RM-Omelia della messa dello spirito santo-UPS Inaugurazione Anno Accademico 05 – 06

UPS Inaugurazione Anno Accademico 05 – 06


OMELIA DELLA MESSA DELLO SPIRITO SANTO

At 2,1-11; Sal 103; 1 Cor 12, 3b-7. 12-13; Gv 20, 19-23

Roma – UPS,19 ottobre 2005


Cari membri della Comunità Universitaria UPS

Rettore, Vicerettori, Decani, Professori, Studenti

Siamo riuniti attorno alla mensa della Parola e dell’Eucaristia per celebrare la nostra fede nel mistero pasquale, aprirci all’ascolto di Dio e invocare il dono dello Spirito su tutti e su ciascuno di noi all’inizio del nuovo anno accademico 2005-2006, che vi auguro ricco di sapienza.

L’inaugurazione di questo anno universitario coincide con la celebrazione del Sinodo dei Vescovi sull’Eucaristia, “fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa”, il che diventa uno stimolo in più per crescere nel senso del mistero, nell’adorazione di Dio, nella comunione del suo Amore, nella trasformazione personale e nell’impegno per la trasfigurazione del mondo.

In questo momento non possiamo non fare memoria del caro Papa Giovanni Paolo II, che aveva indetto l’anno Eucaristico e convocato questo Sinodo, e che avendoci lasciato la sera del sabato 2 aprile di quest’anno 2005 ora è partecipe del banchetto celeste; e del caro Santo Padre Benedetto XVI, che il Signore ha preposto come Pastore della sua Chiesa e sotto la cui autorità si svolge quella grande Assemblea dei Vescovi. Dal primo momento del suo Pontificato egli ci ha invitati a far fronte alla “dittatura del relativismo”, a non cedere alla tendenza di fare della fede una cosa “ad usum privatum” senza nessuna conseguenza nella vita pubblica, ma a proclamare “la verità del Vangelo” ed a presentare il volto bello, giovane della Chiesa e del Cristianesimo, frutto della gioia della redenzione, con la sua proposta culturale alternativa a quella del mondo, in modo che il rapporto con questo non vada mai a detrimento della sua identità e missione, cedendo alla logica mondana in cui il trionfo del positivismo porta ad una crescente dissoluzione ed alienazione. L’unica risposta che ci può liberare da questo disfacimento sociale e dalla dittatura del pensiero è la presentazione del messaggio cristiano con tutta la sua forza liberatrice.

Nell’omelia d’investitura il Papa Benedetto XVI ha descritto la sua visione del mondo al quale Cristo deve essere predicato, un mondo che egli vede come “deserto” dove andare a cercare gli uomini smarriti, e come “mare salato” da cui tirarli fuori “verso la terra della vita, verso la luce di Dio”. Si tratta – secondo il Santo Padre – del deserto della povertà, del deserto della fame e della sete, del deserto dell’abbandono, della solitudine, dell’amore distrutto, del deserto dell’oscurità di Dio, dello svuotamento delle anime senza più coscienza della dignità e del cammino dell’uomo. E “del mare salato di tutte le alienazioni”. Naturalmente queste immagini e queste caratterizzazioni non vogliono indicare che tutto sia oscuro e senza luci, ma sottolineano il bisogno assoluto che l’uomo ha di Dio e della sua salvezza.

I testi biblici presentati dalla liturgia ci parlano proprio della presenza di Dio attraverso il suo Spirito nella Chiesa, come l’origine di una vita comune apostolica la cui missione è la comunicazione del vangelo, come la fonte della diversità e il sostegno dell’unità della comunità credente, come la sorgente del perdono fraterno e della riconciliazione, come energia che alimenta la missione della Chiesa. Applicata alla nostra realtà universitaria, la Parola di Dio ci invita – a mio avviso – a fare della nostra vita accademica occasione per accogliere lo Spirito e i suoi doni, per afferrare la sua sapienza e lasciarci guidare dal suo dinamismo, e così diventare suoi docili ed efficaci collaboratori nella trasfigurazione del mondo. Ma vediamo quale pedagogia ci propone la Parola di Dio.


SPIRITO, VITA COMUNE E COMUNICAZIONE

Il secondo capitolo degli Atti, che è la cronaca del "dies natalis" della Chiesa, ci dice che l’effusione dello Spirito di Gesù sui discepoli genera la prima evangelizzazione ad ogni creatura, rappresentata dagli ebrei venuti in Gerusalemme da tutto il mondo. Dove viene lo Spirito, ivi sorge la Chiesa; non una qualsiasi chiesa però, non una mera organizzazione giuridica o sociale anche se con scopo religioso, ma la Chiesa che nasce dalla comunicazione dello Spirito per la comunicazione del vangelo “in lingue”.

Comunque si voglia interpretare il prodigio delle «lingue», nella intenzione di Luca esso sta certamente a significare la forza «unificante» dello Spirito che porta i discepoli alla comunicazione dell’unica fede, germe dell’unità di tutta la famiglia umana. Lo Spirito opera contemporaneamente su due fronti: nel cuore e sulle labbra degli Apostoli che, inebriati della sua presenza, riescono a trasmettere in forma convincente il Vangelo della salvezza. Lo Spirito si manifesta così in modo sensibile come energia ed efficacia. E il primo effetto della discesa dello Spirito, prima ancora che quello della testimonianza pubblica nella predicazione del vangelo, è la trasformazione degli Apostoli: vengono trasformati da paurosi discepoli in coraggiosi profeti, in modo che la loro fede ha un effetto sociale.

Questo evento si contrappone alla confusione delle lingue avvenuta a Babele. Il dono dello Spirito Santo crea l’unità del linguaggio e con ciò indica l’universalità della missione degli Apostoli e della Chiesa, fino ai confini della terra. A Babele tutti parlano la stessa lingua e, a un certo punto, nessuno più capisce l’altro, nasce la confusione delle lingue e la dispersione dell’unico popolo; a Pentecoste, ognuno parla una lingua diversa e tutti capiscono e diventano un unico popolo nuovo. Quando si pensa a costruire l’Europa senza la religione e senza Dio, si vorrebbe prescindere appunto dallo Spirito, che è quello che crea l’unità nella diversità.

È interessante leggere la realtà odierna alla luce di questi due modelli opposti. Basta osservare di che cosa parlano i costruttori di Babele e di che cosa parlano gli Apostoli a Pentecoste. I primi si dicono tra loro: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome per non disperderci su tutta la faccia della terra» (Gn 11, 4). Questi uomini sono animati da volontà di potenza, vogliono «farsi un nome», ricercano la loro gloria, anticipano e incarnano Prometeo. A Pentecoste gli Apostoli proclamano invece “le grandi opere di Dio”. Non pensano a farsi un nome, ma a farlo a Dio; non cercano la loro affermazione personale, ma quella di Dio. Per questo tutti li comprendono. Dio è tornato ad essere al centro; alla volontà di potenza è subentrata la volontà di servizio, alla legge dell’egoismo quella dell’amore.

Babele e Pentecoste sono due cantieri sempre aperti e in atto nella storia. Ogni iniziativa umana, civile o religiosa, privata o pubblica, è davanti ad una scelta: o essere Babele, o essere Pentecoste. O l’autoaffermazione a scapito degli altri, che porta alla disintegrazione sociale, o l’affermazione dell’altro, che porta all’unità. O la prevalenza dell’egoismo e la manipolazione dell’altro, o il primato dell’amore e il rispetto dell’altro.


SPIRITO, E VITA COMUNE NEL RISPETTO DELLA DIVERSITÀ

Ma lo Spirito non agisce solo nella storia. Anzi, agisce prima nelle persone e nelle comunità dei credenti, quelle che sono chiamate ad offrire un modello alternativo alla cultura imperante. Dopo aver trattato varie questioni nate dalla vita della comunità di Corinto, Paolo si occupa del problema dei carismi. Essendo lo Spirito l’origine dei doni individuali, il suo possesso può creare tensioni dentro la comunità. Tale fu l’esperienza dei Corinzi e Paolo li aiuta nel discernimento: il dono concesso non fa libero colui che lo riceve, ma prova la liberalità del Donatore; pertanto chi non si rende sempre più servo di Gesù, non può illudersi di essere uomo spirituale. D’altra parte, tutti i doni ricevuti comportano altrettanta responsabilità dentro la vita comune: la diversità sta al servizio della comunione. «Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune» (1 Cor 12,4?7).

Appoggiarsi sul possesso dello Spirito, visibile nei suoi doni – qualsiasi questi siano –, per crescere a costo degli altri, significherebbe maltrattare la comunità, sottovalutare lo Spirito e liberarsi dal dominio di Cristo. La salvezza cristiana passa attraverso il servizio alla comunità dei cristiani. La diversità non deve favorire lo scontro né la competizione, ma l’unità e la comprensione. Tutto tende allo stesso fine, all’utilità comune, che è la costruzione della Chiesa, la quale a sua volta è al servizio del mondo, come “luce delle nazioni”.

Siamo dunque davanti ad una «molteplicità» di doni e di servizi, che Dio dispensa alla sua Chiesa: egli è sempre originale, non vuole appiattire i credenti in un unico stampo. È così che nella Chiesa c`è posto per tutti: ognuno porta quello che ha di più tipico; ed è chiaro che per realizzare questa «tipicità», ognuno deve votarsi fino in fondo! Il vivere «insieme» la nostra avventura di fede ci obbliga alla generosità da una parte e, dall’altra, alla continua novità. Quando non tende a costruire il «tutto», il «molteplice» diventa un principio di dissoluzione dell’organismo. Così è nella Chiesa, che nasce solo nella misura in cui i singoli membri si trascendono per convergere in una fondamentale unità di fede, di amore e di opere: al di fuori di questo, i credenti sarebbero come atomi vaganti, incapaci di inserirsi nell’opera della salvezza e di testimoniare Cristo come «capo» del suo «corpo» che è la Chiesa. E mi domando se la perdita di rilevanza sociale della Chiesa qua e là non obbedisca a questa perdita della sua identità e missione.

Certamente il futuro del Cristianesimo in Europa non dipende dal suo passato, pur glorioso, né dalle sue rivendicazioni per quanto ha collaborato nella costruzione dell’edificio attuale, né dalla compattezza delle sue verità, o dall’insieme dei suoi riti, o dall’altezza della sua morale, ma dalla forza della sua testimonianza come comunità di amore, che vive, celebra e comunica la sua fede, dalla sua capacità di servizio specialmente ai più poveri ed emarginati, dalla sua credibile esperienza di Dio, dalla sua vissuta proposta culturale alternativa.

Come liberare gli uomini dal deserto dello smarrimento morale, della menzogna, della tristezza, dell’egoismo, della solitudine, della perdita del senso della vita e della disperazione, e condurli ai pascoli e alle sorgenti della vita? Come tirarli fuori dalle acque insalubri? Solo la gioia di essere credenti, lo stile coerente di vita nuova, e l’impegno per gli altri ci renderà credibili, convincenti e attraenti.


SPIRITO, IL PERDONO COME MISSIONE

La giovinezza e la perenne novità della Chiesa e dell’umanità sono frutto dell’Uomo Nuovo, il Signore Risorto, come racconta il testo di Giovanni, che situa la venuta dello Spirito nello stesso giorno della Resurrezione di Gesù. Alitando il suo Spirito, il Nuovo Uomo dà ai discepoli la missione e la possibilità di essere uomini nuovi e di fare nuova l’umanità col perdono e la riconciliazione.

È stato appunto lo Spirito Santo ad impedire che la Chiesa restasse sinagoga, cioè luogo chiuso per eletti, per persone che non si riconoscono peccatori e non vogliono essere perdonati. Quella Chiesa, scaturita dal Cenacolo, è tentata sempre di rientrarvi e rinchiudervisi di nuovo, di non lasciarsi perdonare, di non avere il perdono come compito. Specie quando - come è adesso - fuori spira vento di contraddizione. E allora, ecco ricomparire i segni della paura: il piccolo gregge, anziché lanciarsi fuori, si rinchiude e si isola, senza nemmeno rendersi conto che non tutti coloro che premono lo fanno solo per abbattere, ma anche per entrare. Solo lo Spirito può ridare coraggio ad ogni svolta della storia e della società, per mettersi alla guida verso nuovi traguardi per il regno di Dio e per l’uomo.

Ma lo Spirito dato da Gesù Risorto significa anche un’altra cosa per noi: è il principio dell’identità, cioè della distinzione dal mondo. Guai se lo dimenticassimo, per cedere alla seduzione del mondo, della sua logica! Egli assicura la fedeltà della Chiesa a Cristo. Fa sì che la nostra causa col mondo sia e resti davvero « la causa di Gesù» (« la verità »!) e non divenga una causa diversa.

Una vita cristiana addolcita, imborghesita, senza slancio, rischia di diventare irrilevante, innocua. Non ha più niente da dire a nessuno. L’uomo d`oggi è un uomo distratto, disincantato, indifferente, abituato a tutto. Proprio per queste sue caratteristiche, va scosso vigorosamente con una testimonianza che sia particolarmente provocante per le sue abitudini.

Dobbiamo recuperare la dimensione « pentecostale, spirituale» della vita cristiana; dobbiamo ricuperare lo Spirito. Non mi preoccupa l’attuale crisi della Chiesa. Ciò di cui ho paura è di una vita cristiana insignificante; e il cristiano non significa nulla, non ha nulla da dire, non dà fastidio a nessuno, quando non è spirituale. Mi viene alla mente, in un contesto eucaristico, il grande discorso di auto-rivelazione di Gesù come “pane di vita eterna”, subito dopo la moltiplicazione dei pani, e la reazione dei suoi discepoli: «Questo linguaggio è duro, chi può intenderlo?». Ecco il “logos scleros”, che diventa controculturale, tanto da provocare una nota editoriale dell’evangelista: “Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con Lui” (Gv 6,60.66).

Il cristianesimo, la nostra fede, non può credere alle soluzioni facili, ai compromessi, alle benevole concessioni, agli ammiccamenti equivoci, al gioco di equilibri, per rimediare ai vuoti. Non può credere all’ampio «sconto» concesso generosamente sul prezzo originario, per allettare il cliente e impedirgli di rivolgersi alla concorrenza. Non può rinunciare, insomma, ai suoi ideali e ridurre le proprie pretese (che sono poi quelle stabilite dal Cristo), arrivare ad amichevoli componimenti e a generose transazioni, pur di recuperare popolarità e rinfoltire le file. Appunto perché la rilevanza della fede oggi dipende dalla sua identità e non dal grado di accoglienza sociale, crediamo nella necessità di un impegno sempre più arduo in questa linea. Occorre giocare al rialzo e osare la chiarezza, ossia dire apertamente chi siamo, che cosa vogliamo, che cosa chiediamo, senza attenuare le pretese ed esigenze.

Finisco facendo un appello accorato a tutta la comunità universitaria UPS ad essere “spirituale”, ad accogliere dunque lo Spirito, sì da unire scienza e sapienza, facendo dell’umiltà la strada per la verità e il servizio.

A Maria, l’esperta dello Spirito, affido tutti e ciascuno di voi. Ella ci insegni a lasciarci guidare e fecondare dallo Spirito.


Don Pascual Chávez V.

Roma, UPS, 19 ottobre 2005