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La Santa Sede
LETTERA ENCICLICA
CARITAS IN VERITATE
DEL SOMMO PONTEFICE
BENEDETTO XVI
AI VESCOVI
AI PRESBITERI E AI DIACONI
ALLE PERSONE CONSACRATE
AI FEDELI LAICI
E A TUTTI GLI UOMINI
DI BUONA VOLONTÀ
SULLO SVILUPPO UMANO INTEGRALE
NELLA CARITÀ E NELLA VERITÀ
INTRODUZIONE
1. La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s'è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto,
con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona
e dell'umanità intera. L'amore — « caritas » — è una forza straordinaria, che spinge le persone a
impegnarsi con coraggio e generosità nel campo della giustizia e della pace. È una forza che ha la
sua origine in Dio, Amore eterno e Verità assoluta. Ciascuno trova il suo bene aderendo al
progetto che Dio ha su di lui, per realizzarlo in pienezza: in tale progetto infatti egli trova la sua
verità ed è aderendo a tale verità che egli diventa libero (cfr Gv 8,32). Difendere la verità, proporla
con umiltà e convinzione e testimoniarla nella vita sono pertanto forme esigenti e insostituibili di
carità. Questa, infatti, « si compiace della verità » (1 Cor 13,6). Tutti gli uomini avvertono l'interiore
impulso ad amare in modo autentico: amore e verità non li abbandonano mai completamente,
perché sono la vocazione posta da Dio nel cuore e nella mente di ogni uomo. Gesù Cristo purifica
e libera dalle nostre povertà umane la ricerca dell'amore e della verità e ci svela in pienezza
l'iniziativa di amore e il progetto di vita vera che Dio ha preparato per noi. In Cristo, la carità nella
verità diventa il Volto della sua Persona, una vocazione per noi ad amare i nostri fratelli nella

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verità del suo progetto. Egli stesso, infatti, è la Verità (cfr Gv 14,6).
2. La carità è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa. Ogni responsabilità e impegno
delineati da tale dottrina sono attinti alla carità che, secondo l'insegnamento di Gesù, è la sintesi di
tutta la Legge (cfr Mt 22,36-40). Essa dà vera sostanza alla relazione personale con Dio e con il
prossimo; è il principio non solo delle micro-relazioni: rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo,
ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici. Per la Chiesa — ammaestrata
dal Vangelo — la carità è tutto perché, come insegna san Giovanni (cfr 1 Gv 4,8.16) e come ho
ricordato nella mia prima Lettera enciclica, « Dio è carità » (Deus caritas est): dalla carità di Dio
tutto proviene, per essa tutto prende forma, ad essa tutto tende. La carità è il dono più grande che
Dio abbia dato agli uomini, è sua promessa e nostra speranza.
Sono consapevole degli sviamenti e degli svuotamenti di senso a cui la carità è andata e va
incontro, con il conseguente rischio di fraintenderla, di estrometterla dal vissuto etico e, in ogni
caso, di impedirne la corretta valorizzazione. In ambito sociale, giuridico, culturale, politico,
economico, ossia nei contesti più esposti a tale pericolo, ne viene dichiarata facilmente
l'irrilevanza a interpretare e a dirigere le responsabilità morali. Di qui il bisogno di coniugare la
carità con la verità non solo nella direzione, segnata da san Paolo, della « veritas in caritate » (Ef
4,15), ma anche in quella, inversa e complementare, della « caritas in veritate ». La verità va
cercata, trovata ed espressa nell'« economia » della carità, ma la carità a sua volta va compresa,
avvalorata e praticata nella luce della verità. In questo modo non avremo solo reso un servizio alla
carità, illuminata dalla verità, ma avremo anche contribuito ad accreditare la verità, mostrandone il
potere di autenticazione e di persuasione nel concreto del vivere sociale. Cosa, questa, di non
poco conto oggi, in un contesto sociale e culturale che relativizza la verità, diventando spesso di
essa incurante e ad essa restio.
3. Per questo stretto collegamento con la verità, la carità può essere riconosciuta come
espressione autentica di umanità e come elemento di fondamentale importanza nelle relazioni
umane, anche di natura pubblica. Solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente
vissuta. La verità è luce che dà senso e valore alla carità. Questa luce è, a un tempo, quella della
ragione e della fede, attraverso cui l'intelligenza perviene alla verità naturale e soprannaturale
della carità: ne coglie il significato di donazione, di accoglienza e di comunione. Senza verità, la
carità scivola nel sentimentalismo. L'amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È
il fatale rischio dell'amore in una cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni
contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino a significare il contrario. La verità libera
la carità dalle strettoie di un emotivismo che la priva di contenuti relazionali e sociali, e di un
fideismo che la priva di respiro umano ed universale. Nella verità la carità riflette la dimensione
personale e nello stesso tempo pubblica della fede nel Dio biblico, che è insieme « Agápe » e «
Lógos »: Carità e Verità, Amore e Parola.
4. Perché piena di verità, la carità può essere dall'uomo compresa nella sua ricchezza di valori,

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condivisa e comunicata. La verità, infatti, è “lógos” che crea “diá-logos” e quindi comunicazione e
comunione. La verità, facendo uscire gli uomini dalle opinioni e dalle sensazioni soggettive,
consente loro di portarsi al di là delle determinazioni culturali e storiche e di incontrarsi nella
valutazione del valore e della sostanza delle cose. La verità apre e unisce le intelligenze nel lógos
dell'amore: è, questo, l'annuncio e la testimonianza cristiana della carità. Nell'attuale contesto
sociale e culturale, in cui è diffusa la tendenza a relativizzare il vero, vivere la carità nella verità
porta a comprendere che l'adesione ai valori del Cristianesimo è elemento non solo utile, ma
indispensabile per la costruzione di una buona società e di un vero sviluppo umano integrale. Un
Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni
sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali. In questo modo non ci sarebbe più un
vero e proprio posto per Dio nel mondo. Senza la verità, la carità viene relegata in un ambito
ristretto e privato di relazioni. È esclusa dai progetti e dai processi di costruzione di uno sviluppo
umano di portata universale, nel dialogo tra i saperi e le operatività.
5. La carità è amore ricevuto e donato. Essa è « grazia » (cháris). La sua scaturigine è l'amore
sorgivo del Padre per il Figlio, nello Spirito Santo. È amore che dal Figlio discende su di noi. È
amore creatore, per cui noi siamo; è amore redentore, per cui siamo ricreati. Amore rivelato e
realizzato da Cristo (cfr Gv 13,1) e « riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo » (Rm
5,5). Destinatari dell'amore di Dio, gli uomini sono costituiti soggetti di carità, chiamati a farsi essi
stessi strumenti della grazia, per effondere la carità di Dio e per tessere reti di carità.
A questa dinamica di carità ricevuta e donata risponde la dottrina sociale della Chiesa. Essa è «
caritas in veritate in re sociali »: annuncio della verità dell'amore di Cristo nella società. Tale
dottrina è servizio della carità, ma nella verità. La verità preserva ed esprime la forza di liberazione
della carità nelle vicende sempre nuove della storia. È, a un tempo, verità della fede e della
ragione, nella distinzione e insieme nella sinergia dei due ambiti cognitivi. Lo sviluppo, il
benessere sociale, un'adeguata soluzione dei gravi problemi socio-economici che affliggono
l'umanità, hanno bisogno di questa verità. Ancor più hanno bisogno che tale verità sia amata e
testimoniata. Senza verità, senza fiducia e amore per il vero, non c'è coscienza e responsabilità
sociale, e l'agire sociale cade in balia di privati interessi e di logiche di potere, con effetti
disgregatori sulla società, tanto più in una società in via di globalizzazione, in momenti difficili
come quelli attuali.
6. « Caritas in veritate » è principio intorno a cui ruota la dottrina sociale della Chiesa, un principio
che prende forma operativa in criteri orientativi dell'azione morale. Ne desidero richiamare due in
particolare, dettati in special modo dall'impegno per lo sviluppo in una società in via di
globalizzazione: la giustizia e il bene comune.
La giustizia anzitutto. Ubi societas, ibi ius: ogni società elabora un proprio sistema di giustizia. La
carità eccede la giustizia, perché amare è donare, offrire del “mio” all'altro; ma non è mai senza la
giustizia, la quale induce a dare all'altro ciò che è “suo”, ciò che gli spetta in ragione del suo

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essere e del suo operare. Non posso « donare » all'altro del mio, senza avergli dato in primo luogo
ciò che gli compete secondo giustizia. Chi ama con carità gli altri è anzitutto giusto verso di loro.
Non solo la giustizia non è estranea alla carità, non solo non è una via alternativa o parallela alla
carità: la giustizia è « inseparabile dalla carità » [1], intrinseca ad essa. La giustizia è la prima via
della carità o, com'ebbe a dire Paolo VI, « la misura minima » di essa [2], parte integrante di
quell'amore « coi fatti e nella verità » (1 Gv 3,18), a cui esorta l'apostolo Giovanni. Da una parte, la
carità esige la giustizia: il riconoscimento e il rispetto dei legittimi diritti degli individui e dei popoli.
Essa s'adopera per la costruzione della “città dell'uomo” secondo diritto e giustizia. Dall'altra, la
carità supera la giustizia e la completa nella logica del dono e del perdono [3]. La “città dell'uomo”
non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di
gratuità, di misericordia e di comunione. La carità manifesta sempre anche nelle relazioni umane
l'amore di Dio, essa dà valore teologale e salvifico a ogni impegno di giustizia nel mondo.
7. Bisogna poi tenere in grande considerazione il bene comune. Amare qualcuno è volere il suo
bene e adoperarsi efficacemente per esso. Accanto al bene individuale, c'è un bene legato al
vivere sociale delle persone: il bene comune. È il bene di quel “noi-tutti”, formato da individui,
famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale [4]. Non è un bene ricercato per se
stesso, ma per le persone che fanno parte della comunità sociale e che solo in essa possono
realmente e più efficacemente conseguire il loro bene. Volere il bene comune e adoperarsi per
esso è esigenza di giustizia e di carità. Impegnarsi per il bene comune è prendersi cura, da una
parte, e avvalersi, dall'altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente,
civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende forma di pólis, di
città. Si ama tanto più efficacemente il prossimo, quanto più ci si adopera per un bene comune
rispondente anche ai suoi reali bisogni. Ogni cristiano è chiamato a questa carità, nel modo della
sua vocazione e secondo le sue possibilità d'incidenza nella pólis. È questa la via istituzionale —
possiamo anche dire politica — della carità, non meno qualificata e incisiva di quanto lo sia la
carità che incontra il prossimo direttamente, fuori delle mediazioni istituzionali della pólis. Quando
la carità lo anima, l'impegno per il bene comune ha una valenza superiore a quella dell'impegno
soltanto secolare e politico. Come ogni impegno per la giustizia, esso s'inscrive in quella
testimonianza della carità divina che, operando nel tempo, prepara l'eterno. L'azione dell'uomo
sulla terra, quando è ispirata e sostenuta dalla carità, contribuisce all'edificazione di quella
universale città di Dio verso cui avanza la storia della famiglia umana. In una società in via di
globalizzazione, il bene comune e l'impegno per esso non possono non assumere le dimensioni
dell'intera famiglia umana, vale a dire della comunità dei popoli e delle Nazioni [5], così da dare
forma di unità e di pace alla città dell'uomo, e renderla in qualche misura anticipazione
prefiguratrice della città senza barriere di Dio.
8. Pubblicando nel 1967 l'Enciclica Populorum progressio, il mio venerato predecessore Paolo VI
ha illuminato il grande tema dello sviluppo dei popoli con lo splendore della verità e con la luce
soave della carità di Cristo. Egli ha affermato che l'annuncio di Cristo è il primo e principale fattore
di sviluppo [6] e ci ha lasciato la consegna di camminare sulla strada dello sviluppo con tutto il

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nostro cuore e con tutta la nostra intelligenza [7], vale a dire con l'ardore della carità e la sapienza
della verità. È la verità originaria dell'amore di Dio, grazia a noi donata, che apre la nostra vita al
dono e rende possibile sperare in uno « sviluppo di tutto l'uomo e di tutti gli uomini » [8], in un
passaggio « da condizioni meno umane a condizioni più umane » [9], ottenuto vincendo le
difficoltà che inevitabilmente si incontrano lungo il cammino.
A oltre quarant'anni dalla pubblicazione dell'Enciclica, intendo rendere omaggio e tributare onore
alla memoria del grande Pontefice Paolo VI, riprendendo i suoi insegnamenti sullo sviluppo umano
integrale e collocandomi nel percorso da essi tracciato, per attualizzarli nell'ora presente. Questo
processo di attualizzazione iniziò con l'Enciclica Sollicitudo rei socialis, con cui il Servo di Dio
Giovanni Paolo II volle commemorare la pubblicazione della Populorum progressio in occasione
del suo ventennale. Fino ad allora, una simile commemorazione era stata riservata solo alla
Rerum novarum. Passati altri vent'anni, esprimo la mia convinzione che la Populorum progressio
merita di essere considerata come « la Rerum novarum dell'epoca contemporanea », che illumina
il cammino dell'umanità in via di unificazione.
9. L'amore nella verità — caritas in veritate — è una grande sfida per la Chiesa in un mondo in
progressiva e pervasiva globalizzazione. Il rischio del nostro tempo è che all'interdipendenza di
fatto tra gli uomini e i popoli non corrisponda l'interazione etica delle coscienze e delle intelligenze,
dalla quale possa emergere come risultato uno sviluppo veramente umano. Solo con la carità,
illuminata dalla luce della ragione e della fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di
una valenza più umana e umanizzante. La condivisione dei beni e delle risorse, da cui proviene
l'autentico sviluppo, non è assicurata dal solo progresso tecnico e da mere relazioni di
convenienza, ma dal potenziale di amore che vince il male con il bene (cfr Rm 12,21) e apre alla
reciprocità delle coscienze e delle libertà.
La Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire [10] e non pretende « minimamente d'intromettersi
nella politica degli Stati » [11]. Ha però una missione di verità da compiere, in ogni tempo ed
evenienza, per una società a misura dell'uomo, della sua dignità, della sua vocazione. Senza
verità si cade in una visione empiristica e scettica della vita, incapace di elevarsi sulla prassi,
perché non interessata a cogliere i valori — talora nemmeno i significati — con cui giudicarla e
orientarla. La fedeltà all'uomo esige la fedeltà alla verità che, sola, è garanzia di libertà (cfr Gv
8,32) e della possibilità di uno sviluppo umano integrale. Per questo la Chiesa la ricerca,
l'annunzia instancabilmente e la riconosce ovunque essa si palesi. Questa missione di verità è per
la Chiesa irrinunciabile. La sua dottrina sociale è momento singolare di questo annuncio: essa è
servizio alla verità che libera. Aperta alla verità, da qualsiasi sapere provenga, la dottrina sociale
della Chiesa l'accoglie, compone in unità i frammenti in cui spesso la ritrova, e la media nel vissuto
sempre nuovo della società degli uomini e dei popoli [12].

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CAPITOLO PRIMO
IL MESSAGGIO
DELLA POPULORUM PROGRESSIO
10. La rilettura della Populorum progressio, a oltre quarant'anni dalla pubblicazione, sollecita a
rimanere fedeli al suo messaggio di carità e di verità, considerandolo nell'ambito dello specifico
magistero di Paolo VI e, più in generale, dentro la tradizione della dottrina sociale della Chiesa.
Sono poi da valutare i diversi termini in cui oggi, a differenza da allora, si pone il problema dello
sviluppo. Il corretto punto di vista, dunque, è quello della Tradizione della fede apostolica [13],
patrimonio antico e nuovo, fuori del quale la Populorum progressio sarebbe un documento senza
radici e le questioni dello sviluppo si ridurrebbero unicamente a dati sociologici.
11. La pubblicazione della Populorum progressio avvenne immediatamente dopo la conclusione
del Concilio Ecumenico Vaticano II. La stessa Enciclica segnala, nei primi paragrafi, il suo intimo
rapporto con il Concilio [14]. Giovanni Paolo II, vent'anni dopo, nella Sollicitudo rei socialis
sottolineava, a sua volta, il fecondo rapporto di quella Enciclica con il Concilio e, in particolare, con
la Costituzione pastorale Gaudium et spes [15]. Anch'io desidero ricordare qui l'importanza del
Concilio Vaticano II per l'Enciclica di Paolo VI e per tutto il successivo Magistero sociale dei
Sommi Pontefici. Il Concilio approfondì quanto appartiene da sempre alla verità della fede, ossia
che la Chiesa, essendo a servizio di Dio, è a servizio del mondo in termini di amore e di verità.
Proprio da questa visione partiva Paolo VI per comunicarci due grandi verità. La prima è che tutta
la Chiesa, in tutto il suo essere e il suo agire, quando annuncia, celebra e opera nella carità, è
tesa a promuovere lo sviluppo integrale dell'uomo. Essa ha un ruolo pubblico che non si esaurisce
nelle sue attività di assistenza o di educazione, ma rivela tutte le proprie energie a servizio della
promozione dell'uomo e della fraternità universale quando può valersi di un regime di libertà. In
non pochi casi tale libertà è impedita da divieti e da persecuzioni o è anche limitata quando la
presenza pubblica della Chiesa viene ridotta unicamente alle sue attività caritative. La seconda
verità è che l'autentico sviluppo dell'uomo riguarda unitariamente la totalità della persona in ogni
sua dimensione [16]. Senza la prospettiva di una vita eterna, il progresso umano in questo mondo
rimane privo di respiro. Chiuso dentro la storia, esso è esposto al rischio di ridursi al solo
incremento dell'avere; l'umanità perde così il coraggio di essere disponibile per i beni più alti, per
le grandi e disinteressate iniziative sollecitate dalla carità universale. L'uomo non si sviluppa con le
sole proprie forze, né lo sviluppo gli può essere semplicemente dato dall'esterno. Lungo la storia,
spesso si è ritenuto che la creazione di istituzioni fosse sufficiente a garantire all'umanità il
soddisfacimento del diritto allo sviluppo. Purtroppo, si è riposta un'eccessiva fiducia in tali
istituzioni, quasi che esse potessero conseguire l'obiettivo desiderato in maniera automatica. In
realtà, le istituzioni da sole non bastano, perché lo sviluppo umano integrale è anzitutto vocazione
e, quindi, comporta una libera e solidale assunzione di responsabilità da parte di tutti. Un tale
sviluppo richiede, inoltre, una visione trascendente della persona, ha bisogno di Dio: senza di Lui
lo sviluppo o viene negato o viene affidato unicamente alle mani dell'uomo, che cade nella

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presunzione dell'auto-salvezza e finisce per promuovere uno sviluppo disumanizzato. D'altronde,
solo l'incontro con Dio permette di non “vedere nell'altro sempre soltanto l'altro” [17], ma di
riconoscere in lui l'immagine divina, giungendo così a scoprire veramente l'altro e a maturare un
amore che “diventa cura dell'altro e per l'altro”[18].
12. Il legame tra la Populorum progressio e il Concilio Vaticano II non rappresenta una cesura tra
il Magistero sociale di Paolo VI e quello dei Pontefici suoi predecessori, dato che il Concilio
costituisce un approfondimento di tale magistero nella continuità della vita della Chiesa [19]. In
questo senso, non contribuiscono a fare chiarezza certe astratte suddivisioni della dottrina sociale
della Chiesa che applicano all'insegnamento sociale pontificio categorie ad esso estranee. Non ci
sono due tipologie di dottrina sociale, una preconciliare e una postconciliare, diverse tra loro, ma
un unico insegnamento, coerente e nello stesso tempo sempre nuovo [20]. È giusto rilevare le
peculiarità dell'una o dell'altra Enciclica, dell'insegnamento dell'uno o dell'altro Pontefice, mai però
perdendo di vista la coerenza dell'intero corpus dottrinale [21]. Coerenza non significa chiusura in
un sistema, quanto piuttosto fedeltà dinamica a una luce ricevuta. La dottrina sociale della Chiesa
illumina con una luce che non muta i problemi sempre nuovi che emergono [22]. Ciò salvaguarda
il carattere sia permanente che storico di questo « patrimonio » dottrinale [23] che, con le sue
specifiche caratteristiche, fa parte della Tradizione sempre vitale della Chiesa [24]. La dottrina
sociale è costruita sopra il fondamento trasmesso dagli Apostoli ai Padri della Chiesa e poi accolto
e approfondito dai grandi Dottori cristiani. Tale dottrina si rifà in definitiva all'Uomo nuovo, all'«
ultimo Adamo che divenne spirito datore di vita » (1 Cor 15,45) e che è principio della carità che «
non avrà mai fine » (1 Cor 13,8). È testimoniata dai Santi e da quanti hanno dato la vita per Cristo
Salvatore nel campo della giustizia e della pace. In essa si esprime il compito profetico dei Sommi
Pontefici di guidare apostolicamente la Chiesa di Cristo e di discernere le nuove esigenze
dell'evangelizzazione. Per queste ragioni, la Populorum progressio, inserita nella grande corrente
della Tradizione, è in grado di parlare ancora a noi, oggi.
13. Oltre al suo importante legame con l'intera dottrina sociale della Chiesa, la Populorum
progressio è strettamente connessa con il magistero complessivo di Paolo VI e, in particolare, con
il suo magistero sociale. Il suo fu certo un insegnamento sociale di grande rilevanza: egli ribadì
l'imprescindibile importanza del Vangelo per la costruzione della società secondo libertà e
giustizia, nella prospettiva ideale e storica di una civiltà animata dall'amore. Paolo VI comprese
chiaramente come la questione sociale fosse diventata mondiale [25] e colse il richiamo reciproco
tra la spinta all'unificazione dell'umanità e l'ideale cristiano di un'unica famiglia dei popoli, solidale
nella comune fraternità. Indicò nello sviluppo, umanamente e cristianamente inteso, il cuore del
messaggio sociale cristiano e propose la carità cristiana come principale forza a servizio dello
sviluppo. Mosso dal desiderio di rendere l'amore di Cristo pienamente visibile all'uomo
contemporaneo, Paolo VI affrontò con fermezza importanti questioni etiche, senza cedere alle
debolezze culturali del suo tempo.
14. Con la Lettera apostolica Octogesima adveniens del 1971, Paolo VI trattò poi il tema del senso

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della politica e del pericolo costituito da visioni utopistiche e ideologiche che ne pregiudicavano la
qualità etica e umana. Sono argomenti strettamente collegati con lo sviluppo. Purtroppo le
ideologie negative fioriscono in continuazione. Dall'ideologia tecnocratica, particolarmente radicata
oggi, Paolo VI aveva già messo in guardia [26], consapevole del grande pericolo di affidare l'intero
processo dello sviluppo alla sola tecnica, perché in tal modo rimarrebbe senza orientamento. La
tecnica, presa in se stessa, è ambivalente. Se da un lato, oggi, vi è chi propende ad affidarle
interamente detto processo di sviluppo, dall'altro si assiste all'insorgenza di ideologie che negano
in toto l'utilità stessa dello sviluppo, ritenuto radicalmente anti-umano e portatore solo di
degradazione. Così, si finisce per condannare non solo il modo distorto e ingiusto con cui gli
uomini talvolta orientano il progresso, ma le stesse scoperte scientifiche, che, se ben usate,
costituiscono invece un'opportunità di crescita per tutti. L'idea di un mondo senza sviluppo
esprime sfiducia nell'uomo e in Dio. È, quindi, un grave errore disprezzare le capacità umane di
controllare le distorsioni dello sviluppo o addirittura ignorare che l'uomo è costitutivamente proteso
verso l'« essere di più ». Assolutizzare ideologicamente il progresso tecnico oppure vagheggiare
l'utopia di un'umanità tornata all'originario stato di natura sono due modi opposti per separare il
progresso dalla sua valutazione morale e, quindi, dalla nostra responsabilità.
15. Altri due documenti di Paolo VI non strettamente connessi con la dottrina sociale — l'Enciclica
Humanae vitae, del 25 luglio 1968, e l'Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, dell'8 dicembre
1975 — sono molto importanti per delineare il senso pienamente umano dello sviluppo proposto
dalla Chiesa. È quindi opportuno leggere anche questi testi in relazione con la Populorum
progressio.
L'Enciclica Humanae vitae sottolinea il significato insieme unitivo e procreativo della sessualità,
ponendo così a fondamento della società la coppia degli sposi, uomo e donna, che si accolgono
reciprocamente nella distinzione e nella complementarità; una coppia, dunque, aperta alla vita
[27]. Non si tratta di morale meramente individuale: la Humanae vitae indica i forti legami esistenti
tra etica della vita ed etica sociale, inaugurando una tematica magisteriale che ha via via preso
corpo in vari documenti, da ultimo nell'Enciclica Evangelium vitae di Giovanni Paolo II [28]. La
Chiesa propone con forza questo collegamento tra etica della vita e etica sociale nella
consapevolezza che non può “avere solide basi una società che — mentre afferma valori quali la
dignità della persona, la giustizia e la pace — si contraddice radicalmente accettando e tollerando
le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed
emarginata” [29].
L'Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, per parte sua, ha un rapporto molto intenso con lo
sviluppo, in quanto « l'evangelizzazione — scriveva Paolo VI — non sarebbe completa se non
tenesse conto del reciproco appello, che si fanno continuamente il Vangelo e la vita concreta,
personale e sociale, dell'uomo » [30]. « Tra evangelizzazione e promozione umana — sviluppo,
liberazione — ci sono infatti dei legami profondi » [31]: partendo da questa consapevolezza, Paolo
VI poneva in modo chiaro il rapporto tra l'annuncio di Cristo e la promozione della persona nella

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società. La testimonianza della carità di Cristo attraverso opere di giustizia, pace e sviluppo fa
parte della evangelizzazione, perché a Gesù Cristo, che ci ama, sta a cuore tutto l'uomo. Su
questi importanti insegnamenti si fonda l'aspetto missionario [32] della dottrina sociale della
Chiesa come elemento essenziale di evangelizzazione [33]. La dottrina sociale della Chiesa è
annuncio e testimonianza di fede. È strumento e luogo imprescindibile di educazione ad essa.
16. Nella Populorum progressio, Paolo VI ha voluto dirci, prima di tutto, che il progresso è, nella
sua scaturigine e nella sua essenza, una vocazione: « Nel disegno di Dio, ogni uomo è chiamato a
uno sviluppo, perché ogni vita è vocazione » [34]. È proprio questo fatto a legittimare l'intervento
della Chiesa nelle problematiche dello sviluppo. Se esso riguardasse solo aspetti tecnici della vita
dell'uomo, e non il senso del suo camminare nella storia assieme agli altri suoi fratelli né
l'individuazione della meta di tale cammino, la Chiesa non avrebbe titolo per parlarne. Paolo VI,
come già Leone XIII nella Rerum novarum [35], era consapevole di assolvere un dovere proprio
del suo ufficio proiettando la luce del Vangelo sulle questioni sociali del suo tempo [36].
Dire che lo sviluppo è vocazione equivale a riconoscere, da una parte, che esso nasce da un
appello trascendente e, dall'altra, che è incapace di darsi da sé il proprio significato ultimo. Non
senza motivo la parola « vocazione » ricorre anche in un altro passo dell'Enciclica, ove si afferma:
« Non vi è dunque umanesimo vero se non aperto verso l'Assoluto, nel riconoscimento d'una
vocazione, che offre l'idea vera della vita umana » [37]. Questa visione dello sviluppo è il cuore
della Populorum progressio e motiva tutte le riflessioni di Paolo VI sulla libertà, sulla verità e sulla
carità nello sviluppo. È anche la ragione principale per cui quell'Enciclica è ancora attuale ai nostri
giorni.
17. La vocazione è un appello che richiede una risposta libera e responsabile. Lo sviluppo umano
integrale suppone la libertà responsabile della persona e dei popoli: nessuna struttura può
garantire tale sviluppo al di fuori e al di sopra della responsabilità umana. I « messianismi carichi
di promesse, ma fabbricatori di illusioni » [38] fondano sempre le proprie proposte sulla negazione
della dimensione trascendente dello sviluppo, nella sicurezza di averlo tutto a propria
disposizione. Questa falsa sicurezza si tramuta in debolezza, perché comporta l'asservimento
dell'uomo ridotto a mezzo per lo sviluppo, mentre l'umiltà di chi accoglie una vocazione si
trasforma in vera autonomia, perché rende libera la persona. Paolo VI non ha dubbi che ostacoli e
condizionamenti frenino lo sviluppo, ma è anche certo che « ciascuno rimane, qualunque siano le
influenze che si esercitano su di lui, l'artefice della sua riuscita o del suo fallimento » [39]. Questa
libertà riguarda lo sviluppo che abbiamo davanti a noi ma, contemporaneamente, riguarda anche
le situazioni di sottosviluppo, che non sono frutto del caso o di una necessità storica, ma
dipendono dalla responsabilità umana. È per questo che « i popoli della fame interpellano oggi in
maniera drammatica i popoli dell'opulenza » [40]. Anche questo è vocazione, un appello rivolto da
uomini liberi a uomini liberi per una comune assunzione di responsabilità. Fu viva in Paolo VI la
percezione dell'importanza delle strutture economiche e delle istituzioni, ma altrettanto chiara fu in
lui la percezione della loro natura di strumenti della libertà umana. Solo se libero, lo sviluppo può

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essere integralmente umano; solo in un regime di libertà responsabile esso può crescere in
maniera adeguata.
18. Oltre a richiedere la libertà, lo sviluppo umano integrale come vocazione esige anche che se
ne rispetti la verità. La vocazione al progresso spinge gli uomini a « fare, conoscere e avere di più,
per essere di più » [41]. Ma ecco il problema: che cosa significa « essere di più »? Alla domanda
Paolo VI risponde indicando la connotazione essenziale dell'« autentico sviluppo »: esso « deve
essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l'uomo » [42]. Nella
concorrenza tra le varie visioni dell'uomo, che vengono proposte nella società di oggi ancor più
che in quella di Paolo VI, la visione cristiana ha la peculiarità di affermare e giustificare il valore
incondizionato della persona umana e il senso della sua crescita. La vocazione cristiana allo
sviluppo aiuta a perseguire la promozione di tutti gli uomini e di tutto l'uomo. Scriveva Paolo VI: «
Ciò che conta per noi è l'uomo, ogni uomo, ogni gruppo d'uomini, fino a comprendere l'umanità
tutta intera » [43]. La fede cristiana si occupa dello sviluppo non contando su privilegi o su
posizioni di potere e neppure sui meriti dei cristiani, che pure ci sono stati e ci sono anche oggi
accanto a naturali limiti [44], ma solo su Cristo, al Quale va riferita ogni autentica vocazione allo
sviluppo umano integrale. Il Vangelo è elemento fondamentale dello sviluppo, perché in esso
Cristo, « rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l'uomo all'uomo
» [45]. Ammaestrata dal suo Signore, la Chiesa scruta i segni dei tempi e li interpreta ed offre al
mondo « ciò che possiede in proprio: una visione globale dell'uomo e dell'umanità » [46]. Proprio
perché Dio pronuncia il più grande « sì » all'uomo [47], l'uomo non può fare a meno di aprirsi alla
vocazione divina per realizzare il proprio sviluppo. La verità dello sviluppo consiste nella sua
integralità: se non è di tutto l'uomo e di ogni uomo, lo sviluppo non è vero sviluppo. Questo è il
messaggio centrale della Populorum progressio, valido oggi e sempre. Lo sviluppo umano
integrale sul piano naturale, risposta a una vocazione di Dio creatore [48], domanda il proprio
inveramento in un « umanesimo trascendente, che ... conferisce [all'uomo] la sua più grande
pienezza: questa è la finalità suprema dello sviluppo personale » [49]. La vocazione cristiana a
tale sviluppo riguarda dunque sia il piano naturale sia quello soprannaturale; motivo per cui, «
quando Dio viene eclissato, la nostra capacità di riconoscere l'ordine naturale, lo scopo e il “bene”
comincia a svanire » [50].
19. Infine, la visione dello sviluppo come vocazione comporta la centralità in esso della carità.
Paolo VI nell'Enciclica Populorum progressio osservava che le cause del sottosviluppo non sono
primariamente di ordine materiale. Egli ci invitava a ricercarle in altre dimensioni dell'uomo. Nella
volontà, prima di tutto, che spesso disattende i doveri della solidarietà. Nel pensiero, in secondo
luogo, che non sempre sa orientare convenientemente il volere. Per questo, nel perseguimento
dello sviluppo, servono « uomini di pensiero capaci di riflessione profonda, votati alla ricerca d'un
umanesimo nuovo, che permetta all'uomo moderno di ritrovare se stesso » [51]. Ma non è tutto. Il
sottosviluppo ha una causa ancora più importante della carenza di pensiero: è « la mancanza di
fraternità tra gli uomini e tra i popoli » [52]. Questa fraternità, gli uomini potranno mai ottenerla da
soli? La società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli. La ragione, da

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sola, è in grado di cogliere l'uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro,
ma non riesce a fondare la fraternità. Questa ha origine da una vocazione trascendente di Dio
Padre, che ci ha amati per primo, insegnandoci per mezzo del Figlio che cosa sia la carità
fraterna. Paolo VI, presentando i vari livelli del processo di sviluppo dell'uomo, poneva al vertice,
dopo aver menzionato la fede, « l'unità nella carità del Cristo che ci chiama tutti a partecipare in
qualità di figli alla vita del Dio vivente, Padre di tutti gli uomini » [53].
20. Queste prospettive, aperte dalla Populorum progressio, rimangono fondamentali per dare
respiro e orientamento al nostro impegno per lo sviluppo dei popoli. La Populorum progressio, poi,
sottolinea ripetutamente l'urgenza delle riforme [54] e chiede che davanti ai grandi problemi
dell'ingiustizia nello sviluppo dei popoli si agisca con coraggio e senza indugio. Questa urgenza è
dettata anche dalla carità nella verità. È la carità di Cristo che ci spinge: « caritas Christi urget nos
» (2 Cor 5,14). L'urgenza è inscritta non solo nelle cose, non deriva soltanto dall'incalzare degli
avvenimenti e dei problemi, ma anche dalla stessa posta in palio: la realizzazione di un'autentica
fraternità. La rilevanza di questo obiettivo è tale da esigere la nostra apertura a capirlo fino in
fondo e a mobilitarci in concreto con il « cuore », per far evolvere gli attuali processi economici e
sociali verso esiti pienamente umani.
CAPITOLO SECONDO
LO SVILUPPO UMANO
NEL NOSTRO TEMPO
21. Paolo VI aveva una visione articolata dello sviluppo. Con il termine « sviluppo » voleva
indicare l'obiettivo di far uscire i popoli anzitutto dalla fame, dalla miseria, dalle malattie endemiche
e dall'analfabetismo. Dal punto di vista economico, ciò significava la loro partecipazione attiva e in
condizioni di parità al processo economico internazionale; dal punto di vista sociale, la loro
evoluzione verso società istruite e solidali; dal punto di vista politico, il consolidamento di regimi
democratici in grado di assicurare libertà e pace. Dopo tanti anni, mentre guardiamo con
preoccupazione agli sviluppi e alle prospettive delle crisi che si susseguono in questi tempi, ci
domandiamo quanto le aspettative di Paolo VI siano state soddisfatte dal modello di sviluppo che
è stato adottato negli ultimi decenni. Riconosciamo pertanto che erano fondate le preoccupazioni
della Chiesa sulle capacità dell'uomo solo tecnologico di sapersi dare obiettivi realistici e di saper
gestire sempre adeguatamente gli strumenti a disposizione. Il profitto è utile se, in quanto mezzo,
è orientato ad un fine che gli fornisca un senso tanto sul come produrlo quanto sul come
utilizzarlo. L'esclusivo obiettivo del profitto, se mal prodotto e senza il bene comune come fine
ultimo, rischia di distruggere ricchezza e creare povertà. Lo sviluppo economico che auspicava
Paolo VI doveva essere tale da produrre una crescita reale, estensibile a tutti e concretamente
sostenibile. È vero che lo sviluppo c'è stato e continua ad essere un fattore positivo che ha tolto
dalla miseria miliardi di persone e, ultimamente, ha dato a molti Paesi la possibilità di diventare

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attori efficaci della politica internazionale. Va tuttavia riconosciuto che lo stesso sviluppo
economico è stato e continua ad essere gravato da distorsioni e drammatici problemi, messi
ancora più in risalto dall'attuale situazione di crisi. Essa ci pone improrogabilmente di fronte a
scelte che riguardano sempre più il destino stesso dell'uomo, il quale peraltro non può prescindere
dalla sua natura. Le forze tecniche in campo, le interrelazioni planetarie, gli effetti deleteri
sull'economia reale di un'attività finanziaria mal utilizzata e per lo più speculativa, gli imponenti
flussi migratori, spesso solo provocati e non poi adeguatamente gestiti, lo sfruttamento sregolato
delle risorse della terra, ci inducono oggi a riflettere sulle misure necessarie per dare soluzione a
problemi non solo nuovi rispetto a quelli affrontati dal Papa Paolo VI, ma anche, e soprattutto, di
impatto decisivo per il bene presente e futuro dell'umanità. Gli aspetti della crisi e delle sue
soluzioni, nonché di un futuro nuovo possibile sviluppo, sono sempre più interconnessi, si
implicano a vicenda, richiedono nuovi sforzi di comprensione unitaria e una nuova sintesi
umanistica. La complessità e gravità dell'attuale situazione economica giustamente ci preoccupa,
ma dobbiamo assumere con realismo, fiducia e speranza le nuove responsabilità a cui ci chiama
lo scenario di un mondo che ha bisogno di un profondo rinnovamento culturale e della riscoperta
di valori di fondo su cui costruire un futuro migliore. La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro
cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze
positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova
progettualità. In questa chiave, fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le difficoltà
del momento presente.
22. Oggi il quadro dello sviluppo è policentrico. Gli attori e le cause sia del sottosviluppo sia dello
sviluppo sono molteplici, le colpe e i meriti sono differenziati. Questo dato dovrebbe spingere a
liberarsi dalle ideologie, che semplificano in modo spesso artificioso la realtà, e indurre a
esaminare con obiettività lo spessore umano dei problemi. La linea di demarcazione tra Paesi
ricchi e poveri non è più così netta come ai tempi della Populorum progressio, secondo quanto già
aveva segnalato Giovanni Paolo II [55]. Cresce la ricchezza mondiale in termini assoluti, ma
aumentano le disparità. Nei Paesi ricchi nuove categorie sociali si impoveriscono e nascono
nuove povertà. In aree più povere alcuni gruppi godono di una sorta di supersviluppo dissipatore e
consumistico che contrasta in modo inaccettabile con perduranti situazioni di miseria
disumanizzante. Continua « lo scandalo di disuguaglianze clamorose » [56]. La corruzione e
l'illegalità sono purtroppo presenti sia nel comportamento di soggetti economici e politici dei Paesi
ricchi, vecchi e nuovi, sia negli stessi Paesi poveri. A non rispettare i diritti umani dei lavoratori
sono a volte grandi imprese transnazionali e anche gruppi di produzione locale. Gli aiuti
internazionali sono stati spesso distolti dalle loro finalità, per irresponsabilità che si annidano sia
nella catena dei soggetti donatori sia in quella dei fruitori. Anche nell'ambito delle cause
immateriali o culturali dello sviluppo e del sottosviluppo possiamo trovare la medesima
articolazione di responsabilità. Ci sono forme eccessive di protezione della conoscenza da parte
dei Paesi ricchi, mediante un utilizzo troppo rigido del diritto di proprietà intellettuale, specialmente
nel campo sanitario. Nello stesso tempo, in alcuni Paesi poveri persistono modelli culturali e
norme sociali di comportamento che rallentano il processo di sviluppo.

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23. Molte aree del pianeta, oggi, seppure in modo problematico e non omogeneo, si sono evolute,
entrando nel novero delle grandi potenze destinate a giocare ruoli importanti nel futuro. Va tuttavia
sottolineato come non sia sufficiente progredire solo da un punto di vista economico e tecnologico.
Bisogna che lo sviluppo sia anzitutto vero e integrale. L'uscita dall'arretratezza economica, un dato
in sé positivo, non risolve la complessa problematica della promozione dell'uomo, né per i Paesi
protagonisti di questi avanzamenti, né per i Paesi economicamente già sviluppati, né per quelli
ancora poveri, i quali possono soffrire, oltre che delle vecchie forme di sfruttamento, anche delle
conseguenze negative derivanti da una crescita contrassegnata da distorsioni e squilibri.
Dopo il crollo dei sistemi economici e politici dei Paesi comunisti dell'Europa orientale e la fine dei
cosiddetti “blocchi contrapposti”, sarebbe stato necessario un complessivo ripensamento dello
sviluppo. Lo aveva chiesto Giovanni Paolo II, il quale nel 1987 aveva indicato l'esistenza di questi
“blocchi” come una delle principali cause del sottosviluppo [57], in quanto la politica sottraeva
risorse all'economia e alla cultura e l'ideologia inibiva la libertà. Nel 1991, dopo gli avvenimenti del
1989, egli chiese anche che, alla fine dei “blocchi”, corrispondesse una riprogettazione globale
dello sviluppo, non solo in quei Paesi, ma anche in Occidente e in quelle parti del mondo che
andavano evolvendosi [58]. Questo è avvenuto solo in parte e continua ad essere un reale dovere
al quale occorre dare soddisfazione, magari profittando proprio delle scelte necessarie a superare
gli attuali problemi economici.
24. Il mondo che Paolo VI aveva davanti a sé, benché il processo di socializzazione fosse già
avanzato così che egli poteva parlare di una questione sociale divenuta mondiale, era ancora
molto meno integrato di quello odierno. Attività economica e funzione politica si svolgevano in
gran parte dentro lo stesso ambito spaziale e potevano quindi fare reciproco affidamento. L'attività
produttiva avveniva prevalentemente all'interno dei confini nazionali e gli investimenti finanziari
avevano una circolazione piuttosto limitata all'estero, sicché la politica di molti Stati poteva ancora
fissare le priorità dell'economia e, in qualche modo, governarne l'andamento con gli strumenti di
cui ancora disponeva. Per questo motivo la Populorum progressio assegnava un compito centrale,
anche se non esclusivo, ai « poteri pubblici » [59].
Nella nostra epoca, lo Stato si trova nella situazione di dover far fronte alle limitazioni che alla sua
sovranità frappone il nuovo contesto economico-commerciale e finanziario internazionale,
contraddistinto anche da una crescente mobilità dei capitali finanziari e dei mezzi di produzione
materiali ed immateriali. Questo nuovo contesto ha modificato il potere politico degli Stati.
Oggi, facendo anche tesoro della lezione che ci viene dalla crisi economica in atto che vede i
pubblici poteri dello Stato impegnati direttamente a correggere errori e disfunzioni, sembra più
realistica una rinnovata valutazione del loro ruolo e del loro potere, che vanno saggiamente
riconsiderati e rivalutati in modo che siano in grado, anche attraverso nuove modalità di esercizio,
di far fronte alle sfide del mondo odierno. Con un meglio calibrato ruolo dei pubblici poteri, è
prevedibile che si rafforzino quelle nuove forme di partecipazione alla politica nazionale e

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internazionale che si realizzano attraverso l'azione delle Organizzazioni operanti nella società
civile; in tale direzione è auspicabile che crescano un'attenzione e una partecipazione più sentite
alla res publica da parte dei cittadini.
25. Dal punto di vista sociale, i sistemi di protezione e previdenza, già presenti ai tempi di Paolo VI
in molti Paesi, faticano e potrebbero faticare ancor più in futuro a perseguire i loro obiettivi di vera
giustizia sociale entro un quadro di forze profondamente mutato. Il mercato diventato globale ha
stimolato anzitutto, da parte di Paesi ricchi, la ricerca di aree dove delocalizzare le produzioni di
basso costo al fine di ridurre i prezzi di molti beni, accrescere il potere di acquisto e accelerare
pertanto il tasso di sviluppo centrato su maggiori consumi per il proprio mercato interno.
Conseguentemente, il mercato ha stimolato forme nuove di competizione tra Stati allo scopo di
attirare centri produttivi di imprese straniere, mediante vari strumenti, tra cui un fisco favorevole e
la deregolamentazione del mondo del lavoro. Questi processi hanno comportato la riduzione delle
reti di sicurezza sociale in cambio della ricerca di maggiori vantaggi competitivi nel mercato
globale, con grave pericolo per i diritti dei lavoratori, per i diritti fondamentali dell'uomo e per la
solidarietà attuata nelle tradizionali forme dello Stato sociale. I sistemi di sicurezza sociale
possono perdere la capacità di assolvere al loro compito, sia nei Paesi emergenti, sia in quelli di
antico sviluppo, oltre che nei Paesi poveri. Qui le politiche di bilancio, con i tagli alla spesa sociale,
spesso anche promossi dalle Istituzioni finanziarie internazionali, possono lasciare i cittadini
impotenti di fronte a rischi vecchi e nuovi; tale impotenza è accresciuta dalla mancanza di
protezione efficace da parte delle associazioni dei lavoratori. L'insieme dei cambiamenti sociali ed
economici fa sì che le organizzazioni sindacali sperimentino maggiori difficoltà a svolgere il loro
compito di rappresentanza degli interessi dei lavoratori, anche per il fatto che i Governi, per ragioni
di utilità economica, limitano spesso le libertà sindacali o la capacità negoziale dei sindacati stessi.
Le reti di solidarietà tradizionali trovano così crescenti ostacoli da superare. L'invito della dottrina
sociale della Chiesa, cominciando dalla Rerum novarum [60], a dar vita ad associazioni di
lavoratori per la difesa dei propri diritti va pertanto onorato oggi ancor più di ieri, dando innanzitutto
una risposta pronta e lungimirante all'urgenza di instaurare nuove sinergie a livello internazionale,
oltre che locale.
La mobilità lavorativa, associata alla deregolamentazione generalizzata, è stata un fenomeno
importante, non privo di aspetti positivi perché capace di stimolare la produzione di nuova
ricchezza e lo scambio tra culture diverse. Tuttavia, quando l'incertezza circa le condizioni di
lavoro, in conseguenza dei processi di mobilità e di deregolamentazione, diviene endemica, si
creano forme di instabilità psicologica, di difficoltà a costruire propri percorsi coerenti
nell'esistenza, compreso anche quello verso il matrimonio. Conseguenza di ciò è il formarsi di
situazioni di degrado umano, oltre che di spreco sociale. Rispetto a quanto accadeva nella società
industriale del passato, oggi la disoccupazione provoca aspetti nuovi di irrilevanza economica e
l'attuale crisi può solo peggiorare tale situazione. L'estromissione dal lavoro per lungo tempo,
oppure la dipendenza prolungata dall'assistenza pubblica o privata, minano la libertà e la creatività
della persona e i suoi rapporti familiari e sociali con forti sofferenze sul piano psicologico e

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spirituale. Desidererei ricordare a tutti, soprattutto ai governanti impegnati a dare un profilo
rinnovato agli assetti economici e sociali del mondo, che il primo capitale da salvaguardare e
valorizzare è l'uomo, la persona, nella sua integrità: “L'uomo infatti è l'autore, il centro e il fine di
tutta la vita economico-sociale” [61].
26. Sul piano culturale, rispetto all'epoca di Paolo VI, la differenza è ancora più marcata. Allora le
culture erano piuttosto ben definite e avevano maggiori possibilità di difendersi dai tentativi di
omogeneizzazione culturale. Oggi le possibilità di interazione tra le culture sono notevolmente
aumentate dando spazio a nuove prospettive di dialogo interculturale, un dialogo che, per essere
efficace, deve avere come punto di partenza l'intima consapevolezza della specifica identità dei
vari interlocutori. Non va tuttavia trascurato il fatto che l'accresciuta mercificazione degli scambi
culturali favorisce oggi un duplice pericolo. Si nota, in primo luogo, un eclettismo culturale assunto
spesso acriticamente: le culture vengono semplicemente accostate e considerate come
sostanzialmente equivalenti e tra loro interscambiabili. Ciò favorisce il cedimento ad un relativismo
che non aiuta il vero dialogo interculturale; sul piano sociale il relativismo culturale fa sì che i
gruppi culturali si accostino o convivano ma separati, senza dialogo autentico e, quindi, senza
vera integrazione. In secondo luogo, esiste il pericolo opposto, che è costituito dall'appiattimento
culturale e dall'omologazione dei comportamenti e degli stili di vita. In questo modo viene perduto
il significato profondo della cultura delle varie Nazioni, delle tradizioni dei vari popoli, entro le quali
la persona si misura con le domande fondamentali dell'esistenza [62]. Eclettismo e appiattimento
culturale convergono nella separazione della cultura dalla natura umana. Così, le culture non
sanno più trovare la loro misura in una natura che le trascende [63], finendo per ridurre l'uomo a
solo dato culturale. Quando questo avviene, l'umanità corre nuovi pericoli di asservimento e di
manipolazione.
27. In molti Paesi poveri permane e rischia di accentuarsi l'estrema insicurezza di vita, che è
conseguenza della carenza di alimentazione: la fame miete ancora moltissime vittime tra i tanti
Lazzaro ai quali non è consentito, come aveva auspicato Paolo VI, di sedersi alla mensa del ricco
epulone [64]. Dare da mangiare agli affamati (cfr Mt 25, 35.37.42) è un imperativo etico per la
Chiesa universale, che risponde agli insegnamenti di solidarietà e di condivisione del suo
Fondatore, il Signore Gesù. Inoltre, eliminare la fame nel mondo è divenuto, nell'era della
globalizzazione, anche un traguardo da perseguire per salvaguardare la pace e la stabilità del
pianeta. La fame non dipende tanto da scarsità materiale, quanto piuttosto da scarsità di risorse
sociali, la più importante delle quali è di natura istituzionale. Manca, cioè, un assetto di istituzioni
economiche in grado sia di garantire un accesso al cibo e all'acqua regolare e adeguato dal punto
di vista nutrizionale, sia di fronteggiare le necessità connesse con i bisogni primari e con le
emergenze di vere e proprie crisi alimentari, provocate da cause naturali o dall'irresponsabilità
politica nazionale e internazionale. Il problema dell'insicurezza alimentare va affrontato in una
prospettiva di lungo periodo, eliminando le cause strutturali che lo provocano e promuovendo lo
sviluppo agricolo dei Paesi più poveri mediante investimenti in infrastrutture rurali, in sistemi di
irrigazione, in trasporti, in organizzazione dei mercati, in formazione e diffusione di tecniche

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agricole appropriate, capaci cioè di utilizzare al meglio le risorse umane, naturali e socio-
economiche maggiormente accessibili a livello locale, in modo da garantire una loro sostenibilità
anche nel lungo periodo. Tutto ciò va realizzato coinvolgendo le comunità locali nelle scelte e nelle
decisioni relative all'uso della terra coltivabile. In tale prospettiva, potrebbe risultare utile
considerare le nuove frontiere che vengono aperte da un corretto impiego delle tecniche di
produzione agricola tradizionali e di quelle innovative, supposto che esse siano state dopo
adeguata verifica riconosciute opportune, rispettose dell'ambiente e attente alle popolazioni più
svantaggiate. Al tempo stesso, non dovrebbe venir trascurata la questione di un'equa riforma
agraria nei Paesi in via di sviluppo. Il diritto all'alimentazione, così come quello all'acqua, rivestono
un ruolo importante per il conseguimento di altri diritti, ad iniziare, innanzitutto, dal diritto primario
alla vita. È necessario, pertanto, che maturi una coscienza solidale che consideri l'alimentazione e
l'accesso all'acqua come diritti universali di tutti gli esseri umani, senza distinzioni né
discriminazioni [65]. È importante inoltre evidenziare come la via solidaristica allo sviluppo dei
Paesi poveri possa costituire un progetto di soluzione della crisi globale in atto, come uomini
politici e responsabili di Istituzioni internazionali hanno negli ultimi tempi intuito. Sostenendo
mediante piani di finanziamento ispirati a solidarietà i Paesi economicamente poveri, perché
provvedano essi stessi a soddisfare le domande di beni di consumo e di sviluppo dei propri
cittadini, non solo si può produrre vera crescita economica, ma si può anche concorrere a
sostenere le capacità produttive dei Paesi ricchi che rischiano di esser compromesse dalla crisi.
28. Uno degli aspetti più evidenti dello sviluppo odierno è l'importanza del tema del rispetto per la
vita, che non può in alcun modo essere disgiunto dalle questioni relative allo sviluppo dei popoli.
Si tratta di un aspetto che negli ultimi tempi sta assumendo una rilevanza sempre maggiore,
obbligandoci ad allargare i concetti di povertà [66] e di sottosviluppo alle questioni collegate con
l'accoglienza della vita, soprattutto là dove essa è in vario modo impedita.
Non solo la situazione di povertà provoca ancora in molte regioni alti tassi di mortalità infantile, ma
perdurano in varie parti del mondo pratiche di controllo demografico da parte dei governi, che
spesso diffondono la contraccezione e giungono a imporre anche l'aborto. Nei Paesi
economicamente più sviluppati, le legislazioni contrarie alla vita sono molto diffuse e hanno ormai
condizionato il costume e la prassi, contribuendo a diffondere una mentalità antinatalista che
spesso si cerca di trasmettere anche ad altri Stati come se fosse un progresso culturale.
Alcune Organizzazioni non governative, poi, operano attivamente per la diffusione dell'aborto,
promuovendo talvolta nei Paesi poveri l'adozione della pratica della sterilizzazione, anche su
donne inconsapevoli. Vi è inoltre il fondato sospetto che a volte gli stessi aiuti allo sviluppo
vengano collegati a determinate politiche sanitarie implicanti di fatto l'imposizione di un forte
controllo delle nascite. Preoccupanti sono altresì tanto le legislazioni che prevedono l'eutanasia
quanto le pressioni di gruppi nazionali e internazionali che ne rivendicano il riconoscimento
giuridico.

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L'apertura alla vita è al centro del vero sviluppo. Quando una società s'avvia verso la negazione e
la soppressione della vita, finisce per non trovare più le motivazioni e le energie necessarie per
adoperarsi a servizio del vero bene dell'uomo. Se si perde la sensibilità personale e sociale verso
l'accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si
inaridiscono [67]. L'accoglienza della vita tempra le energie morali e rende capaci di aiuto
reciproco. Coltivando l'apertura alla vita, i popoli ricchi possono comprendere meglio le necessità
di quelli poveri, evitare di impiegare ingenti risorse economiche e intellettuali per soddisfare
desideri egoistici tra i propri cittadini e promuovere, invece, azioni virtuose nella prospettiva di una
produzione moralmente sana e solidale, nel rispetto del diritto fondamentale di ogni popolo e di
ogni persona alla vita.
29. C'è un altro aspetto della vita di oggi, collegato in modo molto stretto con lo sviluppo: la
negazione del diritto alla libertà religiosa. Non mi riferisco solo alle lotte e ai conflitti che nel mondo
ancora si combattono per motivazioni religiose, anche se talvolta quella religiosa è solo la
copertura di ragioni di altro genere, quali la sete di dominio e di ricchezza. Di fatto, oggi spesso si
uccide nel nome sacro di Dio, come più volte è stato pubblicamente rilevato e deplorato dal mio
predecessore Giovanni Paolo II e da me stesso [68]. Le violenze frenano lo sviluppo autentico e
impediscono l'evoluzione dei popoli verso un maggiore benessere socio-economico e spirituale.
Ciò si applica specialmente al terrorismo a sfondo fondamentalista [69], che genera dolore,
devastazione e morte, blocca il dialogo tra le Nazioni e distoglie grandi risorse dal loro impiego
pacifico e civile. Va però aggiunto che, oltre al fanatismo religioso che in alcuni contesti impedisce
l'esercizio del diritto di libertà di religione, anche la promozione programmata dell'indifferenza
religiosa o dell'ateismo pratico da parte di molti Paesi contrasta con le necessità dello sviluppo dei
popoli, sottraendo loro risorse spirituali e umane. Dio è il garante del vero sviluppo dell'uomo, in
quanto, avendolo creato a sua immagine, ne fonda altresì la trascendente dignità e ne alimenta il
costitutivo anelito ad “essere di più”. L'uomo non è un atomo sperduto in un universo casuale [70],
ma è una creatura di Dio, a cui Egli ha voluto donare un'anima immortale e che ha da sempre
amato. Se l'uomo fosse solo frutto o del caso o della necessità, oppure se dovesse ridurre le sue
aspirazioni all'orizzonte ristretto delle situazioni in cui vive, se tutto fosse solo storia e cultura, e
l'uomo non avesse una natura destinata a trascendersi in una vita soprannaturale, si potrebbe
parlare di incremento o di evoluzione, ma non di sviluppo. Quando lo Stato promuove, insegna, o
addirittura impone, forme di ateismo pratico, sottrae ai suoi cittadini la forza morale e spirituale
indispensabile per impegnarsi nello sviluppo umano integrale e impedisce loro di avanzare con
rinnovato dinamismo nel proprio impegno per una più generosa risposta umana all'amore divino
[71]. Capita anche che i Paesi economicamente sviluppati o quelli emergenti esportino nei Paesi
poveri, nel contesto dei loro rapporti culturali, commerciali e politici, questa visione riduttiva della
persona e del suo destino. È il danno che il « supersviluppo » [72] procura allo sviluppo autentico,
quando è accompagnato dal « sottosviluppo morale » [73].
30. In questa linea, il tema dello sviluppo umano integrale assume una portata ancora più
complessa: la correlazione tra i molteplici suoi elementi richiede che ci si impegni per far interagire

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i diversi livelli del sapere umano in vista della promozione di un vero sviluppo dei popoli. Spesso si
ritiene che lo sviluppo, o i provvedimenti socio-economici relativi, richiedano solo di essere attuati
quale frutto di un agire comune. Questo agire comune, però, ha bisogno di essere orientato,
perché « ogni azione sociale implica una dottrina » [74]. Considerata la complessità dei problemi,
è ovvio che le varie discipline debbano collaborare mediante una interdisciplinarità ordinata. La
carità non esclude il sapere, anzi lo richiede, lo promuove e lo anima dall'interno. Il sapere non è
mai solo opera dell'intelligenza. Può certamente essere ridotto a calcolo e ad esperimento, ma se
vuole essere sapienza capace di orientare l'uomo alla luce dei principi primi e dei suoi fini ultimi,
deve essere “condito” con il « sale » della carità. Il fare è cieco senza il sapere e il sapere è sterile
senza l'amore. Infatti, « colui che è animato da una vera carità è ingegnoso nello scoprire le cause
della miseria, nel trovare i mezzi per combatterla, nel vincerla risolutamente » [75]. Nei confronti
dei fenomeni che abbiamo davanti, la carità nella verità richiede prima di tutto di conoscere e di
capire, nella consapevolezza e nel rispetto della competenza specifica di ogni livello del sapere.
La carità non è un'aggiunta posteriore, quasi un'appendice a lavoro ormai concluso delle varie
discipline, bensì dialoga con esse fin dall'inizio. Le esigenze dell'amore non contraddicono quelle
della ragione. Il sapere umano è insufficiente e le conclusioni delle scienze non potranno indicare
da sole la via verso lo sviluppo integrale dell'uomo. C'è sempre bisogno di spingersi più in là: lo
richiede la carità nella verità [76]. Andare oltre, però, non significa mai prescindere dalle
conclusioni della ragione né contraddire i suoi risultati. Non c'è l'intelligenza e poi l'amore: ci sono
l'amore ricco di intelligenza e l'intelligenza piena di amore.
31. Questo significa che le valutazioni morali e la ricerca scientifica devono crescere insieme e
che la carità deve animarle in un tutto armonico interdisciplinare, fatto di unità e di distinzione. La
dottrina sociale della Chiesa, che ha « un'importante dimensione interdisciplinare » [77], può
svolgere, in questa prospettiva, una funzione di straordinaria efficacia. Essa consente alla fede,
alla teologia, alla metafisica e alle scienze di trovare il loro posto entro una collaborazione a
servizio dell'uomo. È soprattutto qui che la dottrina sociale della Chiesa attua la sua dimensione
sapienziale. Paolo VI aveva visto con chiarezza che tra le cause del sottosviluppo c'è una
mancanza di sapienza, di riflessione, di pensiero in grado di operare una sintesi orientativa [78],
per la quale si richiede « una visione chiara di tutti gli aspetti economici, sociali, culturali e spirituali
» [79]. L'eccessiva settorialità del sapere [80], la chiusura delle scienze umane alla metafisica [81],
le difficoltà del dialogo tra le scienze e la teologia sono di danno non solo allo sviluppo del sapere,
ma anche allo sviluppo dei popoli, perché, quando ciò si verifica, viene ostacolata la visione
dell'intero bene dell'uomo nelle varie dimensioni che lo caratterizzano. L'« allargamento del nostro
concetto di ragione e dell'uso di essa » [82] è indispensabile per riuscire a pesare adeguatamente
tutti i termini della questione dello sviluppo e della soluzione dei problemi socio-economici.
32. Le grandi novità, che il quadro dello sviluppo dei popoli oggi presenta, pongono in molti casi
l'esigenza di soluzioni nuove. Esse vanno cercate insieme nel rispetto delle leggi proprie di ogni
realtà e alla luce di una visione integrale dell'uomo, che rispecchi i vari aspetti della persona
umana, contemplata con lo sguardo purificato dalla carità. Si scopriranno allora singolari

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convergenze e concrete possibilità di soluzione, senza rinunciare ad alcuna componente
fondamentale della vita umana.
La dignità della persona e le esigenze della giustizia richiedono che, soprattutto oggi, le scelte
economiche non facciano aumentare in modo eccessivo e moralmente inaccettabile le differenze
di ricchezza [83] e che si continui a perseguire quale priorità l'obiettivo dell'accesso al lavoro o del
suo mantenimento, per tutti. A ben vedere, ciò è esigito anche dalla « ragione economica ».
L'aumento sistemico delle ineguaglianze tra gruppi sociali all'interno di un medesimo Paese e tra
le popolazioni dei vari Paesi, ossia l'aumento massiccio della povertà in senso relativo, non
solamente tende a erodere la coesione sociale, e per questa via mette a rischio la democrazia, ma
ha anche un impatto negativo sul piano economico, attraverso la progressiva erosione del «
capitale sociale », ossia di quell'insieme di relazioni di fiducia, di affidabilità, di rispetto delle
regole, indispensabili ad ogni convivenza civile.
Èsempre la scienza economica a dirci che una strutturale situazione di insicurezza genera
atteggiamenti antiproduttivi e di spreco di risorse umane, in quanto il lavoratore tende ad adattarsi
passivamente ai meccanismi automatici, anziché liberare creatività. Anche su questo punto c'è
una convergenza tra scienza economica e valutazione morale. I costi umani sono sempre anche
costi economici e le disfunzioni economiche comportano sempre anche costi umani.
Va poi ricordato che l'appiattimento delle culture sulla dimensione tecnologica, se nel breve
periodo può favorire l'ottenimento di profitti, nel lungo periodo ostacola l'arricchimento reciproco e
le dinamiche collaborative. È importante distinguere tra considerazioni economiche o sociologiche
di breve e di lungo termine. L'abbassamento del livello di tutela dei diritti dei lavoratori o la rinuncia
a meccanismi di ridistribuzione del reddito per far acquisire al Paese maggiore competitività
internazionale impediscono l'affermarsi di uno sviluppo di lunga durata. Vanno, allora,
attentamente valutate le conseguenze sulle persone delle tendenze attuali verso un'economia del
breve, talvolta brevissimo termine. Ciò richiede una nuova e approfondita riflessione sul senso
dell'economia e dei suoi fini [84], nonché una revisione profonda e lungimirante del modello di
sviluppo, per correggerne le disfunzioni e le distorsioni. Lo esige, in realtà, lo stato di salute
ecologica del pianeta; soprattutto lo richiede la crisi culturale e morale dell'uomo, i cui sintomi da
tempo sono evidenti in ogni parte del mondo.
33. Oltre quarant'anni dopo la Populorum progressio, il suo tema di fondo, il progresso, resta
ancora un problema aperto, reso più acuto ed impellente dalla crisi economico-finanziaria in atto.
Se alcune aree del pianeta, già un tempo gravate dalla povertà, hanno conosciuto cambiamenti
notevoli in termini di crescita economica e di partecipazione alla produzione mondiale, altre zone
vivono ancora una situazione di miseria paragonabile a quella esistente ai tempi di Paolo VI, anzi
in qualche caso si può addirittura parlare di un peggioramento. È significativo che alcune cause di
questa situazione fossero state già individuate nella Populorum progressio, come per esempio gli
alti dazi doganali posti dai Paesi economicamente sviluppati e che ancora impediscono ai prodotti

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20
provenienti dai Paesi poveri di raggiungere i mercati dei Paesi ricchi. Altre cause, invece, che
l'Enciclica aveva solo adombrato, in seguito sono emerse con maggiore evidenza. È questo il caso
della valutazione del processo di decolonizzazione, allora in pieno corso. Paolo VI auspicava un
percorso autonomo da compiere nella libertà e nella pace. Dopo oltre quarant'anni, dobbiamo
riconoscere quanto questo percorso sia stato difficile, sia a causa di nuove forme di colonialismo e
di dipendenza da vecchi e nuovi Paesi egemoni, sia per gravi irresponsabilità interne agli stessi
Paesi resisi indipendenti.
La novità principale è stata l'esplosione dell'interdipendenza planetaria, ormai comunemente nota
come globalizzazione. Paolo VI l'aveva parzialmente prevista, ma i termini e l'impetuosità con cui
essa si è evoluta sono sorprendenti. Nato dentro i Paesi economicamente sviluppati, questo
processo per sua natura ha prodotto un coinvolgimento di tutte le economie. Esso è stato il
principale motore per l'uscita dal sottosviluppo di intere regioni e rappresenta di per sé una grande
opportunità. Tuttavia, senza la guida della carità nella verità, questa spinta planetaria può
concorrere a creare rischi di danni sconosciuti finora e di nuove divisioni nella famiglia umana. Per
questo la carità e la verità ci pongono davanti a un impegno inedito e creativo, certamente molto
vasto e complesso. Si tratta di dilatare la ragione e di renderla capace di conoscere e di orientare
queste imponenti nuove dinamiche, animandole nella prospettiva di quella « civiltà dell'amore » il
cui seme Dio ha posto in ogni popolo, in ogni cultura.
CAPITOLO TERZO
FRATERNITÀ, SVILUPPO ECONOMICO
E SOCIETÀ CIVILE
34. La carità nella verità pone l'uomo davanti alla stupefacente esperienza del dono. La gratuità è
presente nella sua vita in molteplici forme, spesso non riconosciute a causa di una visione solo
produttivistica e utilitaristica dell'esistenza. L'essere umano è fatto per il dono, che ne esprime ed
attua la dimensione di trascendenza. Talvolta l'uomo moderno è erroneamente convinto di essere
il solo autore di se stesso, della sua vita e della società. È questa una presunzione, conseguente
alla chiusura egoistica in se stessi, che discende — per dirla in termini di fede — dal peccato delle
origini. La sapienza della Chiesa ha sempre proposto di tenere presente il peccato originale anche
nell'interpretazione dei fatti sociali e nella costruzione della società: « Ignorare che l'uomo ha una
natura ferita, incline al male, è causa di gravi errori nel campo dell'educazione, della politica,
dell'azione sociale e dei costumi » [85]. All'elenco dei campi in cui si manifestano gli effetti
perniciosi del peccato, si è aggiunto ormai da molto tempo anche quello dell'economia. Ne
abbiamo una prova evidente anche in questi periodi. La convinzione di essere autosufficiente e di
riuscire a eliminare il male presente nella storia solo con la propria azione ha indotto l'uomo a far
coincidere la felicità e la salvezza con forme immanenti di benessere materiale e di azione sociale.

3 Pages 21-30

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21
La convinzione poi della esigenza di autonomia dell'economia, che non deve accettare “influenze”
di carattere morale, ha spinto l'uomo ad abusare dello strumento economico in modo persino
distruttivo. A lungo andare, queste convinzioni hanno portato a sistemi economici, sociali e politici
che hanno conculcato la libertà della persona e dei corpi sociali e che, proprio per questo, non
sono stati in grado di assicurare la giustizia che promettevano. Come ho affermato nella mia
Enciclica Spe salvi, in questo modo si toglie dalla storia la speranza cristiana [86], che è invece
una potente risorsa sociale a servizio dello sviluppo umano integrale, cercato nella libertà e nella
giustizia. La speranza incoraggia la ragione e le dà la forza di orientare la volontà [87]. È già
presente nella fede, da cui anzi è suscitata. La carità nella verità se ne nutre e, nello stesso
tempo, la manifesta. Essendo dono di Dio assolutamente gratuito, irrompe nella nostra vita come
qualcosa di non dovuto, che trascende ogni legge di giustizia. Il dono per sua natura oltrepassa il
merito, la sua regola è l'eccedenza. Esso ci precede nella nostra stessa anima quale segno della
presenza di Dio in noi e della sua attesa nei nostri confronti. La verità, che al pari della carità è
dono, è più grande di noi, come insegna sant'Agostino [88]. Anche la verità di noi stessi, della
nostra coscienza personale, ci è prima di tutto “data”. In ogni processo conoscitivo, in effetti, la
verità non è prodotta da noi, ma sempre trovata o, meglio, ricevuta. Essa, come l'amore, « non
nasce dal pensare e dal volere ma in certo qual modo si impone all'essere umano » [89].
Perché dono ricevuto da tutti, la carità nella verità è una forza che costituisce la comunità, unifica
gli uomini secondo modalità in cui non ci sono barriere né confini. La comunità degli uomini può
essere costituita da noi stessi, ma non potrà mai con le sole sue forze essere una comunità
pienamente fraterna né essere spinta oltre ogni confine, ossia diventare una comunità veramente
universale: l'unità del genere umano, una comunione fraterna oltre ogni divisione, nasce dalla con-
vocazione della parola di Dio-Amore. Nell'affrontare questa decisiva questione, dobbiamo
precisare, da un lato, che la logica del dono non esclude la giustizia e non si giustappone ad essa
in un secondo momento e dall'esterno e, dall'altro, che lo sviluppo economico, sociale e politico ha
bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio di gratuità come
espressione di fraternità.
35. Il mercato, se c'è fiducia reciproca e generalizzata, è l'istituzione economica che permette
l'incontro tra le persone, in quanto operatori economici che utilizzano il contratto come regola dei
loro rapporti e che scambiano beni e servizi tra loro fungibili, per soddisfare i loro bisogni e
desideri. Il mercato è soggetto ai principi della cosiddetta giustizia commutativa, che regola
appunto i rapporti del dare e del ricevere tra soggetti paritetici. Ma la dottrina sociale della Chiesa
non ha mai smesso di porre in evidenza l'importanza della giustizia distributiva e della giustizia
sociale per la stessa economia di mercato, non solo perché inserita nelle maglie di un contesto
sociale e politico più vasto, ma anche per la trama delle relazioni in cui si realizza. Infatti il
mercato, lasciato al solo principio dell'equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a
produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare. Senza forme interne
di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione
economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare, e la perdita della fiducia è una

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22
perdita grave.
Opportunamente Paolo VI nella Populorum progressio sottolineava il fatto che lo stesso sistema
economico avrebbe tratto vantaggio da pratiche generalizzate di giustizia, in quanto i primi a trarre
beneficio dallo sviluppo dei Paesi poveri sarebbero stati quelli ricchi [90]. Non si trattava solo di
correggere delle disfunzioni mediante l'assistenza. I poveri non sono da considerarsi un « fardello
» [91], bensì una risorsa anche dal punto di vista strettamente economico. È tuttavia da ritenersi
errata la visione di quanti pensano che l'economia di mercato abbia strutturalmente bisogno di una
quota di povertà e di sottosviluppo per poter funzionare al meglio. È interesse del mercato
promuovere emancipazione, ma per farlo veramente non può contare solo su se stesso, perché
non è in grado di produrre da sé ciò che va oltre le sue possibilità. Esso deve attingere energie
morali da altri soggetti, che sono capaci di generarle.
36. L'attività economica non può risolvere tutti i problemi sociali mediante la semplice estensione
della logica mercantile. Questa va finalizzata al perseguimento del bene comune, di cui deve farsi
carico anche e soprattutto la comunità politica. Pertanto, va tenuto presente che è causa di gravi
scompensi separare l'agire economico, a cui spetterebbe solo produrre ricchezza, da quello
politico, a cui spetterebbe di perseguire la giustizia mediante la ridistribuzione.
La Chiesa ritiene da sempre che l'agire economico non sia da considerare antisociale. Il mercato
non è, e non deve perciò diventare, di per sé il luogo della sopraffazione del forte sul debole. La
società non deve proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo di quest'ultimo comportasse ipso
facto la morte dei rapporti autenticamente umani. È certamente vero che il mercato può essere
orientato in modo negativo, non perché sia questa la sua natura, ma perché una certa ideologia lo
può indirizzare in tal senso. Non va dimenticato che il mercato non esiste allo stato puro. Esso
trae forma dalle configurazioni culturali che lo specificano e lo orientano. Infatti, l'economia e la
finanza, in quanto strumenti, possono esser mal utilizzati quando chi li gestisce ha solo riferimenti
egoistici. Così si può riuscire a trasformare strumenti di per sé buoni in strumenti dannosi. Ma è la
ragione oscurata dell'uomo a produrre queste conseguenze, non lo strumento di per sé stesso.
Perciò non è lo strumento a dover essere chiamato in causa ma l'uomo, la sua coscienza morale e
la sua responsabilità personale e sociale.
La dottrina sociale della Chiesa ritiene che possano essere vissuti rapporti autenticamente umani,
di amicizia e di socialità, di solidarietà e di reciprocità, anche all'interno dell'attività economica e
non soltanto fuori di essa o « dopo » di essa. La sfera economica non è né eticamente neutrale né
di sua natura disumana e antisociale. Essa appartiene all'attività dell'uomo e, proprio perché
umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente.
La grande sfida che abbiamo davanti a noi, fatta emergere dalle problematiche dello sviluppo in
questo tempo di globalizzazione e resa ancor più esigente dalla crisi economico-finanziaria, è di
mostrare, a livello sia di pensiero sia di comportamenti, che non solo i tradizionali principi dell'etica

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23
sociale, quali la trasparenza, l'onestà e la responsabilità non possono venire trascurati o attenuati,
ma anche che nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione
della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica. Ciò è
un'esigenza dell'uomo nel momento attuale, ma anche un'esigenza della stessa ragione
economica. Si tratta di una esigenza ad un tempo della carità e della verità.
37. La dottrina sociale della Chiesa ha sempre sostenuto che la giustizia riguarda tutte le fasi
dell'attività economica, perché questa ha sempre a che fare con l'uomo e con le sue esigenze. Il
reperimento delle risorse, i finanziamenti, la produzione, il consumo e tutte le altre fasi del ciclo
economico hanno ineluttabilmente implicazioni morali. Così ogni decisione economica ha una
conseguenza di carattere morale. Tutto questo trova conferma anche nelle scienze sociali e nelle
tendenze dell'economia contemporanea. Forse un tempo era pensabile affidare dapprima
all'economia la produzione di ricchezza per assegnare poi alla politica il compito di distribuirla.
Oggi tutto ciò risulta più difficile, dato che le attività economiche non sono costrette entro limiti
territoriali, mentre l'autorità dei governi continua ad essere soprattutto locale. Per questo, i canoni
della giustizia devono essere rispettati sin dall'inizio, mentre si svolge il processo economico, e
non già dopo o lateralmente. Inoltre, occorre che nel mercato si aprano spazi per attività
economiche realizzate da soggetti che liberamente scelgono di informare il proprio agire a principi
diversi da quelli del puro profitto, senza per ciò stesso rinunciare a produrre valore economico. Le
tante espressioni di economia che traggono origine da iniziative religiose e laicali dimostrano che
ciò è concretamente possibile.
Nell'epoca della globalizzazione l'economia risente di modelli competitivi legati a culture tra loro
molto diverse. I comportamenti economico-imprenditoriali che ne derivano trovano
prevalentemente un punto d'incontro nel rispetto della giustizia commutativa. La vita economica ha
senz'altro bisogno del contratto, per regolare i rapporti di scambio tra valori equivalenti. Ma ha
altresì bisogno di leggi giuste e di forme di ridistribuzione guidate dalla politica, e inoltre di opere
che rechino impresso lo spirito del dono. L'economia globalizzata sembra privilegiare la prima
logica, quella dello scambio contrattuale, ma direttamente o indirettamente dimostra di aver
bisogno anche delle altre due, la logica politica e la logica del dono senza contropartita.
38. Il mio predecessore Giovanni Paolo II aveva segnalato questa problematica, quando nella
Centesimus annus aveva rilevato la necessità di un sistema a tre soggetti: il mercato, lo Stato e la
società civile [92]. Egli aveva individuato nella società civile l'ambito più proprio di un'economia
della gratuità e della fraternità, ma non aveva inteso negarla agli altri due ambiti. Oggi possiamo
dire che la vita economica deve essere compresa come una realtà a più dimensioni: in tutte, in
diversa misura e con modalità specifiche, deve essere presente l'aspetto della reciprocità fraterna.
Nell'epoca della globalizzazione, l'attività economica non può prescindere dalla gratuità, che
dissemina e alimenta la solidarietà e la responsabilità per la giustizia e il bene comune nei suoi
vari soggetti e attori. Si tratta, in definitiva, di una forma concreta e profonda di democrazia
economica. La solidarietà è anzitutto sentirsi tutti responsabili di tutti [93], quindi non può essere

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24
delegata solo allo Stato. Mentre ieri si poteva ritenere che prima bisognasse perseguire la giustizia
e che la gratuità intervenisse dopo come un complemento, oggi bisogna dire che senza la gratuità
non si riesce a realizzare nemmeno la giustizia. Serve, pertanto, un mercato nel quale possano
liberamente operare, in condizioni di pari opportunità, imprese che perseguono fini istituzionali
diversi. Accanto all'impresa privata orientata al profitto, e ai vari tipi di impresa pubblica, devono
potersi radicare ed esprimere quelle organizzazioni produttive che perseguono fini mutualistici e
sociali. È dal loro reciproco confronto sul mercato che ci si può attendere una sorta di ibridazione
dei comportamenti d'impresa e dunque un'attenzione sensibile alla civilizzazione dell'economia.
Carità nella verità, in questo caso, significa che bisogna dare forma e organizzazione a quelle
iniziative economiche che, pur senza negare il profitto, intendono andare oltre la logica dello
scambio degli equivalenti e del profitto fine a se stesso.
39. Paolo VI nella Populorum progressio chiedeva di configurare un modello di economia di
mercato capace di includere, almeno tendenzialmente, tutti i popoli e non solamente quelli
adeguatamente attrezzati. Chiedeva che ci si impegnasse a promuovere un mondo più umano per
tutti, un mondo nel quale tutti avessero « qualcosa da dare e da ricevere, senza che il progresso
degli uni costituisca un ostacolo allo sviluppo degli altri » [94]. Egli in questo modo estendeva al
piano universale le stesse richieste e aspirazioni contenute nella Rerum novarum, scritta quando
per la prima volta, in conseguenza della rivoluzione industriale, si affermò l'idea — sicuramente
avanzata per quel tempo — che l'ordine civile per reggersi aveva bisogno anche dell'intervento
ridistributivo dello Stato. Oggi questa visione, oltre a essere posta in crisi dai processi di apertura
dei mercati e delle società, mostra di essere incompleta per soddisfare le esigenze di un'economia
pienamente umana. Quanto la dottrina sociale della Chiesa ha sempre sostenuto a partire dalla
sua visione dell'uomo e della società oggi è richiesto anche dalle dinamiche caratteristiche della
globalizzazione.
Quando la logica del mercato e quella dello Stato si accordano tra loro per continuare nel
monopolio dei rispettivi ambiti di influenza, alla lunga vengono meno la solidarietà nelle relazioni
tra i cittadini, la partecipazione e l'adesione, l'agire gratuito, che sono altra cosa rispetto al “dare
per avere”, proprio della logica dello scambio, e al “dare per dovere”, proprio della logica dei
comportamenti pubblici, imposti per legge dallo Stato. La vittoria sul sottosviluppo richiede di agire
non solo sul miglioramento delle transazioni fondate sullo scambio, non solo sui trasferimenti delle
strutture assistenziali di natura pubblica, ma soprattutto sulla progressiva apertura, in contesto
mondiale, a forme di attività economica caratterizzate da quote di gratuità e di comunione. Il
binomio esclusivo mercato-Stato corrode la socialità, mentre le forme economiche solidali, che
trovano il loro terreno migliore nella società civile senza ridursi ad essa, creano socialità. Il
mercato della gratuità non esiste e non si possono disporre per legge atteggiamenti gratuiti.
Eppure sia il mercato sia la politica hanno bisogno di persone aperte al dono reciproco.
40. Le attuali dinamiche economiche internazionali, caratterizzate da gravi distorsioni e
disfunzioni, richiedono profondi cambiamenti anche nel modo di intendere l'impresa. Vecchie

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25
modalità della vita imprenditoriale vengono meno, ma altre promettenti si profilano all'orizzonte.
Uno dei rischi maggiori è senz'altro che l'impresa risponda quasi esclusivamente a chi in essa
investe e finisca così per ridurre la sua valenza sociale. Sempre meno le imprese, grazie alla
crescita di dimensione ed al bisogno di sempre maggiori capitali, fanno capo a un imprenditore
stabile che si senta responsabile a lungo termine, e non solo a breve, della vita e dei risultati della
sua impresa, e sempre meno dipendono da un unico territorio. Inoltre la cosiddetta
delocalizzazione dell'attività produttiva può attenuare nell'imprenditore il senso di responsabilità
nei confronti di portatori di interessi, quali i lavoratori, i fornitori, i consumatori, l'ambiente naturale
e la più ampia società circostante, a vantaggio degli azionisti, che non sono legati a uno spazio
specifico e godono quindi di una straordinaria mobilità. Il mercato internazionale dei capitali, infatti,
offre oggi una grande libertà di azione. È però anche vero che si sta dilatando la consapevolezza
circa la necessità di una più ampia “responsabilità sociale” dell'impresa. Anche se le impostazioni
etiche che guidano oggi il dibattito sulla responsabilità sociale dell'impresa non sono tutte
accettabili secondo la prospettiva della dottrina sociale della Chiesa, è un fatto che si va sempre
più diffondendo il convincimento in base al quale la gestione dell'impresa non può tenere conto
degli interessi dei soli proprietari della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte le altre categorie
di soggetti che contribuiscono alla vita dell'impresa: i lavoratori, i clienti, i fornitori dei vari fattori di
produzione, la comunità di riferimento. Negli ultimi anni si è notata la crescita di una classe
cosmopolita di manager, che spesso rispondono solo alle indicazioni degli azionisti di riferimento
costituiti in genere da fondi anonimi che stabiliscono di fatto i loro compensi. Anche oggi tuttavia vi
sono molti manager che con analisi lungimirante si rendono sempre più conto dei profondi legami
che la loro impresa ha con il territorio, o con i territori, in cui opera. Paolo VI invitava a valutare
seriamente il danno che il trasferimento all'estero di capitali a esclusivo vantaggio personale può
produrre alla propria Nazione [95]. Giovanni Paolo II avvertiva che investire ha sempre un
significato morale, oltre che economico [96]. Tutto questo — va ribadito — è valido anche oggi,
nonostante che il mercato dei capitali sia stato fortemente liberalizzato e le moderne mentalità
tecnologiche possano indurre a pensare che investire sia solo un fatto tecnico e non anche umano
ed etico. Non c'è motivo per negare che un certo capitale possa fare del bene, se investito
all'estero piuttosto che in patria. Devono però essere fatti salvi i vincoli di giustizia, tenendo anche
conto di come quel capitale si è formato e dei danni alle persone che comporterà il suo mancato
impiego nei luoghi in cui esso è stato generato [97]. Bisogna evitare che il motivo per l'impiego
delle risorse finanziarie sia speculativo e ceda alla tentazione di ricercare solo profitto di breve
termine, e non anche la sostenibilità dell'impresa a lungo termine, il suo puntuale servizio
all'economia reale e l'attenzione alla promozione, in modo adeguato ed opportuno, di iniziative
economiche anche nei Paesi bisognosi di sviluppo. Non c'è nemmeno motivo di negare che la
delocalizzazione, quando comporta investimenti e formazione, possa fare del bene alle
popolazioni del Paese che la ospita. Il lavoro e la conoscenza tecnica sono un bisogno universale.
Non è però lecito delocalizzare solo per godere di particolari condizioni di favore, o peggio per
sfruttamento, senza apportare alla società locale un vero contributo per la nascita di un robusto
sistema produttivo e sociale, fattore imprescindibile di sviluppo stabile.

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41. Nel contesto di questo discorso è utile osservare che l'imprenditorialità ha e deve sempre più
assumere un significato plurivalente. La perdurante prevalenza del binomio mercato-Stato ci ha
abituati a pensare esclusivamente all'imprenditore privato di tipo capitalistico da un lato e al
dirigente statale dall'altro. In realtà, l'imprenditorialità va intesa in modo articolato. Ciò risulta da
una serie di motivazioni metaeconomiche. L'imprenditorialità, prima di avere un significato
professionale, ne ha uno umano [98]. Essa è inscritta in ogni lavoro, visto come « actus personae
» [99], per cui è bene che a ogni lavoratore sia offerta la possibilità di dare il proprio apporto in
modo che egli stesso « sappia di lavorare “in proprio” » [100]. Non a caso Paolo VI insegnava che
« ogni lavoratore è un creatore » [101]. Proprio per rispondere alle esigenze e alla dignità di chi
lavora, e ai bisogni della società, esistono vari tipi di imprese, ben oltre la sola distinzione tra «
privato » e « pubblico ». Ognuna richiede ed esprime una capacità imprenditoriale specifica. Al
fine di realizzare un'economia che nel prossimo futuro sappia porsi al servizio del bene comune
nazionale e mondiale, è opportuno tenere conto di questo significato esteso di imprenditorialità.
Questa concezione più ampia favorisce lo scambio e la formazione reciproca tra le diverse
tipologie di imprenditorialità, con travaso di competenze dal mondo non profit a quello profit e
viceversa, da quello pubblico a quello proprio della società civile, da quello delle economie
avanzate a quello dei Paesi in via di sviluppo.
Anche l'autorità politica ha un significato plurivalente, che non può essere dimenticato, mentre si
procede alla realizzazione di un nuovo ordine economico-produttivo, socialmente responsabile e a
misura d'uomo. Come si intende coltivare un'imprenditorialità differenziata sul piano mondiale,
così si deve promuovere un'autorità politica distribuita e attivantesi su più piani. L'economia
integrata dei giorni nostri non elimina il ruolo degli Stati, piuttosto ne impegna i Governi ad una più
forte collaborazione reciproca. Ragioni di saggezza e di prudenza suggeriscono di non proclamare
troppo affrettatamente la fine dello Stato. In relazione alla soluzione della crisi attuale, il suo ruolo
sembra destinato a crescere, riacquistando molte delle sue competenze. Ci sono poi delle Nazioni
in cui la costruzione o ricostruzione dello Stato continua ad essere un elemento chiave del loro
sviluppo. L'aiuto internazionale proprio all'interno di un progetto solidaristico mirato alla soluzione
degli attuali problemi economici dovrebbe piuttosto sostenere il consolidamento di sistemi
costituzionali, giuridici, amministrativi nei Paesi che non godono ancora pienamente di questi beni.
Accanto agli aiuti economici, devono esserci quelli volti a rafforzare le garanzie proprie dello Stato
di diritto, un sistema di ordine pubblico e di carcerazione efficiente nel rispetto dei diritti umani,
istituzioni veramente democratiche. Non è necessario che lo Stato abbia dappertutto le medesime
caratteristiche: il sostegno ai sistemi costituzionali deboli affinché si rafforzino può benissimo
accompagnarsi con lo sviluppo di altri soggetti politici, di natura culturale, sociale, territoriale o
religiosa, accanto allo Stato. L'articolazione dell'autorità politica a livello locale, nazionale e
internazionale è, tra l'altro, una delle vie maestre per arrivare ad essere in grado di orientare la
globalizzazione economica. È anche il modo per evitare che essa mini di fatto i fondamenti della
democrazia.
42. Talvolta nei riguardi della globalizzazione si notano atteggiamenti fatalistici, come se le

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27
dinamiche in atto fossero prodotte da anonime forze impersonali e da strutture indipendenti dalla
volontà umana [102]. È bene ricordare a questo proposito che la globalizzazione va senz'altro
intesa come un processo socio-economico, ma questa non è l'unica sua dimensione. Sotto il
processo più visibile c'è la realtà di un'umanità che diviene sempre più interconnessa; essa è
costituita da persone e da popoli a cui quel processo deve essere di utilità e di sviluppo [103],
grazie all'assunzione da parte tanto dei singoli quanto della collettività delle rispettive
responsabilità. Il superamento dei confini non è solo un fatto materiale, ma anche culturale nelle
sue cause e nei suoi effetti. Se si legge deterministicamente la globalizzazione, si perdono i criteri
per valutarla ed orientarla. Essa è una realtà umana e può avere a monte vari orientamenti
culturali sui quali occorre esercitare il discernimento. La verità della globalizzazione come
processo e il suo criterio etico fondamentale sono dati dall'unità della famiglia umana e dal suo
sviluppo nel bene. Occorre quindi impegnarsi incessantemente per favorire un orientamento
culturale personalista e comunitario, aperto alla trascendenza, del processo di integrazione
planetaria.
Nonostante alcune sue dimensioni strutturali che non vanno negate ma nemmeno assolutizzate, «
la globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno » [104].
Non dobbiamo esserne vittime, ma protagonisti, procedendo con ragionevolezza, guidati dalla
carità e dalla verità. Opporvisi ciecamente sarebbe un atteggiamento sbagliato, preconcetto, che
finirebbe per ignorare un processo contrassegnato anche da aspetti positivi, con il rischio di
perdere una grande occasione di inserirsi nelle molteplici opportunità di sviluppo da esso offerte. I
processi di globalizzazione, adeguatamente concepiti e gestiti, offrono la possibilità di una grande
ridistribuzione della ricchezza a livello planetario come in precedenza non era mai avvenuto; se
mal gestiti, possono invece far crescere povertà e disuguaglianza, nonché contagiare con una
crisi l'intero mondo. Bisogna correggerne le disfunzioni, anche gravi, che introducono nuove
divisioni tra i popoli e dentro i popoli e fare in modo che la ridistribuzione della ricchezza non
avvenga con una ridistribuzione della povertà o addirittura con una sua accentuazione, come una
cattiva gestione della situazione attuale potrebbe farci temere. Per molto tempo si è pensato che i
popoli poveri dovessero rimanere ancorati a un prefissato stadio di sviluppo e dovessero
accontentarsi della filantropia dei popoli sviluppati. Contro questa mentalità ha preso posizione
Paolo VI nella Populorum progressio. Oggi le forze materiali utilizzabili per far uscire quei popoli
dalla miseria sono potenzialmente maggiori di un tempo, ma di esse hanno finito per avvalersi
prevalentemente gli stessi popoli dei Paesi sviluppati, che hanno potuto sfruttare meglio il
processo di liberalizzazione dei movimenti di capitali e del lavoro. La diffusione delle sfere di
benessere a livello mondiale non va, dunque, frenata con progetti egoistici, protezionistici o dettati
da interessi particolari. Infatti il coinvolgimento dei Paesi emergenti o in via di sviluppo, permette
oggi di meglio gestire la crisi. La transizione insita nel processo di globalizzazione presenta grandi
difficoltà e pericoli, che potranno essere superati solo se si saprà prendere coscienza di
quell'anima antropologica ed etica, che dal profondo sospinge la globalizzazione stessa verso
traguardi di umanizzazione solidale. Purtroppo tale anima è spesso soverchiata e compressa da
prospettive etico-culturali di impostazione individualistica e utilitaristica. La globalizzazione è

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28
fenomeno multidimensionale e polivalente, che esige di essere colto nella diversità e nell'unità di
tutte le sue dimensioni, compresa quella teologica. Ciò consentirà di vivere ed orientare la
globalizzazione dell'umanità in termini di relazionalità, di comunione e di condivisione.
CAPITOLO QUARTO
SVILUPPO DEI POPOLI,
DIRITTI E DOVERI, AMBIENTE
43. « La solidarietà universale, che è un fatto e per noi un beneficio, è altresì un dovere » [105].
Molte persone, oggi, tendono a coltivare la pretesa di non dover niente a nessuno, tranne che a se
stesse. Ritengono di essere titolari solo di diritti e incontrano spesso forti ostacoli a maturare una
responsabilità per il proprio e l'altrui sviluppo integrale. Per questo è importante sollecitare una
nuova riflessione su come i diritti presuppongano doveri senza i quali si trasformano in arbitrio
[106]. Si assiste oggi a una pesante contraddizione. Mentre, per un verso, si rivendicano presunti
diritti, di carattere arbitrario e voluttuario, con la pretesa di vederli riconosciuti e promossi dalle
strutture pubbliche, per l'altro verso, vi sono diritti elementari e fondamentali disconosciuti e violati
nei confronti di tanta parte dell'umanità [107]. Si è spesso notata una relazione tra la
rivendicazione del diritto al superfluo o addirittura alla trasgressione e al vizio, nelle società
opulente, e la mancanza di cibo, di acqua potabile, di istruzione di base o di cure sanitarie
elementari in certe regioni del mondo del sottosviluppo e anche nelle periferie di grandi metropoli.
La relazione sta nel fatto che i diritti individuali, svincolati da un quadro di doveri che conferisca
loro un senso compiuto, impazziscono e alimentano una spirale di richieste praticamente illimitata
e priva di criteri. L'esasperazione dei diritti sfocia nella dimenticanza dei doveri. I doveri delimitano
i diritti perché rimandano al quadro antropologico ed etico entro la cui verità anche questi ultimi si
inseriscono e così non diventano arbitrio. Per questo motivo i doveri rafforzano i diritti e
propongono la loro difesa e promozione come un impegno da assumere a servizio del bene. Se,
invece, i diritti dell'uomo trovano il proprio fondamento solo nelle deliberazioni di un'assemblea di
cittadini, essi possono essere cambiati in ogni momento e, quindi, il dovere di rispettarli e
perseguirli si allenta nella coscienza comune. I Governi e gli Organismi internazionali possono
allora dimenticare l'oggettività e l'« indisponibilità » dei diritti. Quando ciò avviene, il vero sviluppo
dei popoli è messo in pericolo [108]. Comportamenti simili compromettono l'autorevolezza degli
Organismi internazionali, soprattutto agli occhi dei Paesi maggiormente bisognosi di sviluppo.
Questi, infatti, richiedono che la comunità internazionale assuma come un dovere l'aiutarli a
essere « artefici del loro destino » [109], ossia ad assumersi a loro volta dei doveri. La
condivisione dei doveri reciproci mobilita assai più della sola rivendicazione di diritti.
44. La concezione dei diritti e dei doveri nello sviluppo deve tener conto anche delle problematiche
connesse con la crescita demografica. Si tratta di un aspetto molto importante del vero sviluppo,

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29
perché concerne i valori irrinunciabili della vita e della famiglia [110]. Considerare l'aumento della
popolazione come causa prima del sottosviluppo è scorretto, anche dal punto di vista economico:
basti pensare, da una parte, all'importante diminuzione della mortalità infantile e al prolungamento
della vita media che si registrano nei Paesi economicamente sviluppati; dall'altra, ai segni di crisi
rilevabili nelle società in cui si registra un preoccupante calo della natalità. Resta ovviamente
doveroso prestare la debita attenzione ad una procreazione responsabile, che costituisce, tra
l'altro, un fattivo contributo allo sviluppo umano integrale. La Chiesa, che ha a cuore il vero
sviluppo dell'uomo, gli raccomanda il pieno rispetto dei valori umani anche nell'esercizio della
sessualità: non la si può ridurre a mero fatto edonistico e ludico, così come l'educazione sessuale
non si può ridurre a un'istruzione tecnica, con l'unica preoccupazione di difendere gli interessati da
eventuali contagi o dal « rischio » procreativo. Ciò equivarrebbe ad impoverire e disattendere il
significato profondo della sessualità, che deve invece essere riconosciuto ed assunto con
responsabilità tanto dalla persona quanto dalla comunità. La responsabilità vieta infatti sia di
considerare la sessualità una semplice fonte di piacere, sia di regolarla con politiche di forzata
pianificazione delle nascite. In ambedue i casi si è in presenza di concezioni e di politiche
materialistiche, nelle quali le persone finiscono per subire varie forme di violenza. A tutto ciò si
deve opporre la competenza primaria delle famiglie in questo campo [111], rispetto allo Stato e
alle sue politiche restrittive, nonché un'appropriata educazione dei genitori.
L'apertura moralmente responsabile alla vita è una ricchezza sociale ed economica. Grandi
Nazioni hanno potuto uscire dalla miseria anche grazie al grande numero e alle capacità dei loro
abitanti. Al contrario, Nazioni un tempo floride conoscono ora una fase di incertezza e in qualche
caso di declino proprio a causa della denatalità, problema cruciale per le società di avanzato
benessere. La diminuzione delle nascite, talvolta al di sotto del cosiddetto « indice di sostituzione
», mette in crisi anche i sistemi di assistenza sociale, ne aumenta i costi, contrae
l'accantonamento di risparmio e di conseguenza le risorse finanziarie necessarie agli investimenti,
riduce la disponibilità di lavoratori qualificati, restringe il bacino dei « cervelli » a cui attingere per le
necessità della Nazione. Inoltre, le famiglie di piccola, e talvolta piccolissima, dimensione corrono
il rischio di impoverire le relazioni sociali, e di non garantire forme efficaci di solidarietà. Sono
situazioni che presentano sintomi di scarsa fiducia nel futuro come pure di stanchezza morale.
Diventa così una necessità sociale, e perfino economica, proporre ancora alle nuove generazioni
la bellezza della famiglia e del matrimonio, la rispondenza di tali istituzioni alle esigenze più
profonde del cuore e della dignità della persona. In questa prospettiva, gli Stati sono chiamati a
varare politiche che promuovano la centralità e l'integrità della famiglia, fondata sul matrimonio tra
un uomo e una donna, prima e vitale cellula della società, [112] facendosi carico anche dei suoi
problemi economici e fiscali, nel rispetto della sua natura relazionale.
45. Rispondere alle esigenze morali più profonde della persona ha anche importanti e benefiche
ricadute sul piano economico. L'economia infatti ha bisogno dell'etica per il suo corretto
funzionamento; non di un'etica qualsiasi, bensì di un'etica amica della persona. Oggi si parla molto
di etica in campo economico, finanziario, aziendale. Nascono Centri di studio e percorsi formativi

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30
di business ethics; si diffonde nel mondo sviluppato il sistema delle certificazioni etiche, sulla scia
del movimento di idee nato intorno alla responsabilità sociale dell'impresa. Le banche propongono
conti e fondi di investimento cosiddetti « etici ». Si sviluppa una « finanza etica », soprattutto
mediante il microcredito e, più in generale, la microfinanza. Questi processi suscitano
apprezzamento e meritano un ampio sostegno. I loro effetti positivi si fanno sentire anche nelle
aree meno sviluppate della terra. È bene, tuttavia, elaborare anche un valido criterio di
discernimento, in quanto si nota un certo abuso dell'aggettivo « etico » che, adoperato in modo
generico, si presta a designare contenuti anche molto diversi, al punto da far passare sotto la sua
copertura decisioni e scelte contrarie alla giustizia e al vero bene dell'uomo.
Molto, infatti, dipende dal sistema morale di riferimento. Su questo argomento la dottrina sociale
della Chiesa ha un suo specifico apporto da dare, che si fonda sulla creazione dell'uomo “ad
immagine di Dio” (Gn 1,27), un dato da cui discende l'inviolabile dignità della persona umana,
come anche il trascendente valore delle norme morali naturali. Un'etica economica che
prescindesse da questi due pilastri rischierebbe inevitabilmente di perdere la propria connotazione
e di prestarsi a strumentalizzazioni; più precisamente essa rischierebbe di diventare funzionale ai
sistemi economico-finanziari esistenti, anziché correttiva delle loro disfunzioni. Tra l'altro, finirebbe
anche per giustificare il finanziamento di progetti che etici non sono. Bisogna, poi, non ricorrere
alla parola « etica » in modo ideologicamente discriminatorio, lasciando intendere che non
sarebbero etiche le iniziative che non si fregiassero formalmente di questa qualifica. Occorre
adoperarsi — l'osservazione è qui essenziale! — non solamente perché nascano settori o
segmenti « etici » dell'economia o della finanza, ma perché l'intera economia e l'intera finanza
siano etiche e lo siano non per un'etichettatura dall'esterno, ma per il rispetto di esigenze
intrinseche alla loro stessa natura. Parla con chiarezza, a questo riguardo, la dottrina sociale della
Chiesa, che ricorda come l'economia, con tutte le sue branche, sia un settore dell'attività umana
[113].
46. Considerando le tematiche relative al rapporto tra impresa ed etica, nonché l'evoluzione che il
sistema produttivo sta compiendo, sembra che la distinzione finora invalsa tra imprese finalizzate
al profitto (profit) e organizzazioni non finalizzate al profitto (non profit) non sia più in grado di dar
conto completo della realtà, né di orientare efficacemente il futuro. In questi ultimi decenni è
andata emergendo un'ampia area intermedia tra le due tipologie di imprese. Essa è costituita da
imprese tradizionali, che però sottoscrivono dei patti di aiuto ai Paesi arretrati; da fondazioni che
sono espressione di singole imprese; da gruppi di imprese aventi scopi di utilità sociale; dal
variegato mondo dei soggetti della cosiddetta economia civile e di comunione. Non si tratta solo di
un « terzo settore », ma di una nuova ampia realtà composita, che coinvolge il privato e il pubblico
e che non esclude il profitto, ma lo considera strumento per realizzare finalità umane e sociali. Il
fatto che queste imprese distribuiscano o meno gli utili oppure che assumano l'una o l'altra delle
configurazioni previste dalle norme giuridiche diventa secondario rispetto alla loro disponibilità a
concepire il profitto come uno strumento per raggiungere finalità di umanizzazione del mercato e
della società. È auspicabile che queste nuove forme di impresa trovino in tutti i Paesi anche

4 Pages 31-40

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31
adeguata configurazione giuridica e fiscale. Esse, senza nulla togliere all'importanza e all'utilità
economica e sociale delle forme tradizionali di impresa, fanno evolvere il sistema verso una più
chiara e compiuta assunzione dei doveri da parte dei soggetti economici. Non solo. È la stessa
pluralità delle forme istituzionali di impresa a generare un mercato più civile e al tempo stesso più
competitivo.
47. Il potenziamento delle diverse tipologie di imprese e, in particolare, di quelle capaci di
concepire il profitto come uno strumento per raggiungere finalità di umanizzazione del mercato e
delle società, deve essere perseguito anche nei Paesi che soffrono di esclusione o di
emarginazione dai circuiti dell'economia globale, dove è molto importante procedere con progetti
di sussidiarietà opportunamente concepita e gestita che tendano a potenziare i diritti, prevedendo
però sempre anche l'assunzione di corrispettive responsabilità. Negli interventi per lo sviluppo va
fatto salvo il principio della centralità della persona umana, la quale è il soggetto che deve
assumersi primariamente il dovere dello sviluppo. L'interesse principale è il miglioramento delle
situazioni di vita delle persone concrete di una certa regione, affinché possano assolvere a quei
doveri che attualmente l'indigenza non consente loro di onorare. La sollecitudine non può mai
essere un atteggiamento astratto. I programmi di sviluppo, per poter essere adattati alle singole
situazioni, devono avere caratteristiche di flessibilità; e le persone beneficiarie dovrebbero essere
coinvolte direttamente nella loro progettazione e rese protagoniste della loro attuazione. È anche
necessario applicare i criteri della progressione e dell'accompagnamento — compreso il
monitoraggio dei risultati –, perché non ci sono ricette universalmente valide. Molto dipende dalla
concreta gestione degli interventi. « Artefici del loro proprio sviluppo, i popoli ne sono i primi
responsabili. Ma non potranno realizzarlo nell'isolamento » [114]. Oggi, con il consolidamento del
processo di progressiva integrazione del pianeta, questo ammonimento di Paolo VI è ancor più
valido. Le dinamiche di inclusione non hanno nulla di meccanico. Le soluzioni vanno calibrate
sulla vita dei popoli e delle persone concrete, sulla base di una valutazione prudenziale di ogni
situazione. Accanto ai macroprogetti servono i microprogetti e, soprattutto, serve la mobilitazione
fattiva di tutti i soggetti della società civile, tanto delle persone giuridiche quanto delle persone
fisiche.
La cooperazione internazionale ha bisogno di persone che condividano il processo di sviluppo
economico e umano, mediante la solidarietà della presenza, dell'accompagnamento, della
formazione e del rispetto. Da questo punto di vista, gli stessi Organismi internazionali dovrebbero
interrogarsi sulla reale efficacia dei loro apparati burocratici e amministrativi, spesso troppo
costosi. Capita talvolta che chi è destinatario degli aiuti diventi funzionale a chi lo aiuta e che i
poveri servano a mantenere in vita dispendiose organizzazioni burocratiche che riservano per la
propria conservazione percentuali troppo elevate di quelle risorse che invece dovrebbero essere
destinate allo sviluppo. In questa prospettiva, sarebbe auspicabile che tutti gli Organismi
internazionali e le Organizzazioni non governative si impegnassero ad una piena trasparenza,
informando i donatori e l'opinione pubblica circa la percentuale dei fondi ricevuti destinata ai
programmi di cooperazione, circa il vero contenuto di tali programmi, e infine circa la

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32
composizione delle spese dell'istituzione stessa.
48. Il tema dello sviluppo è oggi fortemente collegato anche ai doveri che nascono dal rapporto
dell'uomo con l'ambiente naturale. Questo è stato donato da Dio a tutti, e il suo uso rappresenta
per noi una responsabilità verso i poveri, le generazioni future e l'umanità intera. Se la natura, e
per primo l'essere umano, vengono considerati come frutto del caso o del determinismo evolutivo,
la consapevolezza della responsabilità si attenua nelle coscienze. Nella natura il credente
riconosce il meraviglioso risultato dell'intervento creativo di Dio, che l'uomo può responsabilmente
utilizzare per soddisfare i suoi legittimi bisogni — materiali e immateriali — nel rispetto degli
intrinseci equilibri del creato stesso. Se tale visione viene meno, l'uomo finisce o per considerare
la natura un tabù intoccabile o, al contrario, per abusarne. Ambedue questi atteggiamenti non
sono conformi alla visione cristiana della natura, frutto della creazione di Dio.
La natura è espressione di un disegno di amore e di verità. Essa ci precede e ci è donata da Dio
come ambiente di vita. Ci parla del Creatore (cfr Rm 1, 20) e del suo amore per l'umanità. È
destinata ad essere « ricapitolata » in Cristo alla fine dei tempi (cfr Ef 1, 9-10; Col 1, 19-20).
Anch'essa, quindi, è una « vocazione » [115]. La natura è a nostra disposizione non come « un
mucchio di rifiuti sparsi a caso » [116], bensì come un dono del Creatore che ne ha disegnato gli
ordinamenti intrinseci, affinché l'uomo ne tragga gli orientamenti doverosi per “custodirla e
coltivarla” (Gn 2,15). Ma bisogna anche sottolineare che è contrario al vero sviluppo considerare
la natura più importante della stessa persona umana. Questa posizione induce ad atteggiamenti
neopagani o di nuovo panteismo: dalla sola natura, intesa in senso puramente naturalistico, non
può derivare la salvezza per l'uomo. Peraltro, bisogna anche rifiutare la posizione contraria, che
mira alla sua completa tecnicizzazione, perché l'ambiente naturale non è solo materia di cui
disporre a nostro piacimento, ma opera mirabile del Creatore, recante in sé una “grammatica” che
indica finalità e criteri per un utilizzo sapiente, non strumentale e arbitrario. Oggi molti danni allo
sviluppo provengono proprio da queste concezioni distorte. Ridurre completamente la natura ad
un insieme di semplici dati di fatto finisce per essere fonte di violenza nei confronti dell'ambiente e
addirittura per motivare azioni irrispettose verso la stessa natura dell'uomo. Questa, in quanto
costituita non solo di materia ma anche di spirito e, come tale, essendo ricca di significati e di fini
trascendenti da raggiungere, ha un carattere normativo anche per la cultura. L'uomo interpreta e
modella l'ambiente naturale mediante la cultura, la quale a sua volta viene orientata mediante la
libertà responsabile, attenta ai dettami della legge morale. I progetti per uno sviluppo umano
integrale non possono pertanto ignorare le generazioni successive, ma devono essere improntati
a solidarietà e a giustizia intergenerazionali, tenendo conto di molteplici ambiti: l'ecologico, il
giuridico, l'economico, il politico, il culturale [117].
49. Le questioni legate alla cura e alla salvaguardia dell'ambiente devono oggi tenere in debita
considerazione le problematiche energetiche. L'accaparramento delle risorse energetiche non
rinnovabili da parte di alcuni Stati, gruppi di potere e imprese costituisce, infatti, un grave
impedimento per lo sviluppo dei Paesi poveri. Questi non hanno i mezzi economici né per

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33
accedere alle esistenti fonti energetiche non rinnovabili né per finanziare la ricerca di fonti nuove e
alternative. L'incetta delle risorse naturali, che in molti casi si trovano proprio nei Paesi poveri,
genera sfruttamento e frequenti conflitti tra le Nazioni e al loro interno. Tali conflitti si combattono
spesso proprio sul suolo di quei Paesi, con pesanti bilanci in termini di morte, distruzione e
ulteriore degrado. La comunità internazionale ha il compito imprescindibile di trovare le strade
istituzionali per disciplinare lo sfruttamento delle risorse non rinnovabili, con la partecipazione
anche dei Paesi poveri, in modo da pianificare insieme il futuro.
Anche su questo fronte vi è l'urgente necessità morale di una rinnovata solidarietà, specialmente
nei rapporti tra i Paesi in via di sviluppo e i Paesi altamente industrializzati [118]. Le società
tecnologicamente avanzate possono e devono diminuire il proprio fabbisogno energetico sia
perché le attività manifatturiere evolvono, sia perché tra i loro cittadini si diffonde una sensibilità
ecologica maggiore. Si deve inoltre aggiungere che oggi è realizzabile un miglioramento
dell'efficienza energetica ed è al tempo stesso possibile far avanzare la ricerca di energie
alternative. È però anche necessaria una ridistribuzione planetaria delle risorse energetiche, in
modo che anche i Paesi che ne sono privi possano accedervi. Il loro destino non può essere
lasciato nelle mani del primo arrivato o alla logica del più forte. Si tratta di problemi rilevanti che,
per essere affrontati in modo adeguato, richiedono da parte di tutti la responsabile presa di
coscienza delle conseguenze che si riverseranno sulle nuove generazioni, soprattutto sui
moltissimi giovani presenti nei popoli poveri, i quali « reclamano la parte attiva che loro spetta
nella costruzione d'un mondo migliore » [119].
50. Questa responsabilità è globale, perché non concerne solo l'energia, ma tutto il creato, che
non dobbiamo lasciare alle nuove generazioni depauperato delle sue risorse. All'uomo è lecito
esercitare un governo responsabile sulla natura per custodirla, metterla a profitto e coltivarla
anche in forme nuove e con tecnologie avanzate in modo che essa possa degnamente accogliere
e nutrire la popolazione che la abita. C'è spazio per tutti su questa nostra terra: su di essa l'intera
famiglia umana deve trovare le risorse necessarie per vivere dignitosamente, con l'aiuto della
natura stessa, dono di Dio ai suoi figli, e con l'impegno del proprio lavoro e della propria inventiva.
Dobbiamo però avvertire come dovere gravissimo quello di consegnare la terra alle nuove
generazioni in uno stato tale che anch'esse possano degnamente abitarla e ulteriormente
coltivarla. Ciò implica l'impegno di decidere insieme, « dopo aver ponderato responsabilmente la
strada da percorrere, con l'obiettivo di rafforzare quell'alleanza tra essere umano e ambiente che
deve essere specchio dell'amore creatore di Dio, dal quale proveniamo e verso il quale siamo in
cammino » [120]. È auspicabile che la comunità internazionale e i singoli governi sappiano
contrastare in maniera efficace le modalità d'utilizzo dell'ambiente che risultino ad esso dannose.
È altresì doveroso che vengano intrapresi, da parte delle autorità competenti, tutti gli sforzi
necessari affinché i costi economici e sociali derivanti dall'uso delle risorse ambientali comuni
siano riconosciuti in maniera trasparente e siano pienamente supportati da coloro che ne
usufruiscono e non da altre popolazioni o dalle generazioni future: la protezione dell'ambiente,
delle risorse e del clima richiede che tutti i responsabili internazionali agiscano congiuntamente e

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34
dimostrino prontezza ad operare in buona fede, nel rispetto della legge e della solidarietà nei
confronti delle regioni più deboli del pianeta [121]. Uno dei maggiori compiti dell'economia è
proprio il più efficiente uso delle risorse, non l'abuso, tenendo sempre presente che la nozione di
efficienza non è assiologicamente neutrale.
51. Le modalità con cui l'uomo tratta l'ambiente influiscono sulle modalità con cui tratta se stesso
e, viceversa. Ciò richiama la società odierna a rivedere seriamente il suo stile di vita che, in molte
parti del mondo, è incline all'edonismo e al consumismo, restando indifferente ai danni che ne
derivano [122]. È necessario un effettivo cambiamento di mentalità che ci induca ad adottare
nuovi stili di vita, “nei quali la ricerca del vero, del bello e del buono e la comunione con gli altri
uomini per una crescita comune siano gli elementi che determinano le scelte dei consumi, dei
risparmi e degli investimenti” [123]. Ogni lesione della solidarietà e dell'amicizia civica provoca
danni ambientali, così come il degrado ambientale, a sua volta, provoca insoddisfazione nelle
relazioni sociali. La natura, specialmente nella nostra epoca, è talmente integrata nelle dinamiche
sociali e culturali da non costituire quasi più una variabile indipendente. La desertificazione e
l'impoverimento produttivo di alcune aree agricole sono anche frutto dell'impoverimento delle
popolazioni che le abitano e della loro arretratezza. Incentivando lo sviluppo economico e culturale
di quelle popolazioni, si tutela anche la natura. Inoltre, quante risorse naturali sono devastate dalle
guerre! La pace dei popoli e tra i popoli permetterebbe anche una maggiore salvaguardia della
natura. L'accaparramento delle risorse, specialmente dell'acqua, può provocare gravi conflitti tra le
popolazioni coinvolte. Un pacifico accordo sull'uso delle risorse può salvaguardare la natura e,
contemporaneamente, il benessere delle società interessate.
La Chiesa ha una responsabilità per il creato e deve far valere questa responsabilità anche in
pubblico. E facendolo deve difendere non solo la terra, l'acqua e l'aria come doni della creazione
appartenenti a tutti. Deve proteggere soprattutto l'uomo contro la distruzione di se stesso. È
necessario che ci sia qualcosa come un'ecologia dell'uomo, intesa in senso giusto. Il degrado
della natura è infatti strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana: quando
l'« ecologia umana » [124] è rispettata dentro la società, anche l'ecologia ambientale ne trae
beneficio. Come le virtù umane sono tra loro comunicanti, tanto che l'indebolimento di una espone
a rischio anche le altre, così il sistema ecologico si regge sul rispetto di un progetto che riguarda
sia la sana convivenza in società sia il buon rapporto con la natura.
Per salvaguardare la natura non è sufficiente intervenire con incentivi o disincentivi economici e
nemmeno basta un'istruzione adeguata. Sono, questi, strumenti importanti, ma il problema
decisivo è la complessiva tenuta morale della società. Se non si rispetta il diritto alla vita e alla
morte naturale, se si rende artificiale il concepimento, la gestazione e la nascita dell'uomo, se si
sacrificano embrioni umani alla ricerca, la coscienza comune finisce per perdere il concetto di
ecologia umana e, con esso, quello di ecologia ambientale. È una contraddizione chiedere alle
nuove generazioni il rispetto dell'ambiente naturale, quando l'educazione e le leggi non le aiutano
a rispettare se stesse. Il libro della natura è uno e indivisibile, sul versante dell'ambiente come sul

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versante della vita, della sessualità, del matrimonio, della famiglia, delle relazioni sociali, in una
parola dello sviluppo umano integrale. I doveri che abbiamo verso l'ambiente si collegano con i
doveri che abbiamo verso la persona considerata in se stessa e in relazione con gli altri. Non si
possono esigere gli uni e conculcare gli altri. Questa è una grave antinomia della mentalità e della
prassi odierna, che avvilisce la persona, sconvolge l'ambiente e danneggia la società.
52. La verità e l'amore che essa dischiude non si possono produrre, si possono solo accogliere.
La loro fonte ultima non è, né può essere, l'uomo, ma Dio, ossia Colui che è Verità e Amore.
Questo principio è assai importante per la società e per lo sviluppo, in quanto né l'una né l'altro
possono essere solo prodotti umani; la stessa vocazione allo sviluppo delle persone e dei popoli
non si fonda su una semplice deliberazione umana, ma è inscritta in un piano che ci precede e
che costituisce per tutti noi un dovere che deve essere liberamente accolto. Ciò che ci precede e
che ci costituisce — l'Amore e la Verità sussistenti — ci indica che cosa sia il bene e in che cosa
consista la nostra felicità. Ci indica quindi la strada verso il vero sviluppo.
CAPITOLO QUINTO
LA COLLABORAZIONE
DELLA FAMIGLIA UMANA
53. Una delle più profonde povertà che l'uomo può sperimentare è la solitudine. A ben vedere
anche le altre povertà, comprese quelle materiali, nascono dall'isolamento, dal non essere amati o
dalla difficoltà di amare. Le povertà spesso sono generate dal rifiuto dell'amore di Dio, da
un'originaria tragica chiusura in se medesimo dell'uomo, che pensa di bastare a se stesso, oppure
di essere solo un fatto insignificante e passeggero, uno « straniero » in un universo costituitosi per
caso. L'uomo è alienato quando è solo o si stacca dalla realtà, quando rinuncia a pensare e a
credere in un Fondamento [125]. L'umanità intera è alienata quando si affida a progetti solo
umani, a ideologie e a utopie false [126]. Oggi l'umanità appare molto più interattiva di ieri: questa
maggiore vicinanza si deve trasformare in vera comunione. Lo sviluppo dei popoli dipende
soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia, che collabora in vera comunione ed è
costituita da soggetti che non vivono semplicemente l'uno accanto all'altro [127].
Paolo VI notava che « il mondo soffre per mancanza di pensiero » [128]. L'affermazione contiene
una constatazione, ma soprattutto un auspicio: serve un nuovo slancio del pensiero per
comprendere meglio le implicazioni del nostro essere una famiglia; l'interazione tra i popoli del
pianeta ci sollecita a questo slancio, affinché l'integrazione avvenga nel segno della solidarietà
[129] piuttosto che della marginalizzazione. Un simile pensiero obbliga ad un approfondimento
critico e valoriale della categoria della relazione. Si tratta di un impegno che non può essere svolto
dalle sole scienze sociali, in quanto richiede l'apporto di saperi come la metafisica e la teologia,

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per cogliere in maniera illuminata la dignità trascendente dell'uomo.
La creatura umana, in quanto di natura spirituale, si realizza nelle relazioni interpersonali. Più le
vive in modo autentico, più matura anche la propria identità personale. Non è isolandosi che
l'uomo valorizza se stesso, ma ponendosi in relazione con gli altri e con Dio. L'importanza di tali
relazioni diventa quindi fondamentale. Ciò vale anche per i popoli. È, quindi, molto utile al loro
sviluppo una visione metafisica della relazione tra le persone. A questo riguardo, la ragione trova
ispirazione e orientamento nella rivelazione cristiana, secondo la quale la comunità degli uomini
non assorbe in sé la persona annientandone l'autonomia, come accade nelle varie forme di
totalitarismo, ma la valorizza ulteriormente, perché il rapporto tra persona e comunità è di un tutto
verso un altro tutto [130]. Come la comunità familiare non annulla in sé le persone che la
compongono e come la Chiesa stessa valorizza pienamente la “nuova creatura” (Gal 6,15; 2 Cor
5,17) che con il battesimo si inserisce nel suo Corpo vivo, così anche l'unità della famiglia umana
non annulla in sé le persone, i popoli e le culture, ma li rende più trasparenti l'uno verso l'altro,
maggiormente uniti nelle loro legittime diversità.
54. Il tema dello sviluppo coincide con quello dell'inclusione relazionale di tutte le persone e di tutti
i popoli nell'unica comunità della famiglia umana, che si costruisce nella solidarietà sulla base dei
fondamentali valori della giustizia e della pace. Questa prospettiva trova un'illuminazione decisiva
nel rapporto tra le Persone della Trinità nell'unica Sostanza divina. La Trinità è assoluta unità, in
quanto le tre divine Persone sono relazionalità pura. La trasparenza reciproca tra le Persone
divine è piena e il legame dell'una con l'altra totale, perché costituiscono un'assoluta unità e
unicità. Dio vuole associare anche noi a questa realtà di comunione: « perché siano come noi una
cosa sola » (Gv 17,22). Di questa unità la Chiesa è segno e strumento [131]. Anche le relazioni tra
gli uomini lungo la storia non hanno che da trarre vantaggio dal riferimento a questo divino
Modello. In particolare, alla luce del mistero rivelato della Trinità si comprende che la vera
apertura non significa dispersione centrifuga, ma compenetrazione profonda. Questo risulta anche
dalle comuni esperienze umane dell'amore e della verità. Come l'amore sacramentale tra i coniugi
li unisce spiritualmente in « una carne sola » (Gn 2,24; Mt 19,5; Ef 5,31) e da due che erano fa di
loro un'unità relazionale e reale, analogamente la verità unisce gli spiriti tra loro e li fa pensare
all'unisono, attirandoli e unendoli in sé.
55. La rivelazione cristiana sull'unità del genere umano presuppone un'interpretazione metafisica
dell'humanum in cui la relazionalità è elemento essenziale. Anche altre culture e altre religioni
insegnano la fratellanza e la pace e, quindi, sono di grande importanza per lo sviluppo umano
integrale. Non mancano, però, atteggiamenti religiosi e culturali in cui non si assume pienamente il
principio dell'amore e della verità e si finisce così per frenare il vero sviluppo umano o addirittura
per impedirlo. Il mondo di oggi è attraversato da alcune culture a sfondo religioso, che non
impegnano l'uomo alla comunione, ma lo isolano nella ricerca del benessere individuale,
limitandosi a gratificarne le attese psicologiche. Anche una certa proliferazione di percorsi religiosi
di piccoli gruppi o addirittura di singole persone, e il sincretismo religioso possono essere fattori di

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37
dispersione e di disimpegno. Un possibile effetto negativo del processo di globalizzazione è la
tendenza a favorire tale sincretismo [132], alimentando forme di “religione” che estraniano le
persone le une dalle altre anziché farle incontrare e le allontanano dalla realtà.
Contemporaneamente, permangono talora retaggi culturali e religiosi che ingessano la società in
caste sociali statiche, in credenze magiche irrispettose della dignità della persona, in
atteggiamenti di soggezione a forze occulte. In questi contesti, l'amore e la verità trovano difficoltà
ad affermarsi, con danno per l'autentico sviluppo.
Per questo motivo, se è vero, da un lato, che lo sviluppo ha bisogno delle religioni e delle culture
dei diversi popoli, resta pure vero, dall'altro, che è necessario un adeguato discernimento. La
libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano
uguali [133]. Il discernimento circa il contributo delle culture e delle religioni si rende necessario
per la costruzione della comunità sociale nel rispetto del bene comune soprattutto per chi esercita
il potere politico. Tale discernimento dovrà basarsi sul criterio della carità e della verità. Siccome è
in gioco lo sviluppo delle persone e dei popoli, esso terrà conto della possibilità di emancipazione
e di inclusione nell'ottica di una comunità umana veramente universale. « Tutto l'uomo e tutti gli
uomini » è criterio per valutare anche le culture e le religioni. Il Cristianesimo, religione del « Dio
dal volto umano » [134], porta in se stesso un simile criterio.
56. La religione cristiana e le altre religioni possono dare il loro apporto allo sviluppo solo se Dio
trova un posto anche nella sfera pubblica, con specifico riferimento alle dimensioni culturale,
sociale, economica e, in particolare, politica. La dottrina sociale della Chiesa è nata per
rivendicare questo « statuto di cittadinanza » [135] della religione cristiana. La negazione del
diritto a professare pubblicamente la propria religione e ad operare perché le verità della fede
informino di sé anche la vita pubblica comporta conseguenze negative sul vero sviluppo.
L'esclusione della religione dall'ambito pubblico come, per altro verso, il fondamentalismo
religioso, impediscono l'incontro tra le persone e la loro collaborazione per il progresso
dell'umanità. La vita pubblica si impoverisce di motivazioni e la politica assume un volto
opprimente e aggressivo. I diritti umani rischiano di non essere rispettati o perché vengono privati
del loro fondamento trascendente o perché non viene riconosciuta la libertà personale. Nel
laicismo e nel fondamentalismo si perde la possibilità di un dialogo fecondo e di una proficua
collaborazione tra la ragione e la fede religiosa. La ragione ha sempre bisogno di essere purificata
dalla fede, e questo vale anche per la ragione politica, che non deve credersi onnipotente. A sua
volta, la religione ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione per mostrare il suo autentico
volto umano. La rottura di questo dialogo comporta un costo molto gravoso per lo sviluppo
dell'umanità.
57. Il dialogo fecondo tra fede e ragione non può che rendere più efficace l'opera della carità nel
sociale e costituisce la cornice più appropriata per incentivare la collaborazione fraterna tra
credenti e non credenti nella condivisa prospettiva di lavorare per la giustizia e la pace
dell'umanità. Nella Costituzione pastorale Gaudium et spes i Padri conciliari affermavano: «

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38
Credenti e non credenti sono generalmente d'accordo nel ritenere che tutto quanto esiste sulla
terra deve essere riferito all'uomo, come a suo centro e a suo vertice » [136]. Per i credenti, il
mondo non è frutto del caso né della necessità, ma di un progetto di Dio. Nasce di qui il dovere
che i credenti hanno di unire i loro sforzi con tutti gli uomini e le donne di buona volontà di altre
religioni o non credenti, affinché questo nostro mondo corrisponda effettivamente al progetto
divino: vivere come una famiglia, sotto lo sguardo del Creatore. Manifestazione particolare della
carità e criterio guida per la collaborazione fraterna di credenti e non credenti è senz'altro il
principio di sussidiarietà [137], espressione dell'inalienabile libertà umana. La sussidiarietà è prima
di tutto un aiuto alla persona, attraverso l'autonomia dei corpi intermedi. Tale aiuto viene offerto
quando la persona e i soggetti sociali non riescono a fare da sé e implica sempre finalità
emancipatrici, perché favorisce la libertà e la partecipazione in quanto assunzione di
responsabilità. La sussidiarietà rispetta la dignità della persona, nella quale vede un soggetto
sempre capace di dare qualcosa agli altri. Riconoscendo nella reciprocità l'intima costituzione
dell'essere umano, la sussidiarietà è l'antidoto più efficace contro ogni forma di assistenzialismo
paternalista. Essa può dar conto sia della molteplice articolazione dei piani e quindi della pluralità
dei soggetti, sia di un loro coordinamento. Si tratta quindi di un principio particolarmente adatto a
governare la globalizzazione e a orientarla verso un vero sviluppo umano. Per non dar vita a un
pericoloso potere universale di tipo monocratico, il governo della globalizzazione deve essere di
tipo sussidiario, articolato su più livelli e su piani diversi, che collaborino reciprocamente. La
globalizzazione ha certo bisogno di autorità, in quanto pone il problema di un bene comune
globale da perseguire; tale autorità, però, dovrà essere organizzata in modo sussidiario e
poliarchico [138], sia per non ledere la libertà sia per risultare concretamente efficace.
58. Il principio di sussidiarietà va mantenuto strettamente connesso con il principio di solidarietà e
viceversa, perché se la sussidiarietà senza la solidarietà scade nel particolarismo sociale, è
altrettanto vero che la solidarietà senza la sussidiarietà scade nell'assistenzialismo che umilia il
portatore di bisogno. Questa regola di carattere generale va tenuta in grande considerazione
anche quando si affrontano le tematiche relative agli aiuti internazionali allo sviluppo. Essi, al di là
delle intenzioni dei donatori, possono a volte mantenere un popolo in uno stato di dipendenza e
perfino favorire situazioni di dominio locale e di sfruttamento all'interno del Paese aiutato. Gli aiuti
economici, per essere veramente tali, non devono perseguire secondi fini. Devono essere erogati
coinvolgendo non solo i governi dei Paesi interessati, ma anche gli attori economici locali e i
soggetti della società civile portatori di cultura, comprese le Chiese locali. I programmi di aiuto
devono assumere in misura sempre maggiore le caratteristiche di programmi integrati e partecipati
dal basso. Resta vero infatti che la maggior risorsa da valorizzare nei Paesi da assistere nello
sviluppo è la risorsa umana: questa è l'autentico capitale da far crescere per assicurare ai Paesi
più poveri un vero avvenire autonomo. Va anche ricordato che, in campo economico, il principale
aiuto di cui hanno bisogno i Paesi in via di sviluppo è quello di consentire e favorire il progressivo
inserimento dei loro prodotti nei mercati internazionali, rendendo così possibile la loro piena
partecipazione alla vita economica internazionale. Troppo spesso, nel passato, gli aiuti sono valsi
a creare soltanto mercati marginali per i prodotti di questi Paesi. Questo è dovuto spesso a una

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39
mancanza di vera domanda di questi prodotti: è pertanto necessario aiutare tali Paesi a migliorare
i loro prodotti e ad adattarli meglio alla domanda. Inoltre, alcuni hanno spesso temuto la
concorrenza delle importazioni di prodotti, normalmente agricoli, provenienti dai Paesi
economicamente poveri. Va tuttavia ricordato che per questi Paesi la possibilità di
commercializzare tali prodotti significa molto spesso garantire la loro sopravvivenza nel breve e
nel lungo periodo. Un commercio internazionale giusto e bilanciato in campo agricolo può portare
benefici a tutti, sia dal lato dell'offerta che da quello della domanda. Per questo motivo, non solo è
necessario orientare commercialmente queste produzioni, ma stabilire regole commerciali
internazionali che le sostengano, e rafforzare il finanziamento allo sviluppo per rendere più
produttive queste economie.
59. La cooperazione allo sviluppo non deve riguardare la sola dimensione economica; essa deve
diventare una grande occasione di incontro culturale e umano. Se i soggetti della cooperazione
dei Paesi economicamente sviluppati non tengono conto, come talvolta avviene, della propria ed
altrui identità culturale fatta di valori umani, non possono instaurare alcun dialogo profondo con i
cittadini dei Paesi poveri. Se questi ultimi, a loro volta, si aprono indifferentemente e senza
discernimento a ogni proposta culturale, non sono in condizione di assumere la responsabilità del
loro autentico sviluppo [139]. Le società tecnologicamente avanzate non devono confondere il
proprio sviluppo tecnologico con una presunta superiorità culturale, ma devono riscoprire in se
stesse virtù talvolta dimenticate, che le hanno fatte fiorire lungo la storia. Le società in crescita
devono rimanere fedeli a quanto di veramente umano c'è nelle loro tradizioni, evitando di
sovrapporvi automaticamente i meccanismi della civiltà tecnologica globalizzata. In tutte le culture
ci sono singolari e molteplici convergenze etiche, espressione della medesima natura umana,
voluta dal Creatore, e che la sapienza etica dell'umanità chiama legge naturale [140]. Una tale
legge morale universale è saldo fondamento di ogni dialogo culturale, religioso e politico e
consente al multiforme pluralismo delle varie culture di non staccarsi dalla comune ricerca del
vero, del bene e di Dio. L'adesione a quella legge scritta nei cuori, pertanto, è il presupposto di
ogni costruttiva collaborazione sociale. In tutte le culture vi sono pesantezze da cui liberarsi,
ombre a cui sottrarsi. La fede cristiana, che si incarna nelle culture trascendendole, può aiutarle a
crescere nella convivialità e nella solidarietà universali a vantaggio dello sviluppo comunitario e
planetario.
60. Nella ricerca di soluzioni della attuale crisi economica, l'aiuto allo sviluppo dei Paesi poveri
deve esser considerato come vero strumento di creazione di ricchezza per tutti. Quale progetto di
aiuto può prospettare una crescita di valore così significativa — anche dell'economia mondiale —
come il sostegno a popolazioni che si trovano ancora in una fase iniziale o poco avanzata del loro
processo di sviluppo economico? In questa prospettiva, gli Stati economicamente più sviluppati
faranno il possibile per destinare maggiori quote del loro prodotto interno lordo per gli aiuti allo
sviluppo, rispettando gli impegni che su questo punto sono stati presi a livello di comunità
internazionale. Lo potranno fare anche rivedendo le politiche di assistenza e di solidarietà sociale
al loro interno, applicandovi il principio di sussidiarietà e creando sistemi di previdenza sociale

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40
maggiormente integrati, con la partecipazione attiva dei soggetti privati e della società civile. In
questo modo è possibile perfino migliorare i servizi sociali e di assistenza e, nello stesso tempo,
risparmiare risorse, anche eliminando sprechi e rendite abusive, da destinare alla solidarietà
internazionale. Un sistema di solidarietà sociale maggiormente partecipato e organico, meno
burocratizzato ma non meno coordinato, permetterebbe di valorizzare tante energie, oggi sopite, a
vantaggio anche della solidarietà tra i popoli.
Una possibilità di aiuto per lo sviluppo potrebbe derivare dall'applicazione efficace della cosiddetta
sussidiarietà fiscale, che permetterebbe ai cittadini di decidere sulla destinazione di quote delle
loro imposte versate allo Stato. Evitando degenerazioni particolaristiche, ciò può essere di aiuto
per incentivare forme di solidarietà sociale dal basso, con ovvi benefici anche sul versante della
solidarietà per lo sviluppo.
61. Una solidarietà più ampia a livello internazionale si esprime innanzitutto nel continuare a
promuovere, anche in condizioni di crisi economica, un maggiore accesso all'educazione, la quale,
d'altro canto, è condizione essenziale per l'efficacia della stessa cooperazione internazionale. Con
il termine “educazione” non ci si riferisce solo all'istruzione o alla formazione al lavoro, entrambe
cause importanti di sviluppo, ma alla formazione completa della persona. A questo proposito va
sottolineato un aspetto problematico: per educare bisogna sapere chi è la persona umana,
conoscerne la natura. L'affermarsi di una visione relativistica di tale natura pone seri problemi
all'educazione, soprattutto all'educazione morale, pregiudicandone l'estensione a livello
universale. Cedendo ad un simile relativismo, si diventa tutti più poveri, con conseguenze negative
anche sull'efficacia dell'aiuto alle popolazioni più bisognose, le quali non hanno solo necessità di
mezzi economici o tecnici, ma anche di vie e di mezzi pedagogici che assecondino le persone
nella loro piena realizzazione umana.
Un esempio della rilevanza di questo problema ci è offerto dal fenomeno del turismo
internazionale [141], che può costituire un notevole fattore di sviluppo economico e di crescita
culturale, ma che può trasformarsi anche in occasione di sfruttamento e di degrado morale. La
situazione attuale offre singolari opportunità perché gli aspetti economici dello sviluppo, ossia i
flussi di denaro e la nascita in sede locale di esperienze imprenditoriali significative, arrivino a
combinarsi con quelli culturali, primo fra tutti l'aspetto educativo. In molti casi questo avviene, ma
in tanti altri il turismo internazionale è evento diseducativo sia per il turista sia per le popolazioni
locali. Queste ultime spesso sono poste di fronte a comportamenti immorali, o addirittura perversi,
come nel caso del turismo cosiddetto sessuale, al quale sono sacrificati tanti esseri umani, perfino
in giovane età. È doloroso constatare che ciò si svolge spesso con l'avallo dei governi locali, con il
silenzio di quelli da cui provengono i turisti e con la complicità di tanti operatori del settore. Anche
quando non si giunge a tanto, il turismo internazionale, non poche volte, è vissuto in modo
consumistico ed edonistico, come evasione e con modalità organizzative tipiche dei Paesi di
provenienza, così da non favorire un vero incontro tra persone e culture. Bisogna, allora, pensare
a un turismo diverso, capace di promuovere una vera conoscenza reciproca, senza togliere spazio

5 Pages 41-50

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5.1 Page 41

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41
al riposo e al sano divertimento: un turismo di questo genere va incrementato, grazie anche ad un
più stretto collegamento con le esperienze di cooperazione internazionale e di imprenditoria per lo
sviluppo.
62. Un altro aspetto meritevole di attenzione, trattando dello sviluppo umano integrale, è il
fenomeno delle migrazioni. È fenomeno che impressiona per la quantità di persone coinvolte, per
le problematiche sociali, economiche, politiche, culturali e religiose che solleva, per le sfide
drammatiche che pone alle comunità nazionali e a quella internazionale. Possiamo dire che siamo
di fronte a un fenomeno sociale di natura epocale, che richiede una forte e lungimirante politica di
cooperazione internazionale per essere adeguatamente affrontato. Tale politica va sviluppata a
partire da una stretta collaborazione tra i Paesi da cui partono i migranti e i Paesi in cui arrivano;
va accompagnata da adeguate normative internazionali in grado di armonizzare i diversi assetti
legislativi, nella prospettiva di salvaguardare le esigenze e i diritti delle persone e delle famiglie
emigrate e, al tempo stesso, quelli delle società di approdo degli stessi emigrati. Nessun Paese da
solo può ritenersi in grado di far fronte ai problemi migratori del nostro tempo. Tutti siamo
testimoni del carico di sofferenza, di disagio e di aspirazioni che accompagna i flussi migratori. Il
fenomeno, com'è noto, è di gestione complessa; resta tuttavia accertato che i lavoratori stranieri,
nonostante le difficoltà connesse con la loro integrazione, recano un contributo significativo allo
sviluppo economico del Paese ospite con il loro lavoro, oltre che a quello del Paese d'origine
grazie alle rimesse finanziarie. Ovviamente, tali lavoratori non possono essere considerati come
una merce o una mera forza lavoro. Non devono, quindi, essere trattati come qualsiasi altro fattore
di produzione. Ogni migrante è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti
fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione [142].
63. Nella considerazione dei problemi dello sviluppo, non si può non mettere in evidenza il nesso
diretto tra povertà e disoccupazione. I poveri in molti casi sono il risultato della violazione della
dignità del lavoro umano, sia perché ne vengono limitate le possibilità (disoccupazione, sotto-
occupazione), sia perché vengono svalutati « i diritti che da esso scaturiscono, specialmente il
diritto al giusto salario, alla sicurezza della persona del lavoratore e della sua famiglia » [143].
Perciò, già il 1° maggio 2000, il mio Predecessore Giovanni Paolo II, di venerata memoria, in
occasione del Giubileo dei Lavoratori, lanciò un appello per « una coalizione mondiale in favore
del lavoro decente » [144], incoraggiando la strategia dell'Organizzazione Internazionale del
Lavoro. In tal modo, conferiva un forte riscontro morale a questo obiettivo, quale aspirazione delle
famiglie in tutti i Paesi del mondo. Che cosa significa la parola « decente » applicata al lavoro?
Significa un lavoro che, in ogni società, sia l'espressione della dignità essenziale di ogni uomo e di
ogni donna: un lavoro scelto liberamente, che associ efficacemente i lavoratori, uomini e donne,
allo sviluppo della loro comunità; un lavoro che, in questo modo, permetta ai lavoratori di essere
rispettati al di fuori di ogni discriminazione; un lavoro che consenta di soddisfare le necessità delle
famiglie e di scolarizzare i figli, senza che questi siano costretti essi stessi a lavorare; un lavoro
che permetta ai lavoratori di organizzarsi liberamente e di far sentire la loro voce; un lavoro che
lasci uno spazio sufficiente per ritrovare le proprie radici a livello personale, familiare e spirituale;

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un lavoro che assicuri ai lavoratori giunti alla pensione una condizione dignitosa.
64. Riflettendo sul tema del lavoro, è opportuno anche un richiamo all'urgente esigenza che le
organizzazioni sindacali dei lavoratori, da sempre incoraggiate e sostenute dalla Chiesa, si aprano
alle nuove prospettive che emergono nell'ambito lavorativo. Superando le limitazioni proprie dei
sindacati di categoria, le organizzazioni sindacali sono chiamate a farsi carico dei nuovi problemi
delle nostre società: mi riferisco, ad esempio, a quell'insieme di questioni che gli studiosi di
scienze sociali identificano nel conflitto tra persona-lavoratrice e persona-consumatrice. Senza
dover necessariamente sposare la tesi di un avvenuto passaggio dalla centralità del lavoratore
alla centralità del consumatore, sembra comunque che anche questo sia un terreno per innovative
esperienze sindacali. Il contesto globale in cui si svolge il lavoro richiede anche che le
organizzazioni sindacali nazionali, prevalentemente chiuse nella difesa degli interessi dei propri
iscritti, volgano lo sguardo anche verso i non iscritti e, in particolare, verso i lavoratori dei Paesi in
via di sviluppo, dove i diritti sociali vengono spesso violati. La difesa di questi lavoratori, promossa
anche attraverso opportune iniziative verso i Paesi di origine, permetterà alle organizzazioni
sindacali di porre in evidenza le autentiche ragioni etiche e culturali che hanno loro consentito, in
contesti sociali e lavorativi diversi, di essere un fattore decisivo per lo sviluppo. Resta sempre
valido il tradizionale insegnamento della Chiesa, che propone la distinzione di ruoli e funzioni tra
sindacato e politica. Questa distinzione consentirà alle organizzazioni sindacali di individuare nella
società civile l'ambito più consono alla loro necessaria azione di difesa e promozione del mondo
del lavoro, soprattutto a favore dei lavoratori sfruttati e non rappresentati, la cui amara condizione
risulta spesso ignorata dall'occhio distratto della società.
65. Bisogna, poi, che la finanza in quanto tale, nelle necessariamente rinnovate strutture e
modalità di funzionamento dopo il suo cattivo utilizzo che ha danneggiato l'economia reale, ritorni
ad essere uno strumento finalizzato alla miglior produzione di ricchezza ed allo sviluppo. Tutta
l'economia e tutta la finanza, non solo alcuni loro segmenti, devono, in quanto strumenti, essere
utilizzati in modo etico così da creare le condizioni adeguate per lo sviluppo dell'uomo e dei popoli.
È certamente utile, e in talune circostanze indispensabile, dar vita a iniziative finanziarie nelle quali
la dimensione umanitaria sia dominante. Ciò, però, non deve far dimenticare che l'intero sistema
finanziario deve essere finalizzato al sostegno di un vero sviluppo. Soprattutto, bisogna che
l'intento di fare del bene non venga contrapposto a quello dell'effettiva capacità di produrre dei
beni. Gli operatori della finanza devono riscoprire il fondamento propriamente etico della loro
attività per non abusare di quegli strumenti sofisticati che possono servire per tradire i
risparmiatori. Retta intenzione, trasparenza e ricerca dei buoni risultati sono compatibili e non
devono mai essere disgiunti. Se l'amore è intelligente, sa trovare anche i modi per operare
secondo una previdente e giusta convenienza, come indicano, in maniera significativa, molte
esperienze nel campo della cooperazione di credito.
Tanto una regolamentazione del settore tale da garantire i soggetti più deboli e impedire
scandalose speculazioni, quanto la sperimentazione di nuove forme di finanza destinate a favorire

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progetti di sviluppo, sono esperienze positive che vanno approfondite ed incoraggiate,
richiamando la stessa responsabilità del risparmiatore. Anche l'esperienza della microfinanza, che
affonda le proprie radici nella riflessione e nelle opere degli umanisti civili — penso soprattutto alla
nascita dei Monti di Pietà –, va rafforzata e messa a punto, soprattutto in questi momenti in cui i
problemi finanziari possono diventare drammatici per molti segmenti più vulnerabili della
popolazione, che vanno tutelati dai rischi di usura o dalla disperazione. I soggetti più deboli vanno
educati a difendersi dall'usura, così come i popoli poveri vanno educati a trarre reale vantaggio dal
microcredito, scoraggiando in tal modo le forme di sfruttamento possibili in questi due campi.
Poiché anche nei Paesi ricchi esistono nuove forme di povertà, la microfinanza può dare concreti
aiuti per la creazione di iniziative e settori nuovi a favore dei ceti deboli della società anche in una
fase di possibile impoverimento della società stessa.
66. La interconnessione mondiale ha fatto emergere un nuovo potere politico, quello dei
consumatori e delle loro associazioni. Si tratta di un fenomeno da approfondire, che contiene
elementi positivi da incentivare e anche eccessi da evitare. È bene che le persone si rendano
conto che acquistare è sempre un atto morale, oltre che economico. C'è dunque una precisa
responsabilità sociale del consumatore, che si accompagna alla responsabilità sociale
dell'impresa. I consumatori vanno continuamente educati [145] al ruolo che quotidianamente
esercitano e che essi possono svolgere nel rispetto dei principi morali, senza sminuire la
razionalità economica intrinseca all'atto dell'acquistare. Anche nel campo degli acquisti, proprio in
momenti come quelli che si stanno sperimentando, in cui il potere di acquisto potrà ridursi e si
dovrà consumare con maggior sobrietà, è necessario percorrere altre strade, come per esempio
forme di cooperazione all'acquisto, quali le cooperative di consumo, attive a partire dall'Ottocento
anche grazie all'iniziativa dei cattolici. È utile inoltre favorire forme nuove di commercializzazione
di prodotti provenienti da aree depresse del pianeta per garantire una retribuzione decente ai
produttori, a condizione che si tratti veramente di un mercato trasparente, che i produttori non
ricevano solo maggiori margini di guadagno, ma anche maggiore formazione, professionalità e
tecnologia, e infine che non s'associno a simili esperienze di economia per lo sviluppo visioni
ideologiche di parte. Un più incisivo ruolo dei consumatori, quando non vengano manipolati essi
stessi da associazioni non veramente rappresentative, è auspicabile come fattore di democrazia
economica.
67. Di fronte all'inarrestabile crescita dell'interdipendenza mondiale, è fortemente sentita, anche in
presenza di una recessione altrettanto mondiale, l'urgenza della riforma sia dell'Organizzazione
delle Nazioni Unite che dell'architettura economica e finanziaria internazionale, affinché si possa
dare reale concretezza al concetto di famiglia di Nazioni. Sentita è pure l'urgenza di trovare forme
innovative per attuare il principio di responsabilità di proteggere [146] e per attribuire anche alle
Nazioni più povere una voce efficace nelle decisioni comuni. Ciò appare necessario proprio in
vista di un ordinamento politico, giuridico ed economico che incrementi ed orienti la collaborazione
internazionale verso lo sviluppo solidale di tutti i popoli. Per il governo dell'economia mondiale; per
risanare le economie colpite dalla crisi, per prevenire peggioramenti della stessa e conseguenti

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maggiori squilibri; per realizzare un opportuno disarmo integrale, la sicurezza alimentare e la
pace; per garantire la salvaguardia dell'ambiente e per regolamentare i flussi migratori, urge la
presenza di una vera Autorità politica mondiale, quale è stata già tratteggiata dal mio
Predecessore, il Beato Giovanni XXIII. Una simile Autorità dovrà essere regolata dal diritto,
attenersi in modo coerente ai principi di sussidiarietà e di solidarietà, essere ordinata alla
realizzazione del bene comune [147], impegnarsi nella realizzazione di un autentico sviluppo
umano integrale ispirato ai valori della carità nella verità. Tale Autorità inoltre dovrà essere da tutti
riconosciuta, godere di potere effettivo per garantire a ciascuno la sicurezza, l'osservanza della
giustizia, il rispetto dei diritti [148]. Ovviamente, essa deve godere della facoltà di far rispettare
dalle parti le proprie decisioni, come pure le misure coordinate adottate nei vari fori internazionali.
In mancanza di ciò, infatti, il diritto internazionale, nonostante i grandi progressi compiuti nei vari
campi, rischierebbe di essere condizionato dagli equilibri di potere tra i più forti. Lo sviluppo
integrale dei popoli e la collaborazione internazionale esigono che venga istituito un grado
superiore di ordinamento internazionale di tipo sussidiario per il governo della globalizzazione
[149] e che si dia finalmente attuazione ad un ordine sociale conforme all'ordine morale e a quel
raccordo tra sfera morale e sociale, tra politica e sfera economica e civile che è già prospettato
nello Statuto delle Nazioni Unite.
CAPITOLO SESTO
LO SVILUPPO DEI POPOLI
E LA TECNICA
68. Il tema dello sviluppo dei popoli è legato intimamente a quello dello sviluppo di ogni singolo
uomo. La persona umana per sua natura è dinamicamente protesa al proprio sviluppo. Non si
tratta di uno sviluppo garantito da meccanismi naturali, perché ognuno di noi sa di essere in grado
di compiere scelte libere e responsabili. Non si tratta nemmeno di uno sviluppo in balia del nostro
capriccio, in quanto tutti sappiamo di essere dono e non risultato di autogenerazione. In noi la
libertà è originariamente caratterizzata dal nostro essere e dai suoi limiti. Nessuno plasma la
propria coscienza arbitrariamente, ma tutti costruiscono il proprio “io” sulla base di un “sé” che ci è
stato dato. Non solo le altre persone sono indisponibili, ma anche noi lo siamo a noi stessi. Lo
sviluppo della persona si degrada, se essa pretende di essere l'unica produttrice di se stessa.
Analogamente, lo sviluppo dei popoli degenera se l'umanità ritiene di potersi ri-creare avvalendosi
dei “prodigi” della tecnologia. Così come lo sviluppo economico si rivela fittizio e dannoso se si
affida ai “prodigi” della finanza per sostenere crescite innaturali e consumistiche. Davanti a questa
pretesa prometeica, dobbiamo irrobustire l'amore per una libertà non arbitraria, ma resa
veramente umana dal riconoscimento del bene che la precede. Occorre, a tal fine, che l'uomo
rientri in se stesso per riconoscere le fondamentali norme della legge morale naturale che Dio ha
inscritto nel suo cuore.

5.5 Page 45

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45
69. Il problema dello sviluppo oggi è strettamente congiunto con il progresso tecnologico, con le
sue strabilianti applicazioni in campo biologico. La tecnica — è bene sottolinearlo — è un fatto
profondamente umano, legato all'autonomia e alla libertà dell'uomo. Nella tecnica si esprime e si
conferma la signoria dello spirito sulla materia. Lo spirito, « reso così “meno schiavo delle cose,
può facilmente elevarsi all'adorazione e alla contemplazione del Creatore” » [150]. La tecnica
permette di dominare la materia, di ridurre i rischi, di risparmiare fatica, di migliorare le condizioni
di vita. Essa risponde alla stessa vocazione del lavoro umano: nella tecnica, vista come opera del
proprio genio, l'uomo riconosce se stesso e realizza la propria umanità. La tecnica è l'aspetto
oggettivo dell'agire umano [151], la cui origine e ragion d'essere sta nell'elemento soggettivo:
l'uomo che opera. Per questo la tecnica non è mai solo tecnica. Essa manifesta l'uomo e le sue
aspirazioni allo sviluppo, esprime la tensione dell'animo umano al graduale superamento di certi
condizionamenti materiali. La tecnica, pertanto, si inserisce nel mandato di coltivare e custodire la
terra” (cfr Gn 2,15), che Dio ha affidato all'uomo e va orientata a rafforzare quell'alleanza tra
essere umano e ambiente che deve essere specchio dell'amore creatore di Dio.
70. Lo sviluppo tecnologico può indurre l'idea dell'autosufficienza della tecnica stessa quando
l'uomo, interrogandosi solo sul come, non considera i tanti perché dai quali è spinto ad agire. È
per questo che la tecnica assume un volto ambiguo. Nata dalla creatività umana quale strumento
della libertà della persona, essa può essere intesa come elemento di libertà assoluta, quella
libertà che vuole prescindere dai limiti che le cose portano in sé. Il processo di globalizzazione
potrebbe sostituire le ideologie con la tecnica [152], divenuta essa stessa un potere ideologico,
che esporrebbe l'umanità al rischio di trovarsi rinchiusa dentro un a priori dal quale non potrebbe
uscire per incontrare l'essere e la verità. In tal caso, noi tutti conosceremmo, valuteremmo e
decideremmo le situazioni della nostra vita dall'interno di un orizzonte culturale tecnocratico, a cui
apparterremmo strutturalmente, senza mai poter trovare un senso che non sia da noi prodotto.
Questa visione rende oggi così forte la mentalità tecnicistica da far coincidere il vero con il fattibile.
Ma quando l'unico criterio della verità è l'efficienza e l'utilità, lo sviluppo viene automaticamente
negato. Infatti, il vero sviluppo non consiste primariamente nel fare. Chiave dello sviluppo è
un'intelligenza in grado di pensare la tecnica e di cogliere il senso pienamente umano del fare
dell'uomo, nell'orizzonte di senso della persona presa nella globalità del suo essere. Anche
quando opera mediante un satellite o un impulso elettronico a distanza, il suo agire rimane
sempre umano, espressione di libertà responsabile. La tecnica attrae fortemente l'uomo, perché lo
sottrae alle limitazioni fisiche e ne allarga l'orizzonte. Ma la libertà umana è propriamente se
stessa solo quando risponde al fascino della tecnica con decisioni che siano frutto di
responsabilità morale. Di qui, l'urgenza di una formazione alla responsabilità etica nell'uso della
tecnica. A partire dal fascino che la tecnica esercita sull'essere umano, si deve recuperare il senso
vero della libertà, che non consiste nell'ebbrezza di una totale autonomia, ma nella risposta
all'appello dell'essere, a cominciare dall'essere che siamo noi stessi.
71. Questa possibile deviazione della mentalità tecnica dal suo originario alveo umanistico è oggi
evidente nei fenomeni della tecnicizzazione sia dello sviluppo che della pace. Spesso lo sviluppo

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46
dei popoli è considerato un problema di ingegneria finanziaria, di apertura dei mercati, di
abbattimento di dazi, di investimenti produttivi, di riforme istituzionali, in definitiva un problema solo
tecnico. Tutti questi ambiti sono quanto mai importanti, ma ci si deve chiedere perché le scelte di
tipo tecnico finora abbiano funzionato solo relativamente. La ragione va ricercata più in profondità.
Lo sviluppo non sarà mai garantito compiutamente da forze in qualche misura automatiche e
impersonali, siano esse quelle del mercato o quelle della politica internazionale. Lo sviluppo è
impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente
nelle loro coscienze l'appello del bene comune. Sono necessarie sia la preparazione
professionale sia la coerenza morale. Quando prevale l'assolutizzazione della tecnica si realizza
una confusione fra fini e mezzi, l'imprenditore considererà come unico criterio d'azione il massimo
profitto della produzione; il politico, il consolidamento del potere; lo scienziato, il risultato delle sue
scoperte. Accade così che, spesso, sotto la rete dei rapporti economici, finanziari o politici,
permangono incomprensioni, disagi e ingiustizie; i flussi delle conoscenze tecniche si moltiplicano,
ma a beneficio dei loro proprietari, mentre la situazione reale delle popolazioni che vivono sotto e
quasi sempre all'oscuro di questi flussi rimane immutata, senza reali possibilità di emancipazione.
72. Anche la pace rischia talvolta di essere considerata come un prodotto tecnico, frutto soltanto di
accordi tra governi o di iniziative volte ad assicurare efficienti aiuti economici. È vero che la
costruzione della pace esige la costante tessitura di contatti diplomatici, di scambi economici e
tecnologici, di incontri culturali, di accordi su progetti comuni, come anche l'assunzione di impegni
condivisi per arginare le minacce di tipo bellico e scalzare alla radice le ricorrenti tentazioni
terroristiche. Tuttavia, perché tali sforzi possano produrre effetti duraturi, è necessario che si
appoggino su valori radicati nella verità della vita. Occorre cioè sentire la voce e guardare alla
situazione delle popolazioni interessate per interpretarne adeguatamente le attese. Ci si deve
porre, per così dire, in continuità con lo sforzo anonimo di tante persone fortemente impegnate nel
promuovere l'incontro tra i popoli e nel favorire lo sviluppo partendo dall'amore e dalla
comprensione reciproca. Tra queste persone ci sono anche fedeli cristiani, coinvolti nel grande
compito di dare allo sviluppo e alla pace un senso pienamente umano.
73. Connessa con lo sviluppo tecnologico è l'accresciuta pervasività dei mezzi di comunicazione
sociale. È ormai quasi impossibile immaginare l'esistenza della famiglia umana senza di essi. Nel
bene e nel male, sono così incarnati nella vita del mondo, che sembra davvero assurda la
posizione di coloro che ne sostengono la neutralità, rivendicandone di conseguenza l'autonomia
rispetto alla morale che tocca le persone. Spesso simili prospettive, che enfatizzano la natura
strettamente tecnica dei media, favoriscono di fatto la loro subordinazione al calcolo economico, al
proposito di dominare i mercati e, non ultimo, al desiderio di imporre parametri culturali funzionali
a progetti di potere ideologico e politico. Data la loro fondamentale importanza nella
determinazione di mutamenti nel modo di percepire e di conoscere la realtà e la stessa persona
umana, diventa necessaria un'attenta riflessione sulla loro influenza specie nei confronti della
dimensione etico-culturale della globalizzazione e dello sviluppo solidale dei popoli. Al pari di
quanto richiesto da una corretta gestione della globalizzazione e dello sviluppo, il senso e la

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47
finalizzazione dei media vanno ricercati nel fondamento antropologico. Ciò vuol dire che essi
possono divenire occasione di umanizzazione non solo quando, grazie allo sviluppo tecnologico,
offrono maggiori possibilità di comunicazione e di informazione, ma soprattutto quando sono
organizzati e orientati alla luce di un'immagine della persona e del bene comune che ne rispecchi
le valenze universali. I mezzi di comunicazione sociale non favoriscono la libertà né globalizzano
lo sviluppo e la democrazia per tutti semplicemente perché moltiplicano le possibilità di
interconnessione e di circolazione delle idee. Per raggiungere simili obiettivi bisogna che essi
siano centrati sulla promozione della dignità delle persone e dei popoli, siano espressamente
animati dalla carità e siano posti al servizio della verità, del bene e della fraternità naturale e
soprannaturale. Infatti, nell'umanità la libertà è intrinsecamente collegata con questi valori
superiori. I media possono costituire un valido aiuto per far crescere la comunione della famiglia
umana e l'ethos delle società, quando diventano strumenti di promozione dell'universale
partecipazione nella comune ricerca di ciò che è giusto.
74. Campo primario e cruciale della lotta culturale tra l'assolutismo della tecnicità e la
responsabilità morale dell'uomo è oggi quello della bioetica, in cui si gioca radicalmente la
possibilità stessa di uno sviluppo umano integrale. Si tratta di un ambito delicatissimo e decisivo,
in cui emerge con drammatica forza la questione fondamentale: se l'uomo si sia prodotto da se
stesso o se egli dipenda da Dio. Le scoperte scientifiche in questo campo e le possibilità di
intervento tecnico sembrano talmente avanzate da imporre la scelta tra le due razionalità: quella
della ragione aperta alla trascendenza o quella della ragione chiusa nell'immanenza. Si è di fronte
a un aut aut decisivo. La razionalità del fare tecnico centrato su se stesso si dimostra però
irrazionale, perché comporta un rifiuto deciso del senso e del valore. Non a caso la chiusura alla
trascendenza si scontra con la difficoltà a pensare come dal nulla sia scaturito l'essere e come dal
caso sia nata l'intelligenza [153]. Di fronte a questi drammatici problemi, ragione e fede si aiutano
a vicenda. Solo assieme salveranno l'uomo. Attratta dal puro fare tecnico, la ragione senza la fede
è destinata a perdersi nell'illusione della propria onnipotenza. La fede senza la ragione, rischia
l'estraniamento dalla vita concreta delle persone [154].
75. Già Paolo VI aveva riconosciuto e indicato l'orizzonte mondiale della questione sociale [155].
Seguendolo su questa strada, oggi occorre affermare che la questione sociale è diventata
radicalmente questione antropologica, nel senso che essa implica il modo stesso non solo di
concepire, ma anche di manipolare la vita, sempre più posta dalle biotecnologie nelle mani
dell'uomo. La fecondazione in vitro, la ricerca sugli embrioni, la possibilità della clonazione e
dell'ibridazione umana nascono e sono promosse nell'attuale cultura del disincanto totale, che
crede di aver svelato ogni mistero, perché si è ormai arrivati alla radice della vita. Qui l'assolutismo
della tecnica trova la sua massima espressione. In tale tipo di cultura la coscienza è solo chiamata
a prendere atto di una mera possibilità tecnica. Non si possono tuttavia minimizzare gli scenari
inquietanti per il futuro dell'uomo e i nuovi potenti strumenti che la « cultura della morte » ha a
disposizione. Alla diffusa, tragica, piaga dell'aborto si potrebbe aggiungere in futuro, ma è già
surrettiziamente in nuce, una sistematica pianificazione eugenetica delle nascite. Sul versante

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48
opposto, va facendosi strada una mens eutanasica, manifestazione non meno abusiva di dominio
sulla vita, che in certe condizioni viene considerata non più degna di essere vissuta. Dietro questi
scenari stanno posizioni culturali negatrici della dignità umana. Queste pratiche, a loro volta, sono
destinate ad alimentare una concezione materiale e meccanicistica della vita umana. Chi potrà
misurare gli effetti negativi di una simile mentalità sullo sviluppo? Come ci si potrà stupire
dell'indifferenza per le situazioni umane di degrado, se l'indifferenza caratterizza perfino il nostro
atteggiamento verso ciò che è umano e ciò che non lo è? Stupisce la selettività arbitraria di quanto
oggi viene proposto come degno di rispetto. Pronti a scandalizzarsi per cose marginali, molti
sembrano tollerare ingiustizie inaudite. Mentre i poveri del mondo bussano ancora alle porte
dell'opulenza, il mondo ricco rischia di non sentire più quei colpi alla sua porta, per una coscienza
ormai incapace di riconoscere l'umano. Dio svela l'uomo all'uomo; la ragione e la fede collaborano
nel mostrargli il bene, solo che lo voglia vedere; la legge naturale, nella quale risplende la Ragione
creatrice, indica la grandezza dell'uomo, ma anche la sua miseria quando egli disconosce il
richiamo della verità morale.
76. Uno degli aspetti del moderno spirito tecnicistico è riscontrabile nella propensione a
considerare i problemi e i moti legati alla vita interiore soltanto da un punto di vista psicologico,
fino al riduzionismo neurologico. L'interiorità dell'uomo viene così svuotata e la consapevolezza
della consistenza ontologica dell'anima umana, con le profondità che i Santi hanno saputo
scandagliare, progressivamente si perde. Il problema dello sviluppo è strettamente collegato
anche alla nostra concezione dell'anima dell'uomo, dal momento che il nostro io viene spesso
ridotto alla psiche e la salute dell'anima è confusa con il benessere emotivo. Queste riduzioni
hanno alla loro base una profonda incomprensione della vita spirituale e portano a disconoscere
che lo sviluppo dell'uomo e dei popoli, invece, dipende anche dalla soluzione di problemi di
carattere spirituale. Lo sviluppo deve comprendere una crescita spirituale oltre che materiale,
perché la persona umana è un'« unità di anima e corpo » [156], nata dall'amore creatore di Dio e
destinata a vivere eternamente. L'essere umano si sviluppa quando cresce nello spirito, quando la
sua anima conosce se stessa e le verità che Dio vi ha germinalmente impresso, quando dialoga
con se stesso e con il suo Creatore. Lontano da Dio, l'uomo è inquieto e malato. L'alienazione
sociale e psicologica e le tante nevrosi che caratterizzano le società opulente rimandano anche a
cause di ordine spirituale. Una società del benessere, materialmente sviluppata, ma opprimente
per l'anima, non è di per sé orientata all'autentico sviluppo. Le nuove forme di schiavitù della
droga e la disperazione in cui cadono tante persone trovano una spiegazione non solo sociologica
e psicologica, ma essenzialmente spirituale. Il vuoto in cui l'anima si sente abbandonata, pur in
presenza di tante terapie per il corpo e per la psiche, produce sofferenza. Non ci sono sviluppo
plenario e bene comune universale senza il bene spirituale e morale delle persone, considerate
nella loro interezza di anima e corpo.
77. L'assolutismo della tecnica tende a produrre un'incapacità di percepire ciò che non si spiega
con la semplice materia. Eppure tutti gli uomini sperimentano i tanti aspetti immateriali e spirituali
della loro vita. Conoscere non è un atto solo materiale, perché il conosciuto nasconde sempre

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49
qualcosa che va al di là del dato empirico. Ogni nostra conoscenza, anche la più semplice, è
sempre un piccolo prodigio, perché non si spiega mai completamente con gli strumenti materiali
che adoperiamo. In ogni verità c'è più di quanto noi stessi ci saremmo aspettati, nell'amore che
riceviamo c'è sempre qualcosa che ci sorprende. Non dovremmo mai cessare di stupirci davanti a
questi prodigi. In ogni conoscenza e in ogni atto d'amore l'anima dell'uomo sperimenta un « di più
» che assomiglia molto a un dono ricevuto, ad un'altezza a cui ci sentiamo elevati. Anche lo
sviluppo dell'uomo e dei popoli si colloca a una simile altezza, se consideriamo la dimensione
spirituale che deve connotare necessariamente tale sviluppo perché possa essere autentico. Esso
richiede occhi nuovi e un cuore nuovo, in grado di superare la visione materialistica degli
avvenimenti umani e di intravedere nello sviluppo un “oltre” che la tecnica non può dare. Su
questa via sarà possibile perseguire quello sviluppo umano integrale che ha il suo criterio
orientatore nella forza propulsiva della carità nella verità.
CONCLUSIONE
78. Senza Dio l'uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia. Di
fronte agli enormi problemi dello sviluppo dei popoli che quasi ci spingono allo sconforto e alla
resa, ci viene in aiuto la parola del Signore Gesù Cristo che ci fa consapevoli: « Senza di me non
potete far nulla » (Gv 15,5) e c'incoraggia: « Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo »
(Mt 28,20). Di fronte alla vastità del lavoro da compiere, siamo sostenuti dalla fede nella presenza
di Dio accanto a coloro che si uniscono nel suo nome e lavorano per la giustizia. Paolo VI ci ha
ricordato nella Populorum progressio che l'uomo non è in grado di gestire da solo il proprio
progresso, perché non può fondare da sé un vero umanesimo. Solo se pensiamo di essere
chiamati in quanto singoli e in quanto comunità a far parte della famiglia di Dio come suoi figli,
saremo anche capaci di produrre un nuovo pensiero e di esprimere nuove energie a servizio di un
vero umanesimo integrale. La maggiore forza a servizio dello sviluppo è quindi un umanesimo
cristiano [157], che ravvivi la carità e si faccia guidare dalla verità, accogliendo l'una e l'altra come
dono permanente di Dio. La disponibilità verso Dio apre alla disponibilità verso i fratelli e verso
una vita intesa come compito solidale e gioioso. Al contrario, la chiusura ideologica a Dio e
l'ateismo dell'indifferenza, che dimenticano il Creatore e rischiano di dimenticare anche i valori
umani, si presentano oggi tra i maggiori ostacoli allo sviluppo. L'umanesimo che esclude Dio è un
umanesimo disumano. Solo un umanesimo aperto all'Assoluto può guidarci nella promozione e
realizzazione di forme di vita sociale e civile — nell'ambito delle strutture, delle istituzioni, della
cultura, dell'ethos — salvaguardandoci dal rischio di cadere prigionieri delle mode del momento. È
la consapevolezza dell'Amore indistruttibile di Dio che ci sostiene nel faticoso ed esaltante
impegno per la giustizia, per lo sviluppo dei popoli, tra successi ed insuccessi, nell'incessante
perseguimento di retti ordinamenti per le cose umane. L'amore di Dio ci chiama ad uscire da ciò
che è limitato e non definitivo, ci dà il coraggio di operare e di proseguire nella ricerca del bene di
tutti, anche se non si realizza immediatamente, anche se quello che riusciamo ad attuare, noi e le

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50
autorità politiche e gli operatori economici, è sempre meno di ciò a cui aneliamo [158]. Dio ci dà la
forza di lottare e di soffrire per amore del bene comune, perché Egli è il nostro Tutto, la nostra
speranza più grande.
79. Lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera,
cristiani mossi dalla consapevolezza che l'amore pieno di verità, caritas in veritate, da cui procede
l'autentico sviluppo, non è da noi prodotto ma ci viene donato. Perciò anche nei momenti più
difficili e complessi, oltre a reagire con consapevolezza, dobbiamo soprattutto riferirci al suo
amore. Lo sviluppo implica attenzione alla vita spirituale, seria considerazione delle esperienze di
fiducia in Dio, di fraternità spirituale in Cristo, di affidamento alla Provvidenza e alla Misericordia
divine, di amore e di perdono, di rinuncia a se stessi, di accoglienza del prossimo, di giustizia e di
pace. Tutto ciò è indispensabile per trasformare i « cuori di pietra » in « cuori di carne » (Ez
36,26), così da rendere « divina » e perciò più degna dell'uomo la vita sulla terra. Tutto questo è
dell'uomo, perché l'uomo è soggetto della propria esistenza; ed insieme è di Dio, perché Dio è al
principio e alla fine di tutto ciò che vale e redime: « Il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro:
tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio » (1 Cor 3,22-23). L'anelito del cristiano è che
tutta la famiglia umana possa invocare Dio come « Padre nostro! ». Insieme al Figlio unigenito,
possano tutti gli uomini imparare a pregare il Padre e a chiedere a Lui, con le parole che Gesù
stesso ci ha insegnato, di saperLo santificare vivendo secondo la sua volontà, e poi di avere il
pane quotidiano necessario, la comprensione e la generosità verso i debitori, di non essere messi
troppo alla prova e di essere liberati dal male (cfr Mt 6,9-13).
Al termine dell'Anno Paolino mi piace esprimere questo auspicio con le parole stesse dell'Apostolo
nella sua Lettera ai Romani: “La carità non sia ipocrita: detestate il male, attaccatevi al bene;
amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda” (12,9-10). Che la
Vergine Maria, proclamata da Paolo VI Mater Ecclesiae e onorata dal popolo cristiano come
Speculum iustitiae e Regina pacis, ci protegga e ci ottenga, con la sua celeste intercessione, la
forza, la speranza e la gioia necessarie per continuare a dedicarci con generosità all'impegno di
realizzare lo « sviluppo di tutto l'uomo e di tutti gli uomini » [159].
Dato a Roma, presso San Pietro, il 29 giugno, solennità dei SS. Apostoli Pietro e Paolo, dell'anno
2009, quinto del mio Pontificato.
BENEDICTUS PP. XVI
[1] Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio (26 marzo 1967), 22: AAS 59 (1967), 268; cfr Conc.
Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 69.

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51
[2] Discorso per la giornata dello sviluppo (23 agosto 1968): AAS 60 (1968), 626-627.
[3] Cfr Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2002: AAS 94 (2002),
132-140.
[4] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes,
26.
[5] Cfr Giovanni XXIII, Lett. enc. Pacem in terris (11 aprile 1963): AAS 55 (1963), 268-270.
[6] Cfr n. 16: l.c., 265.
[7] Cfr ibid., 82: l.c., 297.
[8] Ibid., 42: l.c., 278.
[9] Ibid., 20: l.c., 267.
[10] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes,
36; Paolo VI, Lett. ap. Octogesima adveniens (14 maggio 1971), 4: AAS 63 (1971), 403-404;
Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus (1º maggio 1991), 43: AAS 83 (1991), 847.
[11] Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio,13: l.c., 263-264.
[12] Cfr Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina sociale della
Chiesa, n. 76.
[13] Cfr Benedetto XVI, Discorso alla sessione inaugurale dei lavori della V Conferenza generale
dell'Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi (13 maggio 2007): Insegnamenti III, 1 (2007), 854-
870.
[14] Cfr nn. 3-5: l.c., 258-260.
[15] Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis (30 dicembre 1987), 6-7: AAS 80
(1988), 517-519.
[16] Cfr Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 14: l.c., 264.
[17] Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), 18: AAS 98 (2006), 232.
[18] Ibid., 6: l.c., 222.

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52
[19] Cfr Benedetto XVI, Discorso alla Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi (22
dicembre 2005): Insegnamenti I (2005), 1023-1032.
[20] Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 3: l.c., 515.
[21] Cfr ibid.,1: l.c., 513-514.
[22] Cfr ibid., 3: l.c., 515.
[23] Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Laborem exercens (14 settembre 1981), 3: AAS 73 (1981),
583-584.
[24] Cfr Id., Lett. enc. Centesimus annus, 3: l.c., 794-796.
[25] Cfr Lett. enc. Populorum progressio, 3: l.c., 258.
[26] Cfr ibid., 34: l.c., 274.
[27] Cfr nn. 8-9: AAS 60 (1968), 485-487; Benedetto XVI, Discorso ai Partecipanti al Convegno
Internazionale organizzato nel 40º anniversario dell'« Humanae vitae » (10 maggio 2008):
Insegnamenti IV, 1 (2008), 753-756.
[28] Cfr Lett. enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), 93: AAS 87 (1995), 507-508.
[29] Ibid., 101: l.c., 516-518.
[30] N. 29: AAS 68 (1976), 25.
[31] Ibid., 31: l.c., 26.
[32] Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 41: l.c., 570-572.
[33] Cfr ibid.; Id. Lett. enc. Centesimus annus, 5.54: l.c. 799. 859-860.
[34] N. 15: l.c., 265.
[35] Cfr ibid., 2: l.c., 258; Leone XIII, Lett. enc. Rerum novarum (15 maggio 1891): Leonis XIII P.M.
Acta, XI, Romae 1892, 97-144; Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 8: l.c., 519-520
; Id., Lett. enc. Centesimus annus, 5: l.c., 799.
[36] Cfr Lett. enc. Populorum progressio, 2.13: l.c., 258. 263-264.

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53
[37] Ibid., 42: l.c., 278.
[38] Ibid., 11: l.c., 262; cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 25: l.c, 822-824.
[39] Lett. enc. Populorum progressio, 15: l.c., 265.
[40] Ibid., 3: l.c., 258.
[41] Ibid., 6: l.c., 260.
[42] Ibid., 14: l.c., 264.
[43] Ibid.; cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 53-62: l.c., 859-867; Id., Lett. enc.
Redemptor hominis (4 marzo 1979) 13-14: AAS 71 (1979), 282-286.
[44] Cfr Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 12: l.c., 262-263.
[45] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 22.
[46] Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 13: l.c., 263-264.
[47] Cfr Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al IV Convegno Ecclesiale Nazionale della Chiesa
che è in Italia (19 ottobre 2006): Insegnamenti II, 2 (2006), 465-477.
[48] Cfr Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 16: l.c., 265.
[49] Ibid.
[50] Benedetto XVI, Discorso ai giovani al molo di Barangaroo: L'Osservatore Romano, 18 luglio
2008, p. 8.
[51] Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 20: l.c., 267.
[52] Ibid., 66: l.c., 289-290.
[53] I bid., 21: l.c., 267-268.
[54] Cfr nn. 3.29.32: l.c., 258.272.273.
[55] Cfr Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 28: l.c., 548-550.
[56] Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 9: l.c., 261-262.

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54
[57] Cfr Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 20: l.c., 536-537.
[58] Cfr Lett. enc. Centesimus annus, 22-29: l.c., 819-830.
[59] Cfr nn. 23.33: l.c., 268-269. 273-274.
[60] Cfr l.c., 135.
[61] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 63.
[62] Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 24: l.c., 821-822.
[63] Cfr Id., Lett. enc. Veritatis splendor (6 agosto 1993), 33.46.51: AAS 85 (1993), 1160.1169-
1171.1174-1175; Id., Discorso all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite per la celebrazione del
50º di fondazione (5 ottobre 1995), 3: Insegnamenti XVIII, 2 (1995), 732-733.
[64] Cfr Lett. enc. Populorum progressio, 47: l.c., 280-281; Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo
rei socialis, 42: l.c., 572-574.
[65] Cfr Benedetto XVI, Messaggio in occasione della Giornata Mondiale dell'Alimentazione 2007:
AAS 99 (2007), 933-935.
[66] Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitae, 18.59.63-64: l.c., 419-421. 467-468. 472-
475.
[67] Cfr Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2007, 5: Insegnamenti II,
2 (2006), 778.
[68] Cfr Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2002, 4-7.12-15: AAS
94 (2002), 134-136. 138- 140; id., Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2004, 8: AAS
96 (2004), 119; id., Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2005, 4: AAS 97 (2005), 177-
178; Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2006, 9-10: AAS 98 (2006),
60-61; id., Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2007, 5.14: l.c., 778. 782-783.
[69] Cfr Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2002, 6: l.c., 135;
Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2006, 9-10: l.c., 60-61.
[70] Cfr Benedetto XVI, Omelia alla Santa Messa nell'« Islinger Feld » di Regensburg (12
settembre 2006): Insegnamenti II, 2 (2006), 252-256.
[71] Cfr Id., Lett. enc. Deus caritas est, 1: l.c., 217-218.

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55
[72] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 28: l.c., 548-550.
[73] Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 19: l.c., 266-267.
[74] Ibid., 39: l.c., 276-277.
[75] Ibid., 75: l.c., 293-294.
[76] Cfr Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est, 28: l.c., 238-240.
[77] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 59: l.c., 864.
[78] Cfr Lett. enc. Populorum progressio, 40.85: l.c., 277. 298- 299.
[79] Ibid., 13: l.c., 263-264.
[80] Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Fides et ratio (14 settembre 1998), 85: AAS 91 (1999), 72-73.
[81] Cfr Ibid., 83: l.c., 70-71.
[82] Benedetto XVI, Discorso all'Università di Regensburg (12 settembre 2006): Insegnamenti II, 2
(2006), 265.
[83] Cfr Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 33: l.c., 273-274.
[84] Cfr Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2000, 15: AAS 92
(2000), 366.
[85] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 407; cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus,
25: l.c., 822-824.
[86] Cfr n. 17: AAS 99 (2007), 1000.
[87] Cfr ibid., 23: l.c., 1004-1005.
[88] Sant'Agostino espone in modo dettagliato questo insegnamento nel dialogo sul libero arbitrio
(De libero arbitrio II 3,8 sgg.). Egli indica l'esistenza dentro l'anima umana di un « senso interno ».
Questo senso consiste in un atto che si compie al di fuori delle normali funzioni della ragione, atto
irriflesso e quasi istintivo, per cui la ragione, rendendosi conto della sua condizione transeunte e
fallibile, ammette al di sopra di sé l'esistenza di qualcosa di eterno, assolutamente vero e certo. Il
nome che sant'Agostino dà a questa verità interiore è talora quello di Dio (Confessioni X,24,35;
XII,25,35; De libero arbitrio II 3,8), più spesso quello di Cristo (De magistro 11,38; Confessioni

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56
VII,18,24; XI,2,4).
[89] Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est, 3: l.c., 219.
[90] Cfr n. 49: l.c., 281.
[91] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 28: l.c., 827-828.
[92] Cfr n. 35: l.c., 836-838.
[93] Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 38: l.c., 565-566.
[94] N. 44: l.c., 279.
[95] Cfr Ibid., 24: l.c., 269.
[96] Cfr Lett. enc. Centesimus annus, 36: l.c., 838-840.
[97] Cfr Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 24: l.c., 269.
[98] Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 32: l.c., 832-833; Paolo VI, Lett. enc.
Populorum progressio, 25: l.c., 269-270.
[99] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Laborem exercens, 24: l.c., 637-638.
[100] Ibid., 15: l.c., 616-618.
[101] Lett. enc. Populorum progressio, 27: l.c., 271.
[102] Cfr Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione sulla libertà cristiana e la
liberazione Libertatis conscientia (22 marzo 1987) 74: AAS 79 (1987), 587.
[103] Cfr Giovanni Paolo II, Intervista al quotidiano cattolico « La Croix », 20 agosto 1997.
[104] Giovanni Paolo II, Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali (27 aprile 2001):
Insegnamenti XXIV, 1 (2001), 800.
[105] Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 17: l.c., 265-266.
[106] Cfr Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2003, 5: AAS 95
(2003), 343.

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57
[107] Cfr ibid.
[108] Cfr Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2007, 13: l.c., 781-782.
[109] Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 65: l.c., 289.
[110] Cfr ibid., 36-37: l.c., 275-276.
[111] Cfr ibid., 37: l.c., 275-276.
[112] Cfr Conc. Ecum.Vat. II, Decreto sull'apostolato dei laici Apostolicam actuositatem, 11.
[113] Cfr Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 14: l.c., 264; Giovanni Paolo II Lett. enc.
Centesimus annus, 32: l.c., 832-833.
[114] Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 77: l.c., 295.
[115] Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1990, 6: AAS 82 (1990),
150.
[116] Eraclito di Efeso (Efeso 535 a.C. ca. – 475 a.C. ca.), Frammento 22B124, in H. Diels-W.
Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Weidmann, Berlin 19526 .
[117] Cfr Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina sociale della
Chiesa, nn. 451- 487.
[118] Cfr Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1990, 10: l.c., 152-
153.
[119] Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 65: l.c., 289.
[120] Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2008, 7: AAS 100 (2008),
41.
[121] Cfr Id., Discorso ai partecipanti all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite (18 aprile 2008):
Insegnamenti IV, 1 (2008), 618- 626.
[122] Cfr Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1990, 13: l.c., 154-
155.
[123] Id., Lett. enc. Centesimus annus, 36: l.c., 838-840.

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58
[124] Ibid., 38: l.c., 840-841; cfr Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace
2007, 8: l.c., 779.
[125] Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 41: l.c., 843-845.
[126] Cfr ibid.
[127] Cfr Id., Lett. enc. Evangelium vitae, 20: l.c., 422-424.
[128] Lett. enc. Populorum progressio, 85: l.c., 298-299.
[129] Cfr Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1998, 3: AAS 90
(1998), 150; Id., Discorso ai Membri della Fondazione « Centesimus Annus » (9 maggio 1998), 2:
Insegnamenti XXI, 1 (1998), 873-874; Id., Discorso alle Autorità Civili e Politiche e al Corpo
Diplomatico durante l'incontro nel « Wiener Hofburg » (20 giugno 1998), 8: Insegnamenti XXI, 1
(1998), 1435-1436; Id., Messaggio al Rettore Magnifico dell'Università Cattolica del Sacro Cuore
nella ricorrenza annuale della giornata (5 maggio 2000), 6: Insegnamenti XXIII, 1 (2000), 759-760.
[130] Secondo San Tommaso « ratio partis contrariatur rationi personae » in III Sent. d. 5, 3, 2.;
anche « Homo non ordinatur ad communitatem politicam secundum se totum et secundum omnia
sua » in Summa Theologiae I-II, q. 21, a. 4, ad 3um.
[131] Cfr Conc. Ecum.Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 1.
[132] Cfr Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti alla seduta pubblica delle Pontificie
Accademie di Teologia e di San Tommaso d'Aquino (8 novembre 2001), 3: Insegnamenti XXIV, 2
(2001), 676-677.
[133] Cfr Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. circa l'unicità e l'universalità salvifica di
Gesù Cristo e della Chiesa Dominus Jesus (6 agosto 2000), 22: AAS 92 (2000), 763-764; Id.,
Nota Dottrinale circa alcune questioni riguardanti l'impegno e il comportamento dei cattolici nella
vita politica (24 novembre 2002), 8: AAS 96 (2004), 369-370.
[134] Benedetto XVI, Lett. enc. Spe salvi, 31: l.c., 1010; Id., Discorso ai partecipanti al IV
Convegno Ecclesiale Nazionale della Chiesa che è in Italia (19 ottobre 2006): l.c., 465-477.
[135] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 5: l.c., 798-800; cfr Benedetto XVI, Discorso
ai partecipanti al IV Convegno Ecclesiale Nazionale della Chiesa che è in Italia (19 ottobre 2006):
l.c., 471.
[136] N. 12.

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59
[137] Cfr Pio XI, Lett. enc. Quadragesimo anno (15 maggio 1931): AAS 23 (1931), 203; Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 48: l.c., 852-854; Catechismo della Chiesa Cattolica, n.
1883.
[138] Cfr Giovanni XXIII, Lett. enc. Pacem in terris: l.c., 274.
[139] Cfr Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 10.41: l.c., 262.277-278.
[140] Cfr Benedetto XVI, Discorso ai Membri della Commissione Teologica Internazionale (5
ottobre 2007): Insegnamenti III, 2 (2007), 418-421; Id., Discorso ai partecipanti al Congresso
internazionale su « Legge morale naturale » promosso dalla Pontificia Università Lateranense (12
febbraio 2007): Insegnamenti III, 1 (2007), 209-212.
[141] Cfr Benedetto XVI, Discorso ai Presuli della Conferenza Episcopale della Thailandia in visita
ad limina (16 maggio 2008): Insegnamenti IV, 1 (2008), 798-801.
[142] Cfr Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, Istruzione Erga
migrantes caritas Christi (3 maggio 2004): AAS 96 (2004), 762-822.
[143] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Laborem exercens, 8: l.c., 594-598.
[144] Discorso al termine della Concelebrazione Eucaristica in occasione del Giubileo dei
Lavoratori (1º maggio 2000): Insegnamenti XXIII, 1 (2000), 720.
[145] Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 36: l.c., 838-840.
[146] Cfr Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite (18
aprile 2008): l.c., 618-626.
[147] Cfr Giovanni XXIII, Lett. enc. Pacem in terris: l.c., 293; Pontificio Consiglio della Giustizia e
della Pace, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, n. 441.
[148] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et
spes, 82.
[149] Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 43: l.c., 574-575.
[150] Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 41: l.c., 277- 278; Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost.
past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 57.
[151] Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Laborem exercens, 5: l.c., 586-589.

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[152] Cfr Paolo VI, Lett. ap. Octogesima adveniens, 29: l.c., 420.
[153] Cfr Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al IV Convegno Ecclesiale Nazionale della
Chiesa che è in Italia (19 ottobre 2006): l.c., 465-477; Id., Omelia alla Santa Messa nell'« Islinger
Feld » di Regensburg (12 settembre 2006): l.c., 252-256.
[154] Cfr Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione su alcune questioni di bioetica
Dignitas personae (8 settembre 2008): AAS 100 (2008), 858-887.
[155] Cfr Lett. enc. Populorum progressio, 3: l.c., 258.
[156] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes,
14.
[157] Cfr n. 42: l.c., 278.
[158] Cfr Benedetto XVI, Lett. enc. Spe salvi, 35: l.c., 1013-1014.
[159] Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 42: l.c., 278.
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