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1. LETTERA DEL RETTOR MAGGIORE
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L’INCULTURAZIONE DEL CARISMA SALESIANO
«Pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti
per guadagnarne il maggior numero» (1Cor 9,19)
1. “Legge di ogni evangelizzazione”. 2. Cambio di paradigmi culturali. La globalizzazione. - Il dialogo
interreligioso - La situazione giovanile. - Un continente, il digitale, da lievitare. 3. La chiesa primitiva,
modello e norma di evangelizzazione inculturata. Una missione riuscita perché ben inculturata. - Unità
nella fede, diversità nel suo vissuto. - Ricordarsi dei poveri. - Una convivenza problematica come risultato. -
Il fatto e il principio. 4. Guardando Don Bosco. Un gesto molto mirato. - “Alcuni ricordi speciali” - «Noi
vogliamo anime, e non altro». - «Ricordati sempre che Dio vuole i nostri sforzi verso i fanciulli poveri
e abbandonati». - «Cominciata una missione, lo sforzo sia sempre a fare e stabilire delle scuole». -
«Dio chiamò la povera congregazione salesiana a promuovere le vocazioni ecclesiastiche fra la
gioventù povera». - «Tutti, tutti, potete essere veri operai evangelici». - «Fate che il mondo conosca
che siete poveri». - «Con la dolcezza di San Francesco di Sales i salesiani tireranno a Gesù Cristo le
popolazioni dell’America». - «Raccomandate costantemente la divozione a Maria Ausiliatrice ed a
Gesù Sacramentato». Conclusione.
16 Agosto 2011
Anniversario della nascita di Don Bosco
Carissimi confratelli,
vi scrivo nel giorno in cui do avvio al triennio di preparazione al bicentenario
della nascita di Don Bosco. Scambievolmente ci auguriamo d’essere una fedele
incarnazione del nostro amato Padre per diventare, come lui, segni dell’amore di
Dio, specialmente per i giovani.
Ho voluto prendere come spunto per questa circolare un bellissimo e
significativo testo della prima lettera ai Corinzi in cui San Paolo, rinunciando al
diritto derivante dalla sua libertà, dichiara di essersi fatto servo di tutti
volontariamente, per portare alla fede di Cristo il maggior numero di persone. Si è
fatto “giudeo con i giudei”, uomo senza legge mosaica con quelli che non sono
sottomessi alla legge mosaica, si è fatto “debole con i deboli”; in una parola, si è
fatto “tutto a tutti”. E così conclude: “tutto io faccio per il vangelo, per diventarne
partecipe con loro” (cf. 1 Cor 9,19-23). Troviamo qui il modello del missionario:
egli è colui che si identifica, in modo totale, con ciascuno dei suoi destinatari, al
solo scopo di guadagnarne il maggior numero possibile al suo Signore!
Nella mia ultima lettera vi ho invitati, cari confratelli, “a vivere con un
autentico spirito missionario in ogni parte del mondo”; per questo vi offrivo “una
riflessione sulla missionarietà della Chiesa e della Congregazione e, in particolare,
sulla evangelizzazione come orizzonte della attività ordinaria della Chiesa”, come
della Congregazione. Oggi voglio riflettere con voi su un tema che, in strettissima
relazione con quelli precedentemente trattati, sviluppa un aspetto estremamente
1

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importante per assicurare autenticità ed efficacia alla nostra missione nella
Chiesa. Intendo parlarvi dell’inculturazione del carisma salesiano, un compito di
cui avverto l’estrema urgenza quanto più vado conoscendo la realtà dell’intera
Congregazione.
Il carisma salesiano, “principio di unità della Congregazione”, è, e potrà
rimanere, “all’origine dei modi diversi di vivere l’unica vocazione salesiana” (Cost
100), se riusciamo ad impiantarlo, allo stesso tempo con fedeltà e creatività, là
dove siamo stati inviati e dove operiamo. Possiamo dire che questo “piantare il
carisma” nelle diverse culture è impegno più che centenario della nostra
Congregazione, a partire dalle prime missioni avviate da Don Bosco in Argentina;
e possiamo riconoscere che non sono mancati consolanti frutti. Tuttavia
dobbiamo ammettere che la sfida è oggi molto più impegnativa, trovandoci
presenti in tutti i continenti e a contatto con le più diverse culture. Siamo
convinti che, per restare fedeli a Dio che ci invia, e ai giovani che sono i nostri
destinatari privilegiati, dobbiamo vivere con generosità l’identità salesiana; ma
questo non significa che la si debba attuare, dappertutto, in modo identico. La
missione salesiana sarà significativa ed efficace, ed avrà perciò futuro, se riuscirà
a presentarsi allo stesso tempo fedele a se stessa ma anche ‘a casa sua’
nell’ambito culturale in cui si svolge, vale a dire se Don Bosco saprà assumere,
grazie ai suoi figli, il volto proprio di ogni cultura che lo accoglie.
1. “Legge di ogni evangelizzazione”
“La vocazione salesiana ci situa nel cuore della Chiesa e ci pone interamente al
servizio della sua missione” (Cost 6). Sono ancora le Costituzioni a riconoscere
che “la missione dà a tutta la nostra esistenza il suo tono concreto” e “specifica il
compito che abbiamo nella Chiesa” (Cost 3). Ciò significa che la missione fa parte
della nostra identità carismatica; così che il fallimento della missione
comporterebbe il fallimento del carisma. Una missione non adeguatamente
inculturata è, senza dubbi, una missione fallita: “l’annuncio ‘inculturato’
[accomodata praedicatio] della parola rivelata deve continuare ad essere la legge
di ogni evangelizzazione”.1
Non dalla Chiesa nasce la missione, ma dal Signore Risorto (cf. Mt 28,19; At
1,8), che l’ha affidata ai suoi testimoni (cf. Lc 24,46-48) assicurando loro la
presenza e l’assistenza del suo Spirito (cf. Gv 20,22-23). Del resto, la stessa
missione di Cristo non da Lui trae origine, ma dal Padre che “tanto amò il mondo”
(Gv 3,16) da mandare “il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per
riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli”
(Gal 4,4-5). La missione è sorta, dunque, dall’intimità di Dio, che ha generato il
Figlio e l’ha inviato per incarnarsi nella storia e, rivelando così il suo amore,
portare a termine l’opera di salvezza. Da Dio Padre procede pure il Paraclito che
Gesù ha inviato alla sua Chiesa (Gv 15,26); essa, come già era avvenuto per Gesù
(Lc 4,18-19), ha iniziato la sua missione quando ha ricevuto ed accolto il dono
dello Spirito (At 2,1-33). Come per la Chiesa, così è per la Congregazione:
missione non è primariamente quanto, in qualche modo, si fa a favore di altri;
missione è piuttosto il farsi presente Dio nella persona dei suoi inviati: il Figlio, lo
1 GS 44.
2

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Spirito, la comunità. In tal modo, la missione viene scaricata del peso eccessivo
della responsabilità circa i risultati e diventa proclamazione efficace e visibile
dell’amore di Dio quale traspare nell’essere, prima, e nell’operare poi, dei suoi
inviati. La Chiesa ha senso solo come segno e strumento per comunicare questo
amore “missionario” del Dio Trino; infatti, “tutte le attività della Chiesa sono
pervase dell’amore” divino, che è “la fonte della missione della Chiesa”.2 Ed è a
questa missione che, per vocazione, noi siamo associati, essendo “nella Chiesa
segni e portatori dell’amore di Dio ai giovani, specialmente i più poveri” (Cost 2).
Dunque, quando “venne la pienezza del tempo”, e Dio volle riscattare coloro
che erano sotto la legge e farli figli adottivi, “mandò il suo Figlio” tra di noi:
l’eterna Parola del Padre (Gv 1,14), entrò a far parte della storia umana calandosi
nel grembo d’una donna come nel contesto d’una cultura particolare. È questo
“rimpicciolirsi” del Verbo, questo assumere la condizione di servo senza
aggrapparsi alla sua uguaglianza con Dio ma svuotando se stesso (cf. Fil 2,6-7),
ed è questo farsi contingente nel tempo e nello spazio – non per finzione ma in
verità – che rivela l’accondiscendenza di Dio per l’uomo, proclamando il suo
infinito amore. Ecco infatti Gesù di Nazaret assumere pienamente la cultura dei
contemporanei con tutta la sua grandezza e i suoi limiti, figlio di un popolo
specifico, l’Israele di quel tempo. Davvero obbediente al Padre e davvero
obbediente all’uomo!
Ed è proprio obbedendo a questa economia che il Figlio è diventato nostro
Salvatore. «Quod non est assumptum, non est sanatum»; «quod semel assumpsit
numquam dimisit»3: i due conosciuti assiomi patristici esprimono bene questa
legge paradossale della salvezza: non c’è salvezza senza incarnazione, né
incarnazione senza inculturazione. Affermare, dunque, “la nativa indole
missionaria della Chiesa significa testimoniare essenzialmente che il compito
dell'inculturazione, come integrale diffusione del Vangelo e sua conseguente
traduzione in pensiero e vita, continua ancor oggi e costituisce il cuore, il mezzo e
lo scopo della nuova evangelizzazione”.4
2. Cambio di paradigmi culturali
Soggetto della missione salesiana nel mondo è oggi una comunità di circa
sedicimila membri presenti in tutti i continenti e sparsi in ben 132 paesi diversi.
Anche se non tutti i confratelli ne sono consapevoli, il noto fenomeno della
globalizzazione è un fatto vissuto nella nostra Congregazione. Il che ci confronta
con la sfida, sempre più incalzante, di realizzare l’unico carisma salesiano in una
molteplicità di variegati contesti sociali, religiosi e culturali. Non c’è dubbio che il
carisma salesiano è uno, valido per tutti e per ciascuno; ma non può essere
vissuto in forma univoca; se non ben radicato nella cultura in cui la comunità
svolge la sua missione, non saprà sprigionare le virtualità di salvezza che
2 Cf. BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti alla X Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio per
il Dialogo Interreligioso, Roma, 7 giugno 2008.
3 Cf. A. GRILLMEIER, LThK 8, pp. 954-955; Id., Jesus der Christus im Glauben der Kirche. I,
Freiburg 1979.
4 GIOVANNI PAOLO II, Discorso al termine dei lavori del Consiglio Internazionale per la Catechesi,
Roma, 26 settembre 1992.
3

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racchiude, non risulterà significativo nell’oggi della nostra storia, né potrà
sussistere nel domani.
Non di rado, durante le mie visite nelle Ispettorie, ho l’impressione che tanti
dei nostri confratelli, presi dalle urgenze apostoliche del momento, non prestino
la dovuta attenzione a tale responsabilità. Viene anche qualche dubbio circa la
formazione iniziale: è ovvio che, negli anni di formazione, si favorisca nel giovane
confratello l’appropriazione personale del carisma, ma forse si trascura o non si
dà il giusto valore all’educazione d’una adeguata sensibilità culturale, con
particolare riguardo alle culture giovanili.
Stiamo vivendo un cambiamento epocale, al quale non sfugge né la Chiesa né
la Congregazione, cambiamento che genera crisi ed insicurezza, ma nondimeno
suscita nuove aspettative e propone vere opportunità, appena immaginabili
qualche tempo fa. Mi sembra doveroso accennare qui, anche se brevemente, ad
alcuni dei fatti che meglio identificano il cambiamento in atto e che mettono in
discussione la nostra forma di vivere da consacrati educatori e di attuare la
nostra missione.
La globalizzazione
La globalizzazione caratterizza, senza dubbio, il momento storico in cui
viviamo. Fenomeno inarrestabile e recente che riguarda, in primo luogo, le nuove
forme dell’organizzazione giuridica, produttiva e finanziaria, sorte nel cosiddetto
‘primo mondo’ con l’intenzione precisa di creare su scala mondiale un unico
mercato e massimizzare i profitti, la globalizzazione è riuscita non solo ad
unificare e omogeneizzare le condizioni economiche ma anche gli stili di vita, la
cultura e, più in generale, le ideologie ‘politicamente corrette’ in conformità col
modello occidentale. La globalizzazione ha eliminato distanze e frontiere, ha
avvicinato popoli e persone; oggi è possibile inviare in ogni parte del mondo un
numero pressoché infinito d’informazioni. Questa possibilità di collegare in pochi
secondi luoghi distanti migliaia di chilometri ha finito col condizionare anche i
sistemi di produzione e di commercializzazione: i capitali non hanno più patria,
né più sono garantiti i posti fissi di lavoro o la sicurezza dei cittadini, visti i flussi
migratori ed i fenomeni ad essi legati. Va riconosciuto che la globalizzazione ha
offerto ed offre indubbi vantaggi, ma va anche detto che ha condizionato e
condiziona ogni contesto della società attuale, ormai convertita in un "villaggio
globale", così che società fino a ieri distinte per culture, tradizioni, credenze e
mode si trovano sprofondate in un amalgama che minaccia le loro identità
peculiari.
Si tratta, dunque di una realtà ambigua, che tende a livellare tutto e tutti
secondo parametri che non rispettano le differenze ed escludono chi non vi si
adegua. “Si ha l'impressione che i complessi dinamismi, suscitati dalla
globalizzazione dell'economia e dei mezzi di comunicazione, tendano a ridurre
progressivamente l'uomo ad una delle variabili del mercato, ad una merce di
scambio, ad un fattore del tutto irrilevante nelle scelte più decisive. L'uomo
rischia di sentirsi in tal modo schiacciato da meccanismi di dimensioni mondiali e
senza volto e di perdere sempre più la sua identità e la sua dignità di persona. A
motivo di tali dinamismi, anche le culture, se non accolte e rispettate nella loro
4

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originalità e ricchezza, ma adattate forzatamente alle esigenze del mercato e delle
mode, possono correre il pericolo dell'omologazione. Ne deriva un prodotto
culturale connotato da un sincretismo superficiale, in cui si impongono nuove
scale di valori, derivanti da criteri spesso arbitrari, materialistici e consumistici e
restii a qualsiasi apertura al Trascendente”.5
In Congregazione, come nella Chiesa, non siamo estranei a questo processo e
dovremmo prendere sul serio la sfida di promuovere e tramandare “una cultura
viva, una cultura in grado di promuovere la comunicazione e la fraternità fra
diversi gruppi e popoli e fra i diversi campi della creatività umana. In altre parole,
il mondo di oggi ci sfida a conoscerci e a rispettarci l'un l'altro nella diversità delle
nostre culture e attraverso di essa”.6 Attraverso le nostre presenze apostoliche, e
prima di tutto all’interno delle nostre comunità religiose, sempre più
pluriculturali, siamo chiamati a vivere e testimoniare una comunione nella quale
“l'attenzione reciproca aiuta a superare la solitudine, la comunicazione spinge
tutti a sentirsi corresponsabili, il perdono rimargina le ferite …. In comunità di
questo tipo, la natura del carisma mobilita le energie, sostiene la fedeltà ed
orienta il lavoro apostolico di tutti verso l'unica missione. Per presentare
all'umanità di oggi il suo vero volto, la Chiesa ha urgente bisogno di simili
comunità fraterne, le quali con la loro stessa esistenza costituiscono un
contributo alla nuova evangelizzazione, poiché mostrano in modo concreto i frutti
del «comandamento nuovo»”.7
Vivendo da fratelli tra noi e da operatori di pace e solidarietà con tutti,
promoviamo l’unità della famiglia umana e la trasformazione del mondo secondo
il cuore di Dio; “dalla fede vissuta con coraggio scaturisce, anche oggi come in
passato, [quella] feconda cultura fatta di amore alla vita”8, che contraddistingue il
carisma salesiano. Così possiamo rispondere con efficacia al nostro compito ed
offrire un contributo originale, quello cioè di “affrontare creativamente la sfida
dell’inculturazione e conservare nello stesso tempo la [propria] identità”9.
Il dialogo interreligioso
Nel quadro della nostra attività apostolica, oltre al processo di inculturazione,
ci vediamo sempre di più confrontati, e a volte sfidati, dal pluralismo culturale e
in specie da quello religioso, fenomeni che pervadono il mondo attuale. Alla
tendenza a livellare tutto, che caratterizza il processo di globalizzazione in atto, si
oppone una forte affermazione di culture particolari e di religioni, sia antiche che
recenti; esse esigono riconoscimento e rispetto, cercano di affermarsi o di
proteggersi, manifestando a volte reazioni fondamentaliste, quando avvertono
minacce alla loro identità e alla libertà di espressione. Così che, nelle attuali
5 GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai membri delle Pontificie Accademie in occasione della sesta seduta
pubblica (8 novembre 2001).
6 GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai Rappresentanti del mondo della cultura e della scienza, (Tbilisi,
Georgia, 9 novembre 1999).
7 VC 45. Cf. Benedetto XVI, Omelia nella Solemnità del Corpus Domini (23 giugno 2011).
8 BENEDETTO XVI, Discorso all’Assemblea del II Convegno di Aquileia (7 maggio 2011), Il Regno.
Documenti 56 (2011) pp. 322-323.
9 VC 51. “La sfida dell'inculturazione va accolta dalle persone consacrate come appello a una
feconda collaborazione con la grazia nell'approccio con le diverse culture” (VC 79).
5

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circostanze storiche, il dialogo interreligioso ha assunto una nuova e
imprescindibile urgenza, divenendo un elemento strategico della missione.
La Chiesa si è impegnata da tempo a “costruire ponti di amicizia con i seguaci
di tutte le religioni, al fine di ricercare il bene autentico di ogni persona e della
società nel suo insieme”.10 Anche se il vangelo continua ad essere “la priorità
permanente” della sua missione, “il dialogo interreligioso fa parte della missione
evangelizzatrice della Chiesa”11: dedicandosi, dunque, all’evangelizzazione,
ognuno dei fedeli e tutte le comunità cristiane sono chiamate a praticare questo
dialogo.
Per i salesiani che operano, oggi, a favore di giovani in tutti gli scenari
possibili, missio ad gentes inclusa, il dialogo interreligioso non può essere
ritenuto un’attività marginale nel vivere da credenti e nel porsi a servizio della
fede, né una scelta puramente personale o di Congregazione, ma va riconosciuto
come “un servizio necessario all’umanità,”12 anzi, “qualcosa che sorge dalle
esigenze proprie della fede. Sgorga dalla fede e deve essere nutrito dalla fede”.13
Infatti, dialogare tra credenti di diversa fede, e pure con non credenti, “è un
cammino di fede”;14 esso non richiede di rinunciare ad elemento alcuno della
nostra identità cristiana, sia di quanto crediamo sia di quanto pratichiamo, e
neppure di metterlo tra parentesi o addirittura in dubbio; ben al contrario: i
nostri interlocutori, siano essi i ragazzi che educhiamo o persone che condividono
il nostro lavoro educativo, desiderano, e con pieno diritto, conoscere chiaramente
chi siamo, cosa pensiamo e per Chi lavoriamo. Certo, educhiamo ed
accompagniamo i giovani cristiani nel loro cammino di fede; ma siamo altresì
consapevoli che, in modo sempre più massiccio, giovani o collaboratori
appartenenti ad altre religioni o indifferenti dal punto di vista religioso, e persino
miscredenti, cercano noi come educatori, compagni di viaggio e guide. Li
avviciniamo, perciò, con cordiale interesse, viviamo e lavoriamo con loro nel
rispetto assoluto della loro libertà, sempre proponendoci come testimoni gioiosi di
Gesù Cristo e membri leali di una comunità di fede.
Per noi il dialogo, più che un ‘metodo’ per svolgere la missione salesiana, è il
‘modo’ stesso per realizzarla. E se c’è un “dialogo dell’azione” che ci sprona a
cercare forme concrete di leale collaborazione, “mentre applichiamo le nostre
intuizioni religiose [e carismatiche] al compito di promuovere lo sviluppo umano
integrale, lavorando per la pace, la giustizia e la salvaguardia del creato”,
dovremmo soprattutto centrarci, come educatori, sul “dialogo della vita” che
implica semplicemente di “vivere fianco a fianco ed imparare l’uno dall’altro, in
maniera di crescere nella reciproca comprensione e nel reciproco rispetto”.15
10 BENEDETTO XVI, Discorso ai Rappresentanti delle Chiese e comunità ecclesiali e di altre Religioni
non cristiane, Roma, 25 aprile 2005..
11 GIOVANNI PAOLO II, Redemptoris Missio. Enciclica circa la permanente validità del mandato
missionario, 44.55. Roma 12 settembre 1990.
12 JEAN LUIS, CARD. TAURAN, Intervento nella VI Conferenza di Doha sul Dialogo interreligioso (13
maggio 2008).
13 Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, Lettera ai Presidenti delle Conferenze Episcopali
sulla Spiritualità del Dialogo (3 marzo 1999) 1..
14 BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti alla X Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio per il
Dialogo Interreligioso, Roma, 7 giugno 2008.
6

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È così che il dialogo si converte in annuncio: “due modi di implementare la
missione della Chiesa”.16 Noi lo realizziamo da credenti ed educatori: dialogando
con altri credenti testimoniamo Cristo e lo imitiamo “nella sua preoccupazione e
compassione per ciascuno e nel rispetto per la libertà della persona”.17 In un
mondo segnato dal pluralismo religioso, proclamare la propria fede ha risonanze
nuove, ancora da esplorare; consegnati completamente a Dio, camminiamo
assieme a persone di diversa fede e cultura verso l’unico Padre, mettendole al
centro delle nostre preoccupazioni, ascoltando e appropriandoci delle questioni
che le assillano e cercando insieme le risposte che danno senso alla nostra
comune storia.
La situazione giovanile
Mentre globalizzazione e dialogo interreligioso sono avvenimenti che
interpellano oggi la missione salesiana ‘dall’esterno’, provengono cioè dal
cambiamento nel paradigma culturale attuale, mi sembra di percepire in
Congregazione un fenomeno assai preoccupante, che può mettere a rischio
l’ineludibile responsabilità che abbiamo d’inculturare il carisma salesiano a
favore dei giovani, attraverso l’educazione e l’evangelizzazione. Qua e là registro
tra i confratelli una resistenza più o meno consapevole, e talora una incapacità
dichiarata, ad accostarsi con simpatia, ad illuminare con perspicacia, frutto di
studio, e ad accogliere cordialmente le nuove forme di espressione che
caratterizzano i giovani d’oggi, non meno che le esperienze collettive con le quali
danno forma ai loro ‘spettacolari’ stili di vita18, quelle cioè che, normalmente, si
affermano nel tempo libero, quasi sempre ai margini delle consuete istituzioni
sociali.
Frutto del profondo cambio culturale in cui siamo immersi nel nostro
Occidente sono, ad esempio, l’interpretazione della realtà più come storia
mutante che come natura stabile, e la rivendicazione dell’individuo che si vede e
si vuole come valore assoluto, in continua ricerca di sé, provvisto di una quasi
illimitata libertà di sperimentazione e fiero della sua autonomia personale. In
questo contesto, i giovani – la metà della popolazione mondiale è sotto i 20 anni –
diventano purtroppo più vittime che protagonisti. Privi di radici e sganciati da
riferimenti solidi, sono costretti a procurarsi da soli un’identità personale e
scegliersi un cammino preciso di realizzazione. Essi non trovano nella società, e
spesso neppure nella Chiesa, modelli da assumere, mete attraenti da perseguire e
nemmeno guide affidabili cui rivolgersi, tanto più che la famiglia è assente o
impreparata, mentre la scuola si mostra lontana dal mondo giovanile ed inefficace
15 BENEDETTO XVI, Discorso ai Rappresentanti istituzionali e laici di altre religioni, Londra, 17
settembre 2010.
16 Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, Dialogue and Proclamation. A Reflection and
Orientations on Interreligious Dialogue and the Proclamation of the Gospel of Jesus Christ, 82.
Roma, 19 maggio 1991.
17 Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, Lettera ai Presidenti delle Conferenze Episcopali
sulla Spiritualità del Dialogo, 6. Roma, 3 marzo 1999.
18 Cf. J. GONZÁLEZ-ANLEO – J. M. GONZÁLEZ-ANLEO, La juventud actual, Verbo Divino, Estella 2008,
44. Per una descrizione degli stili di vita giovanili nelle società occidentali, vedi la monografia “De
las ‘tribus urbanas’ a las culturas juveniles”, Revista de estudios de Juventud 64 (2004) pp. 39-
136.
7

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nelle metodologie sia educative che didattiche.19 Usufruendo sempre più di una
libertà senza norme e senza orizzonti, immersi in un clima culturale sempre più
complesso e confuso, avvolti e talora travolti da un mercato di molteplici e
variegati valori religiosi e morali, sono obbligati a “inventare la propria vita senza
un manuale di istruzioni”.20
Il CG 26 illustra questa situazione quando, parlando delle nuove frontiere,
afferma: “riconosciamo pure le attese dei giovani spiritualmente e culturalmente
poveri, che sollecitano il nostro impegno; giovani che hanno perso il senso della
vita, carenti di affetto a causa della instabilità della famiglia, delusi e svuotati
dalla mentalità consumista, indifferenti religiosamente, demotivati dal
permissivismo, dal relativismo etico, dalla diffusa cultura di morte”.21
Questa solitudine affettiva non è l’unica, né direi la più estesa forma di povertà
esistenziale, in cui i giovani d’oggi si imbattono. La stragrande maggioranza di
quelli che popolano il cosiddetto ‘Terzo Mondo’ conosce bene l’indigenza
economica, la precarietà familiare, la discriminazione razziale, le carenze
educative e culturali, l’impreparazione al lavoro, lo sfruttamento ignobile da parte
di terzi, l'impiego abusivo come mano d'opera, la chiusura di orizzonti che soffoca
la vita, dipendenze varie e altre devianze sociali.
La mappa attuale dello smarrimento giovanile è un quadro così desolante che
chiama ad un’urgente conversione alla compassione (cf. Mc 6,34; 8,2-3) non
meno che all’azione (cf. Mc 6,37; 8,4-5), perché tutti quanti ci sentiamo inviati a
essere per loro “segni e testimoni dell’amore di Dio” (Cost 2). Basti un semplice
elenco di situazioni per capire l’urgenza del momento:
– I milioni – cento circa – di ragazzi di strada, che hanno preferito prendere la
strada come ‘habitat’ naturale, talmente insopportabile era la loro situazione
familiare. Alcuni trovano rifugio in tane o fogne, un migliaio solo a Bucarest,
un milione nell’Europa Ovest, 12 milioni nel mondo.
– I circa 300.000 ragazzi-soldato, che operano nell’esercito regolare o come
sicari, appena giovani ma già al servizio della morte.
– Il numero sempre in crescita di ragazzi violati, vittime della pedofilia e del
cosiddetto turismo sessuale: un milione di bambini, secondo i dati
dell’UNICEF, verrebbero introdotti ogni anno nel commercio sessuale, un
mercato che muove 13 miliardi di dollari ogni anno.
– Si contano sui 250 milioni i minorenni, bambini e bambine tra i 5 e i 15 anni,
costretti a lavori vietati per pericolosità fisica, psichica o mentale, talora resi
schiavi, e questo a più di un secolo dalla abolizione legale della schiavitù.
– La cifra dei giovani poveri ed emarginati, privi di accesso a tutti quei beni ai
quali ha diritto ogni persona va oltre qualsiasi previsione: più di 600 milioni
di bambini vivono sotto la soglia della povertà, 160 milioni quelli denutriti; 6
milioni ogni anno muoiono di fame: 17 mila al giorno, 708 ogni ora...
– I ragazzi di nessuno, senza genitori, casa, patria, sono circa 50 milioni. Quelli
senza istruzione, analfabeti, arrivano a 130 milioni. Almeno 6 milioni di bimbi
19 “Non è in questo prescindere dai giovani il vero segno del tramonto della nostra cultura?” (U.
GALIMBERTI, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano, 2008, p. 13).
20 J. A. MARINA, Aprender a vivir, Ariel, Barcelona 2004, p. 183.
21 CG26, 98
8

1.9 Page 9

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sono stati mutilati e si parla di 4 milioni di donne e bambini donatori forzati
di organi.
Ogni minuto nei cinque continenti 5 bimbi contraggono l’AIDS. Sono quasi 11
milioni i minori che hanno contratto il virus. E solo in Africa si registrano 13
milioni di orfani causati dall’AIDS. Quanti, poi, i bimbi attaccati da
tubercolosi, malaria, meningite, epatite, colera, ebola…?
– Sono più di 50 milioni i bambini profughi e/o rifugiati vittime di odi razziali,
guerre, persecuzioni, ammassati in campi profughi o dispersi qua e là.
Dinanzi a questo panorama, così drammatico, delle piaghe del mondo
giovanile, noi Salesiani non possiamo non essere, come Don Bosco, “dalla parte
dei giovani, perché abbiamo fiducia in loro, nella loro volontà di imparare, di
studiare, di uscire dalla povertà, di prendere in mano il proprio futuro … Siamo
dalla parte dei giovani, perché crediamo nel valore della persona, nella possibilità
di un mondo diverso, e soprattutto nel grande valore dell’impegno educativo”.
Tanta sventura ha sollecitato le nostre coscienze: il 20 aprile 2002, alla fine del
CG 25, io e 231 rappresentanti dei Salesiani nel mondo abbiamo sottoscritto un
appello, rivolto sì a tutti quelli che hanno responsabilità nei confronti dei giovani,
ma che innanzitutto obbliga noi: “Prima che sia troppo tardi salviamo i ragazzi, il
futuro del mondo”22.
Un continente, il digitale, da lievitare
“La Chiesa, se vuol rimanere fedele alla sua missione, deve imparare i
linguaggi degli uomini e delle donne di ogni tempo, etnia e luogo. E noi, Salesiani,
in modo particolare, dobbiamo imparare e utilizzare il linguaggio dei giovani […]
In fondo, si tratta di un problema di comunicazione, d’inculturazione del vangelo
nelle realtà sociali e culturali, un problema di educazione alla fede per le nuove
generazioni”.23 Questo sforzo d’inculturare la visione salesiana della vita nel
mondo attuale, deve includere necessariamente nel suo scopo il nuovo continente
digitale, il quale non è una realtà puramente strumentale; esso infatti conforma
nuovi codici culturali; e se è vero che crea inedite possibilità di interazione
comunicativa, presenta pure pericoli finora ignorati.
Il termine “continente digitale” è una felice intuizione di Papa Benedetto XVI,
espressa nel suo Messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali
del 2009, in un contesto che chiamava i giovani ad evangelizzare i loro compagni.
C’è un’immagine biblica che può aiutarci a capire che cosa significhi
inculturare il carisma nel continente digitale. La troviamo in Mt 13,33 (e Lc
13,20-21): la donna che ‘nasconde’ il lievito in tre misure di farina “perché tutta
si fermenti”. Che cosa può significare far “lievitare” il continente digitale? Ê
un’immagine semplice, ma che esprime bene la nostra preoccupazione nel
momento in cui il WEB di circolazione mondiale (solo per fare un esempio) sta
passando da Web 2.0 a Web 3.0; da un Web che si concentrava nell’allacciamento
interattivo delle persone, ad uno che fa interagire dati in modo significativo. È un
22 Cf. CG 25, “Appello per salvare i giovani del mondo”, La Comunità Salesiana oggi. Documenti
Capitolari, ACG 378 (2002), pp. 110-112.
23 PASCUAL CHÁVEZ, “Discorso alla chiusura del CG 26, in “Da mihi animas, cetera tolle”.
Documenti Capitolari. CG26, Editrice S.D.B., Roma 2008, p. 140.
9

1.10 Page 10

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cambiamento che si sta verificando in forma sottile sotto i nostri occhi, e che non
è dissimile da quello del lievito nella massa. Chi di noi non ha cliccato il link di
una grande città e non ha visto apparire un’infinità di opzioni – alberghi dove
alloggiare, eventi a cui partecipare, posti da visitare - e il tutto in obbedienza ai
suoi interessi personali? Forse che il computer conosceva questi suoi interessi?
No di certo, ma sapeva come fare per creare un collegamento tra significati, in
questo caso tra interessi ed offerte. La risposta è nella semantica (scienza dei
significati), ma soltanto gli esseri umani possono (lo possono! è ciò che noi non
dobbiamo perdere di vista) offrire queste semantiche in modo che le macchine
riescano a interpretarle.
La tradizione spirituale cristiana classica ci offre un’altra immagine che può
aiutare in questo contesto. La troviamo nel Castello interiore di S. Teresa d’Avila,
testo che nella sua applicazione non conosce limiti del tempo. “Ho incominciato a
pensare all’anima come se fosse un castello, fatto con un solo diamante o con un
solo cristallo molto chiaro”24, ella dice, e poi ci guida attraverso sette “mansioni” o
stanze, costituente ognuna un luogo del percorso verso la definitiva unione con
Dio, che è posto al centro del castello. Può essere un’altra immagine che aiuta a
muoversi nel continente digitale. Pensiamo al castello come al continente digitale,
con molte “stanze” e “allacciamenti”. Come troviamo la strada per muoverci verso
il centro? Le varie stanze sono collegate in modo significativo? È possibile trovare
percorsi per arrivare alla meta? Il centro è ancora Dio, naturalmente, e Cristo è la
guida, ma “… l’annuncio di Cristo nel mondo delle nuove tecnologie suppone una
loro approfondita conoscenza per un conseguente adeguato utilizzo”.25
Una terza immagine ci può venire in soccorso: pensiamo ad un giardino, forse
alquanto trascurato ma non privo di sentieri e con un’infinità di rampicanti e
liane. Potremmo muoverci nel giardino seguendo i sentieri o servendoci delle
liane. Ma possiamo anche immaginare come vanno le cose nel sottosuolo dove
tutto si sviluppa in un ecosistema complesso, forse disordinato, ma
eminentemente pieno di vita!
Ognuna delle tre immagini – lievito, castello, ecosistema – ci aiuta a cogliere
più pienamente il senso di cosa significhi inculturare il carisma nel continente
digitale. È uno dei compiti della Nuova Evangelizzazione. In certo senso si tratta
di un compito nascosto, ma con indicazioni che possiamo seguire. C’è una vera
Guida al castello virtuale se aiutiamo le tecnologie a servire la missione. E siamo
invitati a entrare nel complesso, forse disordinato, ecosistema pieno di vita,
coscienti che Gesù vuole che siamo lì nel Suo nome!
Non possiamo evitare di vivere, o almeno di vivere parzialmente, nel continente
digitale d’oggi. Come saggiamente afferma Manuel Castells: “Uno potrebbe dire:
«Perché non mi lasci in pace? Non voglio saperne del tuo Internet, della tua civiltà
tecnologica, della tua società dei network. Voglio vivere tranquillamente la mia
vita». Se questa è la tua posizione, ho una brutta notizia per te. Se non ti
preoccupi dei notiziari, i notiziari si preoccuperanno comunque di te. Fin quando
vorrai vivere in questa società, in questo tempo e in questo posto, dovrai vedertela
24 TERESA D’AVILA, (1515-1582), Moradas del castillo interior I, 1,1, in Obras Completas, Efrén de
la Madre de Dios – Otger Steggiink (eds), BAC, Madrid 1982, p. 365.
25 Benedetto XVI, Messaggio per la LXIII Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali
(24.01.2009).
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2 Pages 11-20

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2.1 Page 11

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con la società delle comunicazioni”.26
Invece di essere trascinati contro voglia nel continente digitale, abbiamo il
dovere di trovarci lì in modo reale ed efficace. Oggi ciò vuol dire, tra l’altro, curare
strutture significative, introdurre collegamenti validi nei nostri documenti e dati.
Possiamo guidare tecnologie di ricerca, per esempio, con documenti che puntino
più alla struttura semantica che al fatto di apparire “belli” ed attraenti. Il primo
compito compete a ogni salesiano che 'tweetta', comunica con ‘email’ o scrive!
L’ultimo compito, a chi ha la responsabilità delle migliaia di website salesiane nel
mondo.
Quest’ultimo gruppo non è una schiera piccola nella Congregazione!
Pochissime comunità, centri, opere sono prive di un sito web. I responsabili – sia
salesiani che collaboratori laici – disimpegnano un ruolo sempre più significativo
nel modo in cui il carisma è compreso e inculturato nel continente digitale. Essi
possono, infatti, far sì che “carisma” diventi una parola di ricerca importante oggi,
e portare a contesti che noi desideriamo determinare, invece di lasciarli a motori
di ricerca, che li indovinano in modo casuale o sbagliato.
In altre parole, entrare ed agire in questo ambito esige chiarezza di idee, viva
coscienza etica, spiccata sensibilità educativa e spirituale, non meno che
un’adeguata conoscenza degli strumenti e delle logiche che li governano. Il settore
della Comunicazione Sociale sta lavorando in questo campo e può già offrire a
confratelli e collaboratori laici riflessioni interessanti, in certi casi consigli tecnici
puntualizzati. Non si tratta di consigli dati per il gusto di consigliare, né di
tecnologia offerta per il gusto della moda tecnologica. Il settore delle
Comunicazioni Sociali lavora in pieno accordo con quelli della Pastorale, della
Formazione e delle Missioni a favore del carisma e della comune missione.
Insieme ci aiutano a inculturare, e con ciò a proporre e a divulgare nel nostro
mondo, in continuo e rapido cambiamento, una prospettiva di fede fondata sulla
visione del nostro padre Don Bosco.
Riassumendo: la Congregazione si è impegnata, mediante l’educazione e la
prevenzione, a ridare la parola ai giovani, ad aiutarli a ritrovare se stessi, ad
accompagnarli con pazienza e fiducia nel cammino della loro costruzione
personale, ad offrire loro strumenti per guadagnarsi la vita; ma, allo stesso
tempo, siamo impegnati a proporre un modo loro confacente di relazionarsi con
Dio. E lo vogliamo fare, abitando il loro mondo e parlando il loro linguaggio,
affiancandoci a loro non solo come a nostri destinatari privilegiati ma, sopra
tutto, come a compagni di viaggio. O non ha niente da dirci il fatto che siamo
nati, come Congregazione, un lontano 18 dicembre 1859 tra ragazzi, per
l’esattezza da 16 di essi, adolescenti tra i 15 e i 21 anni, che, avendo
sperimentato su di sé l’opera di riscatto e di promozione di Don Bosco, vollero
partecipare alla sua missione assumendo un ruolo di soggetti protagonisti?
Per ricreare il carisma salesiano nelle più variegate situazioni dove ci troviamo,
non basta adattarlo ai diversi contesti giovanili; ancor più, occorre investire sui
giovani, facendoli diventare soggetti protagonisti e collaboratori fidati, senza mai
26 Cf. M. CASTELLS, The Internet Galaxy: Reflections on the Internet, Business, and Society,
University Press, London 2001, p. 282.
11

2.2 Page 12

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dimenticare che sono la ragione della nostra consacrazione a Dio e della nostra
missione.
3. La chiesa primitiva, modello e norma di evangelizzazione inculturata27
Il vangelo è nato, è stato formulato e proclamato dentro una particolare
cultura. Sappiamo che le prime affermazioni sulla risurrezione di Gesù (cf. 1 Cor
15,3-5; At 2,24-35), sulla sua messianicità (cf. At 5,42; 9,22) e signoria universale
(cf. At 2,36), come anche gli inviti alla conversione (cf. At 2,40; 3,19), tutto questo
è stato formulato in categorie culturali proprie di Israele. Mentre questa nuova
fede veniva presentata ai giudei, non c’era bisogno di aggiungere né lunghe
spiegazioni dei termini (cf. At 3,21-26), né una introduzione al pensiero
sottostante (cf. At 2,25-32.34-35). Basterebbe pensare alla prima predicazione di
Pietro a Gerusalemme nel giorno della Pentecoste (cf. At 2,14-41) per trovare un
buon esempio di una evangelizzazione perfettamente inculturata nella mentalità
religiosa sia del predicatore che dei suoi ascoltatori.28
Una missione riuscita perché ben inculturata
Solo venticinque anni dopo la morte di Gesù e grazie ad una mirabile
espansione missionaria portata avanti dal gruppo degli ‘ellenisti’ (cf. At 6,1; 9,29),
nelle comunità cristiane divennero maggioranza i credenti di origine e di cultura
pagana. È ovvio che i più antichi discepoli del Signore non erano preparati ad
affrontare la situazione che si era venuta creando come conseguenza dell’apertura
dei gentili al vangelo e della loro incorporazione nella vita della comunità.
Non si trattava più di trovare un posto nella comunità per singoli individui,
come fu il caso dell’eunuco (At 8,26-40) o del centurione Cornelio (At 10,1-11,18).
Occorreva adattarsi alla presenza di intere comunità di estrazione etnica,
mentalità e costumi diversi, all’interno dell’unico e definitivo popolo di Dio. La
stessa comunità di Gerusalemme, dove fin dal principio vi erano stati credenti di
diversa provenienza culturale (cf. At 2,5-12; 6,1; 9,29), aveva sperimentato le
difficoltà che comportava la convivenza (At 6,1-6) e aveva persino sofferto
persecuzione a causa di ciò (At 8,1-3). In gioco era l’identità stessa della nuova
vita comune nata dall’unica confessione di Cristo Gesù.
La dettagliata informazione che ci forniscono le fonti conferma l’importanza
che a questo conflitto attribuirono sia Paolo, uno dei protagonisti della vicenda
(Gal 2,1-10), che Luca (At 15,1-35). Anche se ambedue le narrazioni non sono un
resoconto protocollare completo e nemmeno neutrale, da esse si può cogliere
l’essenziale; il dibattito si centrava sul problema della circoncisione: bisognava o
no imporla ai nuovi cristiani non giudei? Al fondo c’era il desiderio di integrare i
pagani nel popolo giudaico come condizione sine qua non all’inserimento nella
comunità cristiana. La circoncisione era stata, e doveva continuare ad essere, il
27 Per questa riflessione biblica mi sono appoggiato in JUAN J. BARTOLOMÉ, Paolo di Tarso. Una
introduzione alla vita e all’opera dell’apostolo di Cristo, LAS, Roma 2009, pp. 177-192.
28 Un altro bel esempio di inculturazione del vangelo, questo però non riuscito, è il discorso di
Paolo ad Atene, “città piena di idoli” (At 17,16-31). Mentre Paolo parlò ad un auditorio incuriosito
su un Dio a loro sconosciuto, lo lasciarono parlare finché menzionò la risurrezione di un morto…,
una affermazione culturalmente inaccettabile.
12

2.3 Page 13

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segno dell’alleanza (Gn 17,11), la marca d’identità del popolo di Dio e la prova
della sua fedeltà; in conseguenza, non si riteneva sufficiente credere in Gesù;
questa fede, la si doveva innestare nel regime della legge mosaica.
La prassi degli ellenisti cristiani, che non avevano imposto la circoncisione –
come invece facevano i giudei con i ‘timorati di Dio’ – per non ostacolare la
conversione dei pagani, era considerata da alcuni una tattica opportunista, aliena
alla volontà salvifica di Dio. Dobbiamo a Paolo l’essersi reso conto con lucidità e
l’aver difeso con passione una pratica missionaria che non imponeva la
giudeizzazione dei credenti giunti dal paganesimo; è vero che non era stato lui ad
avviare questa prassi, ma l’aveva fatta propria con coerenza e convinzione (At
11,22). Paolo parla della distinzione tra il ‘vangelo della incirconcisione’ da lui
predicato e il ‘vangelo della circoncisione’ (Gal 2,7), che faceva capo a Pietro. Da
notare che si tratta di due espressioni uniche in tutta la letteratura antica. In tal
modo l’unico vangelo (Gal 1,6-9) viene accolto diversamente, secondo la
prospettiva ‘culturale’ degli ascoltatori; ad essere predicato è sempre e solo Cristo
Gesù; ma non nello stesso modo e non con le stesse applicazioni pratiche, per
giudei e gentili.
Unità nella fede, diversità nel suo vissuto
Dietro queste vicende si nasconde un paradigma, ossia una norma che può
orientare l’azione: inizia infatti un grande cambiamento nella storia del
giudaismo, al quale nasce un erede delle proprie promesse; questo non si sente
obbligato ad osservare la legge, che fino allora costituiva l’unica garanzia per
partecipare all’alleanza con Dio. Tale fatto è ancor più decisivo per l’origine della
comunità cristiana, poiché si stava già vivendo il vangelo di Gesù, ‘indipendente
dalla legge mosaica’ (Rm 3,21), liberato, quindi da quella cultura ebraica che fino
ad allora era stata suo grembo e rivestimento.
Era in gioco nientemeno che la [auto]coscienza della comunità cristiana, la
quale si vedeva progressivamente slegata dalla legge di Mosè e, quindi, non più
solo giudea. Non che la legge fosse diventata inutile; essa aveva conservato il suo
valore, ma solo per alcuni, mentre la fede nel Signore Gesù era offerta a tutti e
per la salvezza di tutti. I seguaci di Cristo, giudei o gentili che fossero,
diventavano, da quel momento e per sempre, il nuovo popolo di Dio, il vero
Israele.
Se ai convertiti dal paganesimo non si doveva imporre altra servitù se non il
giogo soave della fede in Cristo, le comunità pagano-cristiane venivano
riconosciute membra a pieno diritto del corpo che è la Chiesa; al suo interno
tutti vivevano l’unica fede, ma non tutti in modo uguale. Come Paolo scriverà a
metà degli anni cinquanta, ognuno deve continuare a vivere ‘secondo la
condizione che gli ha assegnato il Signore’ (1 Cor 7,17): come il pagano non deve
farsi giudeo per poter essere cristiano, ugualmente il giudeo non dovrà smettere
di vivere da giudeo per diventare cristiano. In tal modo la vita cristiana si declina
in una pluralità di culture poiché non esiste un’unica cultura esclusivamente
cristiana.
Per le comunità giudeo-cristiane e per l’evangelizzazione dei giudei rimanevano
in vigore le prescrizioni valide fino a quel momento. Ma si era infranta quella
13

2.4 Page 14

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concezione giudaica della legge, della storia della salvezza e del popolo di Dio, che
non tollerava accanto a sé l’esistenza di un’altra via di salvezza. Questo
supponeva un grande cambiamento – doloroso certamente – per i primi cristiani
che erano tutti giudei: potevano continuare ad obbedire alla legge (1 Cor 9,20-21),
come parte dei loro usi e costumi ancestrali, ma non potevano escludere i fratelli
non giudei dalla fede. Si mirava così non alla fusione di gruppi culturalmente
eterogenei, puntando sulla fraterna convivenza, ognuno conservando la propria
identità.
Ricordarsi dei poveri
L’accordo raggiunto da ambedue le parti sanciva la possibilità d’un annuncio
del vangelo ad un doppio uditorio, quello dei pagani e quello degli ebrei, ed
affermava l’uguaglianza di diritto tra le due missioni, del resto ormai in atto: si
poteva, anzi si doveva, essere cristiani alla maniera dei giudei o alla maniera dei
pagani (cf. Gal, 2,14). Diversa risultava la forma di vivere la fede, mentre essa
rimaneva unica, come unica era la vita comune.
Questa unità, suggellata da una stretta di mano “in segno di comunione” (Gal
2,9), fu confermata da una richiesta di “ricordarsi dei poveri” che Paolo e Barnaba
si affrettarono ad assumere. Il fatto non è insignificante. Paolo confessa subito
che prese molto a cuore tale impegno; ed infatti, raccogliere soldi per i poveri di
Gerusalemme diventò per lui parte integrante della sua missione evangelizzatrice
(cf. Gal 2,10; Rm 15,25-26; 1 Cor 16,1-3; 2 Cor 8-9). I ‘poveri’ da ricordare erano i
cristiani giudei della Palestina, che in un momento di grande entusiasmo per un
immediato ritorno del Signore, avevano messo a disposizione della comunità
“proprietà e sostanze” (At 2,45; 4,32-35). Non dimenticarli diventò per Paolo un
compito pastorale importante per irrobustire la comunione tra le chiese diverse
(cf. 1 Cor 11,23-26; Rm 15,27), tanto decisivo che arrivò a considerarlo come
culto e lui come ministro di Cristo (Rm 15,16).
Il ‘ricordo’ non si riduceva solo ad un aiuto economico, ma realizzava
concretamente l’unità delle Chiese; era come saldare un vicendevole ‘debito
d’amore’ tra di esse (Rm 13,8). Paolo non poteva concepire che un credente,
giudeo o pagano, pensasse di non aver bisogno dell’altro (cf. 1 Cor 12,14-26).
Una convivenza problematica come risultato
Una questione importante lasciata irrisolta dall’assemblea, a giudicare dalla
testimonianza di Paolo stesso (cf. Gal 2,11-21), fu la libera partecipazione alla
mensa comune da parte dei cristiani provenienti dal mondo pagano. La resistenza
sociale e culturale dei cristiani giudei a sedere a tavola con chiunque (Lv 17,8-14;
18,6-9) rispondeva ad un timore ancestrale e profondo – logico presso comunità
sempre in minoranza – di venire assimilati e di perdere la propria identità. Due
modelli di missioni, con diverse esigenze rituali e culturali, non potevano che
mettere in difficoltà la vita d’insieme. La convivenza tra giudei e pagani,
all’interno della stessa comunità cristiana, veniva così minacciata. Non sarebbe
stato meglio confessare la stessa fede in comunità separate da barriere sociali,
culturali, religiose?
14

2.5 Page 15

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Anche se per motivi diversi, né Luca né Paolo assecondarono tale proposito;
Luca menziona il così chiamato ‘decreto apostolico’ (cf. At 15,13-29; 21,25). In
esso si proibisce di mangiare carne sacrificata agli idoli (Lv 17,8; 1 Cor 8,10), si
ordina di astenersi dal sangue (Lv 17,10-12) e dalla carne di animali soffocati (cf.
Gn 9,4; Lv 17,15; Dt 14,21); si ordina di evitare unioni illegali (matrimonio tra
consanguinei?) (cf. Lv 18,6-18; 1 Cor 5,1-13). Questi precetti, cultuali in origine,
si basavano su ordinanze vetero-testamentarie per pagani residenti in Israele (cf.
Lv 17-18); e, secondo la tradizione rabbinica, facevano parte dei sette
comandamenti che avrebbero dovuto obbligare ogni uomo.
La stessa esistenza del decreto presuppone nella comunità cristiana una
duplice presenza, ebraica e pagana, ed attesta il permanere di difficoltà in quella
vita comune che la missione tra i gentili aveva fatto sorgere. I divieti, di cose
‘abominevoli’, riguardavano l’appartenenza alla comunità giudeocristiana degli
‘etnico cristiani’, e puntavano a facilitare i rapporti tra i due gruppi, miravano
quindi a favorire la convivenza, eliminando le connotazioni più ripugnanti che gli
ebrei associavano ai pagani. Imponendo solo questi obblighi agli ‘etnico cristiani’
(At 15,29), non si metteva in discussione la loro identità cristiana; anzi si sanciva
la libertà dalla circoncisione e dalla legge, ma si chiedevano alcune rinunce, di
tipo culturale, per facilitare ai giudei cristiani la comunione di vita. Di qui un
principio: più importante della propria cultura è il fratello per il quale Cristo è
morto, come dirà Paolo altrove (1 Cor 8,11).
Paolo pare ignorare questa imposizione: non ne fa parola nella sua cronaca dei
fatti (Gal 2,9) e non compare mai nelle sue lettere, anche se in qualche occasione
ha dovuto affrontare problemi simili (cf. 1 Cor 5-6; 8,1-11,1; Rm 14). In ogni caso,
presto divenne evidente la mancanza di una regolamentazione che riconoscesse, a
tutti gli effetti, i cristiani provenienti dal paganesimo come fratelli amati da Dio.
Il fatto e il principio
In ragione di queste tensioni, all’interno della comunità cristiana degli anni
cinquanta si era creata una pericolosa situazione prossima allo scisma, che
l’assemblea di Gerusalemme volle e seppe superare. Si riconobbe, non senza
fatica, che il cristianesimo nascente non era solo un movimento messianico di
stampo giudaico. Se viva poteva essere la coscienza della propria identità, ancor
più viva doveva essere la difesa dell’universalità della salvezza.
L’assemblea di Gerusalemme ci offre degli spunti per dare soluzione ai nostri
problemi nell’inculturazione del vangelo, offrendoci delle piste circa il modo di
affrontarli e di risolverli. Possiamo imparare a vedere:
1° Che i veri problemi delle comunità cristiane sono quelli che nascono dalla
predicazione del vangelo. La preoccupazione per salvare il vangelo in tutta
la sua verità (Gal 2,5.14) fu posteriore al lavoro svolto nella missione e
risulta una logica conseguenza del medesimo. Ancora: riguardo al problema
trattato a Gerusalemme, i cristiani non avevano soluzioni previe; le
cercarono in comunità, attraverso il dialogo e il discernimento fraterno.
2° Che la predicazione del vangelo, dovendo adattarsi a giudei e gentili,
obbedisce alla concretezza storica e deve adattarsi alle necessità degli
uditori; proprio per questo non mancheranno problemi per la confessione
15

2.6 Page 16

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dell’unica fede e per la vita in comune. Ma tali problemi, per quanto
inevitabili, non possono rompere la comunione che nasce dall’unica
vocazione alla salvezza.
Se per comunicare la salvezza all’uditore della Parola, la predicazione del
vangelo deve essere ‘inculturata’, per vivere la comune salvezza la cultura propria
è negoziabile; è lo stesso Paolo che lo testimonia: “Infatti, pur essendo libero da
tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: mi sono
fatto giudeo con i giudei per guadagnare i giudei; con coloro che sono sotto la
legge sono diventato come uno che è sotto la legge, pur non essendo sotto la
legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la legge … Mi sono fatto
debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per
salvare ad ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il vangelo, per diventarne
partecipe con loro” (1Cor 9:19-23). Invece è il fratello per il quale è morto il
Signore che non può mai essere sacrificato. Il limite invalicabile nell’annuncio del
Vangelo non è dunque la cultura che lo veicola né quella che lo accoglie, ma il
compagno di fede a cui non si può mai rinunciare. La ragione è che la stessa
cultura, per quanto importante, non ha valore assoluto, perché assoluto è solo
l’amore.
4. Guardando Don Bosco
Negli anni settanta Don Bosco arrivò “all’acme della sua intraprendenza e dalla
sua operosità”, guidato unicamente dal “fine primario assunto da sempre come
missione di vita: la salvezza dei giovani, l’assistenza, l’educazione”29: alla cura e
all’espansione delle ormai numerose opere giovanili si erano aggiunte le
sollecitudini e i faticosi processi per dar vita ed ottenere il riconoscimento
giuridico delle organizzazioni di sostegno e di animazione, quali erano la
Congregazione salesiana, l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice e l’Unione dei
Cooperatori salesiani. “Contemporanea a questa sorgeva nel 1875 l’ultima
iniziativa, quella missionaria … Ne conseguiva rapidamente l’universalizzazione
dei metodi educativi e del cosiddetto spirito salesiano, dando vita a un movimento
operativo e spirituale virtualmente vasto come il mondo”.30
L’ideale missionario aveva sempre accompagnato Don Bosco31: visse in un
periodo di forte risveglio missionario, per cui la sua chiamata ad essere apostolo
dei giovani nacque e si sviluppò come “un’estensione dell’idea germinale …, quella
della conquista delle anime mediante l’educazione cristiana della gioventù,
particolarmente povera, e mediante lo stile e i mezzi per essa concepiti” 32 nel suo
sistema pedagogico. E così, per Don Bosco le missioni diventarono “l’area
29 PIETRO BRAIDO, Don Bosco prete dei giovani nel secolo delle libertà. Vol. II, LAS, Roma 32009, p.
9.
30 PIETRO BRAIDO, Don Bosco prete dei giovani nel secolo delle libertà. Vol. I, LAS, Roma 32009, p.
370.
31 Cf. MB X, pp. 53-55. “Le antiche aspirazioni missionarie, che negli anni del Convitto lo avevano
spinto a imparare un po’ di spagnolo e a preparare i bauli per unirsi agli Oblati di Maria Vergine,
confessa Don Bosco stesso, non si erano mai estinte” (PIETRO STELLA, Don Bosco nella Storia della
Religiosità cattolica. Vol I: Vita e Opere, LAS, Roma 21979, p. 168).
32 Cf. ALBERTO CAVIGLIA, “La concezione missionaria di Don Bosco e le sue attuazioni salesiane”, in
Omnis terra adoret Te 24 (1932) p. 5.
16

2.7 Page 17

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privilegiata dove poter esercitare la sua peculiare vocazione di apostolo dei
giovani”. 33 Man mano che andava scoprendo i disegni di Dio, si orientava verso
due progetti diversi ma complementari: “continuò a rivolgere la sua attenzione al
problema missionario e, contemporaneamente, cominciò a carezzare l’idea della
fondazione di un proprio Istituto”.34
Certo, l’evangelizzazione della Patagonia fu missio ad gentes, vera plantatio
Ecclesiae, che venne preceduta intenzionalmente dalla presenza dei missionari
salesiani tra gli emigrati italiani a Buenos Aires e a San Nicolás de los Arroyos,
250 km a nordovest della capitale, non solo per ragioni di vicinanza culturale e di
appoggio affettivo, (infatti “non si sarebbero trovati isolati, ma tra amici, tra
connazionali”35), ma soprattutto perché la disastrosa situazione religiosa e morale
degli immigrati rendeva “più necessaria la presenza tra gli italiani che tra gli
indigeni”.36 Don Bosco accettò che i suoi si adoperassero in primo luogo nel
ministero sacerdotale e nell’educazione dei ragazzi delle famiglie operarie italiane,
un apostolato non molto diverso da quanto i Salesiani portavano avanti ovunque,
ritenendo, tra l’altro, che così i suoi missionari avrebbero potuto prepararsi
meglio alla missione tra i “selvaggi”, come lui li chiamava37, in obbedienza al
comando del Signore.38 Nella sua più profonda intenzione, infatti, il primato
spettava alle ‘missioni’ nella Patagonia.39
Ma tanto nell’apostolato tra gli immigrati italiani quanto nelle presenze
missionarie tra gli aborigeni, Don Bosco privilegiava i giovani più bisognosi e
curava l’offerta educativa: “Noi, e l’ho veduto io nel sogno – è Don Bosco che parla
-, sappiamo che va avanti e può fare gran bene il missionario che sia circondato
da una buona corona di giovani”.40 E parlando con il Papa dell’evangelizzazione
della Patagonia, dice che pensava di “tentare di fare un cordone di collegi che la
circuissero, quasi dividendola dal resto dell’America”.41 “Qui appunto, racconta
Don Barberis, egli fondava le sue rosee speranze di un avvenire felice delle proprie
33 LUIGI RICCERI, “Il Progetto missionario di Don Bosco”, in Centenario delle Missioni Salesiane
1875-1975. Discorsi commemorativi, LAS, Roma 1980, 14.
34 AGOSTINO FAVALE, Il progetto missionario di Don Bosco e i suoi presupposti storico-dottrinali, LAS,
Roma 1976, p. 10. Il progetto missionario di Don Bosco provocò un incremento vocazionale
notorio; lo riconobbe lui stesso: “il moltiplicarsi delle domande di entrare in Congregazione […] era
appunto uno degli effetti prodotti dalla spedizione dei missionari” (MB XI, p. 408).
35 Cf. PIETRO STELLA, Don Bosco nella Storia della Religiosità cattolica. Vol I: Vita e Opere, LAS,
Roma 21979, p. 171.
36 DON CAGLIERO, Lettera a Don Bosco (04.03.1876), ASC A1380802.
37 “ ‘Selvaggi’ sotto penna di Don Bosco è termine comprensivo, indicando tutti gli abitatori del
territorio patagonico, non più tutti Indi allo stato selvaggio; il che spiega come si potesse sperare
di trovar figli di Indi suscettivi di essere preparati al sacerdozio” (EUGENIO CERIA, Commento alla
lettera 1493, A don Giovanni Cagliero, 12.09.1876: Epistolario III Ceria, 95). Cf. FRANCIS
DESRAMAUT, Don Bosco en son temps (1815-1888), SEI, Torino 1996, pp. 957-958.
38 Si veda il discorso di commiato di Don Bosco, nel rito d’addio del 11 novembre 1875, in GIULIO
BARBERIS, Cronichetta, quad. 3 bis, 3-9; Documenti XV, 311-319. L’idea della missio ad gentes
riapparirà nell’addio di Don Bosco ai missionari partenti negli anni successivi.
39 Cf. PIETRO BRAIDO, ‘Dalla pedagogia dell’Oratorio alla pastorale missionaria’, in Pietro Braido
(ed.), Don Bosco Educatore. Scritti e Testimonianze, LAS, Roma 31997, p. 200.
40 MB XII, p. 280.
41 MB XII, p. 223.
17

2.8 Page 18

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missioni, nell’attaccarsi dei nostri alla gioventù povera: chi si mette per questa
strada, affermò il Beato, non dà più indietro”.42
L’opzione di “attaccarsi alla massa del popolo coll’educazione della povera
gioventù”43 non fu solo un indovinato, perché efficace, metodo di
evangelizzazione44 ma fu ed è la scelta strategica che definisce la dimensione
missionaria del carisma salesiano45: “senza educazione, in effetti, non c’è
evangelizzazione duratura e profonda, non c’è crescita e maturazione, non si dà
cambio di mentalità e di cultura”.46
Le missioni apparivano fino al 1966 nelle Costituzioni come una delle opere
apostoliche “a pro’ della gioventù, specialmente povera ed abbandonata” (art. 7) e
nelle attuali Costituzioni si dice che il lavoro missionario, ravvisato come
“lineamento essenziale della nostra Congregazione”, “mobilita tutti gli impegni
educativi e pastorali propri del nostro carisma” (Cost 30).
Alla morte di Don Bosco la presenza salesiana in America si era insediata in
Argentina, Uruguay, Brasile, Cile ed Ecuador. Diverse nazioni, bisogni e risposte
differenti, ma la strategia missionaria di Don Bosco restò invariata. Egli aveva tale
fiducia in questa sua intuizione che non dubitò di predire (1876) un futuro
lusinghiero alla sua strategia missionaria: “Col tempo sarà adottato anche in
tutte le altre missioni. Come fare diversamente per l’Africa e per l’Oriente?”.47
Impegnati come siamo nel portare Dio ai giovani, accogliamo, cari confratelli,
la sfida dell’inculturazione del carisma salesiano come parte fondamentale della
nostra missione, “come un appello a una feconda collaborazione con la grazia
nell’approccio con le diverse culture”48 dei giovani con i quali e per i quali
lavoriamo. Guardiamo allora a Don Bosco, perché possiamo, anzi dobbiamo
imparare da lui e dalla sua lungimirante sapienza apostolica, resa evidente nel
trapianto della vita e missione salesiana in America, “la più grande impresa della
nostra Congregazione”.49
42 MB XII p. 280 (il corsivo è mio)
43 L’espressione sembra di Don Bosco, presa da una lunga conversazione con Don Barberis
avvenuta il 12.08.1876. Cf. GIULIO BARBERIS, Cronichetta, Quaderno 8, pag. 75: ASC A0000108.
44 “Poiché attirati i giovani, si potrà coll’educazione dei figli farsi a diffondere la religione cristiana
anche fra i genitori” (GIULIO BARBERIS, “La Repubblica Argentina e la Patagonia”, in Letture
Cattoliche 291-292 [1877] 94).
45 “Una missione ‘salesiana’, cioè, nel suo sforzo di formare il nucleo primo del popolo di Dio,
lascerà nella Chiesa nascente il marchio della sensibilità del carisma di Don Bosco, soprattutto
per l’educazione delle nuove generazioni e per l’interesse ai problema giovanili” (AA.VV., Il Progetto
di Vita dei Salesiani di Don Bosco. Guida alla lettura delle Costituzioni salesiane, Editrice SDB,
Roma 1986, pp. 279-280).
46 Lettera di Sua Santità BENEDETTO XVI a Don Pascual Chávez, Rettor Maggiore S.D.B. in
occasione del Capitolo Generale XXVI, in “Da mihi animas, cetera tolle”. Documenti Capitolari.
CG26, Editrice S.D.B., Roma 2008, p. 91.
47 GIULIO BARBERIS, Cronichetta, Quaderno 8, pag. 84: ASC A0000108. Cf. JESÚS BORREGO,
“Originalità delle Missione Patagoniche di Don Bosco”, in MARIO MIDALI (a cura di), Don Bosco nella
Storia. Atti del 1º Congresso Internazionali di Studi su Don Bosco, LAS, Roma 1990, p. 468.
48 VC 79.
49 Don Bosco, Lettera a don Giuseppe Fagnano (31.01.1881): Epistolario IV Ceria, p. 14. Negli inizi
della missione aveva scritto al Papa che la Patagonia era “oggetto principale della missione
salesiana” Cf. Lettera a Pio IX (09.04.1876): Epistolario III Ceria, p 34.
18

2.9 Page 19

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Per questo voglio presentarvi alcuni elementi che considero irrinunciabili
per impiantare e sviluppare il nostro carisma ovunque noi portiamo avanti,
da Salesiani, la missione della Chiesa. Vivendo e lavorando in tutti i contesti
politici, sociali, culturali e religiosi pensabili, abbiamo bisogno di essere
identificati sempre con Don Bosco, con le sue non negoziabili opzioni pastorali e
con la sua azzeccata metodologia pedagogica.
Un gesto molto mirato
“Quando il Venerabile Don Bosco inviò i primi suoi figliuoli in America”,
scriveva don Rua il 1° dicembre 1909, “volle che la fotografia lo rappresentasse in
mezzo a loro nell’atto di consegnare a Don Giovanni Cagliero, capo spedizione, il
libro delle nostre Costituzioni. Quante cose diceva Don Bosco con
quell’atteggiamento! Era come dicesse: Voi traverserete i mari, vi recherete in
paesi ignoti, avrete da trattare con gente di lingue e costumi diversi, sarete forse
esposti a gravi cimenti. Vorrei accompagnarvi io stesso, confortarvi, consolarvi,
proteggervi. Ma quello che non posso fare io stesso, lo farà questo libretto”.50
Don Rua si riferiva alla storica fotografia che oggi - indovinata scelta! - fa parte
delle nostre Costituzioni, introducendo il testo.51 In essa, e con una posa
espressamente scelta da lui, Don Bosco immortalava la consegna personale del
libro delle Costituzioni a Don Cagliero; per mezzo di esse, consegnava se stesso.
Che Don Bosco sia presente nelle Costituzioni non è una creazione ingegnosa dei
suoi successori;52 l’identificazione proviene dallo stesso Don Bosco, infatti voleva
che i suoi figli considerassero le Costituzioni come caro ricordo di lui, suo
testamento vivo53: “Se mi avete amato in passato, continuate ad amarmi in
avvenire colla esatta osservanza delle nostre costituzioni”, scrisse nel suo
Testamento spirituale.54 A ragione, la tradizione salesiana, da Don Rua in poi, ha
visto nelle Costituzioni “sempre presente Don Bosco, il suo spirito, la sua
santità”.55
50 Don Michele Rua, Lettere circolari ai salesiani, Direzione Generale Opere Don Bosco, Torino
1965, p. 498.
51 Fu la prima fotografia espressamente voluta da Don Bosco, che si servì dal noto, e costoso,
studio torinese di Michele Schemboche. Don Bosco volle immortalare l’evento e renderlo pubblico;
il Sig. Giovanni B. Gazzolo, console dell’Argentina, che è stato fatto venire da Savona, é in grande
uniforme; i missionari vestono alla spagnola, col mantello caratteristico, spiccando il crocifisso;
Don Bosco indossa la veste delle grande occasioni. “Possiamo ritenere quindi questa immagine
come emblematica di Lui, la sua ‘fotografia ufficiale’” (GIUSEPPE SOLDÀ, Don Bosco nella fotografia
dell’800 (1861-1888), SEI, Torino 1987, p. 124).
52 “Possiamo dire che nelle Costituzioni abbiamo tutto Don Bosco; in esse il suo unico ideale di
salvezza delle anime; in esse la sua perfezione con i santi voti; in esse il suo spirito di soavità, di
amabilità, di tolleranza, di pietà, di carità e di sacrifizio” (DON FILIPPO RINALDI, “Il Giubileo d’oro
delle nostre Costituzioni”, ACS 23 [1924] p. 177)
53 “Fate che ogni punto della Santa Regola sia un mio ricordo” (MB X, p. 647. Cf. MB XVII, p. 296)
54 Don Bosco, Memorie dal 1841 al 1884-5-6 pel sac. Gio. Bosco a’ suoi figliuoli salesiani
[Testamento spirituale]. Edizione critica curata da Francesco Motto. Cf. PIETRO BRAIDO (ed.), Don
Bosco Educatore, scritti e testimonianze, LAS, Roma 31997, p. 410.
55 AA.VV., Il Progetto di Vita dei Salesiani di Don Bosco. Guida alla lettura delle Costituzioni
salesiane, Editrice SDB, Roma 1986, p. 74.
19

2.10 Page 20

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L’inculturazione del carisma salesiano ha, dunque, come requisito previo e
ineludibile la pratica delle Costituzioni, una pratica gioiosa e fedele, sine glossa,
ma confacente ai tempi e luoghi della missione, aperta alla cultura dell’ambiente
e dei giovani, una pratica tale che, oltre a assicurarci l’obbedienza alle sue parole
e l’assimilazione delle sue scelte, sia l’espressione credibile dello “stare con lui” e
impegno filiale di “fare come lui” per la salvezza dei giovani. Don Bosco ci potrà
accompagnare là dove siamo stati inviati, ci conforterà e consolerà, ci proteggerà
e guiderà, se noi ci immedesimeremo con lui, vivendo come lui. Vivere le
Costituzioni è incarnare Don Bosco: il salesiano che pratica le Costituzioni
rappresenta Don Bosco e lo fa ritornare ai giovani. Per essi, nulla di più urgente:
ne hanno bisogno, e ne hanno diritto.
“Alcuni ricordi speciali”
Nel discorso tenuto durante la solenne ed emozionante celebrazione di congedo
dei primi salesiani missionari56 l’11 novembre 1875, Don Bosco promise di lasciar
loro “alcuni ricordi speciali, quasi paterno testamento a figli che forse non
avrebbe più riveduti. Li aveva scritti a matita nel suo taccuino durante un recente
viaggio in treno, e fattene tirare copie, le consegnò di sua mano ai singoli, mentre
si allontanavano dall’altare di Maria Ausiliatrice”.57
Autografo e quasi senza correzioni, il breve testo sembrerebbe una raccolta di
svariati consigli di natura in prevalenza ascetica; sono, in realtà, “spunti per un
vero trattato di pastorale missionaria pratica,”58 “una breve sintesi di pastorale e
di spiritualità missionaria,”59 centrata in quattro idee-forza: zelo per la salvezza
delle anime; carità fraterna, apostolica ed educativa; profonda vita religiosa ed
elementi di strategia missionaria.
Quando Don Bosco redasse i ‘Ricordi’ tra il settembre e l’ottobre del 1875, la
sua esperienza missionaria era scarsa, ed inesistente quella dei suoi figli. Scrive
poco prima di inviare la prima spedizione, forzato dalle circostanze e preso da una
tenerezza paterna verso i suoi giovani missionari con la quale “si studiava di
contentarli, comunicando ad essi i tesori della sua esperienza”60, un’esperienza
acquisita nel contatto, personale o epistolare, con grandi missionari durante e
dopo il Concilio Vaticano I, e che lui stesso andrà maturando durante gli anni
successivi mentre realizzerà il suo progetto missionario in America.61
56 Si può trovare una emotiva, e contemporanea, cronaca dell’evento in CESARE CHIALA, Da Torino
alla Repubblica Argentina. Lettere dei missionari salesiani, in Letture Cattoliche 286-287 (1876)
pp. 41-60; “Partenza dei missionari salesiani per la Repubblica Argentina”, in L’Unità Cattolica
266 (1875) p. 1062: MB XI, pp. 590-591.
57 MB XI, p. 389.
58 ANGEL MARTÍN, Orígen de las Misiones Salesianas. La evangelización de las gentes según el
pensamiento de San Juan Bosco, Instituto Teológico Salesiano, Guatemala 1978, p. 172.
59 PIETRO BRAIDO, Don Bosco prete dei giovani nel secolo delle libertà. Vol. II, LAS, Roma 32009, p.
156.
60 MB XI 391. Cf. CESARE CHIALA, Da Torino alla Repubblica Argentina. Lettere dei missionari
salesiani, in Letture Cattoliche 286-287 (1876) pp. 57-58.
61 Così AGOSTINO FAVALE, Il progetto missionario di Don Bosco e i suoi presupposti storico-dottrinali,
LAS, Roma 1976, p. 76; FRANCIS DESRAMAUT, Il pensiero missionario di Don Bosco. Dagli scritti e
discorsi del 1870-1885, in Missioni Salesiane 1875-1975, LAS, Roma 1976, pp. 49-50.
20

3 Pages 21-30

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3.1 Page 21

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Ciò nonostante, Don Bosco insistette ripetutamente perché i ‘Ricordi’ non
venissero dimenticati. Erano ancora i primi missionari in alto mare verso
l’Argentina e già chiedeva a Don Cagliero di leggere “insieme i ricordi che vi ho
dato prima della vostra partenza”62, ed è una richiesta che ripeterà sovente.63
Infatti, durante la decade 1875-1885 la sua corrispondenza non sarà altro che
“una calda raccomandazione, esplicita o implicita, dei ‘Ricordi’”.64
Perché Don Bosco dava tanto valore a questi consigli, pur non essendo un
esperto missionario e non avendo specifica competenza sul tema? Senza dubbio,
perché gli interessava che i suoi giovani missionari curassero la vita religiosa,
personale e comunitaria, mantenendosi fedeli alle opzioni tipicamente salesiane;
questo riteneva più importante ancora dell’essere e presentarsi come abili
apostoli e competenti missionari. Tutto nasceva dalla consapevolezza che la
missione in Argentina era la prima missio ad gentes che intraprendeva, che i suoi
giovani missionari avrebbero dovuto dar vita a nuove forme di apostolato, sia tra
gli emigrati che con gli indigeni, che avrebbero dovuto trapiantare un carisma
non ancora ben definito e per di più lontani da lui e dall’ambiente religioso e
culturale nel quale erano cresciuti.
A mio avviso, nei ‘Ricordi ai missionari’ si può cogliere la preoccupazione del
Fondatore, quasi l’apprensione del Padre65 per il destino della missione; e ciò fin
dagli albori di quella stupenda impresa salesiana che fu la presenza in Argentina.
Sono da identificare pure direttive per spronare attività e presenze missionarie e,
più decisive ancora, alcune tracce sicure per affrontare con sicurezza la
sfida attuale dell’inculturazione del carisma salesiano. Quanto sto per
accennare non è, certo, tutto ciò che si deve fare, ma, e ne sono convinto, è
l’essenziale; altro potrà esserci, ma questo non dovrà mancare. È lo stesso Don
Bosco che ci parla:
«Noi vogliamo anime, e non altro»
L’obiettivo assoluto, ragione fondamentale, dell’avventura missionaria, punto di
partenza e criterio di verifica per qualsiasi sforzo d’inculturazione salesiana, non è
diverso – non poteva esserlo – da quello della Congregazione, la salvezza cioè delle
anime, nient’altro. Don Bosco lo ribadisce fin dal primo momento ai missionari,
nelle parole di congedo (“Dio […] vi manda pel bene delle loro anime”66) e nel
primo dei ricordi consegnati (“Cercate anime, ma non denari né onori, né
62 Lettera a Don Cagliero (04.12.1875): Epistolario II Ceria, p. 531.
63 Cf. Lettera a Don Cagliero (14.11.1876): Epistolario III Ceria, p. 113; Lettera a Don Valentiino
Cassinis (07.03.1876): Epistolario III Ceria, p. 27.
64 JESÚS BORREGO, “Recuerdos de San Juan Bosco a los primeros misioneros. Edición crítica –
Posibles fuentes – Breve comentario en la correspondencia de Don Bosco”, RSS 4 (1988) p. 181,
nel quale sono citate parecchie lettere di Don Bosco ai missionari in Argentina.
65 Nel discorso d’addio diceva Don Bosco ai missionari: “Soltanto vi dico che se l’animo mio in
questo momento è commosso per la vostra partenza, il mio cuore gode di una grande consolazione
nel mirare rassodata la nostra Congregazione”. “Non dimenticate che qui in Italia avete un padre
che vi ama nel Signore, una Congregazione che ad ogni evenienza a voi pensa, a voi provvede e
sempre vi accoglierà come fratelli” (MB XI pp. 386.387).
66 MB XI, p.385.
21

3.2 Page 22

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dignità”67). Lo ripeterà costantemente nelle lettere ai missionari – fatto
significativo – più giovani.68 Dieci anni dopo scriverà a Don Lasagna: “Noi
vogliamo anime e non altro. Ciò procura di far risuonare all’orecchio dei nostri
confratelli”. E nel letto di morte, in un momento di “grande travaglio”, disse a
Mons. Cagliero “queste sole parole: Salvate molte anime nelle missioni”.69
«Ricordati sempre che Dio vuole i nostri sforzi verso i fanciulli poveri ed
abbandonati»
Tra i tratti caratteristici della strategia missionaria di Don Bosco il più
originale e significativo fu la sua “scelta di classe”, “una scelta costante e
indeclinabile, quella che si muove sulle due linee parallele dei poveri e dei giovani
… Nei luoghi di missione questo è di una evidenza solare”.70 Don Bosco volle che
l’opzione fondamentale, sua personale e della giovane Congregazione, fosse
trapiantata in America dai suoi primi missionari: lo manifesta nel quinto consiglio
(“Prendete cura speciale degli ammalati, dei fanciulli, dei vecchi e dei poveri”71),
che ripeterà quasi con le stesse parole dieci anni dopo: “abbi una cura speciale
dei fanciulli, degli ammalati, dei vecchi”.72
Non era passato un anno dalla prima spedizione e già stava pensando ad
inviare altri “venti eroi per l’altro mondo”, quando scrive a Don Cagliero: “Fa’
quello che puoi per raccogliere giovanetti poveri, ma preferisci quelli, se è
possibile averne, che provengono dai selvaggi”;73 e quindici giorni dopo insisteva:
“Ricordati sempre che Dio vuole i nostri sforzi verso i Pampas e i Patagoni e verso
i fanciulli poveri ed abbandonati”.74 Che questa predilezione non fosse semplice
tattica opportunistica risulta palese nel suo ‘Testamento’, quando dopo aver
augurato “un lieto avvenire” alla Congregazione “preparato dalla Divina
Provvidenza”, aggiunge: “Il mondo ci riceverà sempre con piacere fino a tanto che
le nostre sollecitudini saranno dirette ai selvaggi, ai fanciulli più poveri, più
pericolanti della società”.75 Servire ed evangelizzare i giovani, e tra essi i più
bisognosi, è la nostra ragione d’essere nella Chiesa (Cost 6), un tratto “molto
specifico del carisma di Don Bosco”.76 Là dove saremo inviati, dovremmo scegliere
67 MB XI, p. 389.
68 Cf. Lettera al chierico A. Paseri (31.01.1881): Epistolario IV Ceria, p. 10; Lettera al chierico A.
Peretto (31.01.1881): Epistolario IV Ceria, p. 11; Lettera al chierico L. Calcagno (31.01.1881):
Epistolario IV Ceria, p. 13; Lettera al chierico J. Rodríguez (31.01.1881): Epistolario IV Ceria, p.
17.
69 MB XVIII, p. 530.
70 SEBASTIANO CARD. BAGGIO, “La formula missionaria salesiana”, in Centenario delle Missioni
Salesiane 1875-1975. Discorsi commemorativi, LAS, Roma 1980, p.43.
71 MB XI, p. 389.
72 Lettera a don Pietro Allavena (24.09.1885): Epistolario IV Ceria, p. 339.
73 Lettera a don Giovanni Cagliero (13.07.1876): Epistolario III Ceria, p. 72.
74 Lettera a don Giovanni Cagliero (01.08.1876): Epistolario III Ceria, p. 81. Don Cagliero presto se
ne persuaderà.
75 MB XVII, p. 272. Don Bosco, Memorie dal 1841 al 1884-5-6 pel sac. Gio. Bosco a’ suoi figliuoli
salesiani [Testamento spirituale]. Edizione critica curata da Francesco Motto. Cf. PIETRO BRAIDO
(ed.), Don Bosco Educatore, scritti e testimonianze, LAS, Roma 31997, p. 437.
76 PASCUAL CHÁVEZ, Discorso alla chiusura del CG 26, in “Da mihi animas, cetera tolle”. Documenti
Capitolari. CG26, Editrice S.D.B., Roma 2008, p. 138.
22

3.3 Page 23

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i giovani, e tra essi i più sviati o abbandonati, se vogliamo essere veri salesiani.
Sta a noi, presenti in tutto il mondo e vicini a tanti giovani, incarnare Dio ed
inculturare la missione salesiana.
«Cominciata una missione, lo sforzo sia sempre a fare e stabilire delle
scuole»
I missionari inviati da Don Bosco in Argentina non ‘dovevano’ aprire scuole per
assistere gli immigrati italiani né per evangelizzare gli indigeni. Se si azzardarono
a farlo fu per indicazioni precise di Don Bosco. “Cominciata una missione
all’estero … – annotò nel ‘Testamento spirituale’ – lo sforzo sia sempre a fare e
stabilire delle scuole”.77 E infatti la strategia missionaria messa in atto nella
Patagonia, per la quale Don Bosco stesso confessava: “Desidero solamente di
impiegare gli ultimi giorni della mia vita”78, si realizzò mediante scelte pienamente
educative: “aprire collegi nelle città confinanti con le terre degli Indi, accogliervi
figli di selvaggi, avvicinare per loro mezzo gli adulti. Era una tattica analoga a
quella che nella lunga esperienza di educatore e dirigente di opere educative
aveva trovato efficace nei paesi civili”.79
Missio ad gentes e educazione non erano per Don Bosco due attività
apostoliche diverse o successive; era convinto (ed è una caratteristica propria del
suo fare missione nella Chiesa)80 che per una missione efficace ci si doveva
prodigare nell’educazione della gioventù. “Il fulcro dell’azione e il principio vitale
della missiologia salesiana è […] la redenzione degl’infedeli per mezzo del
ministero educativo tra la gioventù e i fanciulli … Dove la missione è salesiana,
accanto e insieme alla funzione sacerdotale, si vuole che vi sia il ministero e il
magistero della scuola. Tutte le case salesiane […] sono una scuola …, uno
strumento specifico della penetrazione cristiana”.81
Questa scelta strategica di Don Bosco, cari confratelli, ci deve far pensare; e ci
invita a ripensare, e magari, perché no, a riorganizzare la nostra offerta
apostolica: se i giovani sono “la patria della nostra missione” (Don Egidio Viganò),
la loro educazione è il nostro cammino ordinario per avvicinarli e il modo stabile
77 MB XVII, p. 273. Don Bosco, Memorie dal 1841 al 1884-5-6 pel sac. Gio. Bosco a’ suoi figliuoli
salesiani [Testamento spirituale]. Edizione critica curata da Francesco Motto. Cf. PIETRO BRAIDO
(ed.), Don Bosco Educatore, scritti e testimonianze, LAS, Roma 31997, p. 438.
78 Don Bosco, Lettera al card. Alessandro Franchi (10.05.1876): Epistolario III Ceria, p. 60.
79 PIETRO STELLA, Don Bosco nella Storia della Religiosità cattolica. Vol I: Vita e Opere, LAS, Roma
21979, p. 174. Cf. JESÚS BORREGO, “Estrategia misionera de Don Bosco, in Pietro Braido (ed.), Don
Bosco nella Chiesa a servizio dell’umanità. Studi e testimonianze, LAS, Roma 1987, pp. 152-164.
80 La preferenza di Don Bosco per l’educazione presto destò sorpresa e alcune critiche: “Alcuni
osservano di Don Bosco, che le sue missioni in America non consistono ormai che in aprir collegi
e far ospizi” (GIOVANNI B. FRANCESIA, Francesco Ramello, chierico salesiano, missionario nell’America
del Sud, Tip. Salesiana, San Benigno Canavese 1888, p. 117). E don P. Colbachini, scalabriniano,
scriveva a un amico prete nel 1887: “I salesiani di Rio, di San Paolo, di Montevideo, Buenos Aires,
e tutti i salesiani del mondo non si occupano di missione, eccetto pochi della Patagonia […] Essi
vengono a fare da maestri e da prefetti dei collegi di arti e mestieri…: é una grande missione, ma è
in tutto diversa da quello che dai più si pensa” (M. FRANCESCONI, Inizi della Congregazione
Scalabriniana (1886-1888), CSE, Roma 1969, p. 104).
81 ALBERTO CAVIGLIA, “La concezione missionaria di Don Bosco e le sue attuazioni salesiane”, in
Omnis terra adoret Te 24 (1932) pp. 5-10.12.20.24-26.
23

3.4 Page 24

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di restare con loro come portatori del Vangelo. Una nostra presenza che non sia
chiaramente educativa, un’Ispettoria che non promuova la formazione, formale o
informale, dei giovani, … come si potrebbe chiamare salesiana? Moltiplicare e
irrobustire la nostra offerta educativa in tutto il mondo e in ciascuna delle nostre
opere è un modo autentico di inculturare il nostro carisma.
«Dio chiamò la povera congregazione salesiana a promuovere le vocazioni
ecclesiastiche fra la gioventù povera»
Appena dato avvio ad una missione, lo sforzo per stabilire delle scuole ebbe
come obiettivo di “tirare su qualche vocazione per lo stato ecclesiastico o qualche
suora tra le fanciulle”.82 Cercare e formare delle vocazioni fu per Don Bosco il
progetto ‘nascosto’ che guidava le sue scelte più decisive, soprattutto nel campo
educativo.83 Come scrisse nel ‘Testamento spirituale’, era convinto che “Dio
chiamò la povera congregazione salesiana a promuovere le vocazioni
ecclesiastiche fra la gioventù povera e di bassa condizione”.84
Erano appena trascorsi sei mesi dalla prima spedizione quando, nel luglio del
1876, aveva chiesto e ricevuto la facoltà di aprire un noviziato in America; i
salesiani – solo dieci e molto giovani85 - avevano trovato, racconta a Pio IX,
“parecchi giovani, che manifestano volontà di abbracciare lo stato ecclesiastico, e
sette di essi dietro loro domanda vennero accettati nella Congregazione Salesiana.
Loro desiderio si è di farsi missionari e recarsi, dicono essi, a predicare tra i
selvaggi”.86
Oltre a segnalare l’entusiasmo vocazionale che provocò la presenza dei giovani
missionari, questa annotazione svela pure l’intenzionalità profonda di Don Bosco:
far sì che “i patagoni evangelizzassero i patagoni”. Avere vocazioni indigene era
per lui “lo strumento più adatto per attrarre gli adulti alla fede, per dare alla
Patagonia il suo nuovo volto cristiano e civile”.87 Le vocazioni native erano,
dunque, il mezzo da privilegiare per portare avanti ed assicurare l’educazione e
l’evangelizzazione nelle missioni. “Hanno già cominciato a manifestarsi [vocazioni]
tra gli indigeni, e spero che di qui a qualche anno non saranno più necessarie se
non rare spedizioni [di nuovi missionari]”.
“Dovunque andrai – scrive a don Fagnano, appena nominato Prefetto
Apostolico della Patagonia meridionale – cerca di fondare scuole, fondare anche
82 MB XVII, 273. Don Bosco, Memorie dal 1841 al 1884-5-6 pel sac. Gio. Bosco a’ suoi figliuoli
salesiani [Testamento spirituale]. Edizione critica curata da Francesco Motto. Cf. PIETRO BRAIDO
(ed.), Don Bosco Educatore, scritti e testimonianze, LAS, Roma 31997, p. 438.
83 Cf. ARTHUR J. LENTI, Don Bosco. Historia y Carisma. I: Origen: De I Becchi a Valdocco. Juan J.
Bartolomé – Jesús G. Graciliano (eds.), CCS, Madrid 2010, pp. 495-96; ARTHUR J. LENTI, Don
Bosco. Historia y Carisma. II: Expansión: De Valdocco a Roma. Juan J. Bartolomé – Jesús G.
Graciliano (eds.), CCS, Madrid 2011, pp. 558-559. 574.
84 MB XVII, p. 261. Don Bosco, Memorie dal 1841 al 1884-5-6 pel sac. Gio. Bosco a’ suoi figliuoli
salesiani [Testamento spirituale]. Edizione critica curata da Francesco Motto. Cf. PIETRO BRAIDO
(ed.), Don Bosco Educatore, scritti e testimonianze, LAS, Roma 31997, p. 415.
85 Tutti tra i 37 anni di Don Cagliero e i 20 del chierico Giovanni B. Allavena.
86 MB XII, p. 659. Lettera a Pio IX (07.1876): Epistolario III Ceria, p. 70,
87 PIETRO SCOPPOLA, Commemorazione civile di Don Giovanni Bosco nel centenario della sua morte.
Tipografia Don Bosco, Roma 1988, 22.
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dei piccoli seminari a fine di coltivare o almeno cercare qualche vocazione per le
suore e pei salesiani”.88 E nel memoriale presentato a Leone XIII, enumererà tra
gli scopi delle missioni salesiane in America, “aprire ospizi in vicinanza de’
selvaggi perché servissero di piccolo seminario e ricovero per i più poveri ed
abbandonati. Con questo mezzo farci strada alla propagazione del vangelo tra gli
indi”.89
Don Bosco era così convinto dell’urgenza di una promozione vocazionale tra gli
indigeni e dell’immediato successo che avrebbe conosciuto, che prima di inviare i
missionari, offre loro, sempre nei ‘Ricordi’, un “piccolo trattato” per coltivare le
vocazioni ecclesiastiche, centrato tutto sull’amore, la prevenzione e la frequenza
dei sacramenti.90
Che lui vivente non abbia visto realizzato il suo sogno,91 non toglie, anzi
rinforza, il vigore della sua convinzione. Come lui, noi Salesiani, “siamo convinti
che tra i giovani molti sono ricchi di risorse spirituali e presentano germi di
vocazione apostolica” (Cost. 28). La mancanza di vocazioni vissuta in alcune
Ispettorie e la fragilità vocazionale che ci colpisce un po’ dappertutto ci sfidano
ancor più che nei giorni di Don Bosco a “creare una cultura vocazionale in ogni
ambiente, in modo che i giovani scoprano la vita come chiamata”.92
Una pastorale, anche se ben progettata ed efficace nei risultati, ma che non
promuova una cultura vocazionale nelle nostre presenze non sarebbe salesiana.
Norma, criterio e percorso d’inculturazione del carisma salesiano è stata e deve
rimanere la promozione delle vocazioni nella Chiesa. Il risveglio delle vocazioni
non è solo prova dell’efficacia del nostro lavoro apostolico; ancor più esso è
realizzazione del nostro specifico carisma.
«Tutti, tutti, potete essere veri operai evangelici»
Nel trapiantare vita e missione salesiana in America, Don Bosco sempre fece
affidamento su tutte le forze vive che vi si potevano trovare, sia all’interno della
sua famiglia religiosa, sia nella Chiesa e nella società. Primi fra tutti, i Salesiani
coadiutori, che non mancheranno in nessuna spedizione a partire dalla prima;
infatti, tra gli otto pionieri della missione in Patagonia, nel gennaio 1880, ci sarà
pure un coadiutore, come aveva promesso Don Bosco all’Arcivescovo di Buenos
88 Lettera a don Fagnano (10.08.1885): Epistolario IV Ceria, p. 334. “Se nelle missioni ed in
qualunque altro modo tu giungi a ravvisare qualche giovanotto che dà qualche speranza pel
sacerdozio, sappi che Dio ti manda tra mani un tesoro” (Lettera a don Pietro Allavena (24.09.1885):
Epistolario IV Ceria, p. 339. Il corsivo è mio)
89 Memoriale sulle Missioni salesiane presentato a Leone XIII (13.04.1880): Epistolario III Ceria, p.
569.
90 JESÚS BORREGO, “Recuerdos de San Juan Bosco a los primeros misioneros. Edición crítica –
Posibles fuentes – Breve comentario en la correspondencia de Don Bosco”, RSS 4 (1988) p. 203. Il
testo del consiglio 18º si trova in p. 208. Nel ‘Testamento spirituale’ raccoglierà, ampliandoli,
questi spunti di pastorale vocazionale.
91 Si dovrà aspettare fino al 1900 per avere nell’aspirantato di Bernal, Argentina, due ragazzi figli
d’indigeni tra 12 provenienti dalla regione di Río Negro (LINO CARBAJAL, Le missioni salesiane nella
Patagonia e regioni magallaniche. Studio storico-statistico, Tip. Salesiana, San Benigno Canavese
1900, p. 104).
92 CG26, 53.
25

3.6 Page 26

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Aires, oltre che per il lavoro catechistico,93 per insegnare “l’agricoltura con le arti
e i mestieri più usuali”.94
Più caratteristica del pensiero di Don Bosco fu la presenza tempestiva e
numerosa delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Le sei prime Salesiane – tre dei quali
erano minori di età, mentre la Superiora, Sr. Angela Vallese, aveva appena 24
anni – si unirono al progetto missionario di Don Bosco nella terza spedizione, alla
fine del 1877.95 La loro presenza era alquanto inusuale: “è la prima volta che si
vedranno Suore […] in quelle remote regioni”. Ma fu presto giudicata
provvidenziale; la loro proverbiale carità contribuì “senza dubbio moltissimo alla
conversione degli indi”,96 e all’educazione di fanciulle povere ed abbandonate. Nel
1884 avevano educato un centinaio circa di ragazze e condotto altrettante verso
una vita edificante. Nel 1900 c’erano già le prime professe indigene.97 Accomunati
nella missione pratica, Salesiani e Salesiane, trapiantarono insieme la vita e il
carisma salesiano in America.
“Coapostoli della Patagonia”, “strumento di salute di migliaia di giovanetti”,98
furono i Cooperatori, presenti ed operanti nell’antico e nel nuovo continente, e
visti da Don Bosco come il fronte esterno, l’appoggio morale, spirituale e materiale
alle sue iniziative apostoliche. Quando “invitato formalmente a prendere cura dei
Patagoni”, dice di essere giunto “il tempo di misericordia per quei selvaggi”, scrive
ai Cooperatori testimoniando che solo “pieno di fiducia in Dio e nella vostra carità
ho accettato l’ardua impresa”.99 Fede in Dio e fiducia nella carità dei buoni furono
le risorse che sottostavano ai suoi sogni apostolici. Proprio per questo vedeva la
presenza dei Cooperatori “quasi una necessità per ogni casa salesiana, perché
abbia vita e riceva incremento”.100
Sempre spinto dalla necessità di soddisfare i bisogni “di personale e di danaro”
dei missionari, Don Bosco volle incrementare il gruppo dei Cooperatori: giovani ed
adulti, sacerdoti e laici, vescovi e persino il Papa101, erano da lui invitati ad
assumere il suo progetto apostolico: “quanti siete qui”, dirà nella celebre
conferenza a Valdocco il 19 marzo 1876, “e preti, e studenti e artigiani e
coadiutori, tutti, tutti, potete essere veri operai evangelici”.102
93 “Don Bosco diede loro il titolo ufficiale di catechisti” (CESARE CHIALA, Da Torino alla Repubblica
Argentina. Lettere dei missionari salesiani, in Letture Cattoliche 286-287 (1876), p. 36.
94 Lettera a mons. Aneiros (13.09.1879): RAÚL A. ENTRAIGAS, Los Salesianos en la Argentina. III,
Plus Ultra, Buenos Aires 1969, p. 85
95 MB XIII, pp. 314.322-324.
96 “Los verdaderos héroes del desierto”, in La América del Sur 4 (1880) 1152.
97 Vedi LINO CARBAJAL, Le missione salesiane nella Patagonia e regione magallaniche. Studio
storico-statistico, Tip. Salesiana, San Benigno Canavese 1900, pp. 63-64.104-105.
98 “Tre pensieri di Don Bosco ai Cooperatori e alle Cooperatrici” (28.01.1886), in Bollettino
Salesiano 3 (1886) p. 32.
99 Cf. “Don Bosco ai benemeriti Cooperatori e Cooperatrici”, in Bollettino Salesiano 1 (1886) p. 3. E
preparando la spedizione del 1886 si appella di nuovo alla loro carità: “ascoltate anche voi al pari
di me la voce dei cari missionari e il grido che ci mandano tanti poveri derelitti da quelle
lontanissime contrade” (Circolare ai Cooperatori [15.10.1886]: Epistolario IV Ceria, p. 362).
100 “Monsignor Cagliero nel Chilì”, in Bolletino Salesiano 9 (1887) 110.
101 Cf. Lettera a don Giovanni Cagliero (01.08.1876): Epistolario III Ceria, p. 81. MB XIII, pp. 496.
606.
102 MB XII, p. 626.
26

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Non c’è dubbio; ravvisata l’illimitatezza del suo progetto missionario, e
cosciente dell’insufficienza sua e delle sue istituzioni, Don Bosco ricercò
collaborazioni sempre più vaste, dando origine di fatto, e non inconsapevolmente,
a un movimento sia ecclesiale che civile, “un vasto movimento di persone che, in
vari modi, operano per la salvezza della gioventù [e] vivendo nel medesimo spirito
e in comunione tra loro, continuano la missione da lui iniziata” (Cost 5). Fare
della Famiglia salesiana “un vero movimento apostolico a favore dei giovani”103 è
per noi, oltre che un processo da attivare per convertire cuori, mentalità e
strutture, una vera via di inculturazione del carisma. È un esercizio di fedeltà a
Don Bosco. Sta a noi convalidare quanto a Don Bosco stava così a cuore e
promuoverlo al suo stesso modo e per gli stessi fini.
«Fate che il mondo conosca che siete poveri»
Primo tra i ‘Ricordi’, quasi come principio basilare dell’impegno evangelizzatore
dei missionari, Don Bosco registrò: “Cercate anime, ma non danari”. Non era
all'oscuro della situazione in cui vivevano in Argentina la maggior parte dei preti
italiani che erano venuti per accompagnare le migliaia di immigrati. “La
maggioranza vengono, mi stringe il cuore a dirlo – gli scrisse l’Arcivescovo di
Buenos Aires –, per far quattrini e niente altro”104.
Proprio perché la scarsità di risorse, di personale e di finanziamenti, era
proverbiale nelle imprese apostoliche di Don Bosco, e poiché “la nostra deve
essere povertà di fatto … nella cella, negli abiti, nella mensa, nei libri, nei viaggi,
etc.”,105 i primi missionari vivevano nella strettezza e in mezzo a grandi difficoltà;
quando a Don Tomatis fu domandato cosa mangiavano di solito in comunità,
rispose con un sorriso: “Di mattina, pane e cipolla; alla sera, cipolla e pane”.106
Nulla di strano che Don Bosco non insistesse troppo su questo argomento
nelle lettere che inviava ai missionari; si mostrava piuttosto preoccupato, e tanto,
dei debiti contratti o delle restituzioni di prestiti, un tema, questo, presente nelle
regolari comunicazioni ai Cooperatori. La sua fu una povertà austera,
industriosa, ricca di iniziative (“nelle nostre strettezze faremo ogni sacrificio per
venirvi in aiuto”107), sorretta da un’incrollabile fiducia nella Provvidenza. Ma
proprio perciò, poiché le prime comunità missionarie sussistevano “da prestiti e
senza una cooperazione organizzata”108, risulta molto più rilevante il consiglio di
Don Bosco: “Fate che il mondo conosca che siete poveri negli abiti, nel vitto, nelle
abitazioni, e voi sarete ricchi in faccia a Dio e diverrete padroni del cuore degli
uomini”.
103 CG26, 31.
104 Lettera di Mons. Aneiros a Don Bosco (18.12.1875): MB XI, p. 603.
105 MB IX, p. 701.
106 Cronaca di San Nicolás de los Arroyos (1875-1876) pag. 10: ASC F910.
107 Lettera a don Giovanni Cagliero (06.08.1885): Epistolario IV Ceria, p. 328. Cf. Lettera a Don
Giacomo Costamagna (31.01.1881): Epistolario IV Ceria, p. 7; Circolare ai Cooperatori Salesiani
(15.10.1886): Epistolario IV Ceria, pp. 360-363.
108 JUAN E. BELZA, Luis Lasagna, el obispo misionero. Introducción a la historia salesiana del
Uruguay, el Brasil y el Paraguay, Editorial Don Bosco, Buenos Aires 1969, p. 169.
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3.8 Page 28

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Per Don Bosco era valore indiscusso la povertà nella vita personale, e non
l’indigenza di mezzi nelle opere educative.109 Come raccomandazione
fondamentale diretta a tutti i Salesiani, lasciò scritto nel suo ‘Testamento
spirituale’: “Amate la povertà […] Procurate che niuno abbia a dire: questa
suppellettile non dà segno di povertà, questa mensa, questo abito, questa camera
non è da povero. Chi porge motivi ragionevoli di fare tali discorsi, egli cagiona un
disastro alla nostra congregazione, che deve sempre gloriarsi del voto di povertà.
Guai a noi se coloro da cui attendiamo carità potranno dire che teniamo vita più
agiata della vita loro”. E mise il futuro della Congregazione annodato alla povertà
di vita dei suoi membri: “La nostra congregazione ha davanti un lieto avvenire
preparato dalla divina Provvidenza […] Quando cominceranno tra noi le comodità
e le agiatezze, la nostra pia società ha compiuto il suo corso”.
Come Gesù inviò i suoi primi apostoli poveri ordinando loro che non
prendessero nulla per il viaggio, poiché avevano il vangelo (cf. Mc 6,8), Don Bosco
volle che i suoi salesiani fossero poveri per avere nei giovani poveri il loro tesoro:
“le nostre sollecitudini saranno dirette ai selvaggi, ai fanciulli più poveri, più
pericolanti della società. Questa è per noi la vera agiatezza che niuno invidierà e
niuno verrà a rapirci” .110
I nostri destinatari prioritari, i giovani più bisognosi, sono la ragione del nostro
‘sposare’ la povertà apostolica, la cui testimonianza “aiuta i giovani a superare
l’istinto del possesso egoistico e li apre al senso cristiano del condividere” (Cost.
73). Annunciare con la vita che Dio è l’unico nostro tesoro, ci distacca da tutto
ciò che rende insensibili a Dio, mentre ci fa aperti e disponibili alle esigenze dei
giovani. Vivere realmente la povertà evangelica là dove siamo stati inviati, oltre a
realizzare il significato vero del cetera tolle, ci aiuterà a incarnare il carisma
salesiano: è infatti un criterio sicuro che guida il suo impianto e verifica qualsiasi
sua realizzazione storica.
«Con la dolcezza di San Francesco di Sales i salesiani tireranno a Gesù
Cristo le popolazioni dell’America»
Don Bosco pensò l’attività missionaria in America in continuità con quanto
aveva fatto e stava pensando di fare in Torino e nelle altre presenze d’Europa. “Gli
obietti vagheggiati da questa missione” scriveva al Papa, erano “provvedere agli
italiani e tentare un passo nei pampas […] Al primo si è già posto mano […] In
quanto al secondo, di portar il vangelo tra selvaggi, si era stabilito di aprire dei
collegi, degli ospizi, dei ricoveri vicino a quelle tribù”.111 La preferenza salesiana
per la scuola e per i giovani nelle missioni era per Don Bosco convinzione
assodata; però, evangelizzare educando o come lui si esprime “attaccarsi alla
massa del popolo coll’educazione della povera gioventù”, era, in quanto metodo
109 Se legga l’aneddotto, raccontato da don Rinaldi, sul pensiero di Don Bosco sulla povertà
salesiana: MB XIV, pp. 549-550
110 Don Bosco, Memorie dal 1841 al 1884-5-6 pel sac. Gio. Bosco a’ suoi figliuoli salesiani
[Testamento spirituale]. Edizione critica curata da Francesco Motto. Cf. PIETRO BRAIDO (ed.), Don
Bosco Educatore, scritti e testimonianze, LAS, Roma 31997, p. 435. 437-438.
111 Relazione ufficiale a Pio IX (16.06.1876), pag. 4: ASC A8290109.
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3.9 Page 29

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missionario, una novità non a tutti comprensibile. Inoltre, se già in uso, prestava
il fianco ad alcuni insuccessi, perché, pensava Don Bosco, “coloro a cui si
affidano giovanetti da educare, o non usano un metodo adatto, o non hanno
spirito o sono inabili”.112
Proprio perciò, nei ‘Ricordi’ ai missionari, richiama l’attenzione al Sistema
Preventivo. In realtà, non ce n’era bisogno. Lanciando i suoi nelle terre di
missione, non faceva altro che trapiantare le grandi scelte, la metodologia
pedagogica e lo stile di educazione che aveva adoperato a Valdocco ed in cui
erano cresciuti ed educati i suoi stessi missionari. Ciò nonostante, insisterà che
la carità apostolica (“Cercate anime …”, “prendete cura speciale degli ammalati,
dei fanciulli, dei vecchi e dei poveri …) sia vissuta come carità fraterna (“Amatevi,
consigliatevi, correggetevi, ma non portatevi mai né indivia, né rancore, anzi il bene
di uno sia il bene di tutti … )113 e pedagogica (“Carità, pazienza, dolcezza, non mai
rimproveri umilianti, non mai castighi, fare del bene a chi si può, del male a
nissuno. Ciò valga pei salesiani tra loro, fra gli allievi, ed altri, esterni od
interni”)114.
Benché Don Bosco desse per scontata la pratica del suo stile educativo, non fu
facile il suo impianto in terre americane. Non tutte le case salesiane, scrive Don
Rua a Mons. Cagliero, “son dirette con dolcezza e col sistema preventivo”; e Don
Bosco invierà a Don Costamagna, Ispettore dal 1880, dopo la morte di Don
Bodrato, una lettera che può considerarsi un breve trattato del pensiero
educativo del Fondatore: “Il sistema preventivo sia proprio di noi; non mai
castighi penali, non mai parole umilianti, non rimproveri severi in presenza altrui
… Si faccia uso dei castighi negativi, e sempre in modo che coloro che siano
avvisati, diventino amici nostri più di prima, e non partano mai avviliti da noi ...
La dolcezza nel parlare, nell’operare, nell’avvisare guadagna tutto e tutti”.115
Oggi come ieri, in altri continenti come nel passato lo fu in America, ci sono
vere sfide per la messa in pratica del sistema preventivo, dovute a ragioni
culturali o alle mutate condizioni giovanili. Nel primo caso si constatano qua e là
difficoltà per capirlo ed applicarlo e sovente si giustifica un atteggiamento non
salesiano nei confronti dei giovani dicendo che in tale luogo del mondo la voce e il
protagonismo appartengono agli adulti e che ai giovani corrisponde soltanto
l’obbedire; in altri casi, lo stile educativo è improntato ad una forma di
autoritarismo che non lascia spazio alla ragione e meno che meno alla
amorevolezza. Infine, in altre parti del mondo diventa veramente difficile saper
interpretare ed incarnare il sistema preventivo, specialmente dove i cambiamenti
culturali hanno portato i giovani ad un alto livello di autonomia, così che sentono
di avere tutti i diritti possibili senza alcuna responsabilità.
È assolutamente necessario conoscere bene il sistema preventivo per poter
sviluppare le sue grandi virtualità, modernizzarne le applicazioni, reinterpretare
112 Don GIULIO BARBERIS, Cronichetta, Quaderno 8, pag. 75: ASC A0000108. Cf. MB XII, pp. 279-
280.
113 MB XI, pp. 389-390. JESÚS BORREGO, “Recuerdos de San Juan Bosco a los primeros
misioneros. Edición crítica –Posibles fuentes – Breve comentario en la correspondencia de Don
Bosco”, RSS 4 (1988) pp. 207-208.
114 MB XVII, p. 626
115 Lettera a Don Giacomo Costamagna (10.08.1885): Epistolario IV Ceria, pp. 332-333.
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3.10 Page 30

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le grandi idee di fondo (la maggior gloria di Dio e la salute delle anime; la fede
viva, la ferma speranza, la carità teologico-pastorale; il buon cristiano e l’onesto
cittadino; l’allegria, studio e pietà; sanità, studio e santità; la pietà, moralità,
cultura; l’evangelizzazione e civilizzazione), i grandi orientamenti di metodo (farsi
amare prima di farsi temere; ragione, religione, amorevolezza; padre, fratello,
amico; familiarità, soprattutto in ricreazione; guadagnare il cuore; ampia libertà
di saltare, correre, schiamazzare a piacimento). Tutto ciò per la formazione di
giovani nuovi, capaci di trasformare questo mondo.
Mi sta a cuore dire che il sistema preventivo è un elemento essenziale del
nostro carisma, che va conosciuto, aggiornato secondo lo sviluppo filosofico,
antropologico, teologico, scientifico, storico, pedagogico, e che la sua
inculturazione nella varietà dei contesti economici, sociali, politici, culturali e
religiosi dove abitano i nostri destinatari è indispensabile, se vogliamo davvero
essere fedeli a Don Bosco e inculturare il suo carisma. Mi azzardo a dire che
questo è uno dei compiti più urgenti della Congregazione.
«Raccomandate costantemente la divozione a Maria Ausiliatrice ed a Gesù
Sacramentato»
Elemento essenziale nella missione salesiana è la presenza di Maria, una
convinzione tipicamente evangelica (cf. Gv 2,1.12; At 1,14) e certezza di fede
vissuta intensamente da Don Bosco.116 Questa presenza attiva di Maria nella vita
della Chiesa è stata ben descritta dal titolo di Ausiliatrice. Il ricordo di Don Bosco
ai missionari raccomanda tale “divozione” che va coltivata con assiduità. “Noi qui
– disse nel discorso di congedo – non lasceremo passare mai giorno senza
raccomandarli [i primi missionari] a Maria Ausiliatrice e mi pare che Maria, la
quale ora benedice la partenza, non potrà far a meno che benedire il progresso
della missione”.117
Con l’imporsi del titolo di “Maria Ausiliatrice” il carisma salesiano si aprì
all’orizzonte missionario e l’agire missionario salesiano si caratterizzò per la
diffusione popolare della devozione a Maria Ausiliatrice, la celebrazione delle
principali festività mariane, la pubblicazione di libretti e immagini, la costruzione
di Santuari mariani in ogni parte del mondo, espressione tangibile di irradiazione
del carisma apostolico ed educativo di Don Bosco. “La santa Vergine Maria –
scrisse nel ‘Testamento spirituale’ – continuerà certamente a proteggere la nostra
congregazione e le opere salesiane, se noi continueremo la nostra fiducia in Lei e
continueremo a promuovere il suo culto”.118
116 È costante l’augurio di Don Bosco ai missionari: Maria vi guidi per guadagnare molte anime, o
per andare in cielo: cf. Lettera a Mons. Cagliero (10.02.1885): Epistolario IV Ceria, p. 314; Lettera
a Don Costamagna (10.08.1885): Epistolario IV Ceria, p. 333; Lettera a Don Tomatis (14.08.1885):
Epistolario IV Ceria, p. 337; Lettera a Don Lasagna (30.09.1885): Epistolario IV Ceria, pp. 340-341.
117 MB XI, p. 386. La vigilia dell’imbarco Don Bosco consegnò a Don Cagliero una lista
manoscritta di consigli e commissioni, che chiudeva così: “Fate quello che potete: Dio farà quel
che non possiamo far noi. Confidate ogni cosa in Gesù Cristo Sacramentato ed in Maria
Ausiliatrice e vedrete che cosa sono i miracoli” (MB XI, p. 395)
118 MB XVII, p. 261. Don Bosco, Memorie dal 1841 al 1884-5-6 pel sac. Gio. Bosco a’ suoi figliuoli
salesiani [Testamento spirituale]. Edizione critica curata da Francesco Motto. Cf. PIETRO BRAIDO
(ed.), Don Bosco Educatore, scritti e testimonianze, LAS, Roma 31997, p. 415.
30

4 Pages 31-40

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4.1 Page 31

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La tradizione ininterrotta dal 1875 di consegnare il crocifisso ai missionari
partenti nella Basilica di Maria Ausiliatrice esprime tale convinzione ed insieme
diventa condizione originante e rinnovante il carisma salesiano nel tempo: Maria,
come è rappresentata nella pala del Lorenzone, è Madre della Chiesa e Regina
degli apostoli, che aiuta e accompagna l’opera salesiana nel mondo. Il crocifisso
che viene consegnato esprime la possibilità concreta d'essere chiamati da Dio
verso orizzonti di generosità senza limiti. Per tanti figli di Don Bosco il coraggio e
la fedeltà li hanno resi capaci di dare la vita col martirio.
Frutto tipico di tale stile pastorale ed educativo, che visibilizza la presenza di
Maria Ausiliatrice mediante l’innalzamento di santuari e l’erezione di statue a Lei
dedicate, è la vittoria sulle logiche di contrapposizione e le azioni di violenza per
la promozione di una cultura di pace e di riconciliazione tra popoli, gruppi e
famiglie, esaltando la sua presenza di “Stella dell’evangelizzazione” nella nascita e
nella crescita della Chiesa.
Originale è l’accostamento della devozione mariana al rapporto sacramentale
con il Signore Gesù nell’Eucaristia. Ciò esprime che il nostro affidamento a Maria
trova il suo vertice nell’accoglierla come “donna eucaristica”119: quanto più Maria
ci rende eucaristici, tanto più realizza la sua missione, quella di portarci a Gesù,
di farci portare Cristo in noi, di insegnarci a fare della nostra vita un sacrificio a
Dio gradito, in unione al perfetto sacrificio del Figlio. In ottica tipicamente
salesiana l’azione educativa e l’opera evangelizzatrice trovano nel rapporto con il
Signore Gesù e Maria le “colonne”, il sostegno e l’espressione di una fede forte in
Dio a cui nulla è impossibile e fiducia in Maria in cui Dio “ha fatto grandi cose”
(Lc 1,49).
Cosa pensare, cari confratelli, di presenze salesiane, a volte più che
centenarie, dove non siamo riusciti a far sentire ai nostri giovani e ai collaboratori
la presenza materna di Maria o, peggio ancora, dove si è lasciato dilagare un
progressivo allontanamento da Cristo Eucaristia? Potremmo chiamarle
‘salesiane’, anche se continuano ad educare ed evangelizzare? Credo,
sinceramente, che se vogliamo restare fedeli al progetto originale del nostro
Padre, Maria deve ritornare come motivo e guida della nostra evangelizzazione e
l’Eucaristia come il suo centro di gravità e la sua forma missionaria.
Conclusione
Carissimi confratelli, come Congregazione noi abbiamo una splendida storia di
inculturazione del Vangelo in terre di missione. Ci sono stati e ci sono Salesiani
che si sono pienamente inseriti nei popoli, imparando la loro lingua, ricostruendo
la loro cosmovisione, raccogliendo le loro tradizioni e costumi, elaborando
grammatiche e dizionari, difendendo le loro terre e la loro organizzazione,
costituendo federazioni di popoli indigeni. È una storia di cui non possiamo non
essere fieri. Ad essi il nostro riconoscimento, la nostra stima ed ammirazione, la
nostra riconoscenza. Tuttavia, in questa lettera, ho voluto piuttosto affrontare il
tema della inculturazione dalla prospettiva non tanto del vangelo ma del carisma,
ad indicare che in qualsiasi continente (Europa, America, Asia, Africa, Oceania,
119 Cf. GIOVANNI PAOLO II, Ecclesia de Eucharistia. Lettera enciclica sull’Eucarista nel suo rapporto
con la Chiesa (17.04.2003) 53-58.
31

4.2 Page 32

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Digital Continent), in qualsiasi contesto (sociale, politico, culturale e religioso) e
tipo di opera (di educazione formale, non formale, informale, primaria,
secondaria, universitaria, di evangelizzazione o missione, di promozione sociale) il
carisma deve essere inculturato. Ecco il perché dell’impegno ad evidenziare i
criteri indicati dallo stesso Don Bosco nei suoi ‘Ricordi’ ai primi missionari. Essi
continuano infatti ad essere il nostro punto di riferimento. Né destinatari, né
missione, né metodo sono per noi un optional. Essi ci sono stati dati come eredità
da assumere, custodire e sviluppare.
Mi piace concludere con due testi tanto eloquenti quanto impegnativi della
Esortazione post-sinodale “Vita Consecrata”, che parlando appunto
dell’arricchimento vicendevole tra inculturazione e carisma dice: “La sfida
dell'inculturazione va accolta dalle persone consacrate come appello a una
feconda collaborazione con la grazia nell'approccio con le diverse culture. Ciò
suppone seria preparazione personale, mature doti di discernimento, fedele
adesione agli indispensabili criteri di ortodossia dottrinale, di autenticità e di
comunione ecclesiale. Col sostegno del carisma dei fondatori e delle fondatrici,
molte persone consacrate hanno saputo avvicinarsi alle diverse culture
nell'atteggiamento di Gesù che «spogliò se stesso assumendo la condizione di
servo» (Fil 2, 7) e, con un paziente ed audace sforzo di dialogo, hanno stabilito
contatti proficui con le genti più varie, a tutte annunciando la via della
salvezza”.120 E al numero seguente aggiunge: “Un’autentica inculturazione
aiuterà, a sua volta, le persone consacrate a vivere il radicalismo evangelico
secondo il carisma del proprio Istituto e il genio del popolo col quale entrano in
contatto. Da questo fecondo rapporto scaturiranno stili di vita e metodi pastorali
che potranno rivelarsi un’autentica ricchezza per tutto l’Istituto, se risulteranno
coerenti con il carisma di fondazione e con l’azione unificante dello Spirito
Santo.”121
Insieme a voi inizio questo triennio di preparazione al bicentenario della
nascita di Don Bosco, che dovrà essere per tutti noi un’autentica rinascita
spirituale, missionaria, educativa, carismatica. A Maria Ausiliatrice, nostra madre
ed educatrice, affido tutti e ciascuno di voi.
Don Pascual Chávez V., SDB
Rettor Maggiore
120 VC 79.
121 VC 80.
32