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CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE
ISTRUZIONE
DONUM VERITATIS
SULLA VOCAZIONE ECCLESIALE
DEL TEOLOGO
INTRODUZIONE
1. La verità che rende liberi è un dono di Gesù Cristo (cf. Gv 8, 32). La
ricerca della verità è insita nella natura dellÂÂ’uomo, mentre
lÂÂ’ignoranza lo mantiene in una condizione di schiavitù. LÂÂ’uomo
infatti non può essere veramente libero se non riceve luce sulle questioni
centrali della sua esistenza, ed in particolare su quella di sapere da dove
venga e dove vada. Egli diventa libero quando Dio si dona a lui come un
Amico, secondo la parola del Signore: «Non vi chiamo più servi, perché il
servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché
tutto ciò che ho udito dal Padre lÂÂ’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15, 15).
La liberazione dallÂÂ’alienazione del peccato e della morte si realizza per
lÂÂ’uomo quando il Cristo, che è la Verità, diventa per lui la «via» (cf. Gv
14, 6).
Nella fede cristiana conoscenza e vita, verità ed esistenza sono
intrinsecamente connesse. La verità donata nella rivelazione di Dio
sorpassa evidentemente le capacità di conoscenza dellÂÂ’uomo, ma non si
oppone alla ragione umana. Essa piuttosto la penetra, la eleva e fa appello
alla responsabilità di ciascuno (cf. 1 Pt 3, 15). Per questo, fin dallÂÂ’inizio
della Chiesa la «regola della dottrina» (Rm 6, 17) è stata legata, con il
battesimo, allÂÂ’ingresso nel mistero di Cristo. Il servizio alla dottrina, che
implica la ricerca credente dellÂÂ’intelligenza della fede e cioè la teologia,
è pertanto unÂÂ’esigenza alla quale la Chiesa non può rinunciare.
In ogni epoca la teologia è importante perché la Chiesa possa rispondere al
disegno di Dio, il quale vuole «che tutti gli uomini siano salvati e arrivino
alla conoscenza della verità» (1 Tim 2, 4). In tempi di grandi mutamenti
spirituali e culturali essa è ancora più importante, ma è anche esposta a
rischi, dovendosi sforzare di «rimanere» nella verità (cf. Gv 8, 31) e tener
conto nel medesimo tempo dei nuovi problemi che si pongono allo spirito
umano. Nel nostro secolo, in particolare durante la preparazione e la
realizzazione del Concilio Vaticano II, la teologia ha contribuito molto ad

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una più profonda «comprensione delle realtà e delle parole trasmesse»[1],
ma ha anche conosciuto e conosce ancora dei momenti di crisi e di
tensione.
La Congregazione per la Dottrina della Fede ritiene pertanto opportuno
rivolgere ai Vescovi della Chiesa cattolica, e tramite loro ai teologi, la
presente Istruzione che si propone di illuminare la missione della teologia
nella Chiesa. Dopo aver preso in considerazione la verità come dono di Dio
al suo popolo (I), essa descriverà la funzione dei teologi (II), si soffermerà
quindi sulla missione particolare dei Pastori (III), e proporrà infine alcune
indicazioni sul giusto rapporto fra gli uni e gli altri (IV). Essa intende così
servire la crescita nella conoscenza della verità (cf. Col 1, 10), che ci
introduce in quella libertà per conquistarci la quale Cristo è morto e
risuscitato (cf. Gal 5, 1).
I
LA VERITÀ, DONO DI DIO AL SUO POPOLO
2. Mosso da un amore senza misura, Dio ha voluto farsi vicino allÂÂ’uomo
che ricerca la propria identità e camminare con lui (cf. Lc 24, 15). Egli lo ha
anche liberato dalle insidie del «padre della menzogna» (cf. Gv 8, 44) e gli
ha dato accesso alla sua intimità perché vi trovi, in sovrabbondanza, la
verità piena e la vera libertà. Questo disegno dÂÂ’amore concepito dal
«Padre della luce» (Gc 1, 17; cf. 1 Pt 2, 9; 1 Gv 1, 5), realizzato dal Figlio
vincitore della morte (cf. Gv 8, 36) è reso continuamente attuale dallo
Spirito che guida «alla verità tutta intera» (Gv 16, 13).
3. La verità ha in sé una forza unificante: libera gli uomini
dallÂÂ’isolamento e dalle opposizioni nelle quali sono rinchiusi
dallÂÂ’ignoranza della verità e aprendo loro la via verso Dio, li unisce gli
uni agli altri. Il Cristo ha distrutto il muro di separazione che aveva reso gli
uomini estranei alla promessa di Dio e alla comunione dellÂÂ’alleanza (cf.
Ef 2, 12-14). Egli invia nel cuore dei credenti il suo Spirito, per mezzo del
quale noi tutti in Lui siamo «uno solo» (cf. Ro 5, 5; Gal 3, 28). Così, grazie
alla nuova nascita ed allÂÂ’unzione dello Spirito Santo (cf. Gv 3, 5; 1 Gv
2, 20. 27), diventiamo l'unico e nuovo Popolo di Dio che, con vocazioni e
carismi diversi, ha la missione di conservare e trasmettere il dono della
verità. Infatti la Chiesa tutta, come «sale della terra» e «luce del mondo»
(cf. Mt 5, 13s.), deve rendere testimonianza alla verità di Cristo che rende
liberi.
4. A questa chiamata il Popolo di Dio risponde «soprattutto per mezzo di
una vita di fede e di carità, e offrendo a Dio un sacrificio di lode». Per
quello che riguarda più specificamente la «vita di fede», il Concilio
Vaticano II precisa che «la totalità dei fedeli che hanno ricevuto
lÂÂ’unzione dello Spirito Santo (cf. 1 Gv 2, 20. 27), non può sbagliarsi nel
credere, e manifesta questa proprietà peculiare mediante il senso
soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando ‘dai vescovi fino
agli ultimi fedeli laiciÂÂ’, esprime lÂÂ’universale suo consenso in materia

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di fede e di costumi»[2].
5. Per esercitare la sua funzione profetica nel mondo, il Popolo di Dio deve
continuamente risvegliare o «ravvivare» la propria vita di fede (cf. 2 Tm 1,
6), in particolare per mezzo di una riflessione sempre più approfondita,
guidata dallo Spirito Santo, sul contenuto della fede stessa e tramite
l'impegno di dimostrarne la ragionevolezza a coloro che gliene chiedono i
motivi (cf. 1 Pt 3, 15). In vista di questa missione lo Spirito di verità
dispensa, fra i fedeli di ogni ordine, grazie speciali date «per l'utilità
comune» (1 Cor 12, 7-11).
II
LA VOCAZIONE DEL TEOLOGO
6. Fra le vocazioni suscitate dallo Spirito nella Chiesa si distingue quella
del teologo, che in modo particolare ha la funzione di acquisire, in
comunione con il Magistero, unÂÂ’intelligenza sempre più profonda della
Parola di Dio contenuta nella Scrittura ispirata e trasmessa dalla Tradizione
viva della Chiesa.
Di sua natura la fede fa appello allÂÂ’intelligenza, perché svela
allÂÂ’uomo la verità sul suo destino e la via per raggiungerlo. Anche se la
verità rivelata è superiore ad ogni nostro dire ed i nostri concetti sono
imperfetti di fronte alla sua grandezza ultimamente insondabile (cf. Ef 3,
19), essa invita tuttavia la ragione - dono di Dio fatto per cogliere la verità -
ad entrare nella sua luce, diventando così capace di comprendere in una
certa misura quanto ha creduto. La scienza teologica, che, rispondendo
allÂÂ’invito della voce della verità cerca l'intelligenza della fede, aiuta il
Popolo di Dio, secondo il comandamento dell'apostolo (cf. 1 Pt 3, 15), a
rendere conto della sua speranza a coloro che lo richiedono.
7. Il lavoro del teologo risponde così al dinamismo insito nella fede stessa:
di sua natura la Verità vuole comunicarsi, perché l'uomo è stato creato per
percepire la verità, e desidera nel più profondo di se stesso conoscerla per
ritrovarsi in essa e per trovarvi la sua salvezza (cf. 1 Tm 2, 4). Per questo il
Signore ha inviato i suoi apostoli perché facciano «discepole» tutte le
nazioni e le ammaestrino (cf. Mt 28, 19s.). La teologia, che ricerca la
«ragione della fede» ed a coloro che cercano offre questa ragione come una
risposta, costituisce parte integrante dellÂÂ’obbedienza a questo
comandamento, perché gli uomini non possono diventare discepoli se la
verità contenuta nella parola della fede non viene loro presentata (cf. Rm
10, 14s).
La teologia offre dunque il suo contributo perché la fede divenga
comunicabile, e l'intelligenza di coloro che non conoscono ancora il Cristo
possa ricercarla e trovarla. La teologia, che obbedisce allÂÂ’impulso della
verità che tende a comunicarsi, nasce anche dallÂÂ’amore e dal suo
dinamismo: nellÂÂ’atto di fede, lÂÂ’uomo conosce la bontà di Dio e
comincia ad amarlo, ma lÂÂ’amore desidera conoscere sempre meglio

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colui che ama[3]. Da questa duplice origine della teologia, iscritta nella vita
interna del Popolo di Dio e nella sua vocazione missionaria, consegue il
modo con cui essa deve essere elaborata per soddisfare alle esigenze della
sua natura.
8. Poiché oggetto della teologia è la Verità, il Dio vivo ed il suo disegno di
salvezza rivelato in Gesù Cristo, il teologo è chiamato ad intensificare la
sua vita di fede e ad unire sempre ricerca scientifica e preghiera[4]. Sarà
così più aperto al «senso soprannaturale della fede» da cui dipende e che gli
apparirà come una sicura regola per guidare la sua riflessione e misurare la
correttezza delle sue conclusioni.
9. Nel corso dei secoli la teologia si è progressivamente costituita in vero e
proprio sapere scientifico. È quindi necessario che il teologo sia attento alle
esigenze epistemologiche della sua disciplina, alle esigenze di rigore
critico, e quindi al controllo razionale di ogni tappa della sua ricerca. Ma
lÂÂ’esigenza critica non va identificata con lo spirito critico, che nasce
piuttosto da motivazioni di carattere affettivo o da pregiudizio. Il teologo
deve discernere in se stesso lÂÂ’origine e le motivazioni del suo
atteggiamento critico e lasciare che il suo sguardo sia purificato dalla fede.
LÂÂ’impegno teologico esige uno sforzo spirituale di rettitudine e di
santificazione.
10. Pur trascendendo la ragione umana, la verità rivelata è in profonda
armonia con essa. Ciò suppone che la ragione sia per sua natura ordinata
alla verità in modo che, illuminata dalla fede, essa possa penetrare il
significato della Rivelazione. Contrariamente alle affermazioni di molte
correnti filosofiche, ma conformemente ad un retto modo di pensare che
trova conferma nella Scrittura, si deve riconoscere la capacità della ragione
umana di raggiungere la verità, così come la sua capacità metafisica di
conoscere Dio a partire dal creato[5].
Il compito proprio alla teologia di comprendere il senso della Rivelazione
esige pertanto lÂÂ’utilizzo di acquisizioni filosofiche che forniscano «una
solida ed armonica conoscenza dellÂÂ’uomo, del mondo e di Dio»[6], e
possano essere assunte nella riflessione sulla dottrina rivelata. Le scienze
storiche sono egualmente necessarie agli studi del teologo, a motivo
innanzitutto del carattere storico della Rivelazione stessa, che ci è stata
comunicata in una «storia di salvezza». Si deve infine fare ricorso anche
alle «scienze umane», per meglio comprendere la verità rivelata
sullÂÂ’uomo e sulle norme morali del suo agire, mettendo in rapporto con
essa i risultati validi di queste scienze.
In questa prospettiva è compito del teologo assumere dalla cultura del suo
ambiente elementi che gli permettano di mettere meglio in luce lÂÂ’uno o
lÂÂ’altro aspetto dei misteri della fede. Un tale compito è certamente arduo
e comporta dei rischi, ma è in se stesso legittimo e deve essere
incoraggiato.
A questo proposito è importante sottolineare che lÂÂ’utilizzazione da parte
della teologia di elementi e strumenti concettuali provenienti dalla filosofia
o da altre discipline esige un discernimento che ha il suo principio

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normativo ultimo nella dottrina rivelata. È essa che deve fornire i criteri per
il discernimento di questi elementi e strumenti concettuali e non viceversa.
11. Il teologo, non dimenticando mai di essere anchÂÂ’egli membro del
Popolo di Dio, deve nutrire rispetto nei suoi confronti e impegnarsi nel
dispensargli un insegnamento che non leda in alcun modo la dottrina della
fede.
La libertà propria alla ricerca teologica si esercita allÂÂ’interno della fede
della Chiesa. LÂÂ’audacia pertanto che si impone spesso alla coscienza del
teologo non può portare frutti ed «edificare» se non si accompagna alla
pazienza della maturazione. Le nuove proposte avanzate
dallÂÂ’intelligenza della fede «non sono che unÂÂ’offerta fatta a tutta la
Chiesa. Occorrono molte correzioni e ampliamenti di prospettiva in un
dialogo fraterno, prima di giungere al momento in cui tutta la Chiesa possa
accettarle». Di conseguenza la teologia, in quanto «servizio molto
disinteressato alla comunità dei credenti, comporta essenzialmente un
dibattito oggettivo, un dialogo fraterno, unÂÂ’apertura ed una disponibilità
a modificare le proprie opinioni»[7].
12. La libertà di ricerca, che giustamente sta a cuore alla comunità degli
uomini di scienza come uno dei suoi beni più preziosi, significa
disponibilità ad accogliere la verità così come essa si presenta al termine di
una ricerca, nella quale non sia intervenuto alcun elemento estraneo alle
esigenze di un metodo che corrisponda allÂÂ’oggetto studiato.
In teologia questa libertà di ricerca si iscrive allÂÂ’interno di un sapere
razionale il cui oggetto è dato dalla Rivelazione, trasmessa ed interpretata
nella Chiesa sotto lÂÂ’autorità del Magistero, ed accolta dalla fede.
Trascurare questi dati, che hanno un valore di principio, equivarrebbe a
smettere di fare teologia. Per ben precisare le modalità di questo rapporto
con il Magistero, è ora opportuno riflettere sul ruolo di questÂÂ’ultimo
nella Chiesa.
III
IL MAGISTERO DEI PASTORI
13. «Dio, con somma benignità, dispose che quanto egli aveva rivelato per
la salvezza di tutte le genti, rimanesse sempre integro e venisse trasmesso a
tutte le generazioni»[8]. Egli ha dato alla sua Chiesa, mediante il dono dello
Spirito Santo, una partecipazione alla propria infallibilità[9]. Il Popolo di
Dio, grazie al «senso soprannaturale della fede», gode di questa
prerogativa, sotto la guida del Magistero vivo della Chiesa, che, per
lÂÂ’autorità esercitata nel nome di Cristo, è il solo interprete autentico
della Parola di Dio, scritta o trasmessa[10].
14. Come successori degli Apostoli, i Pastori della Chiesa «ricevono dal
Signore... la missione di insegnare a tutte le genti e di predicare il vangelo
ad ogni creatura, affinché tutti gli uomini... ottengano la salvezza»[11]. Ad

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essi è quindi affidato il compito di conservare, esporre e diffondere la
Parola di Dio, della quale sono servitori[12].
La missione del Magistero è quella di affermare, coerentemente con la
natura «escatologica» propria dellÂÂ’evento di Gesù Cristo, il carattere
definitivo dellÂÂ’Alleanza instaurata da Dio per mezzo di Cristo con il suo
popolo, tutelando questÂÂ’ultimo da deviazioni e smarrimenti, e
garantendogli la possibilità obiettiva di professare senza errori la fede
autentica, in ogni tempo e nelle diverse situazioni. Ne consegue che il
significato del Magistero ed il suo valore sono comprensibili solo in
relazione alla verità della dottrina cristiana ed alla predicazione della Parola
vera. La funzione del Magistero non è quindi qualcosa di estrinseco alla
verità cristiana né di sovrapposto alla fede; essa emerge direttamente
dallÂÂ’economia della fede stessa, in quanto il Magistero è, nel suo
servizio alla Parola di Dio, unÂÂ’istituzione voluta positivamente da Cristo
come elemento costitutivo della Chiesa. Il servizio alla verità cristiana reso
dal Magistero è perciò a favore di tutto il Popolo di Dio, chiamato ad
entrare in quella libertà della verità che Dio ha rivelato in Cristo.
15. Perché possano adempiere pienamente il compito loro affidato di
insegnare il Vangelo e di interpretare autenticamente la Rivelazione, Gesù
Cristo ha promesso ai Pastori della Chiesa lÂÂ’assistenza dello Spirito
Santo. Egli li ha dotati in particolare del carisma di infallibilità per quanto
concerne materie di fede e di costumi. LÂÂ’esercizio di questo carisma può
avere diverse modalità. Si esercita in particolare quando i vescovi, in
unione con il loro capo visibile, mediante un atto collegiale, come nel caso
dei concili ecumenici, proclamano una dottrina, o quando il Pontefice
romano, esercitando la sua missione di Pastore e Dottore supremo di tutti i
cristiani, proclama una dottrina «ex cathedra»[13].
16. Il compito di custodire santamente e di esporre fedelmente il deposito
della divina Rivelazione implica, di sua natura, che il Magistero possa
proporre «in modo definitivo»[14] enunciati che, anche se non sono
contenuti nelle verità di fede, sono ad esse tuttavia intimamente connessi,
così che il carattere definitivo di tali affermazioni deriva, in ultima analisi,
dalla Rivelazione stessa[15].
Ciò che concerne la morale può essere oggetto di magistero autentico,
perché il Vangelo, che è Parola di vita, ispira e dirige tutto lÂÂ’ambito
dellÂÂ’agire umano. Il Magistero ha dunque il compito di discernere,
mediante giudizi normativi per la coscienza dei fedeli, gli atti che sono in se
stessi conformi alle esigenze della fede e ne promuovono lÂÂ’espressione
nella vita, e quelli che al contrario, per la loro malizia intrinseca, sono
incompatibili con queste esigenze. A motivo del legame che esiste fra
lÂÂ’ordine della creazione e lÂÂ’ordine della redenzione, e a motivo della
necessità di conoscere e di osservare tutta la legge morale in vista della
salvezza, la competenza del Magistero si estende anche a ciò che riguarda
la legge naturale[16].
DÂÂ’altra parte la Rivelazione contiene insegnamenti morali che di per se
potrebbero essere conosciuti dalla ragione naturale, ma a cui la condizione
dellÂÂ’uomo peccatore rende difficile lÂÂ’accesso. È dottrina di fede che

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queste norme morali possono essere infallibilmente insegnate dal
Magistero[17].
17. LÂÂ’assistenza divina è data inoltre ai successori degli Apostoli, che
insegnano in comunione con il successore di Pietro, e, in una maniera
particolare, al Romano Pontefice, Pastore di tutta la Chiesa, quando, senza
giungere ad una definizione infallibile e senza pronunciarsi in un «modo
definitivo», nellÂÂ’esercizio del loro magistero ordinario propongono un
insegnamento, che conduce ad una migliore comprensione della
Rivelazione in materia di fede e di costumi, e direttive morali derivanti da
questo insegnamento.
Si deve dunque tener conto del carattere proprio di ciascuno degli interventi
del Magistero e della misura in cui la sua autorità è coinvolta, ma anche del
fatto che essi derivano tutti dalla stessa fonte e cioè da Cristo che vuole che
il suo Popolo cammini nella verità tutta intera. Per lo stesso motivo le
decisioni magisteriali in materia di disciplina, anche se non sono garantite
dal carisma dellÂÂ’infallibilità, non sono sprovviste dellÂÂ’assistenza
divina, e richiedono lÂÂ’adesione dei fedeli.
18. Il Pontefice Romano adempie la sua missione universale con lÂÂ’aiuto
degli organismi della Curia Romana ed in particolare della Congregazione
per la Dottrina della Fede per ciò che riguarda la dottrina sulla fede e sulla
morale. Ne consegue che i documenti di questa Congregazione approvati
espressamente dal Papa partecipano al magistero ordinario del successore
di Pietro[18].
19. Nelle Chiese particolari spetta al vescovo custodire ed interpretare la
Parola di Dio e giudicare con autorità ciò che le è conforme o meno.
LÂÂ’insegnamento di ogni vescovo, preso singolarmente, si esercita in
comunione con quello del Pontefice romano, Pastore della Chiesa
universale, e con gli altri vescovi dispersi per il mondo o riuniti in Concilio
ecumenico. Questa comunione è condizione della sua autenticità.
Membro del collegio episcopale in forza della sua ordinazione sacramentale
e della comunione gerarchica, il vescovo rappresenta la sua Chiesa, così
come tutti i vescovi in unione con il Papa, rappresentano la Chiesa
universale nel vincolo della pace, dellÂÂ’amore, dell'unità e della verità.
Convergendo nell'unità, le Chiese locali, con il loro proprio patrimonio,
manifestano la cattolicità della Chiesa. Da parte loro, le Conferenze
episcopali contribuiscono alla realizzazione concreta dello spirito
(«affectus») collegiale[19].
20. Il compito pastorale del Magistero, che ha lo scopo di vigilare perché il
Popolo di Dio rimanga nella verità che libera, è dunque una realtà
complessa e diversificata. Il teologo, nel suo impegno al servizio della
verità, dovrà, per restare fedele alla sua funzione, tener conto della missione
propria al Magistero e collaborare con esso. Come si deve intendere questa
collaborazione? Come si realizza concretamente e quali ostacoli può
incontrare? È ciò che occorre adesso esaminare più da vicino.

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IV
MAGISTERO E TEOLOGIA
A. I rapporti di collaborazione
21. Il Magistero vivo della Chiesa e la teologia, pur avendo doni e funzioni
diverse, hanno ultimamente il medesimo fine: conservare il Popolo di Dio
nella verità che libera e farne così la «luce delle nazioni». Questo servizio
alla comunità ecclesiale mette in relazione reciproca il teologo con il
Magistero. QuestÂÂ’ultimo insegna autenticamente la dottrina degli
Apostoli e, traendo vantaggio dal lavoro teologico, respinge le obiezioni e
le deformazioni della fede, proponendo inoltre con lÂÂ’autorità ricevuta da
Gesù Cristo nuovi approfondimenti, esplicitazioni e applicazioni della
dottrina rivelata. La teologia invece acquisisce, in modo riflesso,
unÂÂ’intelligenza sempre più profonda della Parola di Dio, contenuta nella
Scrittura e trasmessa fedelmente dalla Tradizione viva della Chiesa sotto la
guida del Magistero, cerca di chiarire lÂÂ’insegnamento della Rivelazione
di fronte alle istanze della ragione, ed infine gli dà una forma organica e
sistematica[20].
22. La collaborazione fra il teologo ed il Magistero si realizza in modo
speciale quando il teologo riceve la missione canonica o il mandato di
insegnare. Essa diventa allora, in un certo senso, una partecipazione
allÂÂ’opera del Magistero al quale la collega un vincolo giuridico. Le
regole di deontologia che derivano per se stesse e con evidenza dal servizio
alla Parola di Dio vengono corroborate dallÂÂ’impegno assunto dal
teologo accettando il suo ufficio ed emettendo la Professione di fede ed il
Giuramento di fedeltà[21].
Da quel momento egli è investito ufficialmente del compito di presentare ed
illustrare, con tutta esattezza e nella sua integralità, la dottrina della fede.
23. Quando il Magistero della Chiesa si pronuncia infallibilmente
dichiarando solennemente che una dottrina è contenuta nella Rivelazione,
lÂÂ’adesione richiesta è quella della fede teologale. Questa adesione si
estende allÂÂ’insegnamento del Magistero ordinario ed universale quando
propone una dottrina di fede come divinamente rivelata.
Quando esso propone «in modo definitivo» delle verità riguardanti la fede
ed i costumi, che, anche se non divinamente rivelate, sono tuttavia
strettamente e intimamente connesse con la Rivelazione, queste devono
essere fermamente accettate e ritenute[22].
Quando il Magistero, anche senza lÂÂ’intenzione di porre un atto
«definitivo», insegna una dottrina per aiutare ad unÂÂ’intelligenza più
profonda della Rivelazione e di ciò che ne esplicita il contenuto, ovvero per
richiamare la conformità di una dottrina con le verità di fede, o infine per
metter in guardia contro concezioni incompatibili con queste stesse verità, è
richiesto un religioso ossequio della volontà e dellÂÂ’intelligenza[23].
Questo non può essere puramente esteriore e disciplinare, ma deve
collocarsi nella logica e sotto la spinta dellÂÂ’obbedienza della fede.

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24. Infine il Magistero, allo scopo di servire nel miglior modo possibile il
Popolo di Dio, e in particolare per metterlo in guardia nei confronti di
opinioni pericolose che possono portare allÂÂ’errore, può intervenire su
questioni dibattute nelle quali sono implicati, insieme ai principi fermi,
elementi congetturali e contingenti. E spesso è solo a distanza di un certo
tempo che diviene possibile operare una distinzione fra ciò che è necessario
e ciò che è contingente.
La volontà di ossequio leale a questo insegnamento del Magistero in
materia per sé non irreformabile deve essere la regola. Può tuttavia
accadere che il teologo si ponga degli interrogativi concernenti, a secondo
dei casi, lÂÂ’opportunità, la forma o anche il contenuto di un intervento. Il
che lo spingerà innanzitutto a verificare accuratamente quale è
lÂÂ’autorevolezza di questi interventi, così come essa risulta dalla natura
dei documenti, dallÂÂ’insistenza nel riproporre una dottrina e dal modo
stesso di esprimersi[24].
In questo ambito degli interventi di ordine prudenziale, è accaduto che dei
documenti magisteriali non fossero privi di carenze. I Pastori non hanno
sempre colto subito tutti gli aspetti o tutta la complessità di una questione.
Ma sarebbe contrario alla verità se, a partire da alcuni determinati casi, si
concludesse che il Magistero della Chiesa possa ingannarsi abitualmente
nei suoi giudizi prudenziali, o non goda dellÂÂ’assistenza divina
nellÂÂ’esercizio integrale della sua missione. Di fatto il teologo, che non
può esercitare bene la sua disciplina senza una certa competenza storica, è
cosciente della decantazione che si opera con il tempo. Ciò non deve essere
inteso nel senso di una relativizzazione degli enunciati della fede. Egli sa
che alcuni giudizi del Magistero potevano essere giustificati al tempo in cui
furono pronunciati, perché le affermazioni prese in considerazione
contenevano in modo inestricabile asserzioni vere e altre che non erano
sicure. Soltanto il tempo ha permesso di compiere un discernimento e, a
seguito di studi approfonditi, di giungere ad un vero progresso dottrinale.
25. Anche quando la collaborazione si svolge nelle condizioni migliori, non
è escluso che nascano tra il teologo ed il Magistero delle tensioni. Il
significato che a queste si conferisce e lo spirito con il quale le si affronta
non sono indifferenti: se le tensioni non nascono da un sentimento di
ostilità e di opposizione, possono rappresentare un fattore di dinamismo ed
uno stimolo che sospinge il Magistero ed i teologi ad adempiere le loro
rispettive funzioni praticando il dialogo.
26. Nel dialogo deve dominare una duplice regola: là ove la comunione di
fede è in causa vale il principio dellÂÂ’«unitas veritatis»; là ove rimangono
delle divergenze che non mettono in causa questa comunione, si
salvaguarderà lÂÂ’«unitas caritatis».
27. Anche se la dottrina della fede non è in causa, il teologo non presenterà
le sue opinioni o le sue ipotesi divergenti come se si trattasse di conclusioni
indiscutibili. Questa discrezione è esigita dal rispetto della verità così come
dal rispetto per il Popolo di Dio (cf. Rm 14, 1-15; 1 Cor 8; 10, 23-33). Per
gli stessi motivi egli rinuncerà ad una loro espressione pubblica

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intempestiva.
28. Ciò che precede ha unÂÂ’applicazione particolare nel caso del teologo
che trovasse serie difficoltà, per ragioni che gli paiono fondate, ad
accogliere un insegnamento magisteriale non irreformabile.
Un tale disaccordo non potrebbe essere giustificato se si fondasse
solamente sul fatto che la validità dellÂÂ’insegnamento dato non è
evidente o sullÂÂ’opinione che la posizione contraria sia più probabile.
Così pure non sarebbe sufficiente il giudizio della coscienza soggettiva del
teologo, perché questa non costituisce unÂÂ’istanza autonoma ed esclusiva
per giudicare della verità di una dottrina.
29. In ogni caso non potrà mai venir meno un atteggiamento di fondo di
disponibilità ad accogliere lealmente lÂÂ’insegnamento del Magistero,
come si conviene ad ogni credente nel nome dellÂÂ’obbedienza della fede.
Il teologo si sforzerà pertanto di comprendere questo insegnamento nel suo
contenuto, nelle sue ragioni e nei suoi motivi. A ciò egli consacrerà una
riflessione approfondita e paziente, pronto a rivedere le sue proprie opinioni
ed a esaminare le obiezioni che gli fossero fatte dai suoi colleghi.
30. Se, malgrado un leale sforzo, le difficoltà persistono, è dovere del
teologo far conoscere alle autorità magisteriali i problemi suscitati
dallÂÂ’insegnamento in se stesso, nelle giustificazioni che ne sono
proposte o ancora nella maniera con cui è presentato. Egli lo farà in uno
spirito evangelico, con il profondo desiderio di risolvere le difficoltà. Le
sue obiezioni potranno allora contribuire ad un reale progresso, stimolando
il Magistero a proporre lÂÂ’insegnamento della Chiesa in modo più
approfondito e meglio argomentato.
In questi casi il teologo eviterà di ricorrere ai «mass-media» invece di
rivolgersi allÂÂ’autorità responsabile, perché non è esercitando in tal modo
una pressione sullÂÂ’opinione pubblica che si può contribuire alla
chiarificazione dei problemi dottrinali e servire la verità.
31. Può anche accadere che al termine di un esame dellÂÂ’insegnamento
del Magistero serio e condotto con volontà di ascolto senza reticenze, la
difficoltà rimanga, perché gli argomenti in senso opposto sembrano al
teologo prevalere. Davanti ad unÂÂ’affermazione, alla quale non sente di
poter dare la sua adesione intellettuale, il suo dovere è di restare disponibile
per un esame più approfondito della questione.
Per uno spirito leale ed animato dallÂÂ’amore per la Chiesa, una tale
situazione può certamente rappresentare una prova difficile. Può essere un
invito a soffrire nel silenzio e nella preghiera, con la certezza che se la
verità è veramente in causa, essa finirà necessariamente per imporsi.
B. Il problema del dissenso.
32. A più riprese il Magistero ha attirato lÂÂ’attenzione sui gravi
inconvenienti arrecati alla comunione della Chiesa da quegli atteggiamenti
di opposizione sistematica, che giungono perfino a costituirsi in gruppi

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organizzati[25]. Nell'Esortazione apostolica Paterna cum benevolentia
Paolo VI ha proposto una diagnosi che conserva ancora tutta la sua
pertinenza. In particolare qui si intende parlare di quellÂÂ’atteggiamento
pubblico di opposizione al magistero della Chiesa, chiamato anche
«dissenso», e che occorre ben distinguere dalla situazione di difficoltà
personale, di cui si è trattato più sopra. Il fenomeno del dissenso può avere
diverse forme, e le sue cause remote o prossime sono molteplici.
Tra i fattori che possono esercitare la loro influenza in maniera remota o
indiretta, occorre ricordare lÂÂ’ideologia del liberalismo filosofico che
impregna anche la mentalità della nostra epoca. Di qui proviene la tendenza
a considerare che un giudizio ha tanto più valore quanto più procede
dallÂÂ’individuo che si appoggia sulle sue proprie forze. Così si oppone la
libertà di pensiero allÂÂ’autorità della tradizione, considerata causa di
schiavitù. Una dottrina trasmessa e generalmente recepita è a priori sospetta
e il suo valore veritativo contestato. Al limite, la libertà di giudizio così
intesa è più importante della verità stessa. Si tratta quindi di tuttÂÂ’altro
che dellÂÂ’esigenza legittima della libertà, nel senso di assenza di
costrizione, come condizione richiesta per la ricerca leale della verità. In
virtù di questa esigenza la Chiesa ha sempre sostenuto che «nessuno può
essere costretto ad abbracciare la fede contro la sua volontà»[26].
Il peso di unÂÂ’opinione pubblica artificiosamente orientata e dei suoi
conformismi esercita anche la sua influenza. Sovente i modelli sociali
diffusi dai «mass-media» tendono ad assumere un valore normativo; si
diffonde in particolare il convincimento che la Chiesa non dovrebbe
pronunciarsi che sui problemi ritenuti importanti dallÂÂ’opinione pubblica
e nel senso che a questa conviene. Il Magistero, per esempio, potrebbe
intervenire nelle questioni economiche e sociali, ma dovrebbe lasciare al
giudizio individuale quelle che riguardano la morale coniugale e familiare.
Infine anche la pluralità delle culture e delle lingue, che è in se stessa una
ricchezza, può indirettamente portare a dei malintesi, motivo di successivi
disaccordi.
In questo contesto un discernimento critico ben ponderato ed una vera
padronanza dei problemi sono richiesti dal teologo, se vuole adempiere la
sua missione ecclesiale e non perdere, conformandosi al mondo presente
(cf. Rm 12, 2; Ef 4, 23), lÂÂ’indipendenza del giudizio che deve essere
quella dei discepoli di Cristo.
33. Il dissenso può rivestire diversi aspetti. Nella sua forma più radicale,
esso ha di mira il cambiamento della Chiesa secondo un modello di
contestazione ispirato da ciò che si fa nella società politica. Più
frequentemente si ritiene che il teologo sarebbe obbligato ad aderire
allÂÂ’insegnamento infallibile del Magistero, mentre invece, adottando la
prospettiva di una specie di positivismo teologico, le dottrine proposte
senza che intervenga il carisma dellÂÂ’infallibilità non avrebbero nessun
carattere obbligatorio, lasciando al singolo piena libertà di aderirvi o meno.
Il teologo sarebbe quindi totalmente libero di mettere in dubbio o di
rifiutare lÂÂ’insegnamento non infallibile del Magistero, in particolare in
materia di norme morali particolari. Anzi con questa opposizione critica

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egli contribuirebbe al progresso della dottrina.
34. La giustificazione del dissenso si appoggia in generale su diversi
argomenti, due dei quali hanno un carattere più fondamentale. Il primo è di
ordine ermeneutico: i documenti del Magistero non sarebbero niente altro
che il riflesso di una teologia opinabile. Il secondo invoca il pluralismo
teologico, spinto talora fino ad un relativismo che mette in causa l'integrità
della fede: gli interventi magisteriali avrebbero la loro origine in una
teologia fra molte altre, mentre nessuna teologia particolare può pretendere
di imporsi universalmente. In opposizione ed in concorrenza con il
magistero autentico sorge così una specie di «magistero parallelo» dei
teologi[27].
Uno dei compiti del teologo è certamente quello di interpretare
correttamente i testi del Magistero, e allo scopo egli dispone di regole
ermeneutiche, tra le quali figura il principio secondo cui lÂÂ’insegnamento
del Magistero - grazie allÂÂ’assistenza divina - vale al di là
dellÂÂ’argomentazione, talvolta desunta da una teologia particolare, di cui
esso si serve. Quanto al pluralismo teologico, esso non è legittimo se non
nella misura in cui è salvaguardata lÂÂ’unità della fede nel suo significato
obiettivo[28]. I diversi livelli che sono lÂÂ’unità della fede, lÂÂ’unità-
pluralità delle espressioni della fede e la pluralità delle teologie sono infatti
essenzialmente legati fra di loro. La ragione ultima della pluralità è
lÂÂ’insondabile mistero di Cristo che trascende ogni sistematizzazione
oggettiva. Ciò non può significare che siano accettabili conclusioni che gli
siano contrarie, e ciò non mette assolutamente in causa la verità di
asserzioni per mezzo delle quali il Magistero si è pronunciato[29]. Quanto
al «magistero parallelo», esso può causare grandi mali spirituali
opponendosi a quello dei Pastori. Quando infatti il dissenso riesce ad
estendere la sua influenza fino ad ispirare una opinione comune, tende a
diventare regola di azione, e ciò non può non turbare gravemente il Popolo
di Dio e condurre ad una disistima della vera autorità[30].
35. Il dissenso fa appello anche talvolta ad una argomentazione sociologica,
secondo la quale lÂÂ’opinione di un gran numero di cristiani sarebbe
unÂÂ’espressione diretta ed adeguata del «senso soprannaturale della
fede».
In realtà le opinioni dei fedeli non possono essere puramente e
semplicemente identificate con il «sensus fidei»[31]. QuestÂÂ’ultimo è
una proprietà della fede teologale la quale, essendo un dono di Dio che fa
aderire personalmente alla Verità, non può ingannarsi. Questa fede
personale è anche fede della Chiesa, poiché Dio ha affidato alla Chiesa la
custodia della Parola e, di conseguenza, ciò che il fedele crede è ciò che
crede la Chiesa. Il «sensus fidei» implica pertanto, di sua natura, l'accordo
profondo dello spirito e del cuore con la Chiesa, il «sentire cum Ecclesia».
Se quindi la fede teologale in quanto tale non può ingannarsi, il credente
può invece avere delle opinioni erronee, perché tutti i suoi pensieri non
procedono dalla fede[32]. Le idee che circolano nel Popolo di Dio non sono
tutte in coerenza con la fede, tanto più che possono facilmente subire
lÂÂ’influenza di una opinione pubblica veicolata da moderni mezzi di

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comunicazione. Non è senza motivo che il Concilio Vaticano II sottolinei il
rapporto indissolubile fra il «sensus fidei» e la guida del Popolo di Dio da
parte del magistero dei Pastori: le due realtà non possono essere separate
lÂÂ’una dall'altra[33]. Gli interventi del Magistero servono a garantire
lÂÂ’unità della Chiesa nella verità del Signore. Essi aiutano a «dimorare
nella verità» di fronte al carattere arbitrario delle opinioni mutevoli, e sono
lÂÂ’espressione dellÂÂ’obbedienza alla Parola di Dio[34]. Anche quando
può sembrare che essi limitino la libertà dei teologi, essi instaurano, per
mezzo della fedeltà alla fede che è stata trasmessa, una libertà più profonda
che non può venire se non dallÂÂ’unità nella verità.
36. La libertà dellÂÂ’atto di fede non può giustificare il diritto al dissenso.
In realtà essa non significa affatto la libertà nei confronti della verità, ma il
libero auto-determinarsi della persona in conformità con il suo obbligo
morale di accogliere la verità. LÂÂ’atto di fede è un atto volontario, perché
l'uomo, riscattato dal Cristo Redentore e chiamato da lui allÂÂ’adozione
filiale (cf. Rm 8, 15; Gal 4, 5; Ef 1, 5; Gv 1, 12), non può aderire a Dio se
non a condizione che, «attirato dal Padre» (Gv 6, 44), egli faccia a Dio
lÂÂ’omaggio ragionevole della sua fede (cf. Rm 12, 1). Come ha ricordato
la Dichiarazione Dignitatis Humanae[35], nessuna autorità umana ha il
diritto di intervenire, con costrizioni o pressioni, in questa scelta che supera
i limiti delle sue competenze. Il rispetto del diritto alla libertà religiosa è il
fondamento del rispetto dellÂÂ’insieme dei diritti dellÂÂ’uomo.
Non si può pertanto fare appello a questi diritti dellÂÂ’uomo per opporsi
agli interventi del Magistero. Un tale comportamento misconosce la natura
e la missione della Chiesa, che ha ricevuto dal suo Signore il compito di
annunciare a tutti gli uomini la verità della salvezza, e lo realizza
camminando sulle tracce del Cristo, sapendo che «la verità non si impone
che in forza della stessa verità, la quale penetra nelle menti soavemente e
insieme con vigore»[36].
37. In forza del mandato divino che gli è stato dato nella Chiesa, il
Magistero ha per missione di proporre lÂÂ’insegnamento del Vangelo, di
vegliare sulla sua integrità e di proteggere così la fede del Popolo di Dio.
Per realizzare questo talvolta può essere condotto a prendere delle misure
onerose, come per esempio quando ritira ad un teologo che si discosta dalla
dottrina della fede la missione canonica o il mandato dellÂÂ’insegnamento
che gli aveva affidato, ovvero dichiara che degli scritti non sono conformi a
questa dottrina. Agendo così esso intende essere fedele alla sua missione,
perché difende il diritto del Popolo di Dio a ricevere il messaggio della
Chiesa nella sua purezza e nella sua integralità, e quindi a non essere
turbato da unÂÂ’opinione particolare pericolosa.
Il giudizio espresso dal Magistero in tali circostanze, al termine di un esame
approfondito, condotto in conformità con procedure stabilite, e dopo che
allÂÂ’interessato è stata concessa la possibilità di dissipare eventuali
malintesi sul suo pensiero, non tocca la persona del teologo, ma le sue
posizioni intellettuali pubblicamente espresse. Il fatto che queste procedure
possano essere perfezionate non significa che esse siano contrarie alla
giustizia ed al diritto. Parlare in questo caso di violazione dei diritti
dellÂÂ’uomo è fuori luogo, perché si misconoscerebbe lÂÂ’esatta

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gerarchia di questi diritti, come anche la natura della comunità ecclesiale e
del suo bene comune. Peraltro il teologo, che non è in sintonia con il
«sentire cum Ecclesia», si mette in contraddizione con lÂÂ’impegno da lui
assunto liberamente e consapevolmente di insegnare in nome della
Chiesa[37].
38. Infine lÂÂ’argomentazione che si rifà al dovere di seguire la propria
coscienza non può legittimare il dissenso. Innanzitutto perché questo
dovere si esercita quando la coscienza illumina il giudizio pratico in vista di
una decisione da prendere, mentre qui si tratta della verità di un enunciato
dottrinale. Inoltre perché se il teologo deve, come ogni credente, seguire la
sua coscienza, egli è anche tenuto a formarla. La coscienza non è una
facoltà indipendente ed infallibile, essa è un atto di giudizio morale che
riguarda una scelta responsabile. La coscienza retta è una coscienza
debitamente illuminata dalla fede e dalla legge morale oggettiva, e suppone
anche la rettitudine della volontà nel perseguimento del vero bene.
La coscienza retta del teologo cattolico suppone pertanto la fede nella
Parola di Dio di cui deve penetrare le ricchezze, ma anche lÂÂ’amore alla
Chiesa da cui egli riceve la sua missione ed il rispetto del Magistero
divinamente assistito. Opporre al magistero della Chiesa un magistero
supremo della coscienza è ammettere il principio del libero esame,
incompatibile con lÂÂ’economia della Rivelazione e della sua trasmissione
nella Chiesa, così come con una concezione corretta della teologia e della
funzione del teologo. Gli enunciati della fede non risultano da una ricerca
puramente individuale e da una libera critica della Parola di Dio, ma
costituiscono unÂÂ’eredità ecclesiale. Se ci si separa dai Pastori che
vegliano per mantenere viva la tradizione apostolica, è il legame con Cristo
che si trova irreparabilmente compromesso[38].
39. La Chiesa, traendo la sua origine dallÂÂ’unità del Padre, del Figlio e
dello Spirito Santo[39], è un mistero di comunione, organizzata, secondo la
volontà del suo fondatore, intorno ad una gerarchia stabilita per il servizio
del Vangelo e del Popolo di Dio che ne vive. Ad immagine dei membri
della prima comunità, tutti i battezzati, con i carismi che sono loro propri,
devono tendere con cuore sincero verso unÂÂ’unità armoniosa di dottrina,
di vita e di culto (cf. At 2, 42). È questa una regola che scaturisce
dallÂÂ’essere stesso della Chiesa. Non si possono pertanto applicare a
questÂÂ’ultima, puramente e semplicemente, dei criteri di condotta che
hanno la loro ragione dÂÂ’essere nella società civile o nelle regole di
funzionamento di una democrazia. Ancor meno, nei rapporti allÂÂ’interno
della Chiesa, ci si può ispirare alla mentalità del mondo circostante (cf. Rm
12, 2). Chiedere allÂÂ’opinione maggioritaria ciò che conviene pensare e
fare, ricorrere contro il Magistero a pressioni esercitate dallÂÂ’opinione
pubblica, addurre a pretesto un «consenso» dei teologi, sostenere che il
teologo sia il portaparola profetico di una «base» o comunità autonoma che
sarebbe così lÂÂ’unica fonte della verità, tutto questo denota una grave
perdita del senso della verità e del senso della Chiesa.
40. La Chiesa è «come il sacramento, cioè il segno e lo strumento
dellÂÂ’intima unione con Dio e dellÂÂ’unità di tutto il genere
umano»[40]. Di conseguenza ricercare la concordia e la comunione è
aumentare la forza della sua testimonianza e la sua credibilità; cedere

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