alle sdolcinature
e alle affezioni troppo umane e sensibili che pareva si fossero
introdotte nella comunità ».2
1 Riscoprire lo spirito di Mornese, Lettera del Rettor Maggiore don
E. Viganò per il centenario della morte di S. Maria Mazzarello, Roma
1981, FMA, pp. 53-54.
2 Riscoprire lo spirito..., p. 54.
195

20.8 Page 198

▲back to top
Sappiamo che madre Mazzarello ha tradotto perfettamente
al femminile lo spirito di Don Bosco. Voi quindi troverete
nella vostra tradizione una originale e concreta modalità fem-
minile di realizzare lo spirito salesiano . Anche per questo madre
Mazzarello è stata vera Confondatrice: ha immesso nel vostro
Istituto delle caratteristiche che Don Bosco non poteva prati-
care, non quanto all'orientamento di fondo e alla visione d'in-
sieme, ma nella concretezza della vita vissuta. Fate tesoro delle
lezioni della Madre in questo campo!
10.11. MARIA IMMACOLATA
Per concludere, pensiamo ancora una volta a Maria, Vergine
e Madre. Io credo che uno degli elementi che ha influito sto-
ricamente sul nostro spirito, è la proclamazione del dogma
dell'Immacolata Concezione (1854 !) . Questo dogma presenta
la Madonna fino dal primo istante della sua esistenza umana
come l'aurora di quel salto qualitativo che ha posto la vergi-
nità come elemento dinamico di conduzione della storia umana.
Non perché l'Immacolata Concezione significhi verginità; essa
sta a indicare l'assoluta mancanza di ogni peccato, anche di
quello originale, come esigenza di una maternità divina verifi-
catasi nel mistero della verginità.
Maria è all'aurora dei tempi nuovi. Quando Pio IX proclamò
questo _dogma, si creò un clima tutto particolare nella Chiesa;
un apprezzamento e un vero entusiasmo per i valori della ca-
stità evangelica, che purtroppo non si percepisce più oggi, spe-
cialmente tra la gioventù.
Un simile clima di apprezzamento e di entusiasmo è alle ori-
gini stesse dei nostri Istituti. Le associazioni dell'Immacolata
fondate dai giovani a Valdocco e a Mornese ne testimoniano
la vitalità: una gioventù che guarda la Madonna come una
speranza di futuro e sceglie la purezza come ispiratrice di una
forma attraente di vita .
La nostra Famiglia spirituale è nata da un tale clima e si
fonda su questi valori. È sintomatico che Don Bosco abbia
considerato sempre la festa dell'Immacolata come l'inizio del-
l'Opera salesiana.
196

20.9 Page 199

▲back to top
Ebbene: pensando alla purezza della Madonna, aurora dei
tempi nuovi, chiediamo a lei di aiutarci a conservare tra n9i
lo splendore del diamante della castità, dando al nostro voto
una intensa capacità di attrazione, quasi fosse una calamita
che attiri la gioventù.
197

20.10 Page 200

▲back to top
11
NONO DIAMANTE
IL DIGIUNO
Sotto il diamante della « Castità » brilla, nel quadrilatero,
quello del « Digiuno »: « Sul secondo a sinistra più in basso
stava scritto "Digiuno" » .
È interessante osservare come il diamante del « Premio » è
sotto la « Povertà », in basso, dalla parte destra : ha certamente
una relazione con le privazioni della pover tà. Il « Digiuno »,
invece, ha un più stretto legame con l'impegno della « Castità ».
Che cosa c'è scritto sui raggi di questo diamante? « È l'arma
più potente contro le insidie del demonio » . « È la sentinella
di tutte le virtù » . « Col digiuno si scaccia ogni sorta di nemici ».
Nella scena del manto sdrucito, al suo posto c'è un guasto,
senza nessuna iscrizione.
11.1. UNA PRIVAZIONE SECONDO RAGIONE
Che cos'è il digiuno?
Di per il digiuno è astenersi dal vitto, evidentemente in
forma ragionevole, per dei fini positivi. Quindi certi digiuni,
più o meno di moda, prolungati fino alla morte, non sono
espressione dei valori di questo diamante, anche se nella cro-
naca mondiale di questi anni possono avere un'interpretazion.!
che merita rispetto.
L'astinenza dal cibo, fatta in modo ragionevole, è una virtù
satellite della temperanza. Consiste nella privazione di qualche
cosa di utile e gradevole; una privazione fatta alla luce del
buon senso.
198

21 Pages 201-210

▲back to top

21.1 Page 201

▲back to top
San Tommaso ha dedicato commenti acuti a questa astinenza.
Sottolinea che il digiuno deve farsi con volto ilare, secondo
quanto dice il Vangelo: Quando tu digiuni non suonare la
tromba e non metterlo in piazza per tutti; ma lavati bene, co-
spargiti di profumo, sorridi... così che gli altri non se ne ac-
corgano!
11.2. SUA IMPORTANZA BIBLICA ED ECCLESIALE
L'astinenza dal cibo è un elemento che troviamo molto spesso
nella Bibbia come espressione di una particolare e pratica sen-
sibilità religiosa. Non possiamo qui dedicarci ad elencarne la
frequenza e l'importanza . Solo un breve accenno nei Vangeli,
che ispiri la nostra riflessione.
Nel Vangelo di Marco, tanto per fare un esempio, leggiamo:
« Un giorno i discepoli di Giovanni il Battezzatore e i farisei
stavano facendo digiuno [ i due soggetti fan vedere i differenti
modi di poterlo fare] . Alcuni vennero da Gesù e gli doman-
darono: " Perché i discepoli di Giovanni e i discepoli dei fa-
risei fanno digiuno, i tuoi discepoli invece non lo fanno?".
Gesù rispose: "Vi pare possibile che gli invitati ·a un banchetto
di nozze se ne stiano senza mangiare, mentre lo sposo è con ·
loro? No; per tutto il tempo che lo sposo è con loro, non pos-
sono digiunare. Verrà più tardi il tempo in cui lo sposo gli
sarà portato via, e allora faranno digiuno"» (Mc 2,18-20).
Noi sappiamo che Gesù inizia la sua vita pubblica con un
lungo digiuno: 40 giorni e 40 notti. Il numero 40 è simbolico;
però. certamente si tratta di un digiuno molto lungo e duro.
La Chiesa precisa il significato del digiuno e ne regola la
pratica: non è dunque un'anticaglia da buttar via.
Ci sono dei tempi liturgici durante l'anno che danno un'im-
portanza peculiare all'astinenza: l'Avvento e, soprattutto, la
Quaresima.
Oggi il digiuno di questi periodi è abbastanza leggero; an-
ticamente era più concreto e difficile. A madre Mazzarello una
volta è sfuggita questa confidenza a suor Petronilla: « In Qua-
resima mi tolgo la fame soltanto la domenica » (Cron. I, 80).
È interessante osservare che il digiuno quaresimale e cri-
1-99

21.2 Page 202

▲back to top
stiano va unito alla preghiera e all'elemosina come atto reli-
gioso che dinanzi a Dio proclama l'umiltà, la fraternità e la
speranza, in preparazione all'evento centrale della salvezza.
11.3. SENSO CRISTIANO DEL DIGIUNO
Qual è il senso cristiano del digiuno?
Il cibo è certamente un dono di Dio; la sua privazione
acquista senso dalle motivazioni che l'accompagnano; diviene
un atto religioso per le finalità che si propone. Non è un'espres-
sione di fachirismo . Vuol esprimere, come 'dicevamo, l'umiltà,
la fraternità e la speranza; vuol intensificare il senso di Dio,
di dipendenza e di abbandono a Lui, di coscienza dei propri
difetti, dei peccati propri e altrui, dei pericoli della propria
carne, delle passioni e delle inclinazioni profonde.
Quali sono i motivi per cui nella Chiesa il cristiano fa di-
giuno? Per fare penitenza, per partecipare alla croce di Cristo,
per intensificare la preghiera, per reprimere le passioni, in par-
ticolare per dominare la concupiscenza della carne. Nel digiu-
nare si esercita una pedagogia che aiuti a vivere in pienezza al-
cuni valori spirituali: facilitare l'elevazione dello spirito agli
ideali evangelici, riparare colpe e peccati, superare difficoltà e
tentazioni, chiedere grazie e favori.
Oggi, purtroppo, non se ne fa molto conto; ma la prassi della
Chiesa non è cambiata.
Il nostro buon Padre ne faceva uso. Il 16 marzo 1874 Don
Bosco era a Roma per ottenere quella storica approvazione delle
Costituzioni che gli costò tanti sudori e gli procurò tante . diffi-
coltà. Di là scrisse una lettera circolare a tutte le case (nostre ...
e di Mornese!) invitando a fare « un cuor solo ed un'anima
sola per implorare i lumi dello Spirito Santo sopra gli Eminen-
tissimi Porporati », perché il 24 seguente avrebbero dovuto oc-
cuparsi, come di fatto avvenne, delle Costituzioni della Società
di S. Francesco di Sales. Che cosa chiede nella circolare? In-
siste innanzitutto che la grazia che si doveva impetrare da
Dio si riferiva ad un argomento « dei più importanti per il
nostro presente e futuro ». E, per ottenerla, che cosa chiede
Don Bosco? Tre giorni di « rigoroso digiuno» (dal 21 al 23
200

21.3 Page 203

▲back to top
marzo); inoltre « quelle mortificazioni che ciascuno giudicherà
compatibili con le sue forze e con i doveri del proprio stato »
(MB 10,763).
Dunque, Don Bosco dava importanza al digiuno e alle mor-
tificazioni nel senso più genuino della tradizione cristiana. Anche
qui non mi dilungo a richiamare i numerosi dati delle Memorie
Biografiche al riguardo. Vi invito, invece, a ripensare ai primi
anni di Mornese: riconosciamo, senz'altro, che si faceva fin
troppo in questo campo. Neppure le morti precoci spaventa-
vano madre Mazzarello e le compagne.
11.4. UN APPELLO ALLA « MORTIFICAZIONE »
Ma credo che la luce di questo diamante non si fermi al
digiuno e si estenda più in là, al vasto campo della mortifica-
zione. L'interpretazione data da don Rinaldi ci muove in questo
senso. Un'interpretazione che mi sembra non solo autorevole,
ma che va a fondo nel ricercare e lumeggiare il significato della
nervatura posteriore; il digiuno non si riduce, quindi, alla sola
privazione dei piaceri gastronomici, ma spazia in un campo
assai più vasto. Don Rinaldi allude alla « mortificazione dei
sensi »; ma direi che esso oltrepassa anche l'ambito dei sensi
per abbracciare tutta la possibile gamma della mortificazione.
Trattando della « Temperanza » abbiamo precisato che non
parlavamo di « mortificazione », ma di equilibrio, di dominio
di sé, di regalità battesimale sul proprio microcosmo. Qui in-
vece, trattando del diamante del « Digiuno », parliamo proprio
di privazione, di astinenza, di rinuncia , di penitenza, di mor-
llficazione. Si tratta di farlo con buon senso e con ragionevole
moderazione, ma ciò comporta vera iniziativa ascetica, cercare
qualche privazione pratica, assicurare a se stessi la serietà e la
concretezza dell'impegno di dominio di sé e di espiazione, co-
scienza di farlo soprattutto personalmente. Infatti il campo della
mortificazione è certamente anzitutto personale, qualcosa di
propria iniziativa che è meglio che nessuno sappia; la. nostra
mortificazione non può essere come il digiuno dei farisei.
: Quando ero chierico e studiavo filosofia al Rebaudengo ·di
Torino, ho partecipato ai funerali di don Fascie. Era un Supe-
201

21.4 Page 204

▲back to top
/
riore del Consiglio Generalizio, siciliano, molto intelligente e
capace; è famoso un suo commento al Sistema Preventivo, assai
stimolante e acuto. Il discorso funebre lo tenne Alberto Ca-
viglia. Dal pulpito incominciò a svolgere solennemente la fascia
nera che conteneva i fogli da leggere. Guardate un po' che ri-
cordi! Ebbene: sapete che cosa ha impressionato di più la mia
curiosità giovanile? L'affermazione che don Fascie portava il
cilicio. Io avevo appena conosciuto don Fascie, e lo avevo visto
allegro e scherzoso: che colpo per me! Egli portava il cilicio
senza che nessuno lo sapesse.
Non è che io sia qui a consigliarvi di portare il cilicio: no,
no. Però vorrei davvero che fra noi si amassero di più le mor-
tificazioni. Nessuno potrà contabilizzare rriai le innumerevoli
mortificazioni che sa fare una buona suora.
C'è una grande possibilità di mortificazione dei sensi, so-
prattutto degli occhi: essi sono la porta della fantasia. La ca-
stità richiede iniziative al riguardo. Gli occhi devono essere
guidati, specialmente oggi, a proposito di spettacoli, persone,
luoghi, riviste, pubblicità, ecc. C'è poi una vasta area per la
mortificazione negli affetti: la custodia del cuore (le famose
spine del pergolato di rose).
Madre Mazzarello raccomandava per voi, in particolare, due
settori: quello della vanità e quello della doppiezza o insince-
rità, i raggiri. Sono atteggiamenti femminili sottili, che pos-
sono rimanere occulti ed essere dissimulati come quella pelli-
cola delle castagne del sogno: le castagne sembrano già pu-
lite, ma c'è in esse ancora qualcosa di amaro.
C'è anche tutto il campo dell'amor proprio e della suscetti-
bilità . Madre Mazzarello esortava a mortificare « la testa » con
la sua indipendenza e la sua caparbietà.
Vi leggo un tratto di una conferenza di madre Mazzarello
alle suore, tenuta pochi mesi prima della sua morte, nel 1880.
« La vita religiosa - diceva - è, di per sé, una vita di sacrificio,
di rinunce e di privazioni; la vita di comunità e l'ufficio impongono già
spesso di mortificarci... e basterà così? No, no! Una buona suora non si
accontenta di 'quello che le circostanze por.tano con sé; ma trova il
modo di andare più avanti per amore del Signore, delle anime e della sua
povera anima. C'è la mortificazione della testa, della volontà, del cuore,
dei sensi; c'è l'obbedienza, c'è l'umiltà, che sanno domandarci tanto,
anche se nessun occhio e nessun orecchio umano se ne accorge. So-
202

21.5 Page 205

▲back to top
relle e figlie mie: povertà e mortificazione, obbedienza e umiltà, osser-
vanza delle Costituzioni e castità, sono tutte virtù così unite fra loro
da farne come una sola. [Noi qui ascoltiamo non le parole di un teologo,
ma quelle di una competente in esperienza di Spirito Santo; su di
esse deve meditare anche il teologo!]. Se vogliamo farci sante... - con-
tinua la Madre - (chi è che non lo vuole?... si alzi in piedi quella che
non lo vuole! ...) dobbiamo praticarle tutte queste virtù; l'abbiamo giu-
rato innanzi all'altare, e i nostri angeli custodi l'hanno scritto a carat-
teri d'oro, per ricordarcelo -spesso e mettercelo innanzi nell'ora della
morte». E conclude: « Siamo suore sul serio, e l'anno nuovo sia dav-
vero, per tutte, vita nuova! » (Cron. III 300-301) .
La mortificazione era così di casa a Mornese che lo stesso
Don Bosco, sant'uomo e tanto mortificato, ne rimase impressio-
nato. C'era tra le prime suore una forte capacità di distacco
dal mondo e un vero slancio verso il mistero della Croce, che
gli parve persino opportuno moderarlo. Dopo lo stillicidio delle
morti in giovane età, _Don ,Bosco intervenne più volte per at-
tutire il rigore del tenore di vita. Sappiamo che alla vostra co-
munità di Alassio consigliò persino la moderazione nel lavoro:
si vede che, a volte... esagerate: almeno allora!
Certamente un campo assai pratico per l'esercizio della mor-
tificazione è quello di evitare ad ogni costo l'ozio: esso, in-
fatti, è la ruggine dell'anima.
Ma rifacciamoci al famoso sogno delle castagne: davvero
acuto e illuminante! Le castagne marce si buttano via. Nel-
l'acqua bollente dell'obbedienza le castagne vane (ecco la va-
nità!) vengono a galla. Ma poi ce ne sono alcune che sono
buone, ma sono doppie, perché hanno ancora una pellicola
dentro che bisogna scoprire ed eliminare. Sono i ripostigli della
psiche. Non so se ne abbiamo più noi uomini o voi donne;
però certamente voi ne avete alcuni piuttosto sottili!
Dunque: il diamante del « Digiuno » colloca la nostra inizia-
tiva spirituale in un campo immenso. E un compito che non
viene controllato da nessun regolamento e da nessuna supe-
riora; è frutto soprattutto dell'iniziativa personale; dico « so-
prattutto », perché certe mortificazioni sono possibili anche
comunitariamente. Noi abbiamo alcuni giorni speciali, per esem-
pio il venerdì; abbiamo tempi forti della Chiesa come l'Avvento
e la Quaresima, che interessano tutta la comunità. Possiamo
essere invitati da una circolare per collaborare alla preparazione
203

21.6 Page 206

▲back to top
di un evento ,straordinario, per esempio un Cap1.tolo generale,
chiedendoci di fare giorni di digiuno e diverse iniziative di
mortificazione.
11.5. PARTECIPAZIONE AL MISTERO DELLA CROCE
Dunque: è proprio dello spirito salesiano praticare la mor-
tificazione cercando rinunzie concrete e di buon senso, senza
legarsi ad esse in forma troppo fi ssa, da orario. Io capisco
che non mettere il sale nelle vivande può essere una mortifica-
zione; però non bisogna legarsi troppo e farne una legge; dob-
biamo essere sciolti, liberi, non schiavi di piccolezze che uno
si inventa. Per questo è bene cambiare, così nessuno se ne ac-
corge: come faceva Don Bosco. Se facciamo delle mortifica-
zioni personali che attirano l'attenzione degli altri, c'è pericolo
di ostentazione: vuol dire che siamo poco furbi nell'impegno
ascetico. Una mortificazione intelligente è tale che nessuno la
nota, almeno come iniziativa singola . Lo si nota, certo, nel-
l'insieme della vita: chi non si accorge che la tal persona è
mortificata, dominatrice di sé, capace di fare sacrifici? Però ci
si accorge di un atteggiamento globale, e non tanto di questa
o quella rinuncia.
La motivazione fondamentale della mortificazione cristiana
qual è? Il termine stesso di « mortificazione » ci suggerisce un
inizio di risposta: è un modo concreto di partecipare con co-
scienza di fede alla morte di Cristo, al mistero della Croce
come segno caratteristico del cristiano. Per noi la Croce non è
più un segno di sconfitta, di umiliazione, di impotenza e di
amarezza, ma il segno paradossale del vero amore che realizza
la persona e salva il mondo.
Nell'approfondire il mistero della Croce a cui la mortifica-
zione ci fa partecipare, si scopre un aspetto fondamentale del
cristianesimo: il senso del peccato, del peccato mio, del pec-
cato degli altri, soprattutto dei nostri destinatari.
Perché Cristo, essendo Dio, si è svuotato di fino alla morte
e alla peggiore delle morti, quella di croce? Per i nostri pec-
cati! Ci può essere un amore più grande di questo? È un
amore più che gratuito. Egli vuole liberare l'uomo dalle schia-
204

21.7 Page 207

▲back to top
vitù che lo rovinano: la più radicale di tutte è quella del pec-
cato. Noi, purtroppo, viviamo in una cultura che ha perso il
senso del peccato. Forse la più grande disgrazia del mondo di
oggi - diceva Pio XII - sta nel fatto che gli uomini non
hanno più il senso del peccato.
Ma sapete che cosa ho visto alcuni giorni fa? Andando in
macchina sul raccordo anulare c'era davanti a me uno di quei
camion da trasporto alti e chiusi come una casa; aveva un
cartellone dietro con scritta a grandi caratteri una terribile be-
stemmi a. È stata per me una sorpresa agghiacciante; mai avevo
visto qualcosa di simile. È poi arrivata una gazzella della Po-
lizia che si è affiancata a quel camion, e io ho cercato subito
di sorpassare, senza vederne la conclusione. Si faceva pubblicità
a una delle bestemmie più brutte che si possono dire contro
Dio; così, per la strada, come se fosse niente ...
Se poi guardiamo il modo di vivere di certa gioventù, se
pensiamo al fenomeno della droga, del brigatismo , agli omicidi,
ai suicidi, agli abusi del sesso, a tutte le ingiustizie sociali, ecc.,
ci dovremmo chiedere, pensando alla solidarietà umana, chi
accetta di soffrire per espiare tanti peccati? La risposta certa-
mente è: Cristo! Ma ai dolori di Cristo mancano quelli dei
suoi discepoli: lo dice san Paolo . Ebbene: con la mortifica-
zione cerchiamo di unire qualcosa di nostro a quei dolori. È
una motivazione grande, di profonda interiorità, di solidarietà,
di fraternità, che ci fa sentire la responsabilità della salvezza
di tutti gli uomini, più in là degli aspetti pedagogici (anche
tanto validi) di una mortificazione che ci allena nel dominio
di noi stessi.
11.6. PROBLEMA SUPERATO?
Oggi si vorrebbe far passare la mortificazione come un tema
superato e si presentano delle ragioni per confermarlo. Vedia-
mone qualcuna.
La rinuncia e la mortificazione si oppongono all'autorealiz-
zazione: danneggiano la personalità. Quante volte si sente que-
sta obiezione anche in bocca a religiosi. Ma qual è l'ideale di
una persona che vive una vocazione di radicalità evangelica?
205

21.8 Page 208

▲back to top
Non è certo un ideale psicologico. Gesù Cristo nell'orto degli
ulivi, contemplando il disegno del Padre che gli chiede di mo-
rire in croce, dice forse: questa non è la realizzazione della
mia persona? Percepisce bene che quello a cui sta per andare
incontro non è secondo la natura umana, ed ·esclama : « Passi
da me questo calice»; però aggiunge: « Non si faccia la mia,
ma la tua volontà ».
In definitiva la realizzazione della persona è la trascendenza
di in Dio, per potere amare di più. La persona che ama ·
di più è quella che sa donare se stessa fino alla rinuncia della
propria vita.
La ragione proposta potrà servire per evitare certe mortifi-
cazioni sciocche e irragionevoli, magari imposte. E vedete, in
questo campo, più si impone, peggio è. Noi però stiamo par-
lando della coscienza personale e delle iniziative libere di
ognuno: lo spirito evangelico è tutto fondato sulla libertà della
persona anche nell'obbedienza. Ci potranno essere delle mo-
tivazioni di inibizione e di masochismo; beh, ci sono anche delle
esagerazioni, ci sono delle malattie, delle situazioni patologiche,
delle persone squilibrate, pazienza! Però non si può identifi-
care la mortificazione cristiana con le deviazioni della psiche.
Un 'altra ragione che si porta oggi da alcuni è che non
bisogna essere esagerati sul concetto di peccato: la fragilità
della libertà umana è molto grande e viene insensibilmente
guidata dalle situazioni e dalle circostanze, che praticamente
le tolgono la libertà.
Riconosciamo pure che c'è qualche cosa di vero in questa
obiezione. Bisogna guardare sempre la coscienza, la volontà
personale di decidere e non solo la materialità dell'atto . Io
posso molto bene immaginare un omicidio che non è peccato.
Ho sentito raccontare di un ex seminarista che ha ucciso il
babbo e la mamma per mandarli in paradiso: erano malati;
lui prima chiamò il prete perché si confessassero e facessero
la comunione, poi li « mandò in paradiso ». Però qui si tratta
di anormalità: era un pazzo . Noi parìiamo invece di azioni
di uomini normali.
m Ancora un'altra ragione: oggi, se si vuole essere oggettivi
nel senso del peccato, bisogna parlare .delle ingiustizie delle
206

21.9 Page 209

▲back to top
strutture. Quindi, invece di fare masochismo, lottiamo per
cambiare le strutture. Mettiamoci d'accordo. Se si usa il ter-
mine « peccato delle strutture » si vuol indicare l'aspetto in-
giusto di un sistema. La strana terminologia ha di vero questo:
i peccati dell'uomo si proiettano e si possono incarnare o in-
serire nelle varie strutture. Ce lo ricordano Medellfn e Puebla.
Chi non vede nelle strutture economiche delle città di oggi le
conseguenze del peccato dell'uomo? Certo, è così; però dire
che il peccato sta nelle strutture, è falso. Il vero peccato è
sempre « personale », frutto del cuore umano. È un po' troppo
comodo rifugiarsi sempre nelle ingiustizie del sistema.
Ricordo una discussione con un giovane chierico che si la-
mentava solo delle strutture: - Guarda, gli dissi a un certo
punto, quando io ero assistente come te e mi andava male
qualche cosa, pensavo tra me: mi sono sbagliato, dovrò stare
più attento; tu invece, se trovi una difficoltà o se ti va male
qualche cosa concludi sempre e solo in una condanna del
« sistema ». Non ti pare un po' troppo comodo?
11.7. LA RISPOSTA DELLO SPIRITO SANTO
Queste e tante altre obiezioni ci fanno riflettere, ci aiutano
anche a rettificare certe modalità, però nessuna di esse porta
ragioni valide per emarginare il mistero della Croce. Il Van-
gelo è potentemente inappellabile. Il mistero della Croce è
proclamato come un elemento assolutamente indispensabile per
la salvezza dell'uomo, per la sua liberazione, per la costru-
zione del Regno. E il mistero della Croce tanto paradossale e
duro è spiegabile solo per il terribile e concreto realismo del
peccato. Senza peccato, non ci sarebbe Croce! E la Croce è
la suprema espressione della potenza e della metodologia del-
l'amore nella lotta contro il peccato.
Ecco il motivo fondamentale per cui Cristo, e poi tutti i
Santi, hanno vissuto « liberamente » il mistero della Croce.
Pensiamo ai nostri Fondatori e a tutti i Santi, soprattutto ai
più vicini al nostro spirito . Che Santo conoscete che non si
sia dedicato alla mortificazione? E i Santi sono « profezia viva »
di ciò che vuole lo Spirito Santo nella storia; sono la sua pa-
207

21.10 Page 210

▲back to top
ro1a d1. attua11· t'a. Tutt1. m. s1.eme c1. proc1amano che e m/o1to i.m-
portante rivalorizzare, innanzitutto nella nostra coscienza per-
sonale e poi nelle nostre comunità, l'indispensabilità teologale
e l'importanza ·pedagogica della mortificazione.
L'attuale processo di secolarizzazione - che si traduce spesso
in secolarismo - penetra anche nelle case religiose e, facendo
attutire il senso profondo del peccato, causa superficialità, in-
differenza e imborghesimento. Urge coltivare nella coscienza la
riscoperta della terribile realtà del peccato. Più che fissare il
nostro sguardo sul peccato in sé e nelle sue manifestazioni, è
conveniente guardare che cosa ha sofferto Gesù Cristo per
colpa del peccato, riscoprire una dimensione di solidarietà
interpersonale nella lotta contro il male, ossia persuaderci che
la carità ci fa sentire solidali, chiamati a espiare anche per
gli altri, soprattutto per i destinatari affidati alle nostre cure.
Inoltre, i Santi ci insegnano, per quanto riguarda noi stessi,
a dare importanza al fatto di manifestare anche in forma cor-
porale la verità della nostra conversione, perché ciascuno di
noi è peccatore e sa quali sono i punti in cui si sente più de-
bole. La conversione, la « metanoia », comporta propositi pra-
tici e iniziative di espiazione che si traducono normalmente
in manifestazioni corporali concrete, di buon senso, ma esigenti.
I Santi ci invitano, infine, a meditare sul grande mistero del
Cuore di Dio, dove l'infinita misericordia (di cui facciamo
bene a parlare sempre e molto!) si identifica con la infinita
giustizia. È alla luce di questo mistero del Cuore di Dio che
essi hanno contemplato la Croce, senza cadere nella bonarietà
di certi scrittori anche credenti che esclamano: « Oh, l'inferno
è troppo! ». No, no: la misericordia di Dio è infinita, ma non
intacca la sua infinita giustizia. Il mi stero della Croce è in-
sieme manifestazione della misericordia e della giustizia di
Dio.
Voi avete nelle Costituzioni (1975) un bell'articolo che rac-
cogli e tutte queste motivazioni dei Santi:
« La nos tra vocazione alla santità esige un continuo dinamismo di
penitenza . Il distacco dal peccato e dalle sue conseguenze e il rifiorire
della vita in Cristo diventano ricchezza comunitaria, perché ognuna, par-
tecipando alla morte del Signore, irradia tra le sorelle la luce della ri-
surrezione. Accettiamo perciò serenamente le piccole croci di ogni giorno
208

22 Pages 211-220

▲back to top

22.1 Page 211

▲back to top
senza farle pesare sugli altri, e pratichiamo anche la mortificazione vo-
lontaria per completare nella nostra carne quanto manca ai patimenti
di Cristo, per il bene del suo Corpo che è la Chiesa. Valorizziamo co-
munitariamente i tempi liturgici penitenziali» (art. 35).
Ecco, avete qui il miglior commento sintetico al diamante
del « Digiuno ».
11.8. ESIGENZA DELLO SPIRITO SALESIANO
Nello spirito salesiano la mortificazione è assolutamente in-
dispensabile. Sorregge e difende soprattutto « lo splendore della
purezza » e rende possibile e costante la bellezza di una vo-
cazione voluta da Dio per i giovani; essi hanno diritto che
noi viviamo con integrità la nostra vocazione. La mortifica-
zione per noi non è, in assoluto, espressione di austerità e di
severità. È unita sempre alla gioia e all'allegria. Si realizza nel
Lavoro e nella Temperanza e assicura l'Obbedienza, la Povertà
e la Castità. Accompagna la simpatia del « farsi amare » avendo
la bontà e l'amorevolezza come metro appropriato per valu-
tare la salesianità di una mortificazione.
Le rinunce che ci fanno diventare burberi, freddi, aspri,
sgarbati, rigidi, insensibili e scostanti, non sono proprie dello
spirito salesiano. Il mistero della Croce noi lo viviamo sotto
il pergolato delle rose; ma è sincera e piena partecipazione al
mistero di Cristo sul Calvario.
Mi rallegro che ci sia toccato riflettere su questo tema proprio
alla vigilia della festa dell'Esaltazione della Croce: domani
nella liturgia potrete pensare meglio a questi valori.
11.9. L'ADDOLORATA!
E concludiamo, come sempre, con Maria. Non conosciamo
il tipo volontario e libero di mortificazioni da lei scelto. Sap-
piamo, però, del suo atteggiamento globale, profondo e intimo,
della piena partecipazione al mistero della Croce: dalla spada
profetizzata da Simeone alla lancia di Longino.
209

22.2 Page 212

▲back to top
Come è bella la sequenza "Stabat Matec dolornsa / il suo
latino è facile: « Eja mater fons amoris , me sentire vim doloris
fac ut tecum lugeam ». Orsù, Madre, fonte dell'amot e, fammi
sentire la forza del dolore perché pianga con te!
E le vere lacrime che accompagnano il mistero . di Maria ai
piedi della Croce non sono quelle degli occhi, ma quelle del
cuore.
Ci aiuti lei a saper trovare , per noi e per le nostre comu-
nità, le lacrime del digiuno e delle mortificazioni!
Ricordiamo quanto disse Don Bosco a madre Mazzarello alla
chiusura degli Esercizi spirituali a Mornese nel 1878: « Mi
piacerebbe che sotto questo porticato ci fosse un cartello con
la scritta " La mortificazione è l'Abbiccì della perfezione" » !
(MB 13,210).
210

22.3 Page 213

▲back to top
12
DECIMO DIAMANTE
IL PREMIO
Finalmente siamo giunti alla considerazione del diamante
del «Premio»! È collocato sotto quello della « Povertà» . Sui
suoi raggi si leggono queste parole: « Se vi attrae la grandezza
dei premi, non vi spaventi la quantità delle fatiche ». « Chi sof-
fre con Me, con Me godrà». « È momentaneo ciò che soffriamo
sulla terra, eterno è ciò che farà gioire i miei amici nel Cielo »-.
E nello strappo del manto sdrucito si legge: « Nostra eredità
saranno i beni della terra » (ecco lo stemma del superficiale
imborghesito!).
Il vero Salesiano, invece, ha nella fantasia, nel cuore, _nei de-
sideri, negli orizzonti di vita la visione del Premio, come pie-
nezza dei valori proclamati dal Vangelo.
12.1. DON BOSCO E L'IDEA DEL «PARADISO»
A casa di Don Bosco, nel secolo scorso, si parlava molto di
Paradiso. Era un'idea permanente e onnipresente: « Pane, lavo-
ro e Paradiso »; « Un pezzo di Paradiso aggiusta tutto ». Sono
frasi ricorrenti a Valdocco e a Mornese.
Ricordate la descrizione fatta da madre Enrichetta Sorbone
sullo spirito di Mornese: « Qui in casa siamo come in Para-
diso! ». E non era certo a causa delle privazioni o della man-
canza di problemi. Era come la traduzione spontanea, balzata
dal cuore, del cartello che aveva fatto mettere Don Bosco:
« Servite Domino in laetitia ».
Anche Domenico Savio aveva percepito lo stesso caldo e tra-
211

22.4 Page 214

▲back to top
I
scendente clima di vita: « Noi facciamo consistere la santità
nello stare sempre allegri ».
Nelle biografie del su.oi ragazzi (Domenico Savio, Francesco
Besucco, Michele Magone) Don Bosco, anche descrivendone la
agonia, ci tiene a sottolineare questa ineffabile gioia, unita a
una vera ansia di Paradiso. Molto più che l'orrore della morte,
i suoi ragazzi sentono l'attrattiva della Pasqua.
Noi celebriamo, stiamo celebrando il centenario della scom-
parsa di madre Mazzarello e scopriamo nella sua morte più il
senso del Paradiso che l'angoscia dell'ultima goccia della botti-
glia che si svuota.
12.2. LA GIOIA COME FRUTTO DELLA PRESENZA
. DEL CIELO IN TERRA
Il pensiero del « Premio » è uno dei frutti della presenza
dello Spirito Santo: ossia, dell'intensità della fede, della spe-
ranza e della carità, tutte e tre insieme, anche se è più stretta-
mente legato alla speranza. Infonde nel cuore una gioia e una
allegria che vengono dall'alto e trovano una bella sintonia con
le stesse tendenze innate del cuore umano. Lo costatiamo viven-
do tra i ragazzi e le ragazze. La gioventù intuisce con maggior
freschezza che l'uomo è nato per la felicità.
Ma non abbiamo neppure bisogno di andare a cercarlo tra i
giovani. Prendiamo uno specchio e guardiamoci; ci basta sen-
tire i battiti del nostro cuore. Siamo nati per raggiungere la
felicità; l'aspettiamo anche senza confessarlo.
L'idea del Paradiso, sempre presente nella casa di Don Bosco,
non è un'utopia per ingenui inganni; non è la carota che ingan-
na il cavallo perché cammini più in fretta. È l'ansia sostanziale
del nostro essere; ed è soprattutto la realtà dell'amore di Dio,
della risurrezione di Gesù Cristo operante nella storia, è la pre-
senza viva dello Spirito Santo che ci spingono, di fatto, verso il
Premio .
Il papa Paolo VI in quell'interessante Esortazione sulla gioia
Gaudete in Domino, introducendo la sua profonda meditazione
sulla gioia, fa la seguente osservazione:
212

22.5 Page 215

▲back to top
« Ci sa rebbe anche bisogno di un paziente sforzo di educazione per
imparare o imparare di nuovo a gustare semplicemente le molteplici
gioie umane che il Creatore mette già sul nostro cammino: gioia esal-
tante dell'esistenza e della . vita; gioia dell'amore casto e santificato;
gioia pacificante della natura e. del silenzio; gioia talvolta austera del
lavoro accurato; gioia e soddisfazione del dovere compiuto; gioia tra-
sparente della ·purezza, del servizio, della partecipazione; gioia esigente
del sacrificio. Il cristiano potrà purificarle, completarle, sublimarle: non
può disdegnarle . La gioia cristiana suppone un uomo capace di gioie
naturali . Molto spesso partendo da queste, il Cristo ha annunciato il
Regno di Dio ».
Il pen~iero di Paolo VI è acuto, sfumato, attraente, profonda-
mente umano. Illumina pienamente ciò che stiamo riflettendo
sullo spirito di Don Bosco. Il nostro Padre non deprezza nessuna
gioia dei giovani; anzi la suscita, la incrementa, la sviluppa. La
famosa « allegria » in cui fa consistere la santità non è solo una
gioia intima, nascosta nel cuore come frutto della grazia; que-
sta ne è la radice. Essa si esprime anche all'esterno, nella vita,
nel cortile, nel senso della festa. Come preparava le solennità re-
ligiose, gli onomastici, i ·giorni festivi dell'Oratorio! Si preoccu-
pava persino di organizzare la celebrazione del suo onomastico,
rion per sé, ma per creare un clima di riconoscenza gioiosa nel-
l'ambiente. Pensiamo all'allegria delle sue coraggiose passeggiate
« pre-turistiche »: due o tre mesi per prepararle, 15 o 20 giorni
per viverle, poi i prolungati ricordi e commenti: una gioia molto
spaziata nel tempo, quindi.
Nei confronti di Don Bosco noi, dopo cento anni, restiamo col
fanalino di coda. Che fantasia e che coraggio! Da Torino ai Bec-
chi, a Genova, a Mornese, a tanti paesi del Piemonte, con de-
cine e decine di ragazzi... La passeggiata, il gioco, la musica, il
canto, il teatro: sono elementi sostanziali del Sistema Preventivo
che, anche come metodo pedagogico, suppone una spiritualità ap-
propriata ed esplosiva, frutto di una fede, speranza e carità con-
vinte che ci sono tanti valori del cielo proprio qui sulla terra.
Sul firmamento di Valdocco s'affacciava sempre, di giorno
e di notte, con nubi ·o senza nubi, il Paradiso. « Il demonio
- ripeteva Don Bosco - ha paura della gente allegra! » (MB
10,648).
213

22.6 Page 216

▲back to top
I
12.3. UN REGALO PROFETICO
PER IL MONDO ATTUALE
Testimoniare oggi i valori del Premio è una profezia urgente
per il mondo e soprattutto per la gioventù. La civiltà tecnico-in-
dustriale che cosa ha apportato alla società del consumo? Una
enorme possibilità di comodità e di piacere. E alle società tota-
litarie del collettivismo? Una pesante tristezza.
A Mornese e a Valdocco non c'erano né comodità, né ditta-
ture, e tutto respirava spontaneità e allegria. Il progresso tecnico
ha facilitato oggi tante cose, ma non è aumentata la vera gioia
dell'uomo. È cresciuta, invece, l'angustia, la nausea, si è acuita
la mancanza di senso dell'esistenza.
Il cardinal Hofner di Bonn ci diceva in una riunione che,
facendo una visita nell'India a Madre Teresa di Calcutta, le
aveva chiesto quanti erano i suicidi tra i suoi poveri. Nessuno!
gli rispose. E commentava: in Germania occidentale, invece, i
suicidi sono più di 17 .000 all'anno; in Svezia proporzionalmente
ancora di più. Il senso dell'esistenza e la gioia del vivere non
sono, dunque, frutto del progresso tecnico e delle comodità.
Parlando con i confratelli dell'Olanda e del Belgio Nord, ho
sentito che per loro il grande problema della pastorale giovanile
non tanto quello dei giovani poveri (che praticamente non ci
sono più), quanto quello di trovare il modo di far percepire alla
gioventù il senso della vita, gli ideali superiori, l'originalità di
Gesù Cristo.
Si cerca la felicità, tendenza fondamentale dell'uomo, ma non
se ne conosce più la giusta strada; e allora va crescendo un'im-
mensa disillusione. La giovane, più ancora che il giovane, si
sente incapace e psicologicamente sprovveduta per affrontare la
sofferenza, il dovere, l'impegno costante. Il problema della fe-
deltà agli ideali e a una vocazione è diventato cruciale. La gio-
ventù si sente incapace di assumere sofferenze e sacrifici. Vive
in un'atmosfera in cui trionfa il divorzio tra amore e sacri-
ficio, in forma tale che il benessere finisce per asfissiare l'amore.
Giustamente, invece, il diamante del « Premio » è collocato
sotto quello della « Povertà », quasi a indicarci che i due si
completano e si sostengono a vicenda. Di fatto la povertà evan-
gelica comporta una visione concreta e trascendente di tutta la
214

22.7 Page 217

▲back to top
realtà con un'ottica realista anche circa le rinunce, le sofferenze,
i contrattempi, le privazioni, le pene. Qual è l'energia interiore
che le fa affrontare con fiducia e con volto ilare, senza scorag-
giarsi? È, in definitiva, il senso della presenza del cielo sulla
terra.
Questo senso procede dalla fede, dalla speranza e dalla carità,
che ci fanno rileggere tutta l'esistenza con l'ottica dello Spirito
Santo. Il mondo ha urgente bisogno di profeti che proclamino
con la vita la grande verità del Paradiso . Non un'evasione alie-
nante, ma una intensa realtà stimolante!
12.4. CHE COS'È IL PARADISO?
Anzitutto questa bella parola « Paradiso » non è originaria-
mente italiana, né latina, né greca; deriva da un termine per-
siano: e vuol dire « giardino ». (Bello! ... Voi pensate già al « giar-
dino salesiano » !).
L'immagine del « giardino » ci porta alle antiche religioni
orientali o del Medio Oriente, collaterali al giudaismo, e a ri-
pensare come nella Genesi si descrive l'inizio dell'uomo, nel
giardino dell'Eden: il « paradiso terrestre ». Quelle Religioni
riempivano tale giardino di alberi, di frutti, di cose belle e di
divinità che vivevano felici. Insomma, immaginavano il paradiso
partendo dai potenti e dai ricchi della terra con esuberanti e
artistici possedimenti.
Evidentemente siamo solo alla soglia di un'immagine e all'ori-
gine etimologica di una parola. Racchiude, però, un'intuizione:
un posto bello e fiorito, dove si sta bene e si vive felici. La ma-
niera, poi, tutta antropologica di concepire la felicità viene dal
fatto di non conoscere la rivelazione di Dio.
Noi non ci attardiamo maggiormente ad immaginare questo
giardino dell'Eden prima del peccato originale; sappiamo che na-
sce da queste mitologie, ma che pretende indicare una verità.
Anche i miti ci aiutano a capire che la vocazione dell'uomo, fin
dalla sua prima esistenza nel « paradiso terrestre », non era fatta
per la sofferenza e la morte, ma per la felicità. La Genesi, so-
prattutto, sottolinea l'assenza della morte; ci parla dell'albero
della vita.
215

22.8 Page 218

▲back to top
Il Paradiso perduto-
E qui entrano in scena la donna, il serpente, il peccato. La
narrazione della prima caduta ci presenta la dannosa astuzia
del serpente; però bisogna pur dire che Eva incomincia, e che
Adamo consente.
È utile riflettere sulla figura di Eva e di Adamo, non tanto
per l'Eden, quanto per quello che vedremo poi nel vero Pa-
radiso. Per poter capire meglio la grandezza di Maria conviene
parlare un po' male, anche senza esagerazioni, di Eva!. ..
La felicità dell'Eden proclama l'innata tendenza del cuore
dell'uomo , la sua vocazione originale. Esso_, certo, è immaginato
in contrasto con la sofferenza di oggi: è un Paradiso perduto.
Noi immaginiamo i due Angeli con la spada sulla porta del-
l'Eden che cacciano Adamo ed Eva, e il Paradiso viene chiuso:
è davvero perduto! La Bibbia insinua subito che non è per-
duto definitivamente; la vocazione originale dell'uomo avrà la
possibilità di rifarsi.
S'inizia così la grande profezia del « Paradiso promesso »,
dove bisognerà riconoscere l'incredibile amore del Padre verso
l'uomo: « Mirabiliter condidisti et mirabilius reformasti! ».
Il Paradiso ritrovato
Ecco: ora ci concentriamo non più su un genere letterario
mitologico, anche se è una mediazione valida per esprimere
una verità profonda, ma su dati concreti vincolati con la storia.
Innanzitutto parliamo degli eventi che prefigurano la pienez-
za e il mistero della realtà integrale. Li leggiamo alla luce della
fede, della speranza e- della carità di Abramo, dei Patriarchi,
dei credenti e dei poveri di Jahvè dell'Antico Testamento. La
narrazione di questa prefigurazione la leggiamo nel grande libro
dell'Esodo: la marcia del popolo d'Israele nel deserto, per arri-
vare alla terra promessa : la figura del Paradiso! È un'immagine
profetica di tutta Titineranza della Chiesa e dell'umanità verso
il Paradiso. Ci si assicura un ritrovamento della felicità. Gesù
Cristo ha realizzato fa promessa e ci ha rivelato il contenuto
reale della figura: la sua Pasqua è la grande luce della verità!
Ma che cos'è, a questa luce, il Paradiso ritrovato?
216

22.9 Page 219

▲back to top
È, per noi, una realtà escatologica. Che cosa significa una
« realtà escatologica »? La parola greca vuol dire la realtà ulti-
ma, la metà definitiva, la grande novità finale. Cristo ha attra-
versato il deserto ed è arrivato alla terra promessa con la sua
Pasqua.
Ecco, qui arriviamo al Paradiso ritrovato, realtà escatologica
che, per noi che viviamo ancora attraversando il deserto, ha un
« già » e un « non ancora ».
Che cos'è questo « già »? È il « già » della risurrezione, è
il « già » della vittoria sulla morte, della vittoria sul male, della
vittoria su tutto ciò che è contro la felicità dell'uomo, è il
« già » del sedersi alla destra di Dio, come diciamo nel Credo,
è il «già» della comunione piena dell'uomo, figlio di Dio, col
suo Padre, attraverso Gesù Cristo, è il « già » che ha la sua rea-
lizzazione di primizia in Cristo e in Maria: il nuovo Adamo e
la nuova Eva.
Appunto: il Paradiso ritrovato ci fa pensare a Cristo e a
Maria, l'uomo e la donna risuscitati, nuovo Adamo e nuova Eva
che incominciano l'umanità del vero Eden. E questo è realtà;
non mito! Questo è il Paradiso, questo è il Premio.
Leggiamo nel Vangelo di Luca: Il buon ladrone « si mise a
rimproverare iì suo compagno [che bestemmiava] e disse: "Tu
che stai subendo la stessa condanna, non hai proprio nessun
timore di Dio? Per noi due è giusto scontare il castigo per ciò
che abbiamo fatto, lui invece non ha fatto nulla di male". Poi
aggiunse: "Gesù, ricordati di me quando sarai nel tuo Regno".
Gesù gli rispose: "Ti assicuro che oggi sarai con me in Para-
diso" » (Le 23,40-43).
Ecco il Paradiso ritrovato!
Riguardo a Maria, madre di Cristo, il Concilio Vaticano II
ci ricorda un dato concreto della nostra fede: « L'Immacolata
Vergine, preservata immune da ogni macchia di colpa originale,
"finito il corso della sua vita terrena, fu assunta alla celeste gloria
con il suo corpo e con la sua anima, e dal Signore esaltata
come la Regina dell'universo, perché fosse più pienamente con-
formata al Figlio suo, il Signore dei dominanti e vincitore del
peccato e della morte » (ùG 59).
Ecco, il nuovo Adamo e la nuova Eva iniziano la nuova
umanità del Paradiso ritrovato: una mirabile ricostruzione im-
217

22.10 Page 220

▲back to top
mortale dell'uomo, ricco di verità e d'amore, e signore dell'uni-
verso!
Una realtà inimmaginabile per l'uomo chiuso in se stesso,
ma vera e incombente.
Il Paradiso: Casa di Dio e soggiorno dei giusti
I venti secoli di cristianesimo (tempo del « già » e del « non
ancora ») vissuti dalla Chiesa, fanno vedere come è vero questo
dominio di Cristo sulla storia e questa regalità di Maria sull'uni-
verso. L'Apocalisse nel parlare dell'Agnello davanti al trono,
di Cristo risuscitato, dice: « Sempre vivo per intercedere a
nostro favore», preoccupato cioè di condurre la storia al trionfo
dell'amore. A Maria tutti i popoli credenti hanno innalzato nu-
merosi santuari per testimoniare il suo aiuto materno lungo i
secoli.
San Paolo parlava del Paradiso usando le immagini dell 'epo-
ca: « i cieli ». Il vero Paradiso, quello della pienezza del mi-
stero di Dio, è il più alto dei cieli; lui, Paolo, era stato rapito
al terzo dei cieli, e dice: « Non è bello vantarsi, eppure devo
farlo. Perciò vi parlerò delle visioni e rivelazioni che il Signore
mi ha concesse. Conosco un credente che quattordici anni or
sono fu portato fino al terzo cielo. (lo non so se egli fu por-
tato fisicamente o solamente in ispirito: Dio solo lo sa). So
che quell'uomo fu portato sino al paradiso. (Se lo fu fisica-
mente o solamente in ispirito - lo ripeto - io non lo so: Dio
solo lo sa). Lassù udì parole sublimi che per un uomo è im-
possibile ripetere. Di quel tale sono disposto a vantarmi, ma
per quanto riguarda me, mi vanterò soltanto delle mie de-
bolezze », ecc. (2 Cor 12,1-5).
Guardate: Paolo era un uomo realista, battagliero, concreto,
che ha dato la vita per la fede ; egli confessa: non so dirvi
com'è il Paradiso, anche se ho avuto uno squarcio di perce-
zione; ma è vero, è reale, è qualcosa che mi muove a vivere, e
se avessi voglia di vantarmi non sarei un pazzo, perché direi
la pura verità! (cf 2 Cor 12,6).
In parole semplici, necessariamente inadeguate e legate al-
l'immaginazione, noi potremmo dire che il Paradiso è « la casa
218

23 Pages 221-230

▲back to top

23.1 Page 221

▲back to top
di Dio e il soggiorno dei giusti ». Nella « Casa di Dio » c'è la
pienezza del Paradiso; e nel « soggiorno dei giusti » c'è ancora
qualcosa da perfezionare. I Santi stanno ancora aspettando il
grande giorno della parusia; così Don Bosco e madre Mazza-
rello sono già in Paradiso, però aspettano ancora qualcosa
di più, la pienezza del trionfo di tutta la Chiesa, della storia
dell'umanità; anch'essi anelano vivere in pienezza nella casa
di Dio.
Ma come è e in che cosa consisterà la Casa del Padre? Dio è
dappertutto evidentemente, però dove si percepisce l'intimità,
la pienezza, la grandezza, l'ineffabilità del suo amore, della sua
fecondità, del suo essere - Padre, Figlio, Spirito Santo - tre
Persone e una sola realtà, una comunione profondissima, è
nella sua Casa . La sua effusione ineffabile di bontà sul mondo,
sugli uomini, tutto ciò che ·c'è di gioia, di bellezza, di felicità
sulla terra, nella storia, nel cuore, nella psicologia, nell'intelli-
genza, nella .volontà è solo piccola espressione della pienezza
di ciò che si sperimenta nella sua Casa.
Ecco: la Casa di Dio è dove c'è la pienezza di tutto il
bene e di tutta la felicità senza la mancanza di nulla. Noi cer-
éhiamo parole e immagini, balbettiamo, però capiamo che stia-
mo affermando una verità assoluta, profonda, a cui tende il no-
stro cuore, perché il Signore ha iniettato in noi, per così dire,
la partecipazione alla sua stessa natura.
Le parole sono piccole e le immagini inadeguate, però sap-
piamo trattarsi di una realtà concreta vissuta già in pienezza
da Cristo e da Maria, nostri fratelli, e partecipata già sostan-
zialmente dai Santi. Non si tratta di un mito.
12.5. DIMESTICHEZZA CON GLI ORIZZONTI
DEL PREMIO NELLO SPIRITO SALESIANO
Nello spirito di Don Bosco c'è una costante preoccupazione
di ·curare la dimestichezza con il Paradiso, quasi a costituirne
come il firmamento della mente, l'orizzonte del cuore Sale-
siano: lavoriamo e lottiamo sicuri di un Premio, guardando alla
Patria, alla Casa di Dio, alla Terra promessa.
219

23.2 Page 222

▲back to top
E per essete concreti ed evitare fughe alienanti, ci soffermia-
mo di preferenza su ciò che è già chiaro e concreto nel Pa-
tadiso ritrovato; sottolineiamo il suo « già».
Il diamante del « Premio » ci invita a sottolineare il « già »
della fede, della speranza, della carità. Ma che cosa prediligia-
mo in questo « già»? L'abbiamo detto: guardiamo con sguardo
preferenziale a Cristo e a Maria, i due risuscitati, che vivono
la pienezza della nuova vita, che iniziano l'epoca definitiva
dell'umanità. Noi dobbiamo collaborare per costruire questa
umanità nuova e far ingigantire la felice stirpe del nuovo Ada-
mo e della nuova Eva.
Cristo e Maria sono persone vive e concrete che si fanno
ànche presenti tra noi. Al centro dei vari tipi di presenza di
Cristo tra noi c'è l'invio continuo del suo Spirito, c'è la pre-
senza reale, sostanziale di Gesù Cristo nel SS . Sacramento del-
l'Eucaristia; poi la sua presenza nei Santi, nel ministero della
Sacra Gerarchia (cf SC 7 e l'enciclica Mysterium fidei di Pao-
lo VI , 1965) . Gesù Cristo è presente come Salvatore, come Si-
gnore della storia, come Colui che ci ama, ci aiuta e ci con-
forta, come il Maestro della verità che ci illumina e ci guida.
Ebbene: nello spirito salesiano l'aria di gioia e il dinami-
smo di speranza si nutrono di un robusto e profondo « dialo-
go con lo Spirito Santo » nella vita interiore e di un concreto
« senso dell'Eucaristia »; la vita giornaliera è poggiata sulla
sua celebrazione, e in ogni casa il centro vitale è il tabernacolo .
Così pure si guarda all'esempio dei Santi, alla testimonianza
dei buoni come a stimoli di campioni nel premio; si guarda al
Papa e ai Vescovi con atteggiamento di « devozione» e si dà
valore di vita ai loro orientamenti pastorali.
E Maria anche è sentita presente in ogni comunità salesiana;
non certo attraverso un sacramento. Ella, però, si fa presente
come aiuto quotidiano, come Madre precorritrice. Don Bosco è
sicuro di questa sua presenza tra noi , e vuole dei segni che ce lo
ricordino. Per lei ha costruito una basilica, centro taumaturgico
di animazione e diffusione della vocazione salesiana; voleva la
sua immagine nei nostri ambienti di vita; vincolava ogni ini-
ziativa apostolica alla sua intercessione e ne commentava con
commozione la reale e materna efficacia. Ricordate le sue parole
a Nizza: « La Madonna è veramente qui, qui in mezzo a voi!
220

23.3 Page 223

▲back to top
La Madonna passeggia in questa casa e la copre col suo man-
to ».1
Ma poi, noi cerchiamo nella Casa di Dio anche altri amici.
<< Omnes sancti et sanctae Dei » sono, evidentemente, nostri
amici; ma miriamo con particolare attenzione i volti più farnie
liari, come quelli di san Giuseppe, di san Francesco di Sales,
di sarita· Teresa, e poi con Don Bosco e madre Mazzarello ab-
biamo una piccola schiera di Santi nostri che vivono nel famoso
« giardino salesiano » . Non facciamo queste scelte per dividere
la grande Casa di Dio in piccoli appartamenti privati, ma piut-
tosto per sentirci in essa più facilmente a casa nostra, e poter
parlare di Dio, del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo, di
Cristo e di Maria, della creazione e della storia, non con la tre-
pidazione di chi ha ascoltato l'alta lezione di un pensatore
denso, difficile e anche ermetico, ma con quel senso di familia-
rità e di gioiosa semplicità con cui si conversa con coloro che
sono stati i nostri parenti, i nostri fratelli e le nostre sorelle,
i nostri colleghi, i nostri compagni di lavoro. Alcuni di essi non
li abbiamo conosciuti in vita, ma li sentiamo vicini e ci ispirano
particolare fiducia . Parlare con san Giuseppe, con Don Bosco,
con madre Mazzarello, con don Rua, con Domenico Savio, con
Laura Vicufia, con don Rinaldi, con mons. Versiglia e don Ca-
ravario, con suor Teresa Valsè, con suor Eusebia Palomino, ecc.
ecc., è proprio un dialogo di · casa.
Ecco quanto ci suggerisce il diamante del « Premio »: « sen-
tirsi a casa » con Dio, con Cristo, con Maria, con i Santi; sen-
tire la loro presenza nella propria casa, in un clima di famiglia
che dà senso di. Paradiso all'ambiente quotidiano di vita.
A Valdocco e a Mornese si coltivava anche una speciale de-
vozione per gli Angeli, la cui reale esistenza e ministero il
grande papa Paolo VI ha sottolineato nel suo famoso « Credo ».
Questo ci può ricordare che nel nostro orizzonte di Pa-
radiso si privilegiano con scelte pedagogiche alcune devozioni,
non per il gusto di un devozionalismo sorpassato e stravagante,
ma per vivere in compagnia di persone che sono · vive e f~lici
con Dio, e che in Lui ci amano, si preoccupano di noi e ci fan-
' G. CAPETTI, Il cammino dell'Istituto nel corso di un secolo, 3 vo-
lumi, FMA, Roma 1972-1976, I 122.
221

23.4 Page 224

▲back to top
no sentire che l'esistenza nella storia è vincolata a un inef-
fabile Premio. La vita di quaggiù è una realtà in gestazione che
prepara un'esistenza oltre il tempo, dove il «non-ancora» com-
pleterà il « già » con la pienezza della felicità nella Casa di
Dio.
La coscienza del Premio deve far esclamare, anç,he noi e quo-
tidianamente: « Tanto è il bene che mi aspetto che ogni pena
mi è diletto »!
12.6. UTOPIA DA DEMITIZZARE?
Oggi, purtroppo, si parla poco di Premio e di Paradiso.
Qualcuno può credere che sia un argomento ormai svalutato
o da demitizzare. Certo, dobbiamo anche in questo essere critici
ed evitare certe espressioni o maniere di dire, perché non ge-
nuine e aliene alla cultura di oggi. Però la realtà del Paradiso
appartiene al patrimonio cristiano; quindi dobbiamo difenderne
la sostanza, dobbiamo approfondirla in quanto oggetto di fede,
di speranza, di carità e non di fantasia; soprattutto dobbiamo
farne elemento dinamico del nostro spirito salesiano.
Ascoltiamo san Paolo: « Siate sempre lieti. Appartenete al
Signore. Lo ripeto, siate sempre lieti. Vedano tutti la vostra bon-
tà. Il Signore è vicino! » (Fil 4,4-5).
Sì, care sorelle, il Signore, come dice l'Apocalisse, è « Co-
lui che viene ». Non possiamo dire, come fanno alcuni, che la
Parusia avverrà sul Monte Bianco nel 1987, no; non sappiamo
quando, però sappiamo che il Signore è sempre « Colui che
viene » e che per noi non passeranno 50 anni senza che speri-
mentiamo la nostra pasqua: desiderate pure di vedere il due-
mila, ma certo il tremila non lo vedrete.
Dunque: « Il Signore è vicino! - dice san Paolo - . Non
angustiatevi, ma rivolgetevi a Dio, chiedetegli ciò di cui avete bi-
sogno e ringraziatelo. La pace di Dio, che è più grande di quan-
to si possa immaginare, terrà i vostri cuori e i vostri pensieri
uniti a Cristo Gesù. Infine, fratelli, prendete in considerazione
tutto ciò che è vero, ciò che è buono, che è giusto, puro, degno
di essere amato e onorato; ciò che viene dalla virtù ed è degno
di lode. Mettete in pratica quello che avete imparato, ricevuto,
222

23.5 Page 225

▲back to top
udito e visto in me. E Dio, che dà la pace, sarà con voi »
(Fil 4,8-9).
Ecco il grande orizzonte aperto sul nostro capo dal diamante
del Premio. Sentiamo di nuovo san Paolo, che rifuggiva dai miti
e dalle utopie, esprimersi al riguardo: « Io penso che le soffe-
renze del tempo presente non siano assolutamente paragonabili
alla gloria che Dio ci manifesterà. Tutto l'universo aspetta con
grande impazienza il momento in cui Dio mostrerà il vero volto
dei suoi figli. Il creato è stato condannato a non aver senso,
non perché esso l'abbia voluto, ma a causa di chi ve lo ha
trascinato » (Rm 8,18-20).
È morto da poco il poeta Montale, il « premio Nobel » della
letteratura italiana. Il « Corriere della sera » lo ha commemorato
pubblicando, tra altre, anche una piccola sua poesia sulla morte:
mi è sembrato un grido di disperazione. Così succede, in defini-
tiva, a chi non palpita con gli orizzonti della fede : più si vive
e più ci si accorge che questa vita, da sola, non ha senso. Deve
essere tremendo arrivare a 85 anni con una conclusione tanto
introversa e negativa! Vedete che la cultura immanentista non
ha gli orizzonti del Premio né il firmamento del Paradiso.
« Vi è però una speranza - continua san Paolo - : anch'es-
so [il creato] sarà liberato dal potere della corruzione per parte-
cipare alla libertà dei figli di Dio. Noi sappiamo che fino a ora
tutto il creato soffre e geme come una donna che partorisce. E
non soltanto il creato, ma anche noi, che già abbiamo le primi-
zie dello Spirito, soffriamo in noi stessi perché aspettiamo che
Dio, liberandoci totalmente, manifesti che siamo suoi figli. Per-
ché è vero che siamo stati salvati, ma soltanto nella speranza. E
se ciò che si spera si vede, non c'è più speranza: evidentemente
nessuno spera in ciò che già vede. Se invece speriamo in c10
che non vediamo ancora, lo aspettiamo con pazienza » (Rm
8,20-25).
Dobbiamo saper valorizzare di più l'importanza che ha, in una
spiritualità, la coscienza sicura del Premio. San Paolo non scrive
come letterato, ma come testimone della vita nello Spirito; ep-
pure la sua è vera pòesia, perché tutto ciò che è bello e grande
e divino è suprema poesia!
Penso all'ambiente di Valdocco e di Mornese, con gente sem-
plice, ragazzi e ragazze senza maggior cultura, e li metto in pa-
223

23.6 Page 226

▲back to top
ragone con certi poeti ·del pess1m1smo, con certi uomini della
tecnica o della politica, imbevuti di materialismo. Questi, famosi
e potenti, appaiono sui giornali, sullo schermo televisivo, sem-
brano i padroni della storia, ma poi si seccano e cadono, come
le foglie di autunno. Quelli, invece, piccoli e poveri, sono co-
stituiti come profeti dei tempi. È magnifico contemplare uno
spirito o una pedagogia che in un ambiente tanto umile e di
semplice familiarità, però con realismo audace e tràscendente,
costruisce nel cuore umano l'ottica del Paradiso, che dà signifi-
cato alla propria vita e a tutta l'esistenza. Dice di più al mon-
do d'oggi un povero pastorello, come Francesco Besucco, che
tànte personalità pubblicizzate dai mezzi di comunicazione, divi
dell'ora che passa, ma vuoti di Paradiso.
Quindi il diamante del « Premio » ci presenta uno degli
elementi caratteristici e dinamici del nostro spirito. Curiamone
la · coscienza e sviluppiamone l'intensità: « Dovete attendere
- dice san Pietro - l'arrivo del giorno di Dio, e fare in modo
che possa venire presto ... Dio ci ha ptomesso cieli nuovi e una
nuova terra, dove tutto sarà secondo la sua volontà. Questo noi
aspettiamo» (2 Pt 3,12-13).
12.7. MARIA ASSUNTA IN CIELO!
E concludiamo con Maria! In Essa scorgiamo - l'abbiamo già
fatto osservare - la realizzazione del Premio. Cristo e Maria, i
due risuscìtati ci mostrano il Paradiso ritrovato. Maria incarna
in sé l'attrattiva e la concretezza del Premio: Essa, « l'Immaco-
lata Vergine -[ .. .] finito il corso della sua vita terrena, fu assun-
alla celeste gloria col suo corpo e con la sua anima, e dal
Signore esaltata come la Regina dell'universo, perché fosse più
pienamente conformata al Figlio suo, il Signore dei dominanti,
il vincitore del peccato e della morte » {LG 59).
Io voglio mettere sulla sUa bocca alcune espressioni esplose
dal cuore di san Paolo. Siccome sono ispirate dallo Spirito San-
to, Sposo di Maria, certamente le condivide pienamente anche
lei. Sono parole che scolpiscono arditamente, con vigore, il sen-
so di una coscienza cristiana del Premio. Ascoltiamole come
se le pronunciasse la Madonna:
224

23.7 Page 227

▲back to top
« [ ... ] Gesù Cristo è morto. Anzi, egli è risuscitato, e ora si
trova accanto a Dio, dove sostiene la nostra causa. Chi ci sepa-
rerà dall'amore di Cristo? Sarà forse il dolore o l'angoscia? La
persecuzione o la fame o la miseria? I pericoli o la morte vio-
lenta? La Bibbia così dice: "Per causa tua siamo messi a morte
ogni giorno e siamo trattati come pecore portate al macello".
Ma in tutte queste cose, noi otteniamo la più completa vittoria,
grazie a Colui che ci ha amati. Io sono sicuro che né morte né
vita, né angeli né altre autorità o potenza celeste, né il presente
né l'avvenire, né forze del cielo né forze della terra, niente e nes-
suno ci potrà strappare da quell'amore che Dio ci ha rivelato
in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,34-39). Amen!
225

23.8 Page 228

▲back to top
13
LO SPIRITO SALESIANO
NELLA CRISI E NEL RINNOVAMENTO
Concludiamo queste nostre meditazioni nella festa dell'Esal-
tazione della Croce. I Vespri di ieri e la liturgia di oggi ci han-
no immersi nelle profondità pasquali della Croce.
13.1. IL TROFEO DELLA CROCE
Più che pensare alle due chiese fatte costruire da Costantino
sul Calvario e sul Sepolcro, o alla riconquista delle reliquie del-
la Croce nel secolo VII ad opera dell'imperatore Eraclio, noi
guardiamo alla Croce come a un paradossale « trofeo ».
Trofeo è una parola greca che indica il luogo della sconfitta
del nemico, dove si riuniscono le spoglie dei vinti ergendole a
segno di vittoria. La croce, strumento di supplizio e di umilia-
zione, è divenuta appunto il grande segno della vittoria sul
male. Il segno che proclama l'espressione massima dell'amore:
nessuno può amare di più di quanto proclami l'evento della
Croce!
Perciò meditiamo i differenti momenti di questo evento: la
passione, la morte e, vincolata con la Croce, anche la risurre-
zione, tutto il mistero della Pasqua del Signore, come un proces-
so che va oltre la Croce, ma che la contiene come un dato stori-
camente indispensabile per la realizzazione del magnifico disegno
del Padre.
13.2. UN TEMPO DI OSCURITÀ
La Croce c'invita a centrare la nostra riflessione sull'ora della
debolezza e della « kénosis » nel mistero della Pasqua: l'orto
226

23.9 Page 229

▲back to top
degli ulivi, e poi la dolorosa notte, il viaggio al Calvario, la
crocifissione e la morte. In quest'ora, che potremmo definire del-
l'oscurità e della crisi, noi guardiamo ai primi discepoli, a Pie-
tro (che sarebbe poi stato il Papa) e agli apostoli (le future co-
lonne della Chiesa). Non avevano ancora ricevuto lo Spirito
Santo, non era ancora nata la Chiesa di Pentecoste, ma c'erano
già i membri che dovevano costituirla; erano stati preparati e
formati dal Maestro.
Ebbene: come si comportano in quell'ora difficile? Dimostra-
no disorientamento; i discepoli scappano e Pietro rinnega il
Signore. Gesù gli aveva detto che lo avrebbe rinnegato ed egli
non l'aveva ammesso, anche se il Signore aveva soggiunto: « Ma,
ricordati, quando sarai tornato a me dovrai dar forza ai tuoi fra-
telli », « confirma fratres tuos » ! (Le 23 ,32), quasi a indicare che
l'esperienza dell'oscurità e della debolezza gli sarebbe servita nel
suo futuro ministero.
Questa è divenuta la missione di Pietro, dei suoi successori,
dei pastori, degli Apostoli e dei loro successori: « dar forza ai
fratelli »! Ed è un po' tutta la missione di coloro che eserci-
tano in una comunità cristiana il servizio dell'autorità: « dar
forza ai fratelli » .
Dunque: la Croce comporta un'ora di smarrimento. Evitiamo
di essere troppo facili nell'emettere giudizi su Pietro, sugli Apo-
stoli e sui discepoli nell'ora della massima prova.
Noi, oggi, in questo scorcio del secolo XX, viviamo pure un'ora
di prova e di oscurità. Guardiamo la vita religiosa, l'esercizio del
sacerdozio, la condotta dei fedeli nelle diverse regioni. Percepia-
mo una crisi globale con parecchie insicurezze ed ansie. C'è qual-
cuno che non le sente? Deve essere un marziano che vive fuori
della storia.
È un'ora di trapasso e di difficoltà, che ci fa sentire un po'
in sintonia con quanto hanno sperimentato Pietro e gli Aposto-
li di fronte agli eventi della Croce.
13.3. IL MANTO SDRUCITO
Abbiamo riflettuto in questi giorni sui diamanti del Personag-
gio maestoso del sogno di Don Bosco. Ne abbiamo meditato gli
227

23.10 Page 230

▲back to top
aspetti positivi. Ma il sogno presenta anche un'altra scena: ne-
gativa e deprimente. Il Personaggio è mesto, Don Bosco piange,
i j,resen.ti sono sgomenti.
«.In mezzo a quel bagliore - si legge nel sogno - apparve
di nuovo il Personaggio di prima, ma con aspetto malinconico
simile a colu_i che incomincia a piangere. Il manto era divenuto
scolorato, tarlato e sdru'cito. Nel sito dove stavano fissi i dia-
manti eravi invece un profondo guasto cagionato dal tarlo e da
altri piccoli insetti. [ ... ] A quella vista fummo tutti spaventati.
Don Lasagna cadde svenuto. Don Cagliero divenne pallido come
una camicia, e appoggiandosi sopra una sedia gridò: "Possibile
che le cose siano già a questo punto?". Dori Lazzero e don Gui-
dazip stavano come fuori di sé e si porsero la mano per non
cadere . Don Francesia, il Conte Cays, don Barberis e don Le-
veratto erano chini ginocchioni pregando con la corona del
santo Rosario. In quel momento si fece intendere una cupa voce:
"Come è svanito quello splendido colore! " ».
Questa scena raccapricciante più che una profezia è un monito;
così almeno speriamo. Però di fatto, l'ora storica in cui vivono
la Chiesa e gli Istituti religiosi oggi, e anche la nostra Famiglia
salesiana, è un'ora di disorientamento e di angustia. Quante
defezioni, quanta carenza di vocazioni, quante idee che scom-
bussolano e sembrano intaccare la genuinità della vita religiosa!
Si tratta di un'ora di passione, non perché ci flagellino le
membra o ci mettano in testa la corona di spine, ma perché
noi stessi ci siamo lasciati abbagliare dai cambiamenti e non
sappiamo più con chiarezza che cosa fare. È un aspetto della
nostra attuale croce: non un tronco di legno con dei chiodi, ma
una giornata buia della nostra esistenza.
13.4. SAPER ILLUMINARE E DARE FORZA
Ebbene, voi, care capitolari, siete riunite qui per dar forza
alle sorelle. Per fortuna viviamo nell'epoca dello Spirito Santo.
Egli è già venuto alla Chiesa e a noi; partecipiamo della missione
ministeriale di Pietro dopo la Pentecoste. I superiori ricevono
228

24 Pages 231-240

▲back to top

24.1 Page 231

▲back to top
dallo Spirito del Signore una grazia speciale per poter illuminare,
per poter dar forza. Dobbiamo saper mettere tutte le nostre ca-
pacità a disposizione di questa grazia.
Lo Spirito Santo non suole fare miracoli direttamente; si ser-
ve di noi per affrontare le difficoltà; e noi dobbiamo divenire
oggi degli animatori che conoscono le linee portanti della vo-
cazione religiosa e salesiana; che sanno capire il mistero della
pazienza in un'ora difficile della storia; che sanno difendere, se è
il caso, la qualità e l'identità del carisma, più in là della quantità
dei membri e delle opere.
È indispensabile curare la genuinità dello spirito o dell'indole
propria, anche se dovessimo rimanere diecimila per parte (.. .che
Dio non lo voglia!). Quando i nostri primi erano cento, due-
cento, cinquecento forse c'era più genuino spirito salesiano nel
mondo: infatti per rinnovarci guardiamo alle origini!
Un modo di assumere questa croce di un'ora di crisi è quello
di saper presentare ai nostri fratelli e alle nostre sorelle la bel-
lezza e l'integrità della vocazione salesiana, la vera fisionomia
del suo spirito per poter affrontare le difficoltà con lungimi-
ranza.
Il giovanetto che lancia quel messaggio tanto positivo alla fine
del sogno, ci esorta appunto a conoscere e a meditare i contenuti
dei dieci diamanti. Non solo a conoscerli, ma a meditarli in-
tensamente per proiettarli nella vita: « Questo sia oggetto della
meditazione al mattino, a mezzogiorno, alla sera! ».
In questo momento di crisi abbiamo bisogno di essere rifles-
sivi sulla nostra identità. È un compito che abbiamo cercato di
svolgere, almeno in parte, durante questi giorni, servendoci di
uno strumento lasciatoci dallo stesso Don Bosco . Ora, nei la-
vori capitolari, avrete il grave compito di farlo in forma più
ampia e totale, attraverso la revisione e la redazione conclusiva
del progetto della vocazione salesiana descritto nelle Costitu-
zioni. Bisogna dedicarsi a lavorare, non solo con tutto il cuore,
ma con serietà, con competenza, con fedeltà, nel dialogo, nella
preghiera, nella ricerca sofferta e irrinunciabile di sincera con-
vergenza verso l'unanimità . Il vostro lavoro, se ben fatto, met-
ter~ la base più sicura per il delicato e urgente ministero del
« confirma fratres tuos ».
229

24.2 Page 232

▲back to top
13.5. DUE SUGGERIMENTI DEL SOGNO
Alla conclusione degli Esercizi si suole lasciare dei « ricordi ».
Ebbene: ne possiamo trovare due, esigenti e concreti, nello
stesso sogno.
« Ascoltate bene e intendete », dice il giovane del messaggio;
e ci dà due avvisi o suggerimenti.
- Il primo si riferisce alla serietà della ricerca e jormazione
delle vocazioni: « Siate oculati nell'accettare i novizi, forti nel
coltivarli, prudenti nell'ammetterli. Provateli tutti, ma tenete
soltanto ciò che è buono. Mandate via i leggeri e volubili».
Io ve lo lascio come impegno in un momento di poche voca-
zioni. Ecco, il primo ricordo è la cura pastorale, vocazionale,
dell'iniziazione alla vita salesiana. L'ora difficile che viviamo,
illuminata dalla globalità di questo sogno, ci consiglia di non
essere faciloni; non risolveremo il futuro dell'Istituto con la
quantità, preoccupati solo di incrementare il numero per mante-
nere le opere: lo risolveremo con autentici figli e figlie di Don
Bosco che vivono in pienezza, con gioia, con autenticità la
vocazione salesiana.
- Il secondo si riferisce alla formazione permanente. Il gio-
vane proclama: « Ascoltate bene e intendete: la meditazione
del mattino e della sera sia costantemente sull'osservanza delle
Costituzioni. Se ciò farete, non vi verrà meno giammai l'aiuto
dell'Onnipotente. Diverrete spettacolo al mondo e agli Angeli
e allora la vostra gloria sarà gloria di Dio ».
· Ecco l'altro ricordo: impegnarsi per la formazione perma-
nente! E la formazione permanente ha come contenuto, come
p:reoccupazione centrale il progetto della nostra vocazione de-
scritto nelle Costituzioni. Non si deve fare semplicemente un
aggiornamento culturale, ma un rinnovamento in tutta la forma-
zione salesiana, una specie di secondo noviziato ripreso in attua-
lità e profondità. E il contenuto di tale attualità e profondità
è il progetto salesiano, formulato nelle Costituzioni.
E l'« osservanza » delle Costituzioni ormai non può più iden-
tificarsi con la semplice obbedienza legale a delle norme. Il
Concilio ha rinnovato la natura stessa delle Costituzioni, quindi
2 30

24.3 Page 233

▲back to top
ha sublimato anche il concetto di « osservanza ». Si tratta di
percepire e vivere i contenuti vitali delle Costituzioni, sentirsi
lanciati nell'orbita del progetto del Fondatore e lasciarsi per-
. meare quotidianamente dal suo « spirito ».
In definitiva si tratta, per noi, di riattualizzare con genuinità,
in ogni cosa, lo spirito di Don Bosco.
13.6. ADEGUATA RICOMPRENSIONE
DELLO SPIRITO SALESIANO
I due suggerimenti del giovane del sogno scelti a ricordo con-
clusivo delle nostre meditazioni esigono, come condizione previa
ad una più feconda pastorale vocazionale e ad una più efficace
formazione dei soci, una vera ricomprensione dello « spirito
salesiano » che faccia sentire più intensamente e più comunica-
tivamente il suo fascino. Urge ripensare il nostro spirito in pro-
fondità e in attualità per poter avere più viva l'abilità di co-
municarlo. Don Bosco con il sogno dei diamanti ce ne dà uno
strumento qualificato assai orientativo. Doµ Rinaldi con le sue
osservazioni in proposito ce ne assicura la genuinità e fedeltà
di approfondimento. Le riflessioni che abbiamo fatto in questi
giorni ce ne mostrano l'originalità, la ricchezza di contenuti e
i validi aspetti d_i attualità.
Vale la pena, a questo punto, tratteggiare brevissimamente
una visione d'insieme delle riflessioni fatte per mettere in risalto
i nuclei vitali o i punti strategici che abbiamo analizzato nello
spirito di Don Bosco. Lo facciamo per scoprire meglio il segreto
della sua vitalità ed avere una migliore coscienza di applicazio-
ne concreta della sua organicità.
Concentrerei questo tentativo di sintesi in quattro punti fo-
cali:
1) la scintilla prima di tutto lo spirito salesiano è la mistica
interiore, erompente dal diamante della Carità, posto sul cuore,
come centro vitale della triade teologale (fede, speranza e cari-
tà) e come sorgente inesauribile del « da mihi animas, coetera
tolle »;
231

24.4 Page 234

▲back to top
2) la prassi quotidiana di tale spirito è rappresentata dai due
diamanti posti sulle spalle à reggere il manto: Lavoro e Tempe-
ranza; costituiscono il binomio in cui si concentra nella pratica
il vissuto salesiano :. tutta la vita interiore, tutta la mistica e la
ascesi, tutte le virtù del salesiano s'incarnano praticamente nel-
la sua vita di lavoro e di temperanza;
3) il senso della missione, che emana dal diamante dell'Ob-
bedienza, posto al centro del quadrilatero nella nervatura poste-
riore. Tra noi la disponibilità per la missione dà il tono a tutta
la consacrazione religiosa e si esprime in un concetto creativo,
generoso e familiare dell'obbedienza; essa è all'origine della
stessa comunità, quale soggetto primo della missione, è stimolo
della fraternità come proiezione della comune filiazione, ed è
disponibilità personale concreta e agile, verso chi ha il ministero
di guidare la comunità salesiana in missione;
4) infine, lo splendore della bontà che è una nota originale
vincolata col nome stesso di « salesiano »; viene suggerito dal
diamante della Castità. È uno « splendore » diffuso e attraente
che disimpegna una funzione strategica nello stile salesiano,
pedagogico e geniale, del « farsi amare». Comporta una ascesi
costante e dura contro l'egoismo e la sensualità, al servizio
del dialogo, della convivenza, dell'amorevolezza, della confiden-
za e dell'amicizia, così da infondere un gioioso tono di simpatia
a tutto lo spirito.
Ecco: i tre diamanti del petto sintetizzati nella carità mani-
festano la fonte dello spirito salesiano e invitano a coltivare
l'interiorità soprannaturale come sua linfa di vita e di crescita:
il primato della « scintilla prima »!
La « scintilla prima » deve accompagnare e vivificare la
« prassi quotidiana » per fare del Lavoro e della Temperanza
una espressione concreta della nostra sequela del Cristo. La
«scintilla prima » deve permeare anche il « senso della mis-
sione » perché faccia convergere su di sé i raggi di tutti i va-
lori della nostra consacrazione religiosa. E la « scintilla prima »
deve alimentare infine anche lo « splendore della bontà » per
assicurare la genuinità di quell'amore salesiano che rende capaci
di vivere l'esigente ed efficace Sistema Preventivo di Don Bosco.
232

24.5 Page 235

▲back to top
. In breve, la « scintilla prima » deve creare in ogni salesiano
un « cuore oratoriano » da cui sgorghi spontaneamente e ad ogni
istante l'esclamazione più caratteristica del nostro spirito: « Da
inihi animas, coetera tolle » !
La formazione permanente dovrà, dunque, concentrarsi su
queste note e dare assoluta priorità alla cura della « scintilla
p·rima ».
13.7. LA MISTICA DEL « DA MIHI ANIMAS »
A ciò fare, la formazione deve far rivivere nei cuori la co-
scienza e l'entusiasm_o del « ,Da. mihi animas ».
Vi ho già manifestato, nella spiegazione della strenna dell'an-
no scorso, una mia convinzione: che non c'è nessuna espressione
sintetica che qualifichi meglio lo spirito salesiano di questa
scelta dallo stesso Don Bosco: « Da mihi animas, coetera tolle ».
Essa sta a indicare una ardente unione con Dio che ci fa pe-
netrare il mistero della sua vita trinitaria manifestata storica-
mente nelle missioni del Figlio e dello Spirito quale Amore in-
finito « ad hominum salutem intentus ».
I dieci diamanti del sogno, con la loro descrizione del volto
salesiano e della sua nervatura di spinta, possono essere consi-
derati, nel loro insieme, come un commento autorevole e come
un'analisi penetrante dei grandi contenuti dell'e'spressione scel-
ta dal nostro Fondatore come insegna di tutto lo spirito sale-
siano.
Stiamo meditando, in occasione della festa dell'Esaltazione
della Croce, sui tempi di oscurità e di crisi, sul significato di
quella parte del sogno che ci presenta il Personaggio con il
manto sdrucito, sull'urgenza attuale di rinnovamento e di saper
dar forza ai fratelli , sui suggerimenti lanciati dal giovinetto
circa la pastorale vocazionale e la formazione permanente. Ai
miei confratelli sto ripetendo da tempo che in un'ora di pro-
fonda trasformazione culturale il nemico più grande che può
avere la nostra vocazione è la « superficialità spirituale »: il
grande tarlo dello spirito salesiano è la « superficialità » nella
fede, nella speranza e nella carità!
·
Ebbene: il. rimedio infàllibife contro un così grave pericolo
233

24.6 Page 236

▲back to top
è rilanciare tra noi una vera mistica del « Da mihi animas ».
Prima di concludere vorrei ·insistere sulla indispensabile funzio-
ne vitale di quella « scintilla prima » che sprizza ed erompe
dai tre diamanti del petto; è essa che accende il « Da mihi
ammas ».
Lo « spirito salesiano » è fondamentalmente un'esperienza di
Spirito Santo vissuta nella fede, nella speranza e nella carità,
secondo il progetto evangelico di Don Bosco. La Fede ci fa sen-
tire d'avere una vocazione che soddisfa; la Speranza ci som-
merge in una vocazione che impegna; la Carità, come sintesi
viva della triade, permea tutta la vocazione con l'entusiasmo pro-
fondo di una mistica.
Queste non sono delle semplici frasi belle; esse vorrebbero
far emergere i lineamenti più individuanti e più simpatici del
nostro volto.
- Un salesiano deve far vedere, innanzitutto e a chiunque,
che egli è un discepolo « che crede ;>: ossia che ascolta la Pa-
rola di Dio, che coltiva la dimensione contemplativa, che vive
con gioia la coscienza di filiazione, che sente il coraggio di te-
stimoniare, che guarda globalmente all'esistenza nella luce del
disegno vittorioso del Padre; ha perciò un volto simpatico, ca-
ratterizzato dal « senso globale » del divenire umano, dall'affetto
di « gratitudine » e dall'atteggiamento di « ottimismo ».
- Un salesiano è, inoltre, un discepolo « che spera » dav-
vero: ossia che ha delle chiare certezze (il « già ») mentre è
fortemente operoso nella ricerca (il « non ancora ») e, quindi, ri-
pieno di spirito d'iniziativa e di sacrificio, ricco di sensibilità
pedagogica negli impegni di salvezza, poggiato sulla potenza del-
lb Spirito Santo e fiducioso nella mediazione di Cristo e nel-
l'aiuto di Maria (i due grandi fratelli «risuscitati»!), instanca-
bile nell'azione e nello stesso tempo docile al mistero della pa-
zienza nella storia, capace sempre di partire da zero o di inco-
minciare da capo, più attentb ai semi del bene che· alle istanze
del male e ai crolli della caducità; ha perciò un volto simpatico,
èaratterizzato dalla « gioia » di chi lavora con il Vincitore « che
viene», dall'« ardimento della magnanimità» nei progetti da rea-
lizzare, da un'umile e santa « premura » non frenata da nessun
perfezionismo nell'attesa dinamica della Parusia.
234

24.7 Page 237

▲back to top
- Un salesiano è, infine, un discepolo « che ama secondo
un tipo peculiare di carità: ossia che ha un continuo tratto di
amicizia con Dio che lo fa essere orante più in là delle prati-
che di pietà, che lo fa dimentico di sé e portatore dell'amore di
Cristo nell'estasi dell'azione, che gli infonde un acuto senso
della Chiesa nel mistero della sua missione, che gli dona il ca-
risma della predilezione verso la gioventù, che lo arricchisce
quotidianamente con la « grazia di unità » nelle tensioni tra Dio
e gli uomini, tra Chiesa e mondo, tra evangelizzazione e promo-
zione umana, tra consacrazione e secolarità; ha perciò un volto
simpatico, caratterizzato dalla « carità pastorale e pedagogica»,
dalla « bontà » come espressione della benignità e delicatezza
umana del Cristo, da una « vita attiva testimone di unione con
Dio».
Questi affascinanti lineamenti del volto salesiano sono come
il fuoco del roveto che non si consuma; esso arde nel cuore
oratoriano provocato da quella « scintilla prima » che gli fa
esclamare con assoluta sincerità: « Da mihi animas, coetera
tolle ».
13.8. IL VERTICE DELLA PREGHIERA
Non dimentichiamo però, care sorelle, che una tale mistica è
possibile e cresce solo nell'esercizio della preghiera, così come
fecero sempre Don Bosco e madre Mazzarello.
Un « esercizio » costante e ben curato; un esercizio che ha
dei ritmi di ritiro , di pratiche di pietà, di silenzio, di riflessione,
di revisione di vita; un esercizio che ha una nostra metodologia
con le sue esigenze concrete.
Una « preghiera », però, che è autentico respiro dell'anima;
che precede e trascende le pratiche di pietà e le pervade; che
è dialogo sincero e spontaneo con Dio; che è espressione quo-
tidiana e suprema della propria persona; che è la perfezione
dell'amore in quanto dinamismo vivo della carità teologale.
Ricordate quella bella affermazione di san Francesco di Sales:
l'uomo è la perfezione dell'universo; l'amore è la perfezione
235

24.8 Page 238

▲back to top
dell'uomo; la carità è la perfezione dell'amore. Ebbene: la
preghiera è davvero la perfezione della carità!
Ma per capire bene questa affermazione dobbiamo assicurare
al termine « preghiera » il significato pregnante che ha speri-
mentato e descritto la grande Teresa d'Avila, dottore della Chie-
sa . La sua descrizione è particolarmente qualificata perché è
stata portatrice nel Popolo di Dio di uno specialissimo « cari-
sma di preghiera ».
Per santa Teresa la preghiera è innanzitutto un tratto di ami-
cizia personale con Dio.
Nella sua Autobiografia, al cap. 8, dice: « La preghiera meri.-
tale non è altro che un far pratica di amicizia trovandosi spesso
soli con Chi si ama ».
Inoltre la preghiera è una specie di « estasi » che allontana
da sé per impegnarsi in ciò che piace al Signore (in Famiglia
noi parliamo di « estasi dell'azione»). Nella sua opera Ca-
stello interiore, al cap. 4, la santa insiste sulla condizione del-
la dimenticanza di sé {« estasi »!): « Se il cuore sta molto con
Lui, si deve ricordare assai poco di se stesso »; « Tutta la
memoria occupata nel contentare Lui e nel cercare il modo di
dimostrargli amore ». E per spiegare questo modo di dimostrar-
gli amore la santa afferma nelle « settime mansioni » del suo
Castello: « Per questo è la preghiera; a questo serve il matrimo-
nio spirituale: che nascano continuamente opere, opere! ». Insi-
ste nell'affermare che bisogna pregare « non per godere, ma in vi-
sta di accumulare forze per servire! ». E inoltre, nientemeno che
orientando le sue monache, esclama: « Credetemi, che Marta e
Maria devono stare insieme e d'accordo per ospitare il Signore,
e averlo sempre con sé, non con un'ospitalità difettosa, che non
si preoccupi di dargli da mangiare! ».
Anche nel Libro delle fondazioni Teresa insiste su un certo
primato della carità operante e pratica (come Don Bosco rac-
com·andava ai nostri Cooperatori la preminenza delle « pratiche
di carità»!); si domanda: « Come si acquista questo amore?»
e risponde apertamente: « Facendo il proposito di agire e di
patire secondo le opportunità... Lasciare di star soli con Lui
godendo dei suoi regali per dedicarsi a una di queste due cose
('' agire" e "patire)" è fargli un piacere ».
Qui ci sarebbe tutto un discorso anche nella nostra vita sul-
236

24.9 Page 239

▲back to top
\\
l'atteggiamento orante non solo nell'« agire » ma anche nel « pa-
tire », che illuminerebbe non poco soprattutto la vita degli am-
malati e degli anziani. Non dimentichiamoci che Gesù Cristo,
come abbiamo già osservato nella meditazione sulla Speranza,
salvò il mondo più con la « passione » che con l'« azione».
Nella nostra Famiglia pensiamo, per esempio, a don Beltrami
e a quanto Don Bosco insisteva sul concetto che gli ammalati
sono « il parafulmine delle nostre case ».
Dunque: urge ricuperare un concetto profondo e genuino di
« preghiera » che, al vertice dell'impegno pastorale e pedago-
gico, sia davvero la perfezione della nostra carità. La forma-
zione sia rivolta a insegnare a pregare salesianamente!
13.9. CON MARIA OLTRE IL CALVARIO
Concludo! Nel celebrare la festa dell'Esaltazione della Cro-
ce siamo invitati a vivere, con coraggio e con prospettiva esca-
tologica, l'attuale ora difficile di oscurità e di crisi in cui ci tro-
viamo immersi. La fede, la speranza e la carità ci fanno con-
templare la Croce stagliata in un firmamento di luce. Il mistero
cristiano, nella sua integrità, comporta senz'altro una zona di
ombra e di passione, ma in un orizzonte dove splende in per-
manenza la risurrezione: « Questa è la vittoria che vince il mon-
do , la nostra fede»! (1 Gv 5,4).
Ricordate che noi guardiamo alla Croce non come a stru-
mento di castigo e simbolo di morte, ma come a trofeo di vit-
toria: « In hoc signo vinces » !
Ebbene: a fianco della Croce sul Calvario troviamo la prima
e più grande credente, Maria. Anche in lei la triade teologale
trova la sua perfezione nel patire. Nell'ora oscura della passione
del Figlio è rimasta aperta al disegno salvifico del Padre com-
partendo maternamente la vocazione di Gesù sul Golgota fino
all'ultimo suo respiro. Maria ha saputo patire perché credeva,
perché sapeva veramente pregare.
Le chiediamo che ci aiuti a « pregare » e a perfezionare la ca-
rità, « scintilla prima » del nostro spirito, come ha fatto lei.
Così sapremo essere fedeli anche nelle ore più oscure, sapremo
evangelizzare la gioventù e dar forza ai fratelli, vivendo e riat-
237

24.10 Page 240

▲back to top
tualizzando quello « spirito salesiano » che Ella stessa, come
Sposa dello Spirito Santo, aiutò a creare nei nostri Fondatori.
Ripetiamo, insieme a tutta la Famiglia Salesiana, quella sup-
plica propria dell'atto quotidiano del nostro affidamento all'Au-
siliatrice:
. « Insegnaci, Tu che sei stata la Maestra di Don Bosco,
ad imitare le sue virtù:
in particolare l'unione con Dio,
la sua vita casta, umile e povera,
l'amore al lavoro e alla temperanza,
la bontà e la donazione illimitata ai fratelli,
la sua fedeltà al Papa e ai Pastori della Chiesa » !
238

25 Pages 241-250

▲back to top

25.1 Page 241

▲back to top
14
IMPORTANZA DEL SOGNO
E SUO TESTO COMPLETO
Quasi come « appendice » alle meditazioni fatte può risultare
utile insistere ancora, brevemente, s.ull'importanza del sogno
meditato e darne il testo completo per un maggior profitto di ri-
flessione personale.
Le tre scene con cui viene presentato il sogno sono vivaci e
provocanti; ci offrono una sintesi agile, personalizzata e dram-
matizzata, dello spirito salesiano. Il messaggio con il suo accu-
rato contenuto comporta certamente, nella mente di Don Bosco,
un importante quadro di riferimento per la nostra identità voca-
zionale. La scelta e presentazione organica di determinate carat-
teristiche è da considerarsi come una autorevole carta d'identità
del volto salesiano; in esse troviamo un abbozzo qualificato del-
la nostra fisionomia . Per questo Don Bosco ci dice che la cura di
questi lineamenti assicura l'avvenire della nostra vocazione nel-
la Chiesa, mentre la loro negligenza e trascuratezza ne distrug-
ge l'esistenza.
14.1. DUE OSSERVAZIONI SUGGESTIVE
Narrando il sogno Don Bosco fa rimarcare due dati.
Il primo, che il 10 settembre era « giorno che Santa Chiesa
consacra al glorioso Nome di Maria ». C'è, quindi, da osservare
(come abbiamo già ricordato) che Don Bosco tiene a sottolineare
l'aggancio mariano di questo suo sogno.
Il secondo, che i Salesiani riuniti a S. Benigno Canavese « fa-
cevano gli Esercizi Spirituali », e a lui sembrava « di passeggiare
coi Direttori ». Ossia, che .il tema trat.tato è specialmente oppor-
23 9

25.2 Page 242

▲back to top
tuno per « tempi forti » di raccoglimento e di approfondimento,
come sono gli Esercizi spirituali, e per animatori particolarmente
responsabili come sono i Superiori. È un sogno offerto ai figli
e alle figlie di Don Bosco in quanto « Salesiani». In esso non si
parla direttamente dei giovani, anche se tutto, evidentemente, è
orientato a loro favore. Il Fondatore parla ai suoi, in casa; ai
suoi, riuniti per riflettere e pregare; ai suoi, in quanto animatori
ed educatori; tratta il fondamentale tema della loro interiorità;
chiede loro una revisione di vita.
14.2. RILIEVO DATO AL SOGNO DA DON BOSCO
Quel sogno impressionò talmente il nostro Padre « che non
si contentò di esporlo a voce, ma lo mise anche per iscritto »
(MB 15,182).
Negli archivi possediamo il suo testo autografo, che don Ceria
non aveva potuto rintracciare per la redazione del volume 15°
delle Memorie Biografiche.
Tale testo è posteriore all'l 1 settembre di alcune settimane;
es~o rivela la preoccupazione personale di Don Bosco per assicu-
rare la conoscenza del sogno e la sua applicazione nella nostra
tradizione vissuta.
La minuta autografa comporta parecchie correzioni e mani-
festa pon solo « le angustie che don Bosco suole provare quando
redige pagine destinate alla divulgazione scritta »,1 ma anche lo
sforzo che egli fa per ricordare con esattezza quello che ha
visto in sogno: uno « sforzo di fedeltà» a quello che lui stes-
so umilmente pensa essere un avviso dall'alto. Don Bosco dà
una misteriosa solennità e una dimensione profetica al sognò
già nella premessa: « La grazia dello Spirito Santo illumini
i nostri sensi e i nostri cuori. Amen».
Da questa « tormentata » minuta don Berto trasse una bella
copia, riveduta poi da Don Boscò stesso; vi aggiunse ancora
una postilla o « promemoria », in cui annota: « Questo sogno
mi durò quasi l'intera notte, e sul mattino mi trovai stremato
1 P. STELLA, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, 2 volu-
mi ,
LAS,
Roma
1981
2
,
II
527.
240

25.3 Page 243

▲back to top
di forze. Tuttavia pel timore di dimenticarmene mi sono levato
in fretta e presi alcuni appunti, che mi servirono come di ri-
chiamo a ricordare quanto qui ho esposto nel giorno della Pre-
sentazione di Maria SS. al Tempio», ossia il 21 novembre.
Osserviamo la sollecitudine di 1Don Bosco: subito prende
degli appunti, e in seguito personalmente redige per iscritto
il sogno. Si vede che lo considera importante! Non è superfluo
anche aggiungere come lui stesso riconosca : « Non mi fu pos-
sibile ricordare tutto » .
Va rimarcato inoltre che anche nella postilla Don Bosco si
rifà, con delicata e insistente attenzione, a una data mariana.
Considerando questa sollecita cura di Don Bosco di non
lasciar cadere in dimenticanza il sogno, giustamente nelle Me-
morie Biografiche don Ceria ha qualificato questo di S. Beni-
gno Canavese come « uno dei sogni più importanti » del nostro
Padre (MB 15,182).
14.3. SUA IMPORTANZA NELLA NOSTRA TRADIZIONE
A S. Benigno Canavese si indica ancor oggi la camera e il
letto ove Don Bosco ebbe il sogno. Si è voluto sempre curarne
la memoria.
Si può dire che quasi immediatamente i contenuti del sogno
sono serviti a orientare la riflessione, la revisione dì vita e la
formazione dei Salesiani.
L'edizione stampata più antica che possediamo ha il titolo
in latino: « Futura Salesianorum· Societatem respicientia... ».
È stata oggetto di conferenze e di predicazioni, soprattutto di
Esercizi spirituali.
Don Albera ne fa un accenno, come di tema familiare, in una
sua celebre lettera-circolare del 1920. È sintomatico che l'argo-
mento in essa sviluppato sia quello di « Don Bosco nostro
modello »! 2
Don Rinaldi ne ha parlato frequentemente e ne scrive più di
una volta negli Atti del Consiglio (allora « Capitolo >>) Supe-
' Lettere circolari di Do,:i Paolo Albera ai Salesiani, Direzione Gene-
rale Opere Salesiane, Torino 1965', p. 370.
241

25.4 Page 244

▲back to top
riore; 3 anzi, ha pubblicato lo stesso sogno ben due volte, nel
1924 {ivi 23, p. 200-203) e nel 1930 (ivi 55, pp. 925-930): la
prima volta riproducendo tutto di seguito il testo a cui abbia-
mo fatto allusione sopra; la seconda volta adattandone la presen-
tazione tipografica, introducendo la traduzione delle espressioni
latine ed eliminando certe date che potevano far perdere attua-
lità al contenuto. E fu distribuita copia del sogno a tutti i
confratelli.
Don Rinaldi pensa che le luci dei dieci diamanti « trovano il
loro naturale, più ampio e genuino commento pratico nelle opere
di S. Francesco di Sales, particolarmente nel "Teotimo", nei
"Sermoni" e nei "Trattenimenti spirituali" » (Atti Capitolo Su-
periore 23, p. 175), che erano cibo quotidiano per la forma-
zione salesiana. Inoltre, in due delle sue circolari più note ha
legato la riflessione dei confratelli sugli insegnamenti del so-
gno alle fonti più altamente qualificate del nostro spirito: pri-
ma, con le Costituzioni, nella ricorrenza del loro giubileo d'oro,
e anche con i Regolamenti da poco riveduti, ossia con quei testi
qualificati e autorevoli che costituiscono quasi « l'anima della
nostra Società » (ivi 23, p. 174ss); inoltre con le nostre Tradi-
zioni più genuine, giacché esse « dànno il colore e imprimono
il carattere alla nostra Società e missione. Se questo colore sva-
nisce, se questo carattere si perde, potremo ancora essere reli-
giosi, ancora educatori praticando puramente la lettera delle
Regole, ma non saremo più salesiani di Don Bosco » (Atti Ca-
pitolo Superiore, 56 p. 933s).
Ne fece poi argomento delle sue conferenze e delle sue pre-
diche, soprattutto negli ultimi anni del suo Rettorato.
Il sogno, dunque, viene presentato da don Rinaldi unita-
mente alle Costituzioni e alle Tradizioni vive, come quadro di
riferimento per fotografare l'identità salesiana.
Anche don Renato Ziggiotti, quinto successore di Don Bo-
sco, ha richiamato l'attenzione dei confratelli su questo sogno
in occasione della Strenna del 1964; egli lo ha distribuito a
tutti e lo ha offerto come un metro accreditato per un processo
di revisione e di conversione, e per una crescita nel delicato
3 Cf Atti Capitolo Superiore 23 (1924) p. 197; 55 (1930) p . 923-924;
56 (1931) p. 933-934; 57 (1931) p. 965.
242

25.5 Page 245

▲back to top
processo di identificazione: « Il sogno dei dieci diamanti -
scriveva - invita a praticare le virtù per noi più essenziali».
A ragione dunque si è potuto affermare di questo sogno che
« è fra quelli più conosciuti e più meditati nella tradizione
salesiana ».4 Io considero utile anche per noi, oggi, tornare a
riflettere costantemente sui significati che ci presenta.
Forse qualcuno, in vista delle esigenze di un certo tipo di
studi, potrà giustamente osservare che « occorre vagliare la
tradizione documentaria dei sogni, prima di accingersi a farne
l'analisi psicologica, teologica e pedagogica». Noi non intendia-
mo evidentemente mettere in questione i livelli scientifici sia
dello studio critico del testo sia della natura specifica dei sogni
di Don Bosco. Ci manteniamo a un livello più alto e più im-
portante, che è quello dell'esperienza viva e qualificata del no-
stro spirito. La vita, infatti, è anteriore ad ogni suo studio, e
gli elementi che la possono nutrire e stimolare devono poter
intervenire ed agire non semplicemente per una ben calibrata
programmazione scientifica (arriverebbe troppo tardi!), ma per
un'autorevole e tempestiva mediazione carismatica; così come
l'hanno fatto, con autorevolezza, Don Bosco e i suoi Successori,
in particolare don Rinaldi, e i loro coilaboratori nella forma-
zione salesiana: ossia, attraverso i canali di trasmissione viva
della nostra esperienza spirituale.
Le seguenti parole di don Rinaldi ci devono far riflettere
al riguardo: il modello presentato dal sogno « lo si studi e si
approfondisca con la meditazione quotidiana: se ne parli in
ogni circostanza; se ne illuminino convenientemente i vari aspet-
ti della visione .. . » (Atti Capitolo Superiore 56, p. 934).
14.4. IL SUO Più ACUTO INTERPRETE: DON RINALDI
Abbiamo già detto che. chi più d'ogni altro sembra aver ri-
flettuto su questo sogno e ne ha fatto spesso tema d'orienta-
mento per tutta la Congregazione è certamente don Filippo Ri-
naldi. Egli era di casa a San Benigno quando Don Bosco fece
4 C. RoMERO, I Sogni di Don Bosco, edizione critica, Elle Di Ci,
Leumann (Torino) 1978.
243

25.6 Page 246

▲back to top
e narrò il sogno; ne riportò perciò una particolare impressione.
Da Rettor Maggiore, terzo successore di Don Bosco, ne scrisse,
come abbiamo detto , varie volte ai confratelli. Sono ancora
molti in Congregazione che intesero direttamente le sue spiega-
zioni. Ad esempio nella predica dei ricordi fatta ai giovani con-
fratelli in formazione a Foglizzo, ai primi dell'estate del 1931,
di cu1 si conservano in archivio alcuni appunti fedeli.
Una diligente lettura dei testi di don Rinaldi lascia intrave-
dere in lui un processo di attenta riflessione e di progressivo
approfondimento. Così negli ultimi suoi interventi egli presenta
una interpretazione originale e organica del sogno, maturata in
ima puntualizzazione penetrante; frutto di lunga meditazione e
di 'assidua osservazione.
Egli afferma più volte che in questo sogno è descritto « il
modello del vero Salesiano » o « del perfetto Salesiano » (Atti
Capitolo Superiore 57, p. 965), quale lo vide Don Bosco, che lo
« tramandò a noi, perché fosse non solo un ricordo, ma la realtà
della nostra vita» (ivi 56, p. 933-934).
Per lui, il Personaggio del manto e la disposizione stessa dei
diamanti, come abbiamo meditato, hanno un loro significato ri-
levante perché concorrono a tracciare il profilo spirituale della
nostra « indole propria ». E questa è un'osservazione di grande
interesse, confermata da quanto affermano circa la specificità di
ogni vocazione gli studiosi delle diverse spiritualità.
· Essendo don Rinaldi uno dei più fedeli testimoni del nostro
spirito salesiano ed avendo espresso le sue riflessioni sul sogno
soprattutto negli ultimi anni di vita come Rettor Maggiore, è
nostra convinzione che egli sia arrivato a questa sua interpre-
tazione come a una maturazione di sintesi, dopo lunga medita-
zione fatta in sintonia e responsabilità vocazionale, non senza
preghiera e forse con qualche speciale luce dall'alto.
14.5. UN SERIO STUDIO
DELLA REDAZIONE DEL TESTO
Abbiamo già ricordato alcune notizie sulla redazione stessa
del sogno da parte di Pon Bosco.
Una Figlia di Maria Ausiliatrice, suor Cecilia Romero, con
244

25.7 Page 247

▲back to top
paziente e valido studio ha curato l'edizione critica di questo e
di alcuni altri sogni (cf nota 4).
· Si trattà di vari sogni fatti da Don Bosco nell'ultimo periodo
della sua vita : 1870-1887.
« Tale circostanza - scrive la Romero a pag. 10 - si riflette note-
volmente sul contenuto dei sogni medesimi.
Il momento storico in cui sono situati, dopo la fine del potere tem-
porale dei Papi, è caratterizzato da un ,profondo cambiamento socio-
politico-religioso. Tra 1 problemi che ne derivano, uno dei più gravi
è quello -d_elle vocazioni religiose e sacerdotali.
Inoltre, per Don Bosco questo è un periodo di ripensamento sulla
sua opera educativa e sulla Congregazione. Essa deve essere rinsaldata
per rispondere alle attese della Chiesa e della società del presente e
dell'avvenire. Pertanto ha bisogno di un vigoroso incremento, anche
per adeguarsi alla rapida e vasta espansione missionaria che caratte-
rizza il secondo Ottocento.
Tale situazione di ripensamento è pure dimostrata da varie opere
che Don Bosco scrisse in questo periodo. Ci basti citare fra le altre:
"Le Memorie dell'Oratorio" (1873-1875), e l'opuscolo sul "Sistema pre-
ventivo" (1877) .
Visti da questa angolazione, i suddetti sogni rivestono tutti una spic-
cata importanza, sia per il contenuto in sé, sia per le loro caratteristi-
che comuni e particolari, che offrono possibilità di analisi in diverse
dimensioni: psicologica , parapsicologica, pedagogica, teologica, storica,
ecc.».
Il sogno dei diamanti è particolarmente importante, come
abbiamo potuto costatare, per la descrizione tipologica dello
spirito salesiano.
Come concludere delle riflessioni fatte e per maggior utilità
di tutti ne trascriviamo il testo. La redazione che pubblichiamo
si rifà alla bella copia di don Berto con le correzioni dello stesso
Don Bosco, confrontata con la prima stesura autografa {cf Ar-
chivio Salesiano Centrale 132. Sogni 5). Abbiamo utilizzato
anche l'edizione critica di Cecilia Romero. Ci siamo permessi:
di tradurre le espressioni latine (come nella pubblicazione
di don Ziggiotti);
di prescindere da alcune date ormai superate (come nella
seconda pubblicazione di don Rinaldi);
e di porre un titolo e dei sottotitoli che ci sembrano più
appropriati, oggi, e che aiutano a presentarlo con maggior
chiarezza e agilità per la sua lettura.
245

25.8 Page 248

▲back to top
14.6. IL TESTO DEL SOGNO
La grazia dello Spirito Santo illumini i nostri sensi e i nostri
cuori. Amen.
AD AM.MAESTRAMENTO DELLA PIA SOCIETA SALE-
SIANA.
Il 10 settembre anno corrente (1881), giorno che S. Chiesa
consacra al glorioso Nome di Maria, i Salesiani, raccolti m
S. Benigno Canavese, facevano gli Esercizi Spirituali.
A. « IL MODELLO DEL VERO SALESIANO » (1 scena)
Nella notte dal 10 all'll, mentre dormivo , la mente si trovò
in una gran sala splendidamente ornata.
Mi sembrava di passeggiare coi Direttori delle nostre case,
quando apparve tra noi un uomo di aspetto così maestoso che
non potevamo reggerne lo sguardo. Datoci uno sguardo, senza
parlare si pose a camminare a distanza di qualche passo da noi.
Egli era così vestito: Un ricco manto a guisa di mantello
gli copriva la persona. La parte più vicina al collo era come
una fascia che si rannodava davanti, ed una fettuccia gli pen-
deva sul petto.
Sulla fascia stava scritto a caratteri luminosi: « La Pia So-
cietà Salesiana », e sulla striscia d'essa fascia portava scritte
queste parole: « Quale deve essere».
Dieci diamanti di grossezza e splendore straordinario erano
quelli che ci impedivano di fermare lo sguardo, se non con
gran pena, sopra quell'augusto Personaggio.
Tre di quei diamanti erano sul petto, ed era scritto sopra di
uno « Fede », sull'altro « Speranza », e « Carità » su quello
che stava sul cuore.
Il quarto diamante era sulla spalla destra ed aveva scritto
·« Lavoro »; sopra il quinto nella spalla sinistra leggevasi « Tem-
peranza».
Gli altri cinque diamanti ornavano la parte posteriore del
manto ed erano così disposti:
uno più grosso e più folgoreggiante stava in mezzo come il
centro di un quadrilatero, e portava scritto « Obbedienza ».
246

25.9 Page 249

▲back to top
Sul primo a destra leggevasi « Voto di Povertà».
Sul secondo più abbasso « Premio».
Nella sinistra sul più elevato era scritto « Voto di Castità ».
Lo splendore di questo mandava una lu~e tutta speciale, .e mi-
randolo traeva ed attaccava lo sguard~ come la .calamita tira
il ferro.
Sul secondo a sinistra più abbasso stava scritto « Digiuno ».
Tutti questi quattro ripiegavano i luminosi loro raggi verso il
diamante del centro.
Alcune massime illustrative
Per non cagionare confusione è bene di notare che questi
brillanti tramandavano dei raggi che a guisa di fiammelle si al-
zavano e portavano scritte qua e colà varie sentenze:
Sulla Fede si elevavano le parole: « Imbracciate lo scudo della
fede affinché possiate lottare contro le insidie del demonio ». Al-
trò raggio aveva: « La Fede senza le opere è morta. Non chi
ascolta, ma chi pratica la legge possederà il regno di Dio ».
Sui raggi della Speranza: « Sperate nel Signore non negli uo-
mini. I vostri cuori siano sempre intenti a conquistare la vera
gioia».
Sui raggi della Carità eravi: « Portate gli uni i pesi degli altri,
se volete compiere la mia legge. Amate e sarete amati. Ma amate
le anime vostre e le altrui. Recitate devotamente l'ufficio divino,
celebrate la santa Messa con attenzione, visitate con amore il
Santo dei Santi ».
Sulla parola Lavoro eravi: « Rimedio alla concupiscenza; ar-
ma potente contro tutte le tentazioni del demonio ».
Sulla Temperanza: « Il fuoco si spegne se togli la legna. Fa'
un patto con i tuoi occhi, con la gola e col sonno, affinché tali
nemici non depredino le vostre anime. Intemperanza e Castità
non possono stare insieme >>.
·
· Sui raggi dell'Obbedienza: « È la base e il coronamento del-
l'edificio della santità».
247

25.10 Page 250

▲back to top
Sui raggi della Povertà: « È dei poveri il regno dei Cieli. Le
ricchezze sono spine. La povertà non si vive a parole, ma con
l'amore e con i fatti. Essa ci apre le porte del Cielo » .
. . Sui raggi della Castità: « Tutte le virtù si accompagnano ad ·
essa. I mondi di cuore vedono i segreti di Dio e contempleranno
Dio stesso ».
Sui raggi del Premio: « Se vi attrae la grandezza dei Premi,
non vi spaventi la quantità delle fatiche. Chi soffre con Me,
con Me godrà. È momentaneo ciò che soffriamo sulla terra,
eterno è ciò che farà gioire i miei amici nel Cielo ».
Sui raggi del Digiuno: « È l'arma più potente contro le in-
sidie del demonio. È la sentinella di tutte le virtù. Col digiuno
si scaccia ogni sorta di nemici » .
Autorevole monito
Un largo nastro a color di rosa serviva d'orlo nella parte in-
feriore del manto, e sopra questo nastro era scritto: « Argo-
mento di predicazione. Al mattino, a mezzogiorno e a sera. Fate
tesoro delle piccole azioni virtuose e vi costruirete un grande
edificio di santità. Guai a voi che disprezzate le piccole cose.
Poco a poco andrete in rovina » .
Fino allora i Direttori erano chi in piedi, chi ginocchioni, ma
tutti attoniti e niuno parlava. A questo punto Don Rua come
fuor di disse: « Bisogna prendere nota per non dimenticare » .
Cerca una penna e non la trova; cava fuori il portafoglio, fruga
e non ha la matita. « Io mi ricorderò », disse Don Durando.
« Io voglio notare », aggiunse Don Fagnano, e si pose a scrivere
col .gambo di una rosa. Tutti miravamo e comprendevamo la
scrittura. Quando Don Fagnano cessò di scrivere, Don Costa-
magna continuò a dettare così: « La Carità capisce tutto, sop-
porta tutto, vince tutto; predichiamola colle parole e coi fatti » .
B. « IL ROVESCIO DEL VERO SALESIANO » (2a scena)
Mentre Don Fagnano scriveva, scomparve la luce e tutti ci
trovammo in folte tenebre. « Silenzio - disse Don Ghivarel-
248

26 Pages 251-260

▲back to top

26.1 Page 251

▲back to top
lo - inginocchiamoci, preghiamo, é la luce verrà ». Don Lasa-
gna cominciò il « Veni Creator », poi il « De Profundis », « Ma-
ria Auxilium ecc. », cui tutti rispondemmo.
Quando fu detto: « Ora pro nobis », riapparve una luce, che
circondava un cartello su cui leggevasi : « La Pia Società Sale-
siana quale corre pericolo di diventare ». Un istante dopo la
luce divenne più viva a segno che potevamo vederci e cono-
scerci a vicenda.
In mezzo a quel bagliore apparve di nuovo il Personaggio di
prima, ma con aspetto malinconico simile a colui che comincia
a .piangere. Il manto era divenuto scolorato, tarlato e sdrucito.
Nel sito dove stavano fissi i diamanti eravi invece un pro-
fondo guasto cagionato dal tarlo e da altri piccoli insetti.
« Guardate - Egli ci disse - e intendete ».
Ho veduto che i dieci diamanti erano divenuti altrettanti
tarli che rabbiosi rodevano il manto.
Pertanto al diamante della Fede erano sottentrati: « Il sonno
e l'accidia ».
Alla Speranza eravi: « Risate e banalità sconce ».
Alla Carità: « Negligenza nel darsi alle cose di Dio. Amano
e cercano i gusti propri, non gli ideali di Gesù Cristo ».
Alla Temperanza: « Gola: loro dio è il ventre ».
Al Lavoro: « Il sonno, il furto e l'oziosità».
Al posto dell'Obbedienza eravi niente altro che un guasto
largo e profondo senza scritto.
Alla Castità: « Concupiscenza degli occhi e superbia della
vita».
Alla Povertà era succeduto: « Letto, vestito, bevande e de-
naro».
Al Premio: « Nostra eredità saranno i beni della terra».
Al Digiuno eravi un guasto, ma niente di scritto.
A quella vista fummo tutti spaventati. Don Lasagna cadde
svenuto. Don Cagliero divenne pallido come una camicia, e ap-
poggiandosi sopra una sedia gridò: « Possibile che le cose siano
già a questo punto? ». Don Lazzero e Don Guidazio stavano
come fuori di sé, e si porsero la mano per non cadere. Don Fran-
cesia, il Conte Cays, Don Barberis e Don Leveratto erano quivi
ginocchioni pregando con in mano la corona del SS. Rosario.

26.2 Page 252

▲back to top
In quel momento si fe' intendere una cupa voce: « Come è
svanito quello splendido colore! » .
C. MESSAGGIO DI UN GIOVANE (3a scena)
Ma all'oscurità succedette un fenomeno singolare.
In un istante ci trovammo avvolti in folte tenebre, nel cui
mezzo apparve tosto una luce vivissima, che aveva forma di
corpo umano. Non potevamo tenerci sopra lo sguardo, ma po-
temmo scorgere che era un avvenente giovanetto vestito di abito
bianco lavorato con fili d'oro e d'argento. Tutto attorno all'abito
vi era un orlo di luminosissimi diamanti.
Con aspetto maestoso, ma dolce ed amabile si avanzò alquanto
verso di noi e èi indirizzò queste parole testuali:
« Servi e strumenti di Dio Onnipotente, ascoltate e intendete.
Siate forti e animosi.
Quanto avete veduto e udito è un avviso del Cielo, inviato
ora a voi e ai vostri fratelli; fate attenzione e intendete bene
quello che vi si dice.
I colpi previsti fanno minor ferita e si possono prevenire.
Quante sono le idee indicate, tanti siano gli argomenti di
predicazione. Predicate incessantemente, a tempo e fuori tempo.
Ma le cose che predicate fatele costantemente, sicché le vostre
opere siano come una luce, che sotto forma di sicura tradizione
s'irradii sui vostri fratelli e figli di generazione in generazione.
Ascoltate bene e intendete.
Siate oculati nell'accettare i novizi, forti nel coltivarli, pru-
denti nèll'ammetterli. Provateli tutti, ma tenete soltanto ciò che
è buono. Mandate via i leggeri e volubili.
Ascoltate bene e intendete.
La meditazione del mattino e della sera sia costantemente
sull'osservanza delle Costituzioni. Se ciò farete, non vi verrà
meno giammai l'aiuto dell'Onnipotente. Diverrete spettacolo al
mondo e agli Angeli e allora la vostra gloria sarà gloria di Dio.
Si dirà di voi: Dal Signore è stato ciò fatto, ed è ammirabile
agli occhi nostri. Allora tutti i fratelli e figli vostri canteranno
a una sola voce: Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo Nome
dà gloria».
250

26.3 Page 253

▲back to top
Queste ultime parole furono cantate, ed alla voce di chi par-
lava si unì una moltitudine di altre voci così armoniose, sonore,
che noi rimanemmo privi di sensi, e per non cadere svenuti ci
siamo uniti agli altri a cantare.
Al momento che finì il canto si oscurò la luce. Allora mi
svegliai, e mi accorsi che si faceva giorno.
D. POSTILLA DI DON BOSCO
Questo sogno mi durò quasi l'intera notte, e sul mattino mi
trovai stremato di forze.
Tuttavia pel timore di dimenticarmene mi sono levato in
fretta e presi alcuni appunti, che mi servirono come di richiamo
a ricordare quanto qui ho esposto nel giorno della Presentazione
di Maria SS. al Tempio.
Non mi fu possibile ricordare tutto.
Tra le molte cose ho pur potuto con sicurezza rilevare che il
Signore ci usa grande misericordia. La nostra Società è bene-
detta dal Cielo, ma Egli vuole che noi prestiamo l'opera nostra.
I mali minacciati saranno prevenuti se noi predicheremo sopra
le virtù e sopra i vizi ivi notati; se ciò che predichiamo, lo
praticheremo e lo tramanderemo ai nostri fratelli con una tra-
dizione pratica di quanto si è fatto e faremo.
Maria Aiuto dei Cristiani, prega per noi!
25 1

26.4 Page 254

▲back to top

26.5 Page 255

▲back to top
INDICE
Presentazione
7
Un discorso per tutti
7
Il punto di vista fa il panorama
8
Uno spirito tipico .
10
Fedeltà al Fondatore
13
Oltre il Fondatore .
14
La fedeltà passa per la santità .
16
L'asse spirituale
17
1. Nell'unità dello Spirito Santo
19
1.1. Un'assemblea in ricerca
19
1.2. Meditazioni speciali su un tema adeguato .
19
1.3. Il grande protagonista invisibile : lo Spirito Santo .
21
1.4. Un atteggiamento «spirituale », più che teologico .
25
1.5. Visione sapienziale di sintesi .
26
1.6. Il grande compito per cui siete convocate: le Costituzioni .
27
1.7. Lo spiri to salesiano
29
1.8. Maria ci accompagni .
30
2. Il sogno dei dieci diamanti
32
2.l. La scelta di uno schema appropriato di riflessione
32
2.2. Un sogno che descrive tipologicamente il nostro spirito
34
2.3. Importanza di tale descrizione
37
2.4. Delicato accenno mariano
40
2.5. Il « Personaggio » .
42
2.6. La peculiare disposizione dei diamanti
45
2.7. Precisazioni significative
47
2.8. Un autorevole monito
49
2.9. L'aiuto di Maria
49
3. Primo diamante: la fede
51
3.1 . I cinque diamanti della parte anteriore del manto .
52
3.2. Fede, speranza, carità: i tre dinamismi fondamentali della vita
nello Spirito
52
253

26.6 Page 256

▲back to top
3.3. La fede: coscienza della propria nascita battesimale
54
3.4. Nel cristianesimo la fede ha dimensione storica
56
3.5. Struttura del dinamismo di fede .
59
3.6. Don Bosco: un formidabile credente .
61
3.7. L'orizzonte conglobante della fede cristiana
64
3.8. Maria: colei che ha creduto! .
67
4. Secondo diamante: la speranza .
68
4.1. Intima unione e affinità tra «fede» e « speranza»
68
4.2. Il « già » e il « non-ancora » .
70
4.3. « In speranza noi siamo stati salvati» (Rm 8,24)
74
4.4. Don Bosco, gigante della Speranza .
75
4.5. Elementi costitutivi della speranza
76
4.6. Alcuni frutti della speranza
78
4.7. La devozione all'Ausiliatrice espressione di speranza
83
5. Terzo diamante: la carità
85
5.1. Sul cuore .
85
5.2. La disposizione paolina della triade
86
5.3. Il mistero della carità.
87
5.4. Alcune caratteristiche ·della carità .
90
5.5. La dinamica interna del mistero della carità
92
5.6. La carità di Don Bosco
94
5.7 . Carità e « vita interiore»
96
5.8. Un cuore di mamma .
99
6. Quarto diamante: il lavoro
100
6.1. « Lavoro e temperanza»
100
6.3. Testimonianza profetica per una civiltà del lavoro
105
6.4. Il lavoro come dato oggettivo
107
6.5. Il lavoro come valore soggettivo
110
6.6. « Teologia del lavoro »
111
6.7 . Una spiritualità del lavoro
114
6.8. Qualità del lavoro salesiano
115
6.9. La visita di Maria a Elisabetta
117
7. Quinto diamante: la temperanza
118
7.1. Duplice significato del «mondo»
118
7.2. La temperanza come atteggiamento esistenziale di base
119
7.3. Don Bosco curava una forte pedagogia ascetica
121
7.4. Senso di equilibrio nelle novità socio-culturali .
124
7.5. Prima e più in là della «mortificazione» .
127
7.6. Alcune qualità della temperanza salesiana
130
7.7. Il volto spirituale del Salesiano
132
7.8. Maria nel mistero della croce .
132
254

26.7 Page 257

▲back to top
8. Sesto diamante: l'obbedienza
134
8.1. La nervatura nascosta dello spirito salesiano
134
8.2. Centralità dell'obbedienza
135
8.3 . Di quale obbedienza parliamo
138
8.4. L'originalità e il mistero dell'obbedienza cristiana
139
8.5. L'obbedienza religiosa
142
8.6. Crisi di obbedienza? .
145
8.7. Comunione, animazione e mandato
147
8.8. Alcune esigenze del rinnovamento
150
8.9. Un consiglio di Don Bosco al superiore
154
8.10. L'« Angelus» e l'obbedienza di Maria
156
9. Settimo diamante la povertà
158
9. I. Significati della povertà
158
9.2. La povertà evangelica
160
9.3. Una profezia per il mondo d'oggi
163
9.4. La lezione delle nostre origini
165
9.5. Nuovi apporti culturali
168
9.6. La triplice ottica dei nostri voti
170
9.7. Urgenza di revisione
172
9.8. La povertà di Maria
174
10. Ottavo diamante: la castità
176
10.1. La posizione del diamante
176
10.2. La simpatia della purezza
178
10.3. Senso evangelico dell'amore umano
179
10.4. Alla sequela di Cristo vergine
181
10.5. Una grande energia di spinta
185
10.6. L'attuale divario culturale
186
10.7. Il dono della sessualità .
189
10.8. Verginità e matrimonio .
191
10.9. Importanza della castità nello spirito salesiano
192
10.10. Intelligente insistenza di Madre Mazzarello
195
10.11. Maria Immacolata .
196
11. Nono diamante: il digiuno
198
11.1. Una privazione secondo ragione
198
11.2. Sua importanza biblica ed ecclesiale .
199
11.3. Senso cristiano del digiuno .
200
11.4. Un appello alla « mortificazione »
201
11.5. Partecipazione al mistero della croce .
204
11.6. Problema superato? .
205
11.7. La risposta dello Spirito Santo
207
11.8. Esigenza dello spirito salesiano
209
11.9. L'Addolorata!
209
255

26.8 Page 258

▲back to top
12. Decimo diamante: il premio
21 1
12 .1 . Don -Bosco e l'idea del « paradiso »
211
12.2. La gioia come frutto della presenza del cielo in terra
212
12.3. Un regalo profetico per il mondo attuale
21 4
12.4. Che cos'è il paradiso?
215
12.5. Dimestichezza con gli orizzonti del premio nello spirito sa-
lesiano
219
12.6. Utopia da demitizzare?
222
12.7. Maria assunta in cielo?
224
13. Lo spirito salesiano nella crisi e nel rinnovamento
226
13 .1. Il trofeo della croce .
226
13 .2. Un tempo di oscurità
226
13.3. Il manto sdrucito
227
13.4. Saper illuminare e dare forza .
228
13.5. Due suggerimenti del sogno .
230
13.6 Adeguata ricomprensione dello spirito salesiano
231
13.7. La mistica del « da mihi animas »
233
13.8. Il vertice della preghiera
235
13.9. Con Maria oltre il Calvario .
237
14. Importanza del sogno e il suo testo completo
239
14.1. Due osservazioni suggestive .
239
14.2. Rilievo dato al sogno da Don Bosco .
240
14.3. Sua importanza nella nostra tradizione
241
14.4. Il suo più acuto -interprete: Don Rinaldi .
243
14.5. Un serio studio della redazione del testo .
244
14.6. Il testo del sogno
246
Scuola Grafica Salesiana - Torino 1982

26.9 Page 259

▲back to top

26.10 Page 260

▲back to top
UN PROGETTO EVANGELICO
DI VITA ATTIVA
Questo volume contiene le riflessioni che il Superiore generale dei
Salesiani ha rivolto alle Madri e Delegate dell'Istituto delle Figlie di
Maria Ausiliatrice, convenute a Roma per il loro XVII Capitolo Gene-
rale, in occasione dei loro esercizi spirituali. Non si tratta però di un
discorso privato, perché, al di là di certi richiami di obbligo, queste
riflessioni affrontano i principali temi , attuali e scottanti, della vita
salesiana e di quella relig iosa in generale.
li punto di vista dal quale muovono queste meditazioni è lo stesso che
ha guidato Don Bosco nel suo « sogno del manto » o dei « dieci dia-
manti », che è forse la più completa e organica descrizione tipologica
dello spirito salesiano e dell'indole propria della Congregazione. Se il
sogno dei diamanti descrive la tipologia della santità salesiana perso-
nificata in Don Bosco, il commento che ne fa Don Viganò si risolve in
una proposta e sottoli neatura dello spirito salesiano.
Le meditazioni, complementari l'una all'altra, partono tutte dalle indi-
cazioni del sogno ; si snodano alla luce dei dati qualificanti della Scrit-
tura e della teologia di oggi; danno risalto al modello della vita eroica
di Don Bosco; scendono ad applicazioni concrete immediatamente at-
tuabili; concludono tutte con un delicato riferimento a Maria " ispira-
trice e fondatrice della Congregazione».
ISBN 88-01-14779-1
L. 6.000