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La Santa Sede
ESORTAZIONE APOSTOLICA
EVANGELII GAUDIUM
DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
AI VESCOVI
AI PRESBITERI E AI DIACONI
ALLE PERSONE CONSACRATE
E AI FEDELI LAICI
SULL' ANNUNCIO DEL VANGELO
NEL MONDO ATTUALE
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INDICE
La Gioia del Vangelo [1]
I. Gioia che si rinnova e si comunica [2-8]
II. La dolce e confortante gioia di evangelizzare [9-13]
Un’eterna novità [11-13]
III. La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede [14-18]
Proposta e limiti di questa Esortazione [16-18]
CAPITOLO PRIMO
LA TRASFORMAZIONE MISSIONARIA DELLA CHIESA
I. Una Chiesa in uscita [20-24]

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2
Prendere l’iniziativa, coinvolgersi, accompagnare, fruttificare e festeggiare [24]
II. Pastorale in conversione [25-33]
Un improrogabile rinnovamento ecclesiale [27-33]
III. Dal cuore del Vangelo [34-39]
IV. La missione che si incarna nei limiti umani [40-45]
V. Una madre dal cuore aperto [46-49]
CAPITOLO SECONDO
NELLA CRISI DELL'IMPEGNO COMUNITARIO
I. Alcune sfide del mondo attuale [52-75]
No a un’economia dell’esclusione [53-54]
No alla nuova idolatria del denaro [55-56]
No a un denaro che governa invece di servire [57-58]
No all’inequità che genera violenza [59-60]
Alcune sfide culturali [61-67]
Sfide dell’inculturazione della fede [68-70]
Sfide delle culture urbane [71-75]
II. Tentazioni degli operatori pastorali [76-109]
Sì alla sfida di una spiritualità missionaria [78-80]
No all’accidia egoista [81-83]
No al pessimismo sterile [84-86]
Sì alle relazioni nuove generate da Gesù Cristo [87-92]
No alla mondanità spirituale [93-97]
No alla guerra tra di noi [98-101]
Altre sfide ecclesiali [102-109]
CAPITOLO TERZO
L’ANNUNCIO DEL VANGELO
I. Tutto il Popolo di Dio annuncia il Vangelo [111-134]
Un popolo per tutti [112-114]
Un popolo dai molti volti [115-118]
Tutti siamo discepoli missionari [119-121]
La forza evangelizzatrice della pietà popolare [122-126]
Da persona a persona [127-129]

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3
Carismi al servizio della comunione evangelizzatrice [130-131]
Cultura, pensiero ed educazione [132-134]
II. L’omelia [135-144]
Il contesto liturgico [137-138]
La conversazione di una madre [139-141]
Parole che fanno ardere i cuori [142-144]
III. La preparazione della predicazione [145-159]
Il culto della verità [146-148]
La personalizzazione della Parola [149-151]
La lettura spirituale [152-153]
In ascolto del popolo [154-155]
Strumenti pedagogici [156-159]
IV. Un’evangelizzazione per l’approfondimento del kerygma [160-175]
Una catechesi kerygmatica e mistagogica [163-168]
L’accompagnamento personale dei processi di crescita [169-173]
Circa la Parola di Dio [174-175]
CAPITOLO QUARTO
LA DIMENSIONE SOCIALE DELL'EVANGELIZZAZIONE
I. Le ripercussioni comunitarie e sociali del kerygma [177-185]
Confessione della fede e impegno sociale [178-179]
Il Regno che ci chiama [180-181]
L'insegnamento della Chiesa sulle questioni sociali [182-185]
II. L’inclusione sociale dei poveri [186-216]
Uniti a Dio ascoltiamo un grido [187-192]
Fedeltà al Vangelo per non correre invano [193-196]
Il posto privilegiato dei poveri nel Popolo di Dio [197-201]
Economia e distribuzione delle entrate [202-208]
Avere cura della fragilità [209-216]
III. Il bene comune e la pace sociale [217-237]
Il tempo è superiore allo spazio [222-225]
L’unità prevale sul conflitto [226-230]
La realtà è più importante dell’idea [231-233]
Il tutto è superiore alla parte [234-237]

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4
IV. Il dialogo sociale come contributo per la pace [238-258]
Il dialogo tra la fede, la ragione e le scienze [242-243]
Il dialogo ecumenico [244-246]
Le relazioni con l’Ebraismo [247-249]
Il dialogo interreligioso [250-254]
Il dialogo sociale in un contesto di libertà religiosa [255-258]
CAPITOLO QUINTO
EVANGELIZZATORI CON SPIRITO
I. Motivazioni per un rinnovato impulso missionario [262-283]
L’incontro personale con l’amore di Gesù che ci salva [264-267]
Il piacere spirituale di essere popolo [268-274]
L’azione misteriosa del Risorto e del suo Spirito [275-280]
La forza missionaria dell’intercessione [281-283]
II. Maria, la Madre dell’evangelizzazione [284-288]
Il dono di Gesù al suo popolo [285-286]
La Stella della nuova evangelizzazione [287-288]
1. La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù.
Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore,
dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia. In questa Esortazione desidero
indirizzarmi ai fedeli cristiani, per invitarli a una nuova tappa evangelizzatrice marcata da questa
gioia e indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni.
I. Gioia che si rinnova e si comunica
2. Il grande rischio del mondo attuale, con la sua molteplice ed opprimente offerta di consumo, è
una tristezza individualista che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di
piaceri superficiali, dalla coscienza isolata. Quando la vita interiore si chiude nei propri interessi
non vi è più spazio per gli altri, non entrano più i poveri, non si ascolta più la voce di Dio, non si
gode più della dolce gioia del suo amore, non palpita l’entusiasmo di fare il bene. Anche i credenti
corrono questo rischio, certo e permanente. Molti vi cadono e si trasformano in persone risentite,
scontente, senza vita. Questa non è la scelta di una vita degna e piena, questo non è il desiderio
di Dio per noi, questa non è la vita nello Spirito che sgorga dal cuore di Cristo risorto.

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3. Invito ogni cristiano, in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo
incontro personale con Gesù Cristo o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da
Lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta. Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che
questo invito non è per lui, perché «nessuno è escluso dalla gioia portata dal Signore».[1] Chi
rischia, il Signore non lo delude, e quando qualcuno fa un piccolo passo verso Gesù, scopre che
Lui già aspettava il suo arrivo a braccia aperte. Questo è il momento per dire a Gesù Cristo:
«Signore, mi sono lasciato ingannare, in mille maniere sono fuggito dal tuo amore, però sono qui
un’altra volta per rinnovare la mia alleanza con te. Ho bisogno di te. Riscattami di nuovo Signore,
accettami ancora una volta fra le tue braccia redentrici». Ci fa tanto bene tornare a Lui quando ci
siamo perduti! Insisto ancora una volta: Dio non si stanca mai di perdonare, siamo noi che ci
stanchiamo di chiedere la sua misericordia. Colui che ci ha invitato a perdonare «settanta volte
sette» (Mt 18,22) ci dà l’esempio: Egli perdona settanta volte sette. Torna a caricarci sulle sue
spalle una volta dopo l’altra. Nessuno potrà toglierci la dignità che ci conferisce questo amore
infinito e incrollabile. Egli ci permette di alzare la testa e ricominciare, con una tenerezza che mai
ci delude e che sempre può restituirci la gioia. Non fuggiamo dalla risurrezione di Gesù, non
diamoci mai per vinti, accada quel che accada. Nulla possa più della sua vita che ci spinge in
avanti!
4. I libri dell’Antico Testamento avevano proposto la gioia della salvezza, che sarebbe diventata
sovrabbondante nei tempi messianici. Il profeta Isaia si rivolge al Messia atteso salutandolo con
giubilo: «Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia» (9,2). E incoraggia gli abitanti di Sion ad
accoglierlo con canti: «Canta ed esulta!» (12,6). Chi già lo ha visto all’orizzonte, il profeta lo invita
a farsi messaggero per gli altri: «Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion! Alza la
tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme» (40,9). La creazione intera
partecipa di questa gioia della salvezza: «Giubilate, o cieli, rallegrati, o terra, gridate di gioia, o
monti, perché il Signore consola il suo popolo e ha misericordia dei suoi poveri» (49,13).
Zaccaria, vedendo il giorno del Signore, invita ad acclamare il Re che viene umile e cavalcando un
asino: «Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re.
Egli è giusto e vittorioso!» (Zc 9,9). Ma forse l’invito più contagioso è quello del profeta Sofonia,
che ci mostra lo stesso Dio come un centro luminoso di festa e di gioia che vuole comunicare al
suo popolo questo grido salvifico. Mi riempie di vita rileggere questo testo: «Il Signore, tuo Dio, in
mezzo a te è un salvatore potente. Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con
grida di gioia» (Sof 3,17).
Èla gioia che si vive tra le piccole cose della vita quotidiana, come risposta all’invito affettuoso di
Dio nostro Padre: «Figlio, per quanto ti è possibile, tràttati bene … Non privarti di un giorno felice»
(Sir 14,11.14). Quanta tenerezza paterna si intuisce dietro queste parole!
5. Il Vangelo, dove risplende gloriosa la Croce di Cristo, invita con insistenza alla gioia. Bastano
alcuni esempi: «Rallegrati» è il saluto dell’angelo a Maria (Lc 1,28). La visita di Maria a Elisabetta

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fa sì che Giovanni salti di gioia nel grembo di sua madre (cfr Lc 1,41). Nel suo canto Maria
proclama: «Il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore» (Lc 1,47). Quando Gesù inizia il suo
ministero, Giovanni esclama: «Ora questa mia gioia è piena» (Gv 3,29). Gesù stesso «esultò di
gioia nello Spirito Santo» (Lc 10,21). Il suo messaggio è fonte di gioia: «Vi ho detto queste cose
perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). La nostra gioia cristiana
scaturisce dalla fonte del suo cuore traboccante. Egli promette ai discepoli: «Voi sarete nella
tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia» (Gv 16,20). E insiste: «Vi vedrò di nuovo e il
vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia» (Gv 16,22). In seguito essi,
vedendolo risorto, «gioirono» (Gv 20,20). Il libro degli Atti degli Apostoli narra che nella prima
comunità «prendevano cibo con letizia» (2,46). Dove i discepoli passavano «vi fu grande gioia»
(8,8), ed essi, in mezzo alla persecuzione, «erano pieni di gioia» (13,52). Un eunuco, appena
battezzato, «pieno di gioia seguiva la sua strada» (8,39), e il carceriere «fu pieno di gioia insieme
a tutti i suoi per aver creduto in Dio» (16,34). Perché non entrare anche noi in questo fiume di
gioia?
6. Ci sono cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima senza Pasqua. Però riconosco che
la gioia non si vive allo stesso modo in tutte la tappe e circostanze della vita, a volte molto dure. Si
adatta e si trasforma, e sempre rimane almeno come uno spiraglio di luce che nasce dalla
certezza personale di essere infinitamente amato, al di là di tutto. Capisco le persone che
inclinano alla tristezza per le gravi difficoltà che devono patire, però poco alla volta bisogna
permettere che la gioia della fede cominci a destarsi, come una segreta ma ferma fiducia, anche
in mezzo alle peggiori angustie: «Sono rimasto lontano dalla pace, ho dimenticato il benessere …
Questo intendo richiamare al mio cuore, e per questo voglio riprendere speranza. Le grazie del
Signore non sono finite, non sono esaurite le sue misericordie. Si rinnovano ogni mattina, grande
è la sua fedeltà … È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore» (Lam 3,17.21-23.26).
7. La tentazione appare frequentemente sotto forma di scuse e recriminazioni, come se dovessero
esserci innumerevoli condizioni perché sia possibile la gioia. Questo accade perché «la società
tecnologica ha potuto moltiplicare le occasioni di piacere, ma essa difficilmente riesce a procurare
la gioia».[2] Posso dire che le gioie più belle e spontanee che ho visto nel corso della mia vita
sono quelle di persone molto povere che hanno poco a cui aggrapparsi. Ricordo anche la gioia
genuina di coloro che, anche in mezzo a grandi impegni professionali, hanno saputo conservare
un cuore credente, generoso e semplice. In varie maniere, queste gioie attingono alla fonte
dell’amore sempre più grande di Dio che si è manifestato in Gesù Cristo. Non mi stancherò di
ripetere quelle parole di Benedetto XVI che ci conducono al centro del Vangelo: «All’inizio
dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un
avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione
decisiva».[3]
8. Solo grazie a quest’incontro – o reincontro – con l’amore di Dio, che si tramuta in felice amicizia,
siamo riscattati dalla nostra coscienza isolata e dall’autoreferenzialità. Giungiamo ad essere

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7
pienamente umani quando siamo più che umani, quando permettiamo a Dio di condurci al di là di
noi stessi perché raggiungiamo il nostro essere più vero. Lì sta la sorgente dell’azione
evangelizzatrice. Perché, se qualcuno ha accolto questo amore che gli ridona il senso della vita,
come può contenere il desiderio di comunicarlo agli altri?
II. La dolce e confortante gioia di evangelizzare
9. Il bene tende sempre a comunicarsi. Ogni esperienza autentica di verità e di bellezza cerca per
se stessa la sua espansione, e ogni persona che viva una profonda liberazione acquisisce
maggiore sensibilità davanti alle necessità degli altri. Comunicandolo, il bene attecchisce e si
sviluppa. Per questo, chi desidera vivere con dignità e pienezza non ha altra strada che
riconoscere l’altro e cercare il suo bene. Non dovrebbero meravigliarci allora alcune espressioni di
san Paolo: «L’amore del Cristo ci possiede» (2 Cor 5,14); «Guai a me se non annuncio il
Vangelo!» (1 Cor 9,16).
10. La proposta è vivere ad un livello superiore, però non con minore intensità: «La vita si rafforza
donandola e s’indebolisce nell’isolamento e nell’agio. Di fatto, coloro che sfruttano di più le
possibilità della vita sono quelli che lasciano la riva sicura e si appassionano alla missione di
comunicare la vita agli altri».[4] Quando la Chiesa chiama all’impegno evangelizzatore, non fa
altro che indicare ai cristiani il vero dinamismo della realizzazione personale: «Qui scopriamo
un’altra legge profonda della realtà: la vita cresce e matura nella misura in cui la doniamo per la
vita degli altri. La missione, alla fin fine, è questo».[5] Di conseguenza, un evangelizzatore non
dovrebbe avere costantemente una faccia da funerale. Recuperiamo e accresciamo il fervore, «la
dolce e confortante gioia di evangelizzare, anche quando occorre seminare nelle lacrime […]
Possa il mondo del nostro tempo –che cerca ora nell’angoscia, ora nella speranza – ricevere la
Buona Novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti e ansiosi, ma da ministri del
Vangelo la cui vita irradii fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo».[6]
Un’eterna novità
11. Un annuncio rinnovato offre ai credenti, anche ai tiepidi o non praticanti, una nuova gioia nella
fede e una fecondità evangelizzatrice. In realtà, il suo centro e la sua essenza è sempre lo stesso:
il Dio che ha manifestato il suo immenso amore in Cristo morto e risorto. Egli rende i suoi fedeli
sempre nuovi, quantunque siano anziani, riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono
senza affannarsi, camminano senza stancarsi» (Is 40,31). Cristo è il «Vangelo eterno» (Ap 14,6),
ed è «lo stesso ieri e oggi e per sempre» (Eb 13,8), ma la sua ricchezza e la sua bellezza sono
inesauribili. Egli è sempre giovane e fonte costante di novità. La Chiesa non cessa di stupirsi per
«la profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio» (Rm 11,33). Diceva san
Giovanni della Croce: «questo spessore di sapienza e scienza di Dio è tanto profondo e immenso,
che, benché l’anima sappia di esso, sempre può entrare più addentro».[7] O anche, come
affermava sant’Ireneo: «[Cristo], nella sua venuta, ha portato con sé ogni novità».[8] Egli sempre

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può, con la sua novità, rinnovare la nostra vita e la nostra comunità, e anche se attraversa epoche
oscure e debolezze ecclesiali, la proposta cristiana non invecchia mai. Gesù Cristo può anche
rompere gli schemi noiosi nei quali pretendiamo di imprigionarlo e ci sorprende con la sua
costante creatività divina. Ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la
freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di
espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale. In
realtà, ogni autentica azione evangelizzatrice è sempre “nuova”.
12. Sebbene questa missione ci richieda un impegno generoso, sarebbe un errore intenderla
come un eroico compito personale, giacché l’opera è prima di tutto sua, al di là di quanto
possiamo scoprire e intendere. Gesù è «il primo e il più grande evangelizzatore».[9] In qualunque
forma di evangelizzazione il primato è sempre di Dio, che ha voluto chiamarci a collaborare con
Lui e stimolarci con la forza del suo Spirito. La vera novità è quella che Dio stesso
misteriosamente vuole produrre, quella che Egli ispira, quella che Egli provoca, quella che Egli
orienta e accompagna in mille modi. In tutta la vita della Chiesa si deve sempre manifestare che
l’iniziativa è di Dio, che «è lui che ha amato noi» per primo (1 Gv 4,10) e che «è Dio solo che fa
crescere» (1 Cor 3,7). Questa convinzione ci permette di conservare la gioia in mezzo a un
compito tanto esigente e sfidante che prende la nostra vita per intero. Ci chiede tutto, ma nello
stesso tempo ci offre tutto.
13. Neppure dovremmo intendere la novità di questa missione come uno sradicamento, come un
oblio della storia viva che ci accoglie e ci spinge in avanti. La memoria è una dimensione della
nostra fede che potremmo chiamare “deuteronomica”, in analogia con la memoria di Israele. Gesù
ci lascia l’Eucaristia come memoria quotidiana della Chiesa, che ci introduce sempre più nella
Pasqua (cfr Lc 22,19). La gioia evangelizzatrice brilla sempre sullo sfondo della memoria grata: è
una grazia che abbiamo bisogno di chiedere. Gli Apostoli mai dimenticarono il momento in cui
Gesù toccò loro il cuore: «Erano circa le quattro del pomeriggio» (Gv 1,39). Insieme a Gesù, la
memoria ci fa presente una vera «moltitudine di testimoni» (Eb 12,1). Tra loro, si distinguono
alcune persone che hanno inciso in modo speciale per far germogliare la nostra gioia credente:
«Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunciato la Parola di Dio» (Eb 13,7). A volte si tratta
di persone semplici e vicine che ci hanno iniziato alla vita della fede: «Mi ricordo della tua schietta
fede, che ebbero anche tua nonna Lòide e tua madre Eunìce» (2 Tm 1,5). Il credente è
fondamentalmente “uno che fa memoria”.
III. La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede
14. In ascolto dello Spirito, che ci aiuta a riconoscere comunitariamente i segni dei tempi, dal 7 al
28 ottobre 2012 si è celebrata la XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi sul
tema La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana. Lì si è ricordato che la
nuova evangelizzazione chiama tutti e si realizza fondamentalmente in tre ambiti.[10] In primo
luogo, menzioniamo l’ambito della pastorale ordinaria, «animata dal fuoco dello Spirito, per

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9
incendiare i cuori dei fedeli che regolarmente frequentano la Comunità e che si riuniscono nel
giorno del Signore per nutrirsi della sua Parola e del Pane di vita eterna».[11] Vanno inclusi in
quest’ambito anche i fedeli che conservano una fede cattolica intensa e sincera, esprimendola in
diversi modi, benché non partecipino frequentemente al culto. Questa pastorale si orienta alla
crescita dei credenti, in modo che rispondano sempre meglio e con tutta la loro vita all’amore di
Dio.
In secondo luogo, ricordiamo l’ambito delle «persone battezzate che però non vivono le esigenze
del Battesimo»,[12] non hanno un’appartenenza cordiale alla Chiesa e non sperimentano più la
consolazione della fede. La Chiesa, come madre sempre attenta, si impegna perché essi vivano
una conversione che restituisca loro la gioia della fede e il desiderio di impegnarsi con il Vangelo.
Infine, rimarchiamo che l’evangelizzazione è essenzialmente connessa con la proclamazione del
Vangelo a coloro che non conoscono Gesù Cristo o lo hanno sempre rifiutato. Molti di loro
cercano Dio segretamente, mossi dalla nostalgia del suo volto, anche in paesi di antica tradizione
cristiana. Tutti hanno il diritto di ricevere il Vangelo. I cristiani hanno il dovere di annunciarlo senza
escludere nessuno, non come chi impone un nuovo obbligo, bensì come chi condivide una gioia,
segnala un orizzonte bello, offre un banchetto desiderabile. La Chiesa non cresce per proselitismo
ma «per attrazione».[13]
15. Giovanni Paolo II ci ha invitato a riconoscere che «bisogna, tuttavia, non perdere la tensione
per l’annunzio» a coloro che stanno lontani da Cristo, «perché questo è il compito primo della
Chiesa».[14] L’attività missionaria «rappresenta, ancor oggi, la massima sfida per la Chiesa»[15] e
«la causa missionaria deve essere la prima».[16] Che cosa succederebbe se prendessimo
realmente sul serio queste parole? Semplicemente riconosceremmo che l’azione missionaria è il
paradigma di ogni opera della Chiesa. In questa linea, i Vescovi latinoamericani hanno affermato
che «non possiamo più rimanere tranquilli, in attesa passiva, dentro le nostre chiese»[17] e che è
necessario passare «da una pastorale di semplice conservazione a una pastorale decisamente
missionaria».[18] Questo compito continua ad essere la fonte delle maggiori gioie per la Chiesa:
«Vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i
quali non hanno bisogno di conversione» (Lc 15,7).
Proposta e limiti di questa Esortazione
16. Ho accettato con piacere l’invito dei Padri sinodali di redigere questa Esortazione.[19] Nel
farlo, raccolgo la ricchezza dei lavori del Sinodo. Ho consultato anche diverse persone, e intendo
inoltre esprimere le preoccupazioni che mi muovono in questo momento concreto dell’opera
evangelizzatrice della Chiesa. Sono innumerevoli i temi connessi all’evangelizzazione nel mondo
attuale che qui si potrebbero sviluppare. Ma ho rinunciato a trattare in modo particolareggiato
queste molteplici questioni che devono essere oggetto di studio e di attento approfondimento. Non
credo neppure che si debba attendere dal magistero papale una parola definitiva o completa su

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tutte le questioni che riguardano la Chiesa e il mondo. Non è opportuno che il Papa sostituisca gli
Episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori. In
questo senso, avverto la necessità di procedere in una salutare “decentralizzazione”.
17. Qui ho scelto di proporre alcune linee che possano incoraggiare e orientare in tutta la Chiesa
una nuova tappa evangelizzatrice, piena di fervore e dinamismo. In questo quadro, e in base alla
dottrina della Costituzione dogmatica Lumen gentium, ho deciso, tra gli altri temi, di soffermarmi
ampiamente sulle seguenti questioni:
a) La riforma della Chiesa in uscita missionaria.
b) Le tentazioni degli operatori pastorali.
c) La Chiesa intesa come la totalità del Popolo di Dio che evangelizza.
d) L’omelia e la sua preparazione.
e) L’inclusione sociale dei poveri.
f) La pace e il dialogo sociale.
g) Le motivazioni spirituali per l’impegno missionario.
18. Mi sono dilungato in questi temi con uno sviluppo che forse potrà sembrare eccessivo. Ma non
l’ho fatto con l’intenzione di offrire un trattato, ma solo per mostrare l’importante incidenza pratica
di questi argomenti nel compito attuale della Chiesa. Tutti essi infatti aiutano a delineare un
determinato stile evangelizzatore che invito ad assumere in ogni attività che si realizzi. E così, in
questo modo, possiamo accogliere, in mezzo al nostro lavoro quotidiano, l’esortazione della
Parola di Dio: «Siate sempre lieti nel Signore. Ve lo ripeto, siate lieti!» (Fil 4,4).
CAPITOLO PRIMO
LA TRASFORMAZIONE MISSIONARIA DELLA CHIESA
19. L’evangelizzazione obbedisce al mandato missionario di Gesù: «Andate dunque e fate
discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo,
insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,19-20). In questi versetti si
presenta il momento in cui il Risorto invia i suoi a predicare il Vangelo in ogni tempo e in ogni
luogo, in modo che la fede in Lui si diffonda in ogni angolo della terra.
I. Una Chiesa in uscita

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20. Nella Parola di Dio appare costantemente questo dinamismo di “uscita” che Dio vuole
provocare nei credenti. Abramo accettò la chiamata a partire verso una terra nuova (cfr Gen 12,1-
3). Mosè ascoltò la chiamata di Dio: «Va’, io ti mando» (Es 3,10) e fece uscire il popolo verso la
terra promessa (cfr Es 3,17). A Geremia disse: «Andrai da tutti coloro a cui ti manderò» (Ger 1,7).
Oggi, in questo “andate” di Gesù, sono presenti gli scenari e le sfide sempre nuovi della missione
evangelizzatrice della Chiesa, e tutti siamo chiamati a questa nuova “uscita” missionaria. Ogni
cristiano e ogni comunità discernerà quale sia il cammino che il Signore chiede, però tutti siamo
invitati ad accettare questa chiamata: uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di
raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo.
21. La gioia del Vangelo che riempie la vita della comunità dei discepoli è una gioia missionaria.
La sperimentano i settantadue discepoli, che tornano dalla missione pieni di gioia (cfr Lc 10,17).
La vive Gesù, che esulta di gioia nello Spirito Santo e loda il Padre perché la sua rivelazione
raggiunge i poveri e i più piccoli (cfr Lc 10,21). La sentono pieni di ammirazione i primi che si
convertono nell’ascoltare la predicazione degli Apostoli «ciascuno nella propria lingua» (At 2,6) a
Pentecoste. Questa gioia è un segno che il Vangelo è stato annunciato e sta dando frutto. Ma ha
sempre la dinamica dell’esodo e del dono, dell’uscire da sé, del camminare e del seminare
sempre di nuovo, sempre oltre. Il Signore dice: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io
predichi anche là; per questo infatti sono venuto!» (Mc 1,38). Quando la semente è stata seminata
in un luogo, non si trattiene più là per spiegare meglio o per fare segni ulteriori, bensì lo Spirito lo
conduce a partire verso altri villaggi.
22. La Parola ha in sé una potenzialità che non possiamo prevedere. Il Vangelo parla di un seme
che, una volta seminato, cresce da sé anche quando l’agricoltore dorme (cfr Mc 4,26-29). La
Chiesa deve accettare questa libertà inafferrabile della Parola, che è efficace a suo modo, e in
forme molto diverse, tali da sfuggire spesso le nostre previsioni e rompere i nostri schemi.
23. L’intimità della Chiesa con Gesù è un’intimità itinerante, e la comunione «si configura
essenzialmente come comunione missionaria».[20] Fedele al modello del Maestro, è vitale che
oggi la Chiesa esca ad annunciare il Vangelo a tutti, in tutti i luoghi, in tutte le occasioni, senza
indugio, senza repulsioni e senza paura. La gioia del Vangelo è per tutto il popolo, non può
escludere nessuno. Così l’annuncia l’angelo ai pastori di Betlemme: «Non temete, ecco, vi
annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo» (Lc 2,10). L’Apocalisse parla di «un
vangelo eterno da annunciare agli abitanti della terra e a ogni nazione, tribù, lingua e popolo» (Ap
14,6).
Prendere l’iniziativa, coinvolgersi, accompagnare, fruttificare e festeggiare
24. La Chiesa “in uscita” è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si
coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano. “Primerear – prendere l’iniziativa”:
vogliate scusarmi per questo neologismo. La comunità evangelizzatrice sperimenta che il Signore

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ha preso l’iniziativa, l’ha preceduta nell’amore (cfr 1 Gv 4,10), e per questo essa sa fare il primo
passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci
delle strade per invitare gli esclusi. Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto
dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva. Osiamo un po’ di più
di prendere l’iniziativa! Come conseguenza, la Chiesa sa “coinvolgersi”. Gesù ha lavato i piedi ai
suoi discepoli. Il Signore si coinvolge e coinvolge i suoi, mettendosi in ginocchio davanti agli altri
per lavarli. Ma subito dopo dice ai discepoli: «Sarete beati se farete questo» (Gv 13,17). La
comunità evangelizzatrice si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia
le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la
carne sofferente di Cristo nel popolo. Gli evangelizzatori hanno così “odore di pecore” e queste
ascoltano la loro voce. Quindi, la comunità evangelizzatrice si dispone ad “accompagnare”.
Accompagna l’umanità in tutti i suoi processi, per quanto duri e prolungati possano essere.
Conosce le lunghe attese e la sopportazione apostolica. L’evangelizzazione usa molta pazienza,
ed evita di non tenere conto dei limiti. Fedele al dono del Signore, sa anche “fruttificare”. La
comunità evangelizzatrice è sempre attenta ai frutti, perché il Signore la vuole feconda. Si prende
cura del grano e non perde la pace a causa della zizzania. Il seminatore, quando vede spuntare la
zizzania in mezzo al grano, non ha reazioni lamentose né allarmiste. Trova il modo per far sì che
la Parola si incarni in una situazione concreta e dia frutti di vita nuova, benché apparentemente
siano imperfetti o incompiuti. Il discepolo sa offrire la vita intera e giocarla fino al martirio come
testimonianza di Gesù Cristo, però il suo sogno non è riempirsi di nemici, ma piuttosto che la
Parola venga accolta e manifesti la sua potenza liberatrice e rinnovatrice. Infine, la comunità
evangelizzatrice gioiosa sa sempre “festeggiare”. Celebra e festeggia ogni piccola vittoria, ogni
passo avanti nell’evangelizzazione. L’evangelizzazione gioiosa si fa bellezza nella Liturgia in
mezzo all’esigenza quotidiana di far progredire il bene. La Chiesa evangelizza e si evangelizza
con la bellezza della Liturgia, la quale è anche celebrazione dell’attività evangelizzatrice e fonte di
un rinnovato impulso a donarsi.
II. Pastorale in conversione
25. Non ignoro che oggi i documenti non destano lo stesso interesse che in altre epoche, e sono
rapidamente dimenticati. Ciononostante, sottolineo che ciò che intendo qui esprimere ha un
significato programmatico e dalle conseguenze importanti. Spero che tutte le comunità facciano in
modo di porre in atto i mezzi necessari per avanzare nel cammino di una conversione pastorale e
missionaria, che non può lasciare le cose come stanno. Ora non ci serve una «semplice
amministrazione».[21] Costituiamoci in tutte le regioni della terra in un «stato permanente di
missione».[22]
26. Paolo VI invitò ad ampliare l’appello al rinnovamento, per esprimere con forza che non si
rivolgeva solo ai singoli individui, ma alla Chiesa intera. Ricordiamo questo testo memorabile che
non ha perso la sua forza interpellante: «La Chiesa deve approfondire la coscienza di se stessa,
meditare sul mistero che le è proprio […] Deriva da questa illuminata ed operante coscienza uno

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spontaneo desiderio di confrontare l’immagine ideale della Chiesa, quale Cristo vide, volle ed
amò, come sua Sposa santa ed immacolata (Ef 5,27), e il volto reale, quale oggi la Chiesa
presenta […] Deriva perciò un bisogno generoso e quasi impaziente di rinnovamento, di
emendamento cioè dei difetti, che quella coscienza, quasi un esame interiore allo specchio del
modello che Cristo di sé ci lasciò, denuncia e rigetta».[23] Il Concilio Vaticano II ha presentato la
conversione ecclesiale come l’apertura a una permanente riforma di sé per fedeltà a Gesù Cristo:
«Ogni rinnovamento della Chiesa consiste essenzialmente in un’accresciuta fedeltà alla sua
vocazione […] La Chiesa peregrinante verso la meta è chiamata da Cristo a questa continua
riforma, di cui essa, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno».[24] Ci sono
strutture ecclesiali che possono arrivare a condizionare un dinamismo evangelizzatore;
ugualmente, le buone strutture servono quando c’è una vita che le anima, le sostiene e le giudica.
Senza vita nuova e autentico spirito evangelico, senza “fedeltà della Chiesa alla propria
vocazione”, qualsiasi nuova struttura si corrompe in poco tempo.
Un improrogabile rinnovamento ecclesiale
27. Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili,
gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per
l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture,
che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse
diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e
aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca così la
risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia. Come diceva Giovanni Paolo II
ai Vescovi dell’Oceania, «ogni rinnovamento nella Chiesa deve avere la missione come suo scopo
per non cadere preda di una specie d’introversione ecclesiale».[25]
28. La parrocchia non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità, può
assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e
della comunità. Sebbene certamente non sia l’unica istituzione evangelizzatrice, se è capace di
riformarsi e adattarsi costantemente, continuerà ad essere «la Chiesa stessa che vive in mezzo
alle case dei suoi figli e delle sue figlie».[26] Questo suppone che realmente stia in contatto con le
famiglie e con la vita del popolo e non diventi una struttura prolissa separata dalla gente o un
gruppo di eletti che guardano a se stessi. La parrocchia è presenza ecclesiale nel territorio, ambito
dell’ascolto della Parola, della crescita della vita cristiana, del dialogo, dell’annuncio, della carità
generosa, dell’adorazione e della celebrazione.[27] Attraverso tutte le sue attività, la parrocchia
incoraggia e forma i suoi membri perché siano agenti dell’evangelizzazione.[28] È comunità di
comunità, santuario dove gli assetati vanno a bere per continuare a camminare, e centro di
costante invio missionario. Però dobbiamo riconoscere che l’appello alla revisione e al
rinnovamento delle parrocchie non ha ancora dato sufficienti frutti perché siano ancora più vicine
alla gente, e siano ambiti di comunione viva e di partecipazione, e si orientino completamente
verso la missione.

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29. Le altre istituzioni ecclesiali, comunità di base e piccole comunità, movimenti e altre forme di
associazione, sono una ricchezza della Chiesa che lo Spirito suscita per evangelizzare tutti gli
ambienti e settori. Molte volte apportano un nuovo fervore evangelizzatore e una capacità di
dialogo con il mondo che rinnovano la Chiesa. Ma è molto salutare che non perdano il contatto
con questa realtà tanto ricca della parrocchia del luogo, e che si integrino con piacere nella
pastorale organica della Chiesa particolare.[29] Questa integrazione eviterà che rimangano solo
con una parte del Vangelo e della Chiesa, o che si trasformino in nomadi senza radici.
30. Ogni Chiesa particolare, porzione della Chiesa Cattolica sotto la guida del suo Vescovo, è
anch’essa chiamata alla conversione missionaria. Essa è il soggetto dell’evangelizzazione,[30] in
quanto è la manifestazione concreta dell’unica Chiesa in un luogo del mondo, e in essa «è
veramente presente e opera la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica».[31] È la
Chiesa incarnata in uno spazio determinato, provvista di tutti i mezzi di salvezza donati da Cristo,
però con un volto locale. La sua gioia di comunicare Gesù Cristo si esprime tanto nella sua
preoccupazione di annunciarlo in altri luoghi più bisognosi, quanto in una costante uscita verso le
periferie del proprio territorio o verso i nuovi ambiti socio-culturali.[32] Si impegna a stare sempre lì
dove maggiormente mancano la luce e la vita del Risorto.[33] Affinché questo impulso missionario
sia sempre più intenso, generoso e fecondo, esorto anche ciascuna Chiesa particolare ad entrare
in un deciso processo di discernimento, purificazione e riforma.
31. Il Vescovo deve sempre favorire la comunione missionaria nella sua Chiesa diocesana
perseguendo l’ideale delle prime comunità cristiane, nelle quali i credenti avevano un cuore solo e
un’anima sola (cfr At 4,32). Perciò, a volte si porrà davanti per indicare la strada e sostenere la
speranza del popolo, altre volte starà semplicemente in mezzo a tutti con la sua vicinanza
semplice e misericordiosa, e in alcune circostanze dovrà camminare dietro al popolo, per aiutare
coloro che sono rimasti indietro e – soprattutto – perché il gregge stesso possiede un suo olfatto
per individuare nuove strade. Nella sua missione di favorire una comunione dinamica, aperta e
missionaria, dovrà stimolare e ricercare la maturazione degli organismi di partecipazione proposti
dal Codice di diritto canonico[34] e di altre forme di dialogo pastorale, con il desiderio di ascoltare
tutti e non solo alcuni, sempre pronti a fargli i complimenti. Ma l’obiettivo di questi processi
partecipativi non sarà principalmente l’organizzazione ecclesiale, bensì il sogno missionario di
arrivare a tutti.
32. Dal momento che sono chiamato a vivere quanto chiedo agli altri, devo anche pensare a una
conversione del papato. A me spetta, come Vescovo di Roma, rimanere aperto ai suggerimenti
orientati ad un esercizio del mio ministero che lo renda più fedele al significato che Gesù Cristo
intese dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione. Il Papa Giovanni Paolo II chiese di
essere aiutato a trovare «una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun
modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova».[35] Siamo avanzati
poco in questo senso. Anche il papato e le strutture centrali della Chiesa universale hanno
bisogno di ascoltare l’appello ad una conversione pastorale. Il Concilio Vaticano II ha affermato

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che, in modo analogo alle antiche Chiese patriarcali, le Conferenze episcopali possono «portare
un molteplice e fecondo contributo, acciocché il senso di collegialità si realizzi
concretamente».[36] Ma questo auspicio non si è pienamente realizzato, perché ancora non si è
esplicitato sufficientemente uno statuto delle Conferenze episcopali che le concepisca come
soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale.[37]
Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica
missionaria.
33. La pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del “si è
fatto sempre così”. Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli
obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità. Una individuazione
dei fini senza un’adeguata ricerca comunitaria dei mezzi per raggiungerli è condannata a tradursi
in mera fantasia. Esorto tutti ad applicare con generosità e coraggio gli orientamenti di questo
documento, senza divieti né paure. L’importante è non camminare da soli, contare sempre sui
fratelli e specialmente sulla guida dei Vescovi, in un saggio e realistico discernimento pastorale.
III. Dal cuore del Vangelo
34. Se intendiamo porre tutto in chiave missionaria, questo vale anche per il modo di comunicare il
messaggio. Nel mondo di oggi, con la velocità delle comunicazioni e la selezione interessata dei
contenuti operata dai media, il messaggio che annunciamo corre più che mai il rischio di apparire
mutilato e ridotto ad alcuni suoi aspetti secondari. Ne deriva che alcune questioni che fanno parte
dell’insegnamento morale della Chiesa rimangono fuori del contesto che dà loro senso. Il
problema maggiore si verifica quando il messaggio che annunciamo sembra allora identificato con
tali aspetti secondari che, pur essendo rilevanti, per sé soli non manifestano il cuore del
messaggio di Gesù Cristo. Dunque, conviene essere realisti e non dare per scontato che i nostri
interlocutori conoscano lo sfondo completo di ciò che diciamo o che possano collegare il nostro
discorso con il nucleo essenziale del Vangelo che gli conferisce senso, bellezza e attrattiva.
35. Una pastorale in chiave missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una
moltitudine di dottrine che si tenta di imporre a forza di insistere. Quando si assume un obiettivo
pastorale e uno stile missionario, che realmente arrivi a tutti senza eccezioni né esclusioni,
l’annuncio si concentra sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo
stesso tempo più necessario. La proposta si semplifica, senza perdere per questo profondità e
verità, e così diventa più convincente e radiosa.
36. Tutte le verità rivelate procedono dalla stessa fonte divina e sono credute con la medesima
fede, ma alcune di esse sono più importanti per esprimere più direttamente il cuore del Vangelo.
In questo nucleo fondamentale ciò che risplende è la bellezza dell’amore salvifico di Dio
manifestato in Gesù Cristo morto e risorto. In questo senso, il Concilio Vaticano II ha affermato
che «esiste un ordine o piuttosto una “gerarchia” delle verità nella dottrina cattolica, essendo

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diverso il loro nesso col fondamento della fede cristiana».[38] Questo vale tanto per i dogmi di
fede quanto per l’insieme degli insegnamenti della Chiesa, ivi compreso l’insegnamento morale.
37. San Tommaso d’Aquino insegnava che anche nel messaggio morale della Chiesa c’è una
gerarchia, nelle virtù e negli atti che da esse procedono.[39] Qui ciò che conta è anzitutto «la fede
che si rende operosa per mezzo della carità» (Gal 5,6). Le opere di amore al prossimo sono la
manifestazione esterna più perfetta della grazia interiore dello Spirito: «L’elemento principale della
nuova legge è la grazia dello Spirito Santo, che si manifesta nella fede che agisce per mezzo
dell’amore».[40] Per questo afferma che, in quanto all’agire esteriore, la misericordia è la più
grande di tutte le virtù: «La misericordia è in se stessa la più grande delle virtù, infatti spetta ad
essa donare ad altri e, quello che più conta, sollevare le miserie altrui. Ora questo è compito
specialmente di chi è superiore, ecco perché si dice che è proprio di Dio usare misericordia, e in
questo specialmente si manifesta la sua onnipotenza».[41]
38. È importante trarre le conseguenze pastorali dall’insegnamento conciliare, che raccoglie
un’antica convinzione della Chiesa. Anzitutto bisogna dire che nell’annuncio del Vangelo è
necessario che vi sia una adeguata proporzione. Questa si riconosce nella frequenza con la quale
si menzionano alcuni temi e negli accenti che si pongono nella predicazione. Per esempio, se un
parroco durante un anno liturgico parla dieci volte sulla temperanza e solo due o tre volte sulla
carità o sulla giustizia, si produce una sproporzione, per cui quelle che vengono oscurate sono
precisamente quelle virtù che dovrebbero essere più presenti nella predicazione e nella catechesi.
Lo stesso succede quando si parla più della legge che della grazia, più della Chiesa che di Gesù
Cristo, più del Papa che della Parola di Dio.
39. Così come l’organicità tra le virtù impedisce di escludere qualcuna di esse dall’ideale cristiano,
nessuna verità è negata. Non bisogna mutilare l’integralità del messaggio del Vangelo. Inoltre,
ogni verità si comprende meglio se la si mette in relazione con l’armoniosa totalità del messaggio
cristiano, e in questo contesto tutte le verità hanno la loro importanza e si illuminano
reciprocamente. Quando la predicazione è fedele al Vangelo, si manifesta con chiarezza la
centralità di alcune verità e risulta chiaro che la predicazione morale cristiana non è un’etica
stoica, è più che un’ascesi, non è una mera filosofia pratica né un catalogo di peccati ed errori. Il
Vangelo invita prima di tutto a rispondere al Dio che ci ama e che ci salva, riconoscendolo negli
altri e uscendo da sé stessi per cercare il bene di tutti. Quest’invito non va oscurato in nessuna
circostanza! Tutte le virtù sono al servizio di questa risposta di amore. Se tale invito non risplende
con forza e attrattiva, l’edificio morale della Chiesa corre il rischio di diventare un castello di carte,
e questo è il nostro peggior pericolo. Poiché allora non sarà propriamente il Vangelo ciò che si
annuncia, ma alcuni accenti dottrinali o morali che procedono da determinate opzioni ideologiche.
Il messaggio correrà il rischio di perdere la sua freschezza e di non avere più “il profumo del
Vangelo”.
IV. La missione che si incarna nei limiti umani

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40. La Chiesa, che è discepola missionaria, ha bisogno di crescere nella sua interpretazione della
Parola rivelata e nella sua comprensione della verità. Il compito degli esegeti e dei teologi aiuta a
maturare «il giudizio della Chiesa».[42] In altro modo lo fanno anche le altre scienze. Riferendosi
alle scienze sociali, per esempio, Giovanni Paolo II ha detto che la Chiesa presta attenzione ai
suoi contributi «per ricavare indicazioni concrete che la aiutino a svolgere la sua missione di
Magistero».[43] Inoltre, in seno alla Chiesa vi sono innumerevoli questioni intorno alle quali si
ricerca e si riflette con grande libertà. Le diverse linee di pensiero filosofico, teologico e pastorale,
se si lasciano armonizzare dallo Spirito nel rispetto e nell’amore, possono far crescere la Chiesa,
in quanto aiutano ad esplicitare meglio il ricchissimo tesoro della Parola. A quanti sognano una
dottrina monolitica difesa da tutti senza sfumature, ciò può sembrare un’imperfetta dispersione.
Ma la realtà è che tale varietà aiuta a manifestare e a sviluppare meglio i diversi aspetti
dell’inesauribile ricchezza del Vangelo.[44]
41. Allo stesso tempo, gli enormi e rapidi cambiamenti culturali richiedono che prestiamo una
costante attenzione per cercare di esprimere le verità di sempre in un linguaggio che consenta di
riconoscere la sua permanente novità. Poiché, nel deposito della dottrina cristiana «una cosa è la
sostanza […] e un’altra la maniera di formulare la sua espressione».[45] A volte, ascoltando un
linguaggio completamente ortodosso, quello che i fedeli ricevono, a causa del linguaggio che essi
utilizzano e comprendono, è qualcosa che non corrisponde al vero Vangelo di Gesù Cristo. Con la
santa intenzione di comunicare loro la verità su Dio e sull’essere umano, in alcune occasioni
diamo loro un falso dio o un ideale umano che non è veramente cristiano. In tal modo, siamo
fedeli a una formulazione ma non trasmettiamo la sostanza. Questo è il rischio più grave.
Ricordiamo che «l’espressione della verità può essere multiforme, e il rinnovamento delle forme di
espressione si rende necessario per trasmettere all’uomo di oggi il messaggio evangelico nel suo
immutabile significato».[46]
42. Questo ha una grande rilevanza nell’annuncio del Vangelo, se veramente abbiamo a cuore di
far percepire meglio la sua bellezza e di farla accogliere da tutti. Ad ogni modo, non potremo mai
rendere gli insegnamenti della Chiesa qualcosa di facilmente comprensibile e felicemente
apprezzato da tutti. La fede conserva sempre un aspetto di croce, qualche oscurità che non toglie
fermezza alla sua adesione. Vi sono cose che si comprendono e si apprezzano solo a partire da
questa adesione che è sorella dell’amore, al di là della chiarezza con cui se ne possano cogliere
le ragioni e gli argomenti. Per questo occorre ricordare che ogni insegnamento della dottrina deve
situarsi nell’atteggiamento evangelizzatore che risvegli l’adesione del cuore con la vicinanza,
l’amore e la testimonianza.
43. Nel suo costante discernimento, la Chiesa può anche giungere a riconoscere consuetudini
proprie non direttamente legate al nucleo del Vangelo, alcune molto radicate nel corso della storia,
che oggi ormai non sono più interpretate allo stesso modo e il cui messaggio non è di solito
percepito adeguatamente. Possono essere belle, però ora non rendono lo stesso servizio in
ordine alla trasmissione del Vangelo. Non abbiamo paura di rivederle. Allo stesso modo, ci sono

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norme o precetti ecclesiali che possono essere stati molto efficaci in altre epoche, ma che non
hanno più la stessa forza educativa come canali di vita. San Tommaso d’Aquino sottolineava che i
precetti dati da Cristo e dagli Apostoli al popolo di Dio «sono pochissimi».[47] Citando
sant’Agostino, notava che i precetti aggiunti dalla Chiesa posteriormente si devono esigere con
moderazione «per non appesantire la vita ai fedeli» e trasformare la nostra religione in una
schiavitù, quando «la misericordia di Dio ha voluto che fosse libera».[48] Questo avvertimento,
fatto diversi secoli fa, ha una tremenda attualità. Dovrebbe essere uno dei criteri da considerare al
momento di pensare una riforma della Chiesa e della sua predicazione che permetta realmente di
giungere a tutti.
44. D’altra parte, tanto i Pastori come tutti i fedeli che accompagnano i loro fratelli nella fede o in
un cammino di apertura a Dio, non possono dimenticare ciò che con tanta chiarezza insegna il
Catechismo della Chiesa Cattolica: «L’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere
sminuite o annullate dall’ignoranza, dall’inavvertenza, dalla violenza, dal timore, dalle abitudini,
dagli affetti smodati e da altri fattori psichici oppure sociali».[49]
Pertanto, senza sminuire il valore dell’ideale evangelico, bisogna accompagnare con misericordia
e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo giorno per
giorno.[50] Ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il
luogo della misericordia del Signore che ci stimola a fare il bene possibile. Un piccolo passo, in
mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi
trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà. A tutti deve giungere la consolazione
e lo stimolo dell’amore salvifico di Dio, che opera misteriosamente in ogni persona, al di là dei suoi
difetti e delle sue cadute.
45. Vediamo così che l’impegno evangelizzatore si muove tra i limiti del linguaggio e delle
circostanze. Esso cerca sempre di comunicare meglio la verità del Vangelo in un contesto
determinato, senza rinunciare alla verità, al bene e alla luce che può apportare quando la
perfezione non è possibile. Un cuore missionario è consapevole di questi limiti e si fa «debole con
i deboli […] tutto per tutti» (1 Cor 9,22). Mai si chiude, mai si ripiega sulle proprie sicurezze, mai
opta per la rigidità autodifensiva. Sa che egli stesso deve crescere nella comprensione del
Vangelo e nel discernimento dei sentieri dello Spirito, e allora non rinuncia al bene possibile,
benché corra il rischio di sporcarsi con il fango della strada.
V. Una madre dal cuore aperto
46. La Chiesa “in uscita” è una Chiesa con le porte aperte. Uscire verso gli altri per giungere alle
periferie umane non vuol dire correre verso il mondo senza una direzione e senza senso. Molte
volte è meglio rallentare il passo, mettere da parte l’ansietà per guardare negli occhi e ascoltare, o
rinunciare alle urgenze per accompagnare chi è rimasto al bordo della strada. A volte è come il
padre del figlio prodigo, che rimane con le porte aperte perché quando ritornerà possa entrare

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senza difficoltà.
47. La Chiesa è chiamata ad essere sempre la casa aperta del Padre. Uno dei segni concreti di
questa apertura è avere dappertutto chiese con le porte aperte. Così che, se qualcuno vuole
seguire una mozione dello Spirito e si avvicina cercando Dio, non si incontrerà con la freddezza di
una porta chiusa. Ma ci sono altre porte che neppure si devono chiudere. Tutti possono
partecipare in qualche modo alla vita ecclesiale, tutti possono far parte della comunità, e
nemmeno le porte dei Sacramenti si dovrebbero chiudere per una ragione qualsiasi. Questo vale
soprattutto quando si tratta di quel sacramento che è “la porta”, il Battesimo. L’Eucaristia, sebbene
costituisca la pienezza della vita sacramentale, non è un premio per i perfetti ma un generoso
rimedio e un alimento per i deboli.[51] Queste convinzioni hanno anche conseguenze pastorali
che siamo chiamati a considerare con prudenza e audacia. Di frequente ci comportiamo come
controllori della grazia e non come facilitatori. Ma la Chiesa non è una dogana, è la casa paterna
dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa.
48. Se la Chiesa intera assume questo dinamismo missionario deve arrivare a tutti, senza
eccezioni. Però chi dovrebbe privilegiare? Quando uno legge il Vangelo incontra un orientamento
molto chiaro: non tanto gli amici e vicini ricchi bensì soprattutto i poveri e gli infermi, coloro che
spesso sono disprezzati e dimenticati, «coloro che non hanno da ricambiarti» (Lc 14,14). Non
devono restare dubbi né sussistono spiegazioni che indeboliscano questo messaggio tanto chiaro.
Oggi e sempre, «i poveri sono i destinatari privilegiati del Vangelo»,[52] e l’evangelizzazione
rivolta gratuitamente ad essi è segno del Regno che Gesù è venuto a portare. Occorre affermare
senza giri di parole che esiste un vincolo inseparabile tra la nostra fede e i poveri. Non lasciamoli
mai soli.
49. Usciamo, usciamo ad offrire a tutti la vita di Gesù Cristo. Ripeto qui per tutta la Chiesa ciò che
molte volte ho detto ai sacerdoti e laici di Buenos Aires: preferisco una Chiesa accidentata, ferita e
sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la
comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il
centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti. Se qualcosa deve
santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la
forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li
accolga, senza un orizzonte di senso e di vita. Più della paura di sbagliare spero che ci muova la
paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci
trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una
moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: «Voi stessi date loro da mangiare» (Mc 6,37).
CAPITOLO SECONDO
NELLA CRISI DELL'IMPEGNO COMUNITARIO
50. Prima di parlare di alcune questioni fondamentali relative all’azione evangelizzatrice, conviene

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ricordare brevemente qual è il contesto nel quale ci tocca vivere ed operare. Oggi si suole parlare
di un “eccesso diagnostico”, che non sempre è accompagnato da proposte risolutive e realmente
applicabili. D’altra parte, neppure ci servirebbe uno sguardo puramente sociologico, che abbia la
pretesa di abbracciare tutta la realtà con la sua metodologia in una maniera solo ipoteticamente
neutra ed asettica. Ciò che intendo offrire va piuttosto nella linea di un discernimento evangelico.
È lo sguardo del discepolo missionario che «si nutre della luce e della forza dello Spirito
Santo».[53]
51. Non è compito del Papa offrire un’analisi dettagliata e completa sulla realtà contemporanea,
ma esorto tutte le comunità ad avere una «sempre vigile capacità di studiare i segni dei
tempi».[54] Si tratta di una responsabilità grave, giacché alcune realtà del presente, se non
trovano buone soluzioni, possono innescare processi di disumanizzazione da cui è poi difficile
tornare indietro. È opportuno chiarire ciò che può essere un frutto del Regno e anche ciò che
nuoce al progetto di Dio. Questo implica non solo riconoscere e interpretare le mozioni dello spirito
buono e dello spirito cattivo, ma – e qui sta la cosa decisiva – scegliere quelle dello spirito buono e
respingere quelle dello spirito cattivo. Do per presupposte le diverse analisi che hanno offerto gli
altri documenti del Magistero universale, così come quelle proposte dagli Episcopati regionali e
nazionali. In questa Esortazione intendo solo soffermarmi brevemente, con uno sguardo
pastorale, su alcuni aspetti della realtà che possono arrestare o indebolire le dinamiche del
rinnovamento missionario della Chiesa, sia perché riguardano la vita e la dignità del popolo di Dio,
sia perché incidono anche sui soggetti che in modo più diretto fanno parte delle istituzioni
ecclesiali e svolgono compiti di evangelizzazione.
I. Alcune sfide del mondo attuale
52. L’umanità vive in questo momento una svolta storica che possiamo vedere nei progressi che si
producono in diversi campi. Si devono lodare i successi che contribuiscono al benessere delle
persone, per esempio nell’ambito della salute, dell’educazione e della comunicazione. Non
possiamo tuttavia dimenticare che la maggior parte degli uomini e delle donne del nostro tempo
vivono una quotidiana precarietà, con conseguenze funeste. Aumentano alcune patologie. Il
timore e la disperazione si impadroniscono del cuore di numerose persone, persino nei cosiddetti
paesi ricchi. La gioia di vivere frequentemente si spegne, crescono la mancanza di rispetto e la
violenza, l’inequità diventa sempre più evidente. Bisogna lottare per vivere e, spesso, per vivere
con poca dignità. Questo cambiamento epocale è stato causato dai balzi enormi che, per qualità,
quantità, velocità e accumulazione, si verificano nel progresso scientifico, nelle innovazioni
tecnologiche e nelle loro rapide applicazioni in diversi ambiti della natura e della vita. Siamo
nell’era della conoscenza e dell’informazione, fonte di nuove forme di un potere molto spesso
anonimo.
No a un’economia dell’esclusione

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53. Così come il comandamento “non uccidere” pone un limite chiaro per assicurare il valore della
vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e della inequità”. Questa
economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano
ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione. Non
si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questo è
inequità. Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente
mangia il più debole. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si
vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. Si considera
l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo
dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più
semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con
l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal
momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori.
Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”.
54. In questo contesto, alcuni ancora difendono le teorie della “ricaduta favorevole”, che
presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per
sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata
confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che
detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante.
Nel frattempo, gli esclusi continuano ad aspettare. Per poter sostenere uno stile di vita che
esclude gli altri, o per potersi entusiasmare con questo ideale egoistico, si è sviluppata una
globalizzazione dell’indifferenza. Quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare
compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti al dramma degli altri
né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci
compete. La cultura del benessere ci anestetizza e perdiamo la calma se il mercato offre qualcosa
che non abbiamo ancora comprato, mentre tutte queste vite stroncate per mancanza di possibilità
ci sembrano un mero spettacolo che non ci turba in alcun modo.
No alla nuova idolatria del denaro
55. Una delle cause di questa situazione si trova nella relazione che abbiamo stabilito con il
denaro, poiché accettiamo pacificamente il suo predomino su di noi e sulle nostre società. La crisi
finanziaria che attraversiamo ci fa dimenticare che alla sua origine vi è una profonda crisi
antropologica: la negazione del primato dell’essere umano! Abbiamo creato nuovi idoli.
L’adorazione dell’antico vitello d’oro (cfr Es 32,1-35) ha trovato una nuova e spietata versione nel
feticismo del denaro e nella dittatura di una economia senza volto e senza uno scopo veramente
umano. La crisi mondiale che investe la finanza e l’economia manifesta i propri squilibri e,
soprattutto, la grave mancanza di un orientamento antropologico che riduce l’essere umano ad
uno solo dei suoi bisogni: il consumo.

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56. Mentre i guadagni di pochi crescono esponenzialmente, quelli della maggioranza si collocano
sempre più distanti dal benessere di questa minoranza felice. Tale squilibrio procede da ideologie
che difendono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria. Perciò negano il
diritto di controllo degli Stati, incaricati di vigilare per la tutela del bene comune. Si instaura una
nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone, in modo unilaterale e implacabile, le sue
leggi e le sue regole. Inoltre, il debito e i suoi interessi allontanano i Paesi dalle possibilità
praticabili della loro economia e i cittadini dal loro reale potere d’acquisto. A tutto ciò si aggiunge
una corruzione ramificata e un’evasione fiscale egoista, che hanno assunto dimensioni mondiali.
La brama del potere e dell’avere non conosce limiti. In questo sistema, che tende a fagocitare
tutto al fine di accrescere i benefici, qualunque cosa che sia fragile, come l’ambiente, rimane
indifesa rispetto agli interessi del mercato divinizzato, trasformati in regola assoluta.
No a un denaro che governa invece di servire
57. Dietro questo atteggiamento si nascondono il rifiuto dell’etica e il rifiuto di Dio. All’etica si
guarda di solito con un certo disprezzo beffardo. La si considera controproducente, troppo umana,
perché relativizza il denaro e il potere. La si avverte come una minaccia, poiché condanna la
manipolazione e la degradazione della persona. In definitiva, l’etica rimanda a un Dio che attende
una risposta impegnativa, che si pone al di fuori delle categorie del mercato. Per queste, se
assolutizzate, Dio è incontrollabile, non manipolabile, persino pericoloso, in quanto chiama
l’essere umano alla sua piena realizzazione e all’indipendenza da qualunque tipo di schiavitù.
L’etica – un’etica non ideologizzata – consente di creare un equilibrio e un ordine sociale più
umano. In tal senso, esorto gli esperti finanziari e i governanti dei vari Paesi a considerare le
parole di un saggio dell’antichità: « Non condividere i propri beni con i poveri significa derubarli e
privarli della vita. I beni che possediamo non sono nostri, ma loro ».[55]
58. Una riforma finanziaria che non ignori l’etica richiederebbe un vigoroso cambio di
atteggiamento da parte dei dirigenti politici, che esorto ad affrontare questa sfida con
determinazione e con lungimiranza, senza ignorare, naturalmente, la specificità di ogni contesto. Il
denaro deve servire e non governare! Il Papa ama tutti, ricchi e poveri, ma ha l’obbligo, in nome di
Cristo, di ricordare che i ricchi devono aiutare i poveri, rispettarli e promuoverli. Vi esorto alla
solidarietà disinteressata e ad un ritorno dell’economia e della finanza ad un’etica in favore
dell’essere umano.
No all’inequità che genera violenza
59. Oggi da molte parti si reclama maggiore sicurezza. Ma fino a quando non si eliminano
l’esclusione e l’inequità nella società e tra i diversi popoli sarà impossibile sradicare la violenza. Si
accusano della violenza i poveri e le popolazioni più povere, ma, senza uguaglianza di
opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che prima o
poi provocherà l’esplosione. Quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella

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periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence
che possano assicurare illimitatamente la tranquillità. Ciò non accade soltanto perché l’inequità
provoca la reazione violenta di quanti sono esclusi dal sistema, bensì perché il sistema sociale ed
economico è ingiusto alla radice. Come il bene tende a comunicarsi, così il male a cui si
acconsente, cioè l’ingiustizia, tende ad espandere la sua forza nociva e a scardinare
silenziosamente le basi di qualsiasi sistema politico e sociale, per quanto solido possa apparire.
Se ogni azione ha delle conseguenze, un male annidato nelle strutture di una società contiene
sempre un potenziale di dissoluzione e di morte. È il male cristallizzato nelle strutture sociali
ingiuste, a partire dal quale non ci si può attendere un futuro migliore. Siamo lontani dalla
cosiddetta “fine della storia”, giacché le condizioni di uno sviluppo sostenibile e pacifico non sono
ancora adeguatamente impiantate e realizzate.
60. I meccanismi dell’economia attuale promuovono un’esasperazione del consumo, ma risulta
che il consumismo sfrenato, unito all’inequità, danneggia doppiamente il tessuto sociale. In tal
modo la disparità sociale genera prima o poi una violenza che la corsa agli armamenti non risolve
né risolverà mai. Essa serve solo a cercare di ingannare coloro che reclamano maggiore
sicurezza, come se oggi non sapessimo che le armi e la repressione violenta, invece di apportare
soluzioni, creano nuovi e peggiori conflitti. Alcuni semplicemente si compiacciono incolpando i
poveri e i paesi poveri dei propri mali, con indebite generalizzazioni, e pretendono di trovare la
soluzione in una “educazione” che li tranquillizzi e li trasformi in esseri addomesticati e inoffensivi.
Questo diventa ancora più irritante se gli esclusi vedono crescere questo cancro sociale che è la
corruzione profondamente radicata in molti Paesi – nei governi, nell’imprenditoria e nelle istituzioni
– qualunque sia l’ideologia politica dei governanti.
Alcune sfide culturali
61. Evangelizziamo anche quando cerchiamo di affrontare le diverse sfide che possano
presentarsi.[56] A volte queste si manifestano in autentici attacchi alla libertà religiosa o in nuove
situazioni di persecuzione dei cristiani, le quali, in alcuni Paesi, hanno raggiunto livelli allarmanti di
odio e di violenza. In molti luoghi si tratta piuttosto di una diffusa indifferenza relativista, connessa
con la disillusione e la crisi delle ideologie verificatasi come reazione a tutto ciò che appare
totalitario. Ciò non danneggia solo la Chiesa, ma la vita sociale in genere. Riconosciamo che una
cultura, in cui ciascuno vuole essere portatore di una propria verità soggettiva, rende difficile che i
cittadini desiderino partecipare ad un progetto comune che vada oltre gli interessi e i desideri
personali.
62. Nella cultura dominante, il primo posto è occupato da ciò che è esteriore, immediato, visibile,
veloce, superficiale, provvisorio. Il reale cede il posto all’apparenza. In molti Paesi, la
globalizzazione ha comportato un accelerato deterioramento delle radici culturali con l’invasione di
tendenze appartenenti ad altre culture, economicamente sviluppate ma eticamente indebolite.
Così si sono espressi in diversi Sinodi i Vescovi di vari continenti. I Vescovi africani, ad esempio,

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riprendendo l’Enciclica Sollicitudo rei socialis, alcuni anni fa hanno segnalato che molte volte si
vuole trasformare i Paesi dell’Africa in semplici «pezzi di un meccanismo, parti di un ingranaggio
gigantesco. Ciò si verifica spesso anche nel campo dei mezzi di comunicazione sociale, i quali,
essendo per lo più gestiti da centri del Nord del mondo, non sempre tengono in debita
considerazione le priorità e i problemi propri di questi paesi né rispettano la loro fisionomia
culturale».[57] Allo stesso modo, i Vescovi dell’Asia hanno sottolineato «le influenze che
dall’esterno vengono esercitate sulle culture asiatiche. Stanno emergendo nuove forme di
comportamento che sono il risultato di una eccessiva esposizione ai mezzi di comunicazione [...]
Conseguenza di ciò è che gli aspetti negativi delle industrie dei media e dell’intrattenimento
minacciano i valori tradizionali».[58]
63. La fede cattolica di molti popoli si trova oggi di fronte alla sfida della proliferazione di nuovi
movimenti religiosi, alcuni tendenti al fondamentalismo ed altri che sembrano proporre una
spiritualità senza Dio. Questo è, da un lato, il risultato di una reazione umana di fronte alla società
materialista, consumista e individualista e, dall’altro, un approfittare delle carenze della
popolazione che vive nelle periferie e nelle zone impoverite, che sopravvive in mezzo a grandi
dolori umani e cerca soluzioni immediate per le proprie necessità. Questi movimenti religiosi, che
si caratterizzano per la loro sottile penetrazione, vengono a colmare, all’interno dell’individualismo
imperante, un vuoto lasciato dal razionalismo secolarista. Inoltre, è necessario che riconosciamo
che, se parte della nostra gente battezzata non sperimenta la propria appartenenza alla Chiesa,
ciò si deve anche ad alcune strutture e ad un clima poco accoglienti in alcune delle nostre
parrocchie e comunità, o a un atteggiamento burocratico per rispondere ai problemi, semplici o
complessi, della vita dei nostri popoli. In molte parti c’è un predominio dell’aspetto amministrativo
su quello pastorale, come pure una sacramentalizzazione senza altre forme di evangelizzazione.
64. Il processo di secolarizzazione tende a ridurre la fede e la Chiesa all’ambito privato e intimo.
Inoltre, con la negazione di ogni trascendenza, ha prodotto una crescente deformazione etica, un
indebolimento del senso del peccato personale e sociale e un progressivo aumento del
relativismo, che danno luogo ad un disorientamento generalizzato, specialmente nella fase
dell’adolescenza e della giovinezza, tanto vulnerabile dai cambiamenti. Come bene osservano i
Vescovi degli Stati Uniti d’America, mentre la Chiesa insiste sull’esistenza di norme morali
oggettive, valide per tutti, «ci sono coloro che presentano questo insegnamento, come ingiusto,
ossia opposto ai diritti umani basilari. Tali argomentazioni scaturiscono solitamente da una forma
di relativismo morale, che si unisce, non senza inconsistenza, a una fiducia nei diritti assoluti degli
individui. In quest’ottica, si percepisce la Chiesa come se promuovesse un pregiudizio particolare
e come se interferisse con la libertà individuale».[59] Viviamo in una società dell’informazione che
ci satura indiscriminatamente di dati, tutti allo stesso livello, e finisce per portarci ad una tremenda
superficialità al momento di impostare le questioni morali. Di conseguenza, si rende necessaria
un’educazione che insegni a pensare criticamente e che offra un percorso di maturazione nei
valori.

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65. Nonostante tutta la corrente secolarista che invade le società, in molti Paesi – anche dove il
cristianesimo è in minoranza – la Chiesa Cattolica è un’istituzione credibile davanti all’opinione
pubblica, affidabile per quanto concerne l’ambito della solidarietà e della preoccupazione per i più
indigenti. In ripetute occasioni, essa ha servito come mediatrice per favorire la soluzione di
problemi che riguardano la pace, la concordia, l’ambiente, la difesa della vita, i diritti umani e civili,
ecc. E quanto grande è il contributo delle scuole e delle università cattoliche nel mondo intero! È
molto positivo che sia così. Però ci costa mostrare che, quando poniamo sul tappeto altre
questioni che suscitano minore accoglienza pubblica, lo facciamo per fedeltà alle medesime
convinzioni sulla dignità della persona umana e il bene comune.
66. La famiglia attraversa una crisi culturale profonda, come tutte le comunità e i legami sociali.
Nel caso della famiglia, la fragilità dei legami diventa particolarmente grave perché si tratta della
cellula fondamentale della società, del luogo dove si impara a convivere nella differenza e ad
appartenere ad altri e dove i genitori trasmettono la fede ai figli. Il matrimonio tende ad essere
visto come una mera forma di gratificazione affettiva che può costituirsi in qualsiasi modo e
modificarsi secondo la sensibilità di ognuno. Ma il contributo indispensabile del matrimonio alla
società supera il livello dell’emotività e delle necessità contingenti della coppia. Come insegnano i
Vescovi francesi, non nasce «dal sentimento amoroso, effimero per definizione, ma dalla
profondità dell’impegno assunto dagli sposi che accettano di entrare in una comunione di vita
totale».[60]
67. L’individualismo postmoderno e globalizzato favorisce uno stile di vita che indebolisce lo
sviluppo e la stabilità dei legami tra le persone, e che snatura i vincoli familiari. L’azione pastorale
deve mostrare ancora meglio che la relazione con il nostro Padre esige e incoraggia una
comunione che guarisca, promuova e rafforzi i legami interpersonali. Mentre nel mondo,
specialmente in alcuni Paesi, riappaiono diverse forme di guerre e scontri, noi cristiani insistiamo
nella proposta di riconoscere l’altro, di sanare le ferite, di costruire ponti, stringere relazioni e
aiutarci «a portare i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2). D’altra parte, oggi nascono molte forme di
associazione per la difesa di diritti e per il raggiungimento di nobili obiettivi. In tal modo si
manifesta una sete di partecipazione di numerosi cittadini che vogliono essere costruttori del
progresso sociale e culturale.
Sfide dell’inculturazione della fede
68. Il sostrato cristiano di alcuni popoli – soprattutto occidentali – è una realtà viva. Qui troviamo,
specialmente tra i più bisognosi, una riserva morale che custodisce valori di autentico umanesimo
cristiano. Uno sguardo di fede sulla realtà non può dimenticare di riconoscere ciò che semina lo
Spirito Santo. Significherebbe non avere fiducia nella sua azione libera e generosa pensare che
non ci sono autentici valori cristiani là dove una gran parte della popolazione ha ricevuto il
Battesimo ed esprime la sua fede e la sua solidarietà fraterna in molteplici modi. Qui bisogna
riconoscere molto più che dei “semi del Verbo”, poiché si tratta di un’autentica fede cattolica con

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modalità proprie di espressione e di appartenenza alla Chiesa. Non è bene ignorare la decisiva
importanza che riveste una cultura segnata dalla fede, perché questa cultura evangelizzata, al di
là dei suoi limiti, ha molte più risorse di una semplice somma di credenti posti dinanzi agli attacchi
del secolarismo attuale. Una cultura popolare evangelizzata contiene valori di fede e di solidarietà
che possono provocare lo sviluppo di una società più giusta e credente, e possiede una sapienza
peculiare che bisogna saper riconoscere con uno sguardo colmo di gratitudine.
69. È imperioso il bisogno di evangelizzare le culture per inculturare il Vangelo. Nei Paesi di
tradizione cattolica si tratterà di accompagnare, curare e rafforzare la ricchezza che già esiste, e
nei Paesi di altre tradizioni religiose o profondamente secolarizzati si tratterà di favorire nuovi
processi di evangelizzazione della cultura, benché presuppongano progetti a lunghissimo termine.
Non possiamo, tuttavia, ignorare che sempre c’è un appello alla crescita. Ogni cultura e ogni
gruppo sociale necessita di purificazione e maturazione. Nel caso di culture popolari di popolazioni
cattoliche, possiamo riconoscere alcune debolezze che devono ancora essere sanate dal
Vangelo: il maschilismo, l’alcolismo, la violenza domestica, una scarsa partecipazione
all’Eucaristia, credenze fataliste o superstiziose che fanno ricorrere alla stregoneria, eccetera. Ma
è proprio la pietà popolare il miglior punto di partenza per sanarle e liberarle.
70. È anche vero che a volte l’accento, più che sull’impulso della pietà cristiana, si pone su forme
esteriori di tradizioni di alcuni gruppi, o in ipotetiche rivelazioni private che si assolutizzano. Esiste
un certo cristianesimo fatto di devozioni, proprio di un modo individuale e sentimentale di vivere la
fede, che in realtà non corrisponde
ad un’autentica “pietà popolare”. Alcuni promuovono queste espressioni senza preoccuparsi della
promozione sociale e della formazione dei fedeli, e in certi casi lo fanno per ottenere benefici
economici o qualche potere sugli altri. Nemmeno possiamo ignorare che, negli ultimi decenni, si è
prodotta una rottura nella trasmissione generazionale della fede cristiana nel popolo cattolico. È
innegabile che molti si sentono delusi e cessano di identificarsi con la tradizione cattolica, che
aumentano i genitori che non battezzano i figli e non insegnano loro a pregare, e che c’è un certo
esodo verso altre comunità di fede. Alcune cause di questa rottura sono: la mancanza di spazi di
dialogo in famiglia, l’influsso dei mezzi di comunicazione, il soggettivismo relativista, il
consumismo sfrenato che stimola il mercato, la mancanza di accompagnamento pastorale dei più
poveri, l’assenza di un’accoglienza cordiale nelle nostre istituzioni e la nostra difficoltà di ricreare
l’adesione mistica della fede in uno scenario religioso plurale.
Sfide delle culture urbane
71. La nuova Gerusalemme, la Città santa (cfr Ap 21,2-4), è la meta verso cui è incamminata
l’intera umanità. È interessante che la rivelazione ci dica che la pienezza dell’umanità e della
storia si realizza in una città. Abbiamo bisogno di riconoscere la città a partire da uno sguardo
contemplativo, ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue
strade, nelle sue piazze. La presenza di Dio accompagna la ricerca sincera che persone e gruppi

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compiono per trovare appoggio e senso alla loro vita. Egli vive tra i cittadini promuovendo la
solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia. Questa presenza non deve
essere fabbricata, ma scoperta, svelata. Dio non si nasconde a coloro che lo cercano con cuore
sincero, sebbene lo facciano a tentoni, in modo impreciso e diffuso.
72. Nella città, l’aspetto religioso è mediato da diversi stili di vita, da costumi associati a un senso
del tempo, del territorio e delle relazioni che differisce dallo stile delle popolazioni rurali. Nella vita
di ogni giorno i cittadini molte volte lottano per sopravvivere e, in questa lotta, si cela un senso
profondo dell’esistenza che di solito implica anche un profondo senso religioso. Dobbiamo
contemplarlo per ottenere un dialogo come quello che il Signore realizzò con la Samaritana,
presso il pozzo, dove lei cercava di saziare la sua sete (cfr Gv 4,7-26).
73. Nuove culture continuano a generarsi in queste enormi geografie umane dove il cristiano non
suole più essere promotore o generatore di senso, ma che riceve da esse altri linguaggi, simboli,
messaggi e paradigmi che offrono nuovi orientamenti di vita, spesso in contrasto con il Vangelo di
Gesù. Una cultura inedita palpita e si progetta nella città. Il Sinodo ha constatato che oggi le
trasformazioni di queste grandi aree e la cultura che esprimono sono un luogo privilegiato della
nuova evangelizzazione.[61] Ciò richiede di immaginare spazi di preghiera e di comunione con
caratteristiche innovative, più attraenti e significative per le popolazioni urbane. Gli ambienti rurali,
a causa dell’influsso dei mezzi di comunicazione di massa, non sono estranei a queste
trasformazioni culturali che operano anche mutamenti significativi nei loro modi di vivere.
74. Si rende necessaria un’evangelizzazione che illumini i nuovi modi di relazionarsi con Dio, con
gli altri e con l’ambiente, e che susciti i valori fondamentali. È necessario arrivare là dove si
formano i nuovi racconti e paradigmi, raggiungere con la Parola di Gesù i nuclei più profondi
dell’anima delle città. Non bisogna dimenticare che la città è un ambito multiculturale. Nelle grandi
città si può osservare un tessuto connettivo in cui gruppi di persone condividono le medesime
modalità di sognare la vita e immaginari simili e si costituiscono in nuovi settori umani, in territori
culturali, in città invisibili. Svariate forme culturali convivono di fatto, ma esercitano molte volte
pratiche di segregazione e di violenza. La Chiesa è chiamata a porsi al servizio di un dialogo
difficile. D’altra parte, vi sono cittadini che ottengono i mezzi adeguati per lo sviluppo della vita
personale e familiare, però sono moltissimi i “non cittadini”, i “cittadini a metà” o gli “avanzi urbani”.
La città produce una sorta di permanente ambivalenza, perché, mentre offre ai suoi cittadini
infinite possibilità, appaiono anche numerose difficoltà per il pieno sviluppo della vita di molti.
Questa contraddizione provoca sofferenze laceranti. In molte parti del mondo, le città sono scenari
di proteste di massa dove migliaia di abitanti reclamano libertà, partecipazione, giustizia e varie
rivendicazioni che, se non vengono adeguatamente interpretate, non si potranno mettere a tacere
con la forza.
75. Non possiamo ignorare che nelle città facilmente si incrementano il traffico di droga e di
persone, l’abuso e lo sfruttamento di minori, l’abbandono di anziani e malati, varie forme di

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corruzione e di criminalità. Al tempo stesso, quello che potrebbe essere un prezioso spazio di
incontro e di solidarietà, spesso si trasforma nel luogo della fuga e della sfiducia reciproca. Le
case e i quartieri si costruiscono più per isolare e proteggere che per collegare e integrare. La
proclamazione del Vangelo sarà una base per ristabilire la dignità della vita umana in questi
contesti, perché Gesù vuole spargere nelle città vita in abbondanza (cfr Gv 10,10). Il senso
unitario e completo della vita umana che il Vangelo propone è il miglior rimedio ai mali della città,
sebbene dobbiamo considerare che un programma e uno stile uniforme e rigido di
evangelizzazione non sono adatti per questa realtà. Ma vivere fino in fondo ciò che è umano e
introdursi nel cuore delle sfide come fermento di testimonianza, in qualsiasi cultura, in qualsiasi
città, migliora il cristiano e feconda la città.
II. Tentazioni degli operatori pastorali
76. Sento una gratitudine immensa per l’impegno di tutti coloro che lavorano nella Chiesa. Non
voglio soffermarmi ora ad esporre le attività dei diversi operatori pastorali, dai vescovi fino al più
umile e nascosto dei servizi ecclesiali. Mi piacerebbe piuttosto riflettere sulle sfide che tutti loro
devono affrontare nel contesto dell’attuale cultura globalizzata. Però, devo dire in primo luogo e
come dovere di giustizia, che l’apporto della Chiesa nel mondo attuale è enorme. Il nostro dolore e
la nostra vergogna per i peccati di alcuni membri della Chiesa, e per i propri, non devono far
dimenticare quanti cristiani danno la vita per amore: aiutano tanta gente a curarsi o a morire in
pace in precari ospedali, o accompagnano le persone rese schiave da diverse dipendenze nei
luoghi più poveri della Terra, o si prodigano nell’educazione di bambini e giovani, o si prendono
cura di anziani abbandonati da tutti, o cercano di comunicare valori in ambienti ostili, o si dedicano
in molti altri modi, che mostrano l’immenso amore per l’umanità ispiratoci dal Dio fatto uomo.
Ringrazio per il bell’esempio che mi danno tanti cristiani che offrono la loro vita e il loro tempo con
gioia. Questa testimonianza mi fa tanto bene e mi sostiene nella mia personale aspirazione a
superare l’egoismo per spendermi di più.
77. Ciononostante, come figli di questa epoca, tutti siamo in qualche modo sotto l’influsso della
cultura attuale globalizzata, che, pur presentandoci valori e nuove possibilità, può anche limitarci,
condizionarci e persino farci ammalare. Riconosco che abbiamo bisogno di creare spazi adatti a
motivare e risanare gli operatori pastorali, «luoghi in cui rigenerare la propria fede in Gesù
crocifisso e risorto, in cui condividere le proprie domande più profonde e le preoccupazioni del
quotidiano, in cui discernere in profondità con criteri evangelici sulla propria esistenza ed
esperienza, al fine di orientare al bene e al bello le proprie scelte individuali e sociali».[62] Al
tempo stesso, desidero richiamare l’attenzione su alcune tentazioni che specialmente oggi
colpiscono gli operatori pastorali.
Sì alla sfida di una spiritualità missionaria
78. Oggi si può riscontrare in molti operatori pastorali, comprese persone consacrate, una

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preoccupazione esagerata per gli spazi personali di autonomia e di distensione, che porta a vivere
i propri compiti come una mera appendice della vita, come se non facessero parte della propria
identità. Nel medesimo tempo, la vita spirituale si confonde con alcuni momenti religiosi che
offrono un certo sollievo ma che non alimentano l’incontro con gli altri, l’impegno nel mondo, la
passione per l’evangelizzazione. Così, si possono riscontrare in molti operatori di
evangelizzazione, sebbene preghino, un’accentuazione dell’individualismo, una crisi d’identità e
un calo del fervore. Sono tre mali che si alimentano l’uno con l’altro.
79. La cultura mediatica e qualche ambiente intellettuale a volte trasmettono una marcata sfiducia
nei confronti del messaggio della Chiesa, e un certo disincanto. Come conseguenza, molti
operatori pastorali, benché preghino, sviluppano una sorta di complesso di inferiorità, che li
conduce a relativizzare o ad occultare la loro identità cristiana e le loro convinzioni. Si produce
allora un circolo vizioso, perché così non sono felici di quello che sono e di quello che fanno, non
si sentono identificati con la missione evangelizzatrice, e questo indebolisce l’impegno. Finiscono
per soffocare la gioia della missione in una specie di ossessione per essere come tutti gli altri e
per avere quello che gli altri possiedono. In questo modo il compito dell’evangelizzazione diventa
forzato e si dedicano ad esso pochi sforzi e un tempo molto limitato.
80. Si sviluppa negli operatori pastorali, al di là dello stile spirituale o della peculiare linea di
pensiero che possono avere, un relativismo ancora più pericoloso di quello dottrinale. Ha a che
fare con le scelte più profonde e sincere che determinano una forma di vita. Questo relativismo
pratico consiste nell’agire come se Dio non esistesse, decidere come se i poveri non esistessero,
sognare come gli altri non esistessero, lavorare come se quanti non hanno ricevuto l’annuncio non
esistessero. È degno di nota il fatto che, persino chi apparentemente dispone di solide convinzioni
dottrinali e spirituali, spesso cade in uno stile di vita che porta ad attaccarsi a sicurezze
economiche, o a spazi di potere e di gloria umana che ci si procura in qualsiasi modo, invece di
dare la vita per gli altri nella missione. Non lasciamoci rubare l’entusiasmo missionario!
No all’accidia egoista
81. Quando abbiamo più bisogno di un dinamismo missionario che porti sale e luce al mondo,
molti laici temono che qualcuno li inviti a realizzare qualche compito apostolico, e cercano di
fuggire da qualsiasi impegno che possa togliere loro il tempo libero. Oggi, per esempio, è
diventato molto difficile trovare catechisti preparati per le parrocchie e che perseverino nel loro
compito per diversi anni. Ma qualcosa di simile accade con i sacerdoti, che si preoccupano con
ossessione del loro tempo personale. Questo si deve frequentemente al fatto che le persone
sentono il bisogno imperioso di preservare i loro spazi di autonomia, come se un compito di
evangelizzazione fosse un veleno pericoloso invece che una gioiosa risposta all’amore di Dio che
ci convoca alla missione e ci rende completi e fecondi. Alcuni fanno resistenza a provare fino in
fondo il gusto della missione e rimangono avvolti in un’accidia paralizzante.

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82. Il problema non sempre è l’eccesso di attività, ma soprattutto sono le attività vissute male,
senza le motivazioni adeguate, senza una spiritualità che permei l’azione e la renda desiderabile.
Da qui deriva che i doveri stanchino più di quanto sia ragionevole, e a volte facciano ammalare.
Non si tratta di una fatica serena, ma tesa, pesante, insoddisfatta e, in definitiva, non accettata.
Questa accidia pastorale può avere diverse origini. Alcuni vi cadono perché portano avanti progetti
irrealizzabili e non vivono volentieri quello che con tranquillità potrebbero fare. Altri, perché non
accettano la difficile evoluzione dei processi e vogliono che tutto cada dal cielo. Altri, perché si
attaccano ad alcuni progetti o a sogni di successo coltivati dalla loro vanità. Altri, per aver perso il
contatto reale con la gente, in una spersonalizzazione della pastorale che porta a prestare
maggiore attenzione all’organizzazione che alle persone, così che li entusiasma più la “tabella di
marcia” che la marcia stessa. Altri cadono nell’accidia perché non sanno aspettare, vogliono
dominare il ritmo della vita. L’ansia odierna di arrivare a risultati immediati fa sì che gli operatori
pastorali non tollerino facilmente il senso di qualche contraddizione, un apparente fallimento, una
critica, una croce.
83. Così prende forma la più grande minaccia, che «è il grigio pragmatismo della vita quotidiana
della Chiesa, nel quale tutto apparentemente procede nella normalità, mentre in realtà la fede si
va logorando e degenerando nella meschinità».[63] Si sviluppa la psicologia della tomba, che
poco a poco trasforma i cristiani in mummie da museo. Delusi dalla realtà, dalla Chiesa o da se
stessi, vivono la costante tentazione di attaccarsi a una tristezza dolciastra, senza speranza, che
si impadronisce del cuore come «il più prezioso degli elisir del demonio».[64] Chiamati ad
illuminare e a comunicare vita, alla fine si lasciano affascinare da cose che generano solamente
oscurità e stanchezza interiore, e che debilitano il dinamismo apostolico. Per tutto ciò mi permetto
di insistere: non lasciamoci rubare la gioia dell’evangelizzazione!
No al pessimismo sterile
84. La gioia del Vangelo è quella che niente e nessuno ci potrà mai togliere (cfr Gv 16,22). I mali
del nostro mondo – e quelli della Chiesa – non dovrebbero essere scuse per ridurre il nostro
impegno e il nostro fervore. Consideriamoli come sfide per crescere. Inoltre, lo sguardo di fede è
capace di riconoscere la luce che sempre lo Spirito Santo diffonde in mezzo all’oscurità, senza
dimenticare che «dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia» (Rm 5,20). La nostra fede è
sfidata a intravedere il vino in cui l’acqua può essere trasformata, e a scoprire il grano che cresce
in mezzo della zizzania. A cinquant’anni dal Concilio Vaticano II, anche se proviamo dolore per le
miserie della nostra epoca e siamo lontani da ingenui ottimismi, il maggiore realismo non deve
significare minore fiducia nello Spirito né minore generosità. In questo senso, possiamo tornare ad
ascoltare le parole del beato Giovanni XXIII in quella memorabile giornata dell’11 ottobre 1962:
«Non senza offesa per le Nostre orecchie, ci vengono riferite le voci di alcuni che, sebbene accesi
di zelo per la religione, valutano però i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio. Nelle
attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai [...] A
Noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano

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sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo. Nello stato presente degli eventi umani, nel
quale l’umanità sembra entrare in un nuovo ordine di cose, sono piuttosto da vedere i misteriosi
piani della Divina Provvidenza, che si realizzano in tempi successivi attraverso l’opera degli
uomini, e spesso al di là delle loro aspettative, e con sapienza dispongono tutto, anche le avverse
vicende umane, per il bene della Chiesa».[65]
85. Una delle tentazioni più serie che soffocano il fervore e l’audacia è il senso di sconfitta, che ci
trasforma in pessimisti scontenti e disincantati dalla faccia scura. Nessuno può intraprendere una
battaglia se in anticipo non confida pienamente nel trionfo. Chi comincia senza fiducia ha perso in
anticipo metà della battaglia e sotterra i propri talenti. Anche se con la dolorosa consapevolezza
delle proprie fragilità, bisogna andare avanti senza darsi per vinti, e ricordare quello che disse il
Signore a san Paolo: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella
debolezza» (2 Cor 12,9). Il trionfo cristiano è sempre una croce, ma una croce che al tempo
stesso è vessillo di vittoria, che si porta con una tenerezza combattiva contro gli assalti del male. Il
cattivo spirito della sconfitta è fratello della tentazione di separare prima del tempo il grano dalla
zizzania, prodotto di una sfiducia ansiosa ed egocentrica.
86. È evidente che in alcuni luoghi si è prodotta una “desertificazione” spirituale, frutto del progetto
di società che vogliono costruirsi senza Dio o che distruggono le loro radici cristiane. Lì «il mondo
cristiano sta diventando sterile, e si esaurisce, come una terra supersfruttata che si trasforma in
sabbia».[66] In altri Paesi, la resistenza violenta al cristianesimo obbliga i cristiani a vivere la loro
fede quasi di nascosto nel Paese che amano. Questa è un’altra forma molto dolorosa di deserto.
Anche la propria famiglia o il proprio luogo di lavoro possono essere quell’ambiente arido dove si
deve conservare la fede e cercare di irradiarla. Ma «è proprio a partire dall’esperienza di questo
deserto, da questo vuoto, che possiamo nuovamente scoprire la gioia di credere, la sua
importanza vitale per noi, uomini e donne. Nel deserto si torna a scoprire il valore di ciò che è
essenziale per vivere; così nel mondo contemporaneo sono innumerevoli i segni, spesso
manifestati in forma implicita o negativa, della sete di Dio, del senso ultimo della vita. E nel
deserto c’è bisogno soprattutto di persone di fede che, con la loro stessa vita, indichino la via
verso la Terra promessa e così tengono viva la speranza».[67] In ogni caso, in quelle circostanze
siamo chiamati ad essere persone-anfore per dare da bere agli altri. A volte l’anfora si trasforma in
una pesante croce, ma è proprio sulla Croce dove, trafitto, il Signore si è consegnato a noi come
fonte di acqua viva. Non lasciamoci rubare la speranza!
Sì alle relazioni nuove generate da Gesù Cristo
87. Oggi, quando le reti e gli strumenti della comunicazione umana hanno raggiunto sviluppi
inauditi, sentiamo la sfida di scoprire e trasmettere la “mistica” di vivere insieme, di mescolarci, di
incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica
che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo
pellegrinaggio. In questo modo, le maggiori possibilità di comunicazione si tradurranno in maggiori

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possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti. Se potessimo seguire questa strada, sarebbe una
cosa tanto buona, tanto risanatrice, tanto liberatrice, tanto generatrice di speranza! Uscire da se
stessi per unirsi agli altri fa bene. Chiudersi in sé stessi significa assaggiare l’amaro veleno
dell’immanenza, e l’umanità avrà la peggio in ogni scelta egoistica che facciamo.
88. L’ideale cristiano inviterà sempre a superare il sospetto, la sfiducia permanente, la paura di
essere invasi, gli atteggiamenti difensivi che il mondo attuale ci impone. Molti tentano di fuggire
dagli altri verso un comodo privato, o verso il circolo ristretto dei più intimi, e rinunciano al realismo
della dimensione sociale del Vangelo. Perché, così come alcuni vorrebbero un Cristo puramente
spirituale, senza carne e senza croce, si pretendono anche relazioni interpersonali solo mediate
da apparecchi sofisticati, da schermi e sistemi che si possano accendere e spegnere a comando.
Nel frattempo, il Vangelo ci invita sempre a correre il rischio dell’incontro con il volto dell’altro, con
la sua presenza fisica che interpella, col suo dolore e le sue richieste, con la sua gioia contagiosa
in un costante corpo a corpo. L’autentica fede nel Figlio di Dio fatto carne è inseparabile dal dono
di sé, dall’appartenenza alla comunità, dal servizio, dalla riconciliazione con la carne degli altri. Il
Figlio di Dio, nella sua incarnazione, ci ha invitato alla rivoluzione della tenerezza.
89. L’isolamento, che è una versione dell’immanentismo, si può esprimere in una falsa autonomia
che esclude Dio e che però può anche trovare nel religioso una forma di consumismo spirituale
alla portata del suo morboso individualismo. Il ritorno al sacro e la ricerca spirituale che
caratterizzano la nostra epoca sono fenomeni ambigui. Ma più dell’ateismo, oggi abbiamo di fronte
la sfida di rispondere adeguatamente alla sete di Dio di molta gente, perché non cerchino di
spegnerla con proposte alienanti o con un Gesù Cristo senza carne e senza impegno con l’altro.
Se non trovano nella Chiesa una spiritualità che li sani, li liberi, li ricolmi di vita e di pace e che nel
medesimo tempo li chiami alla comunione solidale e alla fecondità missionaria, finiranno ingannati
da proposte che non umanizzano né danno gloria a Dio.
90. Le forme proprie della religiosità popolare sono incarnate, perché sono sgorgate
dall’incarnazione della fede cristiana in una cultura popolare. Per ciò stesso esse includono una
relazione personale, non con energie armonizzanti ma con Dio, con Gesù Cristo, con Maria, con
un santo. Hanno carne, hanno volti. Sono adatte per alimentare potenzialità relazionali e non tanto
fughe individualiste. In altri settori delle nostre società cresce la stima per diverse forme di
“spiritualità del benessere” senza comunità, per una “teologia della prosperità” senza impegni
fraterni, o per esperienze soggettive senza volto, che si riducono a una ricerca interiore
immanentista.
91. Una sfida importante è mostrare che la soluzione non consisterà mai nel fuggire da una
relazione personale e impegnata con Dio, che al tempo stesso ci impegni con gli altri. Questo è
ciò che accade oggi quando i credenti fanno in modo di nascondersi e togliersi dalla vista degli
altri, e quando sottilmente scappano da un luogo all’altro o da un compito all’altro, senza creare
vincoli profondi e stabili: «Imaginatio locorum et mutatio multos fefellit».[68] È un falso rimedio che

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fa ammalare il cuore e a volte il corpo. È necessario aiutare a riconoscere che l’unica via consiste
nell’imparare a incontrarsi con gli altri con l’atteggiamento giusto, apprezzandoli e accettandoli
come compagni di strada, senza resistenze interiori. Meglio ancora, si tratta di imparare a scoprire
Gesù nel volto degli altri, nella loro voce, nelle loro richieste. È anche imparare a soffrire in un
abbraccio con Gesù crocifisso quando subiamo aggressioni ingiuste o ingratitudini, senza
stancarci mai di scegliere la fraternità.[69]
92. Lì sta la vera guarigione, dal momento che il modo di relazionarci con gli altri che realmente ci
risana invece di farci ammalare, è una fraternità mistica, contemplativa, che sa guardare alla
grandezza sacra del prossimo, che sa scoprire Dio in ogni essere umano, che sa sopportare le
molestie del vivere insieme aggrappandosi all’amore di Dio, che sa aprire il cuore all’amore divino
per cercare la felicità degli altri come la cerca il loro Padre buono. Proprio in questa epoca, e
anche là dove sono un «piccolo gregge» (Lc 12,32), i discepoli del Signore sono chiamati a vivere
come comunità che sia sale della terra e luce del mondo (cfr Mt 5,13-16). Sono chiamati a dare
testimonianza di una appartenenza evangelizzatrice in maniera sempre nuova.[70] Non lasciamoci
rubare la comunità!
No alla mondanità spirituale
93. La mondanità spirituale, che si nasconde dietro apparenze di religiosità e persino di amore alla
Chiesa, consiste nel cercare, al posto della gloria del Signore, la gloria umana ed il benessere
personale. È quello che il Signore rimproverava ai Farisei: «E come potete credere, voi che
ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?» (Gv 5,44). Si
tratta di un modo sottile di cercare «i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo» (Fil 2,21). Assume
molte forme, a seconda del tipo di persona e della condizione nella quale si insinua. Dal momento
che è legata alla ricerca dell’apparenza, non sempre si accompagna con peccati pubblici, e
all’esterno tutto appare corretto. Ma se invadesse la Chiesa, «sarebbe infinitamente più disastrosa
di qualunque altra mondanità semplicemente morale».[71]
94. Questa mondanità può alimentarsi specialmente in due modi profondamente connessi tra loro.
Uno è il fascino dello gnosticismo, una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa
unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene
possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza
della sua propria ragione o dei suoi sentimenti. L’altro è il neopelagianesimo autoreferenziale e
prometeico di coloro che in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si
sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente
fedeli ad un certo stile cattolico proprio del passato. È una presunta sicurezza dottrinale o
disciplinare che dà luogo ad un elitarismo narcisista e autoritario, dove invece di evangelizzare si
analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le
energie nel controllare. In entrambi i casi, né Gesù Cristo né gli altri interessano veramente. Sono
manifestazioni di un immanentismo antropocentrico. Non è possibile immaginare che da queste

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forme riduttive di cristianesimo possa scaturire un autentico dinamismo evangelizzatore.
95. Questa oscura mondanità si manifesta in molti atteggiamenti apparentemente opposti ma con
la stessa pretesa di “dominare lo spazio della Chiesa”. In alcuni si nota una cura ostentata della
liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa, ma senza che li preoccupi il reale inserimento
del Vangelo nel Popolo di Dio e nei bisogni concreti della storia. In tal modo la vita della Chiesa si
trasforma in un pezzo da museo o in un possesso di pochi. In altri, la medesima mondanità
spirituale si nasconde dietro il fascino di poter mostrare conquiste sociali e politiche, o in una
vanagloria legata alla gestione di faccende pratiche, o in un’attrazione per le dinamiche di
autostima e di realizzazione autoreferenziale. Si può anche tradurre in diversi modi di mostrarsi a
se stessi coinvolti in una densa vita sociale piena di viaggi, riunioni, cene, ricevimenti. Oppure si
esplica in un funzionalismo manageriale, carico di statistiche, pianificazioni e valutazioni, dove il
principale beneficiario non è il Popolo di Dio ma piuttosto la Chiesa come organizzazione. In tutti i
casi, è priva del sigillo di Cristo incarnato, crocifisso e risuscitato, si rinchiude in gruppi di élite, non
va realmente in cerca dei lontani né delle immense moltitudini assetate di Cristo. Non c’è più
fervore evangelico, ma il godimento spurio di un autocompiacimento egocentrico.
96. In questo contesto, si alimenta la vanagloria di coloro che si accontentano di avere qualche
potere e preferiscono essere generali di eserciti sconfitti piuttosto che semplici soldati di uno
squadrone che continua a combattere. Quante volte sogniamo piani apostolici espansionisti,
meticolosi e ben disegnati, tipici dei generali sconfitti! Così neghiamo la nostra storia di Chiesa,
che è gloriosa in quanto storia di sacrifici, di speranza, di lotta quotidiana, di vita consumata nel
servizio, di costanza nel lavoro faticoso, perché ogni lavoro è “sudore della nostra fronte”. Invece
ci intratteniamo vanitosi parlando a proposito di “quello che si dovrebbe fare” – il peccato del “si
dovrebbe fare” – come maestri spirituali ed esperti di pastorale che danno istruzioni rimanendo
all’esterno. Coltiviamo la nostra immaginazione senza limiti e perdiamo il contatto con la realtà
sofferta del nostro popolo fedele.
97. Chi è caduto in questa mondanità guarda dall’alto e da lontano, rifiuta la profezia dei fratelli,
squalifica chi gli pone domande, fa risaltare continuamente gli errori degli altri ed è ossessionato
dall’apparenza. Ha ripiegato il riferimento del cuore all’orizzonte chiuso della sua immanenza e dei
suoi interessi e, come conseguenza di ciò, non impara dai propri peccati né è autenticamente
aperto al perdono. È una tremenda corruzione con apparenza di bene. Bisogna evitarla mettendo
la Chiesa in movimento di uscita da sé, di missione centrata in Gesù Cristo, di impegno verso i
poveri. Dio ci liberi da una Chiesa mondana sotto drappeggi spirituali o pastorali! Questa
mondanità asfissiante si sana assaporando l’aria pura dello Spirito Santo, che ci libera dal
rimanere centrati in noi stessi, nascosti in un’apparenza religiosa vuota di Dio. Non lasciamoci
rubare il Vangelo!
No alla guerra tra di noi

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98. All’interno del Popolo di Dio e nelle diverse comunità, quante guerre! Nel quartiere, nel posto
di lavoro, quante guerre per invidie e gelosie, anche tra cristiani! La mondanità spirituale porta
alcuni cristiani ad essere in guerra con altri cristiani che si frappongono alla loro ricerca di potere,
di prestigio, di piacere o di sicurezza economica. Inoltre, alcuni smettono di vivere
un’appartenenza cordiale alla Chiesa per alimentare uno spirito di contesa. Più che appartenere
alla Chiesa intera, con la sua ricca varietà, appartengono a questo o quel gruppo che si sente
differente o speciale.
99. Il mondo è lacerato dalle guerre e dalla violenza, o ferito da un diffuso individualismo che
divide gli esseri umani e li pone l’uno contro l’altro ad inseguire il proprio benessere. In vari Paesi
risorgono conflitti e vecchie divisioni che si credevano in parte superate. Ai cristiani di tutte le
comunità del mondo desidero chiedere specialmente una testimonianza di comunione fraterna
che diventi attraente e luminosa. Che tutti possano ammirare come vi prendete cura gli uni degli
altri, come vi incoraggiate mutuamente e come vi accompagnate: «Da questo tutti sapranno che
siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). È quello che ha chiesto con
intensa preghiera Gesù al Padre: «Siano una sola cosa … in noi … perché il mondo creda» (Gv
17,21). Attenzione alla tentazione dell’invidia! Siamo sulla stessa barca e andiamo verso lo stesso
porto! Chiediamo la grazia di rallegrarci dei frutti degli altri, che sono di tutti.
100. A coloro che sono feriti da antiche divisioni risulta difficile accettare che li esortiamo al
perdono e alla riconciliazione, perché pensano che ignoriamo il loro dolore o pretendiamo di far
perdere loro memoria e ideali. Ma se vedono la testimonianza di comunità autenticamente fraterne
e riconciliate, questa è sempre una luce che attrae. Perciò mi fa tanto male riscontrare come in
alcune comunità cristiane, e persino tra persone consacrate, si dia spazio a diverse forme di odio,
divisione, calunnia, diffamazione, vendetta, gelosia, desiderio di imporre le proprie idee a qualsiasi
costo, fino a persecuzioni che sembrano una implacabile caccia alle streghe. Chi vogliamo
evangelizzare con questi comportamenti?
101. Chiediamo al Signore che ci faccia comprendere la legge dell’amore. Che buona cosa è
avere questa legge! Quanto ci fa bene amarci gli uni gli altri al di là di tutto! Sì, al di là di tutto! A
ciascuno di noi è diretta l’esortazione paolina: «Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con
il bene» (Rm 12,21). E ancora: «Non stanchiamoci di fare il bene» (Gal 6,9). Tutti abbiamo
simpatie ed antipatie, e forse proprio in questo momento siamo arrabbiati con qualcuno. Diciamo
almeno al Signore: “Signore, sono arrabbiato con questo, con quella. Ti prego per lui e per lei”.
Pregare per la persona con cui siamo irritati è un bel passo verso l’amore, ed è un atto di
evangelizzazione. Facciamolo oggi! Non lasciamoci rubare l’ideale dell’amore fraterno!
Altre sfide ecclesiali
102. I laici sono semplicemente l’immensa maggioranza del popolo di Dio. Al loro servizio c’è una
minoranza: i ministri ordinati. È cresciuta la coscienza dell’identità e della missione del laico nella

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Chiesa. Disponiamo di un numeroso laicato, benché non sufficiente, con un radicato senso
comunitario e una grande fedeltà all’impegno della carità, della catechesi, della celebrazione della
fede. Ma la presa di coscienza di questa responsabilità laicale che nasce dal Battesimo e dalla
Confermazione non si manifesta nello stesso modo da tutte le parti. In alcuni casi perché non si
sono formati per assumere responsabilità importanti, in altri casi per non aver trovato spazio nelle
loro Chiese particolari per poter esprimersi ed agire, a causa di un eccessivo clericalismo che li
mantiene al margine delle decisioni. Anche se si nota una maggiore partecipazione di molti ai
ministeri laicali, questo impegno non si riflette nella penetrazione dei valori cristiani nel mondo
sociale, politico ed economico. Si limita molte volte a compiti intraecclesiali senza un reale
impegno per l’applicazione del Vangelo alla trasformazione della società. La formazione dei laici e
l’evangelizzazione delle categorie professionali e intellettuali rappresentano un’importante sfida
pastorale.
103. La Chiesa riconosce l’indispensabile apporto della donna nella società, con una sensibilità,
un’intuizione e certe capacità peculiari che sono solitamente più proprie delle donne che degli
uomini. Ad esempio, la speciale attenzione femminile verso gli altri, che si esprime in modo
particolare, anche se non esclusivo, nella maternità. Vedo con piacere come molte donne
condividono responsabilità pastorali insieme con i sacerdoti, danno il loro contributo per
l’accompagnamento di persone, di famiglie o di gruppi ed offrono nuovi apporti alla riflessione
teologica. Ma c’è ancora bisogno di allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva
nella Chiesa. Perché «il genio femminile è necessario in tutte le espressioni della vita sociale; per
tale motivo si deve garantire la presenza delle donne anche nell’ambito lavorativo»[72] e nei
diversi luoghi dove vengono prese le decisioni importanti, tanto nella Chiesa come nelle strutture
sociali.
104. Le rivendicazioni dei legittimi diritti delle donne, a partire dalla ferma convinzione che uomini
e donne hanno la medesima dignità, pongono alla Chiesa domande profonde che la sfidano e che
non si possono superficialmente eludere. Il sacerdozio riservato agli uomini, come segno di Cristo
Sposo che si consegna nell’Eucaristia, è una questione che non si pone in discussione, ma può
diventare motivo di particolare conflitto se si identifica troppo la potestà sacramentale con il
potere. Non bisogna dimenticare che quando parliamo di potestà sacerdotale «ci troviamo
nell’ambito della funzione, non della dignità e della santità».[73] Il sacerdozio ministeriale è uno
dei mezzi che Gesù utilizza al servizio del suo popolo, ma la grande dignità viene dal Battesimo,
che è accessibile a tutti. La configurazione del sacerdote con Cristo Capo – vale a dire, come
fonte principale della grazia – non implica un’esaltazione che lo collochi in cima a tutto il resto.
Nella Chiesa le funzioni «non danno luogo alla superiorità degli uni sugli altri».[74] Di fatto, una
donna, Maria, è più importante dei vescovi. Anche quando la funzione del sacerdozio ministeriale
si considera “gerarchica”, occorre tenere ben presente che «è ordinata totalmente alla santità
delle membra di Cristo».[75] Sua chiave e suo fulcro non è il potere inteso come dominio, ma la
potestà di amministrare il sacramento dell’Eucaristia; da qui deriva la sua autorità, che è sempre
un servizio al popolo. Qui si presenta una grande sfida per i pastori e per i teologi, che potrebbero

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aiutare a meglio riconoscere ciò che questo implica rispetto al possibile ruolo della donna lì dove
si prendono decisioni importanti, nei diversi ambiti della Chiesa.
105. La pastorale giovanile, così come eravamo abituati a svilupparla, ha sofferto l’urto dei
cambiamenti sociali. I giovani, nelle strutture abituali, spesso non trovano risposte alle loro
inquietudini, necessità, problematiche e ferite. A noi adulti costa ascoltarli con pazienza,
comprendere le loro inquietudini o le loro richieste, e imparare a parlare con loro nel linguaggio
che essi comprendono. Per questa stessa ragione le proposte educative non producono i frutti
sperati. La proliferazione e la crescita di associazioni e movimenti prevalentemente giovanili si
possono interpretare come un’azione dello Spirito che apre strade nuove in sintonia con le loro
aspettative e con la ricerca di spiritualità profonda e di un senso di appartenenza più concreto. È
necessario, tuttavia, rendere più stabile la partecipazione di queste aggregazioni all’interno della
pastorale d’insieme della Chiesa.[76]
106. Anche se non sempre è facile accostare i giovani, si sono fatti progressi in due ambiti: la
consapevolezza che tutta la comunità li evangelizza e li educa, e l’urgenza che essi abbiano un
maggiore protagonismo. Si deve riconoscere che, nell’attuale contesto di crisi dell’impegno e dei
legami comunitari, sono molti i giovani che offrono il loro aiuto solidale di fronte ai mali del mondo
e intraprendono varie forme di militanza e di volontariato. Alcuni partecipano alla vita della Chiesa,
danno vita a gruppi di servizio e a diverse iniziative missionarie nelle loro diocesi o in altri luoghi.
Che bello che i giovani siano “viandanti della fede”, felici di portare Gesù in ogni strada, in ogni
piazza, in ogni angolo della terra!
107. In molti luoghi scarseggiano le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. Spesso questo
è dovuto all’assenza nelle comunità di un fervore apostolico contagioso, per cui esse non
entusiasmano e non suscitano attrattiva. Dove c’è vita, fervore, voglia di portare Cristo agli altri,
sorgono vocazioni genuine. Persino in parrocchie dove i sacerdoti non sono molto impegnati e
gioiosi, è la vita fraterna e fervorosa della comunità che risveglia il desiderio di consacrarsi
interamente a Dio e all’evangelizzazione, soprattutto se tale vivace comunità prega
insistentemente per le vocazioni e ha il coraggio di proporre ai suoi giovani un cammino di
speciale consacrazione. D’altra parte, nonostante la scarsità di vocazioni, oggi abbiamo una più
chiara coscienza della necessità di una migliore selezione dei candidati al sacerdozio. Non si
possono riempire i seminari sulla base di qualunque tipo di motivazione, tanto meno se queste
sono legate ad insicurezza affettiva, a ricerca di forme di potere, gloria umana o benessere
economico.
108. Come ho già detto, non ho voluto offrire un’analisi completa, ma invito le comunità a
completare ed arricchire queste prospettive a partire dalla consapevolezza delle sfide che le
riguardano direttamente o da vicino. Spero che quando lo faranno tengano conto che, ogni volta
che cerchiamo di leggere nella realtà attuale i segni dei tempi, è opportuno ascoltare i giovani e gli
anziani. Entrambi sono la speranza dei popoli. Gli anziani apportano la memoria e la saggezza

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dell’esperienza, che invita a non ripetere stupidamente gli stessi errori del passato. I giovani ci
chiamano a risvegliare e accrescere la speranza, perché portano in sé le nuove tendenze
dell’umanità e ci aprono al futuro, in modo che non rimaniamo ancorati alla nostalgia di strutture e
abitudini che non sono più portatrici di vita nel mondo attuale.
109. Le sfide esistono per essere superate. Siamo realisti, ma senza perdere l’allegria, l’audacia e
la dedizione piena di speranza! Non lasciamoci rubare la forza missionaria!
CAPITOLO TERZO
L'ANNUNCIO DEL VANGELO
110. Dopo aver preso in considerazione alcune sfide della realtà attuale, desidero ora ricordare il
compito che ci preme in qualunque epoca e luogo, perché «non vi può essere vera
evangelizzazione senza l’esplicita proclamazione che Gesù è il Signore», e senza che vi sia un
«primato della proclamazione di Gesù Cristo in ogni attività di evangelizzazione».[77]
Raccogliendo le preoccupazioni dei Vescovi asiatici, Giovanni Paolo II affermò che, se la Chiesa
«deve compiere il suo destino provvidenziale, l’evangelizzazione, come gioiosa, paziente e
progressiva predicazione della morte salvifica e della Risurrezione di Gesù Cristo, dev’essere la
vostra priorità assoluta».[78] Questo vale per tutti.
I. Tutto il Popolo di Dio annuncia il Vangelo
111. L’evangelizzazione è compito della Chiesa. Ma questo soggetto dell’evangelizzazione è ben
più di una istituzione organica e gerarchica, poiché anzitutto è un popolo in cammino verso Dio. Si
tratta certamente di un mistero che affonda le sue radici nella Trinità, ma che ha la sua
concretezza storica in un popolo pellegrino ed evangelizzatore, che trascende sempre ogni pur
necessaria espressione istituzionale. Propongo di soffermarci un poco su questo modo
d’intendere la Chiesa, che trova il suo ultimo fondamento nella libera e gratuita iniziativa di Dio.
Un popolo per tutti
112. La salvezza che Dio ci offre è opera della sua misericordia. Non esiste azione umana, per
buona che possa essere, che ci faccia meritare un dono così grande. Dio, per pura grazia, ci
attrae per unirci a Sé.[79] Egli invia il suo Spirito nei nostri cuori per farci suoi figli, per trasformarci
e per renderci capaci di rispondere con la nostra vita al suo amore. La Chiesa è inviata da Gesù
Cristo come sacramento della salvezza offerta da Dio.[80] Essa, mediante la sua azione
evangelizzatrice, collabora come strumento della grazia divina che opera incessantemente al di là
di ogni possibile supervisione. Lo esprimeva bene Benedetto XVI aprendo le riflessioni del Sinodo:
«È importante sempre sapere che la prima parola, l’iniziativa vera, l’attività vera viene da Dio e
solo inserendoci in questa iniziativa divina, solo implorando questa iniziativa divina, possiamo
anche noi divenire – con Lui e in Lui – evangelizzatori».[81] Il principio del primato della grazia

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dev’essere un faro che illumina costantemente le nostre riflessioni sull’evangelizzazione.
113. Questa salvezza, che Dio realizza e che la Chiesa gioiosamente annuncia, è per tutti,[82] e
Dio ha dato origine a una via per unirsi a ciascuno degli esseri umani di tutti i tempi. Ha scelto di
convocarli come popolo e non come esseri isolati.[83] Nessuno si salva da solo, cioè né come
individuo isolato né con le sue proprie forze. Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di
relazioni interpersonali che comporta la vita in una comunità umana. Questo popolo che Dio si è
scelto e convocato è la Chiesa. Gesù non dice agli Apostoli di formare un gruppo esclusivo, un
gruppo di élite. Gesù dice: «Andate e fate discepoli tutti i popoli» (Mt 28,19). San Paolo afferma
che nel popolo di Dio, nella Chiesa «non c’è Giudeo né Greco... perché tutti voi siete uno in Cristo
Gesù» (Gal 3,28). Mi piacerebbe dire a quelli che si sentono lontani da Dio e dalla Chiesa, a quelli
che sono timorosi e agli indifferenti: il Signore chiama anche te ad essere parte del suo popolo e
lo fa con grande rispetto e amore!
114. Essere Chiesa significa essere Popolo di Dio, in accordo con il grande progetto d’amore del
Padre. Questo implica essere il fermento di Dio in mezzo all’umanità. Vuol dire annunciare e
portare la salvezza di Dio in questo nostro mondo, che spesso si perde, che ha bisogno di avere
risposte che incoraggino, che diano speranza, che diano nuovo vigore nel cammino. La Chiesa
dev’essere il luogo della misericordia gratuita, dove tutti possano sentirsi accolti, amati, perdonati
e incoraggiati a vivere secondo la vita buona del Vangelo.
Un popolo dai molti volti
115. Questo Popolo di Dio si incarna nei popoli della Terra, ciascuno dei quali ha la propria
cultura. La nozione di cultura è uno strumento prezioso per comprendere le diverse espressioni
della vita cristiana presenti nel Popolo di Dio. Si tratta dello stile di vita di una determinata società,
del modo peculiare che hanno i suoi membri di relazionarsi tra loro, con le altre creature e con
Dio. Intesa così, la cultura comprende la totalità della vita di un popolo.[84] Ogni popolo, nel suo
divenire storico, sviluppa la propria cultura con legittima autonomia.[85] Ciò si deve al fatto che la
persona umana, «di natura sua ha assolutamente bisogno d’una vita sociale»[86] ed è sempre
riferita alla società, dove vive un modo concreto di rapportarsi alla realtà. L’essere umano è
sempre culturalmente situato: «natura e cultura sono quanto mai strettamente connesse».[87] La
grazia suppone la cultura, e il dono di Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve.
116. In questi due millenni di cristianesimo, innumerevoli popoli hanno ricevuto la grazia della
fede, l’hanno fatta fiorire nella loro vita quotidiana e l’hanno trasmessa secondo le modalità
culturali loro proprie. Quando una comunità accoglie l’annuncio della salvezza, lo Spirito Santo ne
feconda la cultura con la forza trasformante del Vangelo. In modo che, come possiamo vedere
nella storia della Chiesa, il cristianesimo non dispone di un unico modello culturale, bensì,
«restando pienamente se stesso, nella totale fedeltà all’annuncio evangelico e alla tradizione
ecclesiale, esso porterà anche il volto delle tante culture e dei tanti popoli in cui è accolto e

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radicato».[88] Nei diversi popoli che sperimentano il dono di Dio secondo la propria cultura, la
Chiesa esprime la sua autentica cattolicità e mostra «la bellezza di questo volto pluriforme».[89]
Nelle espressioni cristiane di un popolo evangelizzato, lo Spirito Santo abbellisce la Chiesa,
mostrandole nuovi aspetti della Rivelazione e regalandole un nuovo volto. Nell’inculturazione, la
Chiesa «introduce i popoli con le loro culture nella sua stessa comunità»,[90] perché «i valori e le
forme positivi» che ogni cultura propone «arricchiscono la maniera in cui il Vangelo è annunciato,
compreso e vissuto».[91] In tal modo «la Chiesa, assumendo i valori delle differenti culture,
diventa “sponsa ornata monilibus suis”, “la sposa che si adorna con i suoi gioielli”
(Is 61,10)» .[92]
117. Se ben intesa, la diversità culturale non minaccia l’unità della Chiesa. È lo Spirito Santo,
inviato dal Padre e dal Figlio, che trasforma i nostri cuori e ci rende capaci di entrare nella
comunione perfetta della Santissima Trinità, dove ogni cosa trova la sua unità. Egli costruisce la
comunione e l’armonia del Popolo di Dio. Lo stesso Spirito Santo è l’armonia, così come è il
vincolo d’amore tra il Padre e il Figlio.[93] Egli è Colui che suscita una molteplice e varia ricchezza
di doni e al tempo stesso costruisce un’unità che non è mai uniformità ma multiforme armonia che
attrae. L’evangelizzazione riconosce gioiosamente queste molteplici ricchezze che lo Spirito
genera nella Chiesa. Non renderebbe giustizia alla logica dell’incarnazione pensare ad un
cristianesimo monoculturale e monocorde. Sebbene sia vero che alcune culture sono state
strettamente legate alla predicazione del Vangelo e allo sviluppo di un pensiero cristiano, il
messaggio rivelato non si identifica con nessuna di esse e possiede un contenuto transculturale.
Perciò, nell’evangelizzazione di nuove culture o di culture che non hanno accolto la predicazione
cristiana, non è indispensabile imporre una determinata forma culturale, per quanto bella e antica,
insieme con la proposta evangelica. Il messaggio che annunciamo presenta sempre un qualche
rivestimento culturale, però a volte nella Chiesa cadiamo nella vanitosa sacralizzazione della
propria cultura, e con ciò possiamo mostrare più fanatismo che autentico fervore evangelizzatore.
118. I Vescovi dell’Oceania hanno chiesto che lì la Chiesa «sviluppi una comprensione e una
presentazione della verità di Cristo partendo dalle tradizioni e dalle culture della regione», e hanno
sollecitato «tutti i missionari a operare in armonia con i cristiani indigeni per assicurare che la fede
e la vita della Chiesa siano espresse in forme legittime appropriate a ciascuna cultura».[94] Non
possiamo pretendere che tutti i popoli di tutti i continenti, nell’esprimere la fede cristiana, imitino le
modalità adottate dai popoli europei in un determinato momento della storia, perché la fede non
può chiudersi dentro i confini della comprensione e dell’espressione di una cultura particolare.[95]
È indiscutibile che una sola cultura non esaurisce il mistero della redenzione di Cristo.
Tutti siamo discepoli missionari
119. In tutti i battezzati, dal primo all’ultimo, opera la forza santificatrice dello Spirito che spinge ad
evangelizzare. Il Popolo di Dio è santo in ragione di questa unzione che lo rende infallibile “in
credendo”. Questo significa che quando crede non si sbaglia, anche se non trova parole per

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esprimere la sua fede. Lo Spirito lo guida nella verità e lo conduce alla salvezza.[96] Come parte
del suo mistero d’amore verso l’umanità, Dio dota la totalità dei fedeli di un istinto della fede – il
sensus fidei – che li aiuta a discernere ciò che viene realmente da Dio. La presenza dello Spirito
concede ai cristiani una certa connaturalità con le realtà divine e una saggezza che permette loro
di coglierle intuitivamente, benché non dispongano degli strumenti adeguati per esprimerle con
precisione.
120. In virtù del Battesimo ricevuto, ogni membro del Popolo di Dio è diventato discepolo
missionario (cfr Mt 28,19). Ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il
grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato
pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del
popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni. La nuova evangelizzazione deve
implicare un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati. Questa convinzione si trasforma in un
appello diretto ad ogni cristiano, perché nessuno rinunci al proprio impegno di evangelizzazione,
dal momento che, se uno ha realmente fatto esperienza dell’amore di Dio che lo salva, non ha
bisogno di molto tempo di preparazione per andare ad annunciarlo, non può attendere che gli
vengano impartite molte lezioni o lunghe istruzioni. Ogni cristiano è missionario nella misura in cui
si è incontrato con l’amore di Dio in Cristo Gesù; non diciamo più che siamo “discepoli” e
“missionari”, ma che siamo sempre “discepoli-missionari”. Se non siamo convinti, guardiamo ai
primi discepoli, che immediatamente dopo aver conosciuto lo sguardo di Gesù, andavano a
proclamarlo pieni di gioia: «Abbiamo incontrato il Messia» (Gv 1,41). La samaritana, non appena
terminato il suo dialogo con Gesù, divenne missionaria, e molti samaritani credettero in Gesù «per
la parola della donna» (Gv 4,39). Anche san Paolo, a partire dal suo incontro con Gesù Cristo,
«subito annunciava che Gesù è il figlio di Dio» (At 9,20). E noi che cosa aspettiamo?
121. Certamente tutti noi siamo chiamati a crescere come evangelizzatori. Al tempo stesso ci
adoperiamo per una migliore formazione, un approfondimento del nostro amore e una più chiara
testimonianza del Vangelo. In questo senso, tutti dobbiamo lasciare che gli altri ci evangelizzino
costantemente; questo però non significa che dobbiamo rinunciare alla missione evangelizzatrice,
ma piuttosto trovare il modo di comunicare Gesù che corrisponda alla situazione in cui ci troviamo.
In ogni caso, tutti siamo chiamati ad offrire agli altri la testimonianza esplicita dell’amore salvifico
del Signore, che al di là delle nostre imperfezioni ci offre la sua vicinanza, la sua Parola, la sua
forza, e dà senso alla nostra vita. Il tuo cuore sa che la vita non è la stessa senza di Lui, dunque
quello che hai scoperto, quello che ti aiuta a vivere e che ti dà speranza, quello è ciò che devi
comunicare agli altri. La nostra imperfezione non dev’essere una scusa; al contrario, la missione è
uno stimolo costante per non adagiarsi nella mediocrità e per continuare a crescere. La
testimonianza di fede che ogni cristiano è chiamato ad offrire, implica affermare come san Paolo:
«Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per
conquistarla ... corro verso la mèta» (Fil 3,12-13).
La forza evangelizzatrice della pietà popolare

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122. Allo stesso modo, possiamo pensare che i diversi popoli nei quali è stato inculturato il
Vangelo sono soggetti collettivi attivi, operatori dell’evangelizzazione. Questo si verifica perché
ogni popolo è il creatore della propria cultura ed il protagonista della propria storia. La cultura è
qualcosa di dinamico, che un popolo ricrea costantemente, ed ogni generazione trasmette alla
seguente un complesso di atteggiamenti relativi alle diverse situazioni esistenziali, che questa
deve rielaborare di fronte alle proprie sfide. L’essere umano «è insieme figlio e padre della cultura
in cui è immerso».[97] Quando in un popolo si è inculturato il Vangelo, nel suo processo di
trasmissione culturale trasmette anche la fede in modi sempre nuovi; da qui l’importanza
dell’evangelizzazione intesa come inculturazione. Ciascuna porzione del Popolo di Dio,
traducendo nella propria vita il dono di Dio secondo il proprio genio, offre testimonianza alla fede
ricevuta e la arricchisce con nuove espressioni che sono eloquenti. Si può dire che «il popolo
evangelizza continuamente sé stesso».[98] Qui riveste importanza la pietà popolare, autentica
espressione dell’azione missionaria spontanea del Popolo di Dio. Si tratta di una realtà in
permanente sviluppo, dove lo Spirito Santo è il protagonista.[99]
123. Nella pietà popolare si può cogliere la modalità in cui la fede ricevuta si è incarnata in una
cultura e continua a trasmettersi. In alcuni momenti guardata con sfiducia, è stata oggetto di
rivalutazione nei decenni posteriori al Concilio. È stato Paolo VI nella sua Esortazione apostolica
Evangelii nuntiandi a dare un impulso decisivo in tal senso. Egli vi spiega che la pietà popolare
«manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere»[100] e che «rende
capaci di generosità e di sacrificio fino all’eroismo, quando si tratta di manifestare la fede».[101]
Più vicino ai nostri giorni, Benedetto XVI, in America Latina, ha segnalato che si tratta di un
«prezioso tesoro della Chiesa cattolica» e che in essa «appare l’anima dei popoli
latinoamericani».[102]
124. Nel Documento di Aparecida si descrivono le ricchezze che lo Spirito Santo dispiega nella
pietà popolare con la sua iniziativa gratuita. In quell’amato continente, dove tanti cristiani
esprimono la loro fede attraverso la pietà popolare, i Vescovi la chiamano anche «spiritualità
popolare» o «mistica popolare».[103] Si tratta di una vera «spiritualità incarnata nella cultura dei
semplici».[104] Non è vuota di contenuti, bensì li scopre e li esprime più mediante la via simbolica
che con l’uso della ragione strumentale, e nell’atto di fede accentua maggiormente il credere in
Deum che il credere Deum.[105] È «un modo legittimo di vivere la fede, un modo di sentirsi parte
della Chiesa, e di essere missionari»;[106] porta con sé la grazia della missionarietà, dell’uscire da
sé stessi e dell’essere pellegrini: «Il camminare insieme verso i santuari e il partecipare ad altre
manifestazioni della pietà popolare, portando con sé anche i figli o invitando altre persone, è in sé
stesso un atto di evangelizzazione».[107] Non coartiamo né pretendiamo di controllare questa
forza missionaria!
125. Per capire questa realtà c’è bisogno di avvicinarsi ad essa con lo sguardo del Buon Pastore,
che non cerca di giudicare, ma di amare. Solamente a partire dalla connaturalità affettiva che
l’amore dà possiamo apprezzare la vita teologale presente nella pietà dei popoli cristiani,

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specialmente nei poveri. Penso alla fede salda di quelle madri ai piedi del letto del figlio malato
che si afferrano ad un rosario anche se non sanno imbastire le frasi del Credo; o a tanta carica di
speranza diffusa con una candela che si accende in un’umile dimora per chiedere aiuto a Maria, o
in quegli sguardi di amore profondo a Cristo crocifisso. Chi ama il santo Popolo fedele di Dio non
può vedere queste azioni unicamente come una ricerca naturale della divinità. Sono la
manifestazione di una vita teologale animata dall’azione dello Spirito Santo che è stato riversato
nei nostri cuori (cfr Rm 5,5).
126. Nella pietà popolare, poiché è frutto del Vangelo inculturato, è sottesa una forza attivamente
evangelizzatrice che non possiamo sottovalutare: sarebbe come disconoscere l’opera dello Spirito
Santo. Piuttosto, siamo chiamati ad incoraggiarla e a rafforzarla per approfondire il processo di
inculturazione che è una realtà mai terminata. Le espressioni della pietà popolare hanno molto da
insegnarci e, per chi è in grado di leggerle, sono un luogo teologico a cui dobbiamo prestare
attenzione, particolarmente nel momento in cui pensiamo alla nuova evangelizzazione.
Da persona a persona
127. Ora che la Chiesa desidera vivere un profondo rinnovamento missionario, c’è una forma di
predicazione che compete a tutti noi come impegno quotidiano. Si tratta di portare il Vangelo alle
persone con cui ciascuno ha a che fare, tanto ai più vicini quanto agli sconosciuti. È la
predicazione informale che si può realizzare durante una conversazione ed è anche quella che
attua un missionario quando visita una casa. Essere discepolo significa avere la disposizione
permanente di portare agli altri l’amore di Gesù e questo avviene spontaneamente in qualsiasi
luogo, nella via, nella piazza, al lavoro, in una strada.
128. In questa predicazione, sempre rispettosa e gentile, il primo momento consiste in un dialogo
personale, in cui l’altra persona si esprime e condivide le sue gioie, le sue speranze, le
preoccupazioni per i suoi cari e tante cose che riempiono il suo cuore. Solo dopo tale
conversazione è possibile presentare la Parola, sia con la lettura di qualche passo della Scrittura o
in modo narrativo, ma sempre ricordando l’annuncio fondamentale: l’amore personale di Dio che
si è fatto uomo, ha dato sé stesso per noi e, vivente, offre la sua salvezza e la sua amicizia. È
l’annuncio che si condivide con un atteggiamento umile e testimoniale di chi sa sempre imparare,
con la consapevolezza che il messaggio è tanto ricco e tanto profondo che ci supera sempre. A
volte si esprime in maniera più diretta, altre volte attraverso una testimonianza personale, un
racconto, un gesto, o la forma che lo stesso Spirito Santo può suscitare in una circostanza
concreta. Se sembra prudente e se vi sono le condizioni, è bene che questo incontro fraterno e
missionario si concluda con una breve preghiera, che si colleghi alle preoccupazioni che la
persona ha manifestato. Così, essa sentirà più chiaramente di essere stata ascoltata e
interpretata, che la sua situazione è stata posta nelle mani di Dio, e riconoscerà che la Parola di
Dio parla realmente alla sua esistenza.

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129. Non si deve pensare che l’annuncio evangelico sia da trasmettere sempre con determinate
formule stabilite, o con parole precise che esprimano un contenuto assolutamente invariabile. Si
trasmette in forme così diverse che sarebbe impossibile descriverle o catalogarle, e nelle quali il
Popolo di Dio, con i suoi innumerevoli gesti e segni, è soggetto collettivo. Di conseguenza, se il
Vangelo si è incarnato in una cultura, non si comunica più solamente attraverso l’annuncio da
persona a persona. Questo deve farci pensare che, in quei Paesi dove il cristianesimo è
minoranza, oltre ad incoraggiare ciascun battezzato ad annunciare il Vangelo, le Chiese particolari
devono promuovere attivamente forme, almeno iniziali, di inculturazione. Ciò a cui si deve
tendere, in definitiva, è che la predicazione del Vangelo, espressa con categorie proprie della
cultura in cui è annunciato, provochi una nuova sintesi con tale cultura. Benché questi processi
siano sempre lenti, a volte la paura ci paralizza troppo. Se consentiamo ai dubbi e ai timori di
soffocare qualsiasi audacia, può accadere che, al posto di essere creativi, semplicemente noi
restiamo comodi senza provocare alcun avanzamento e, in tal caso, non saremo partecipi di
processi storici con la nostra cooperazione, ma semplicemente spettatori di una sterile
stagnazione della Chiesa.
Carismi al servizio della comunione evangelizzatrice
130. Lo Spirito Santo arricchisce tutta la Chiesa che evangelizza anche con diversi carismi. Essi
sono doni per rinnovare ed edificare la Chiesa.[108] Non sono un patrimonio chiuso, consegnato
ad un gruppo perché lo custodisca; piuttosto si tratta di regali dello Spirito integrati nel corpo
ecclesiale, attratti verso il centro che è Cristo, da dove si incanalano in una spinta
evangelizzatrice. Un chiaro segno dell’autenticità di un carisma è la sua ecclesialità, la sua
capacità di integrarsi armonicamente nella vita del Popolo santo di Dio per il bene di tutti.
Un’autentica novità suscitata dallo Spirito non ha bisogno di gettare ombre sopra altre spiritualità e
doni per affermare se stessa. Quanto più un carisma volgerà il suo sguardo al cuore del Vangelo,
tanto più il suo esercizio sarà ecclesiale. È nella comunione, anche se costa fatica, che un
carisma si rivela autenticamente e misteriosamente fecondo. Se vive questa sfida, la Chiesa può
essere un modello per la pace nel mondo.
131. Le differenze tra le persone e le comunità a volte sono fastidiose, ma lo Spirito Santo, che
suscita questa diversità, può trarre da tutto qualcosa di buono e trasformarlo in dinamismo
evangelizzatore che agisce per attrazione. La diversità dev’essere sempre riconciliata con l’aiuto
dello Spirito Santo; solo Lui può suscitare la diversità, la pluralità, la molteplicità e, al tempo
stesso, realizzare l’unità. Invece, quando siamo noi che pretendiamo la diversità e ci rinchiudiamo
nei nostri particolarismi, nei nostri esclusivismi, provochiamo la divisione e, d’altra parte, quando
siamo noi che vogliamo costruire l’unità con i nostri piani umani, finiamo per imporre l’uniformità,
l’omologazione. Questo non aiuta la missione della Chiesa.
Cultura, pensiero ed educazione

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132. L’annuncio alla cultura implica anche un annuncio alle culture professionali, scientifiche e
accademiche. Si tratta dell’incontro tra la fede, la ragione e le scienze, che mira a sviluppare un
nuovo discorso sulla credibilità, un’apologetica originale[109] che aiuti a creare le disposizioni
perché il Vangelo sia ascoltato da tutti. Quando alcune categorie della ragione e delle scienze
vengono accolte nell’annuncio del messaggio, quelle stesse categorie diventano strumenti di
evangelizzazione; è l’acqua trasformata in vino. È ciò che, una volta assunto, non solo viene
redento, ma diventa strumento dello Spirito per illuminare e rinnovare il mondo.
133. Dal momento che non è sufficiente la preoccupazione dell’evangelizzatore di giungere ad
ogni persona, e il Vangelo si annuncia anche alle culture nel loro insieme, la teologia – non solo la
teologia pastorale – in dialogo con altre scienze ed esperienze umane, riveste una notevole
importanza per pensare come far giungere la proposta del Vangelo alla varietà dei contesti
culturali e dei destinatari.[110] La Chiesa, impegnata nell’evangelizzazione, apprezza e incoraggia
il carisma dei teologi e il loro sforzo nell’investigazione teologica, che promuove il dialogo con il
mondo della cultura e della scienza. Faccio appello ai teologi affinché compiano questo servizio
come parte della missione salvifica della Chiesa. Ma è necessario che, per tale scopo, abbiano a
cuore la finalità evangelizzatrice della Chiesa e della stessa teologia e non si accontentino di una
teologia da tavolino.
134. Le Università sono un ambito privilegiato per pensare e sviluppare questo impegno di
evangelizzazione in modo interdisciplinare e integrato. Le scuole cattoliche, che cercano sempre
di coniugare il compito educativo con l’annuncio esplicito del Vangelo, costituiscono un contributo
molto valido all’evangelizzazione della cultura, anche nei Paesi e nelle città dove una situazione
avversa ci stimola ad usare la creatività per trovare i percorsi adeguati.[111]
II. L’omelia
135. Consideriamo ora la predicazione all’interno della liturgia, che richiede una seria valutazione
da parte dei Pastori. Mi soffermerò particolarmente, e persino con una certa meticolosità,
sull’omelia e la sua preparazione, perché molti sono i reclami in relazione a questo importante
ministero e non possiamo chiudere le orecchie. L’omelia è la pietra di paragone per valutare la
vicinanza e la capacità d’incontro di un Pastore con il suo popolo. Di fatto, sappiamo che i fedeli le
danno molta importanza; ed essi, come gli stessi ministri ordinati, molte volte soffrono, gli uni ad
ascoltare e gli altri a predicare. È triste che sia così. L’omelia può essere realmente un’intensa e
felice esperienza dello Spirito, un confortante incontro con la Parola, una fonte costante di
rinnovamento e di crescita.
136. Rinnoviamo la nostra fiducia nella predicazione, che si fonda sulla convinzione che è Dio che
desidera raggiungere gli altri attraverso il predicatore e che Egli dispiega il suo potere mediante la
parola umana. San Paolo parla con forza della necessità di predicare, perché il Signore ha voluto
raggiungere gli altri anche con la nostra parola (cfr Rm 10,14-17). Con la parola nostro Signore ha

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conquistato il cuore della gente. Venivano ad ascoltarlo da ogni parte (cfr Mc 1,45). Restavano
meravigliati “bevendo” i suoi insegnamenti (cfr Mc 6,2). Sentivano che parlava loro come chi ha
autorità (cfr Mc 1,27). Con la parola gli Apostoli, che aveva istituito «perché stessero con lui e per
mandarli a predicare» (Mc 3,14), attrassero in seno alla Chiesa tutti i popoli (cfr Mc 16,15.20).
Il contesto liturgico
137. Occorre ora ricordare che «la proclamazione liturgica della Parola di Dio, soprattutto nel
contesto dell’assemblea eucaristica, non è tanto un momento di meditazione e di catechesi, maè il
dialogo di Dio col suo popolo, dialogo in cui vengono proclamate le meraviglie della salvezza e
continuamente riproposte le esigenze dell’Alleanza».[112] Vi è una speciale valorizzazione
dell’omelia, che deriva dal suo contesto eucaristico e fa sì che essa superi qualsiasi catechesi,
essendo il momento più alto del dialogo tra Dio e il suo popolo, prima della comunione
sacramentale. L’omelia è un riprendere quel dialogo che è già aperto tra il Signore e il suo popolo.
Chi predica deve riconoscere il cuore della sua comunità per cercare dov’è vivo e ardente il
desiderio di Dio, e anche dove tale dialogo, che era amoroso, sia stato soffocato o non abbia
potuto dare frutto.
138. L’omelia non può essere uno spettacolo di intrattenimento, non risponde alla logica delle
risorse mediatiche, ma deve dare fervore e significato alla celebrazione. È un genere peculiare,
dal momento che si tratta di una predicazione dentro la cornice di una celebrazione liturgica; di
conseguenza deve essere breve ed evitare di sembrare una conferenza o una lezione. Il
predicatore può essere capace di tenere vivo l’interesse della gente per un’ora, ma così la sua
parola diventa più importante della celebrazione della fede. Se l’omelia si prolunga troppo,
danneggia due caratteristiche della celebrazione liturgica: l’armonia tra le sue parti e il suo ritmo.
Quando la predicazione si realizza nel contesto della liturgia, viene incorporata come parte
dell’offerta che si consegna al Padre e come mediazione della grazia che Cristo effonde nella
celebrazione. Questo stesso contesto esige che la predicazione orienti l’assemblea, ed anche il
predicatore, verso una comunione con Cristo nell’Eucaristia che trasformi la vita. Ciò richiede che
la parola del predicatore non occupi uno spazio eccessivo, in modo che il Signore brilli più del
ministro.
La conversazione di una madre
139. Abbiamo detto che il Popolo di Dio, per la costante azione dello Spirito in esso, evangelizza
continuamente sé stesso. Cosa implica questa convinzione per il predicatore? Ci ricorda che la
Chiesa è madre e predica al popolo come una madre che parla a suo figlio, sapendo che il figlio
ha fiducia che tutto quanto gli viene insegnato sarà per il suo bene perché sa di essere amato.
Inoltre, la buona madre sa riconoscere tutto ciò che Dio ha seminato in suo figlio, ascolta le sue
preoccupazioni e apprende da lui. Lo spirito d’amore che regna in una famiglia guida tanto la
madre come il figlio nei loro dialoghi, dove si insegna e si apprende, si corregge e si apprezzano

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le cose buone; così accade anche nell’omelia. Lo Spirito, che ha ispirato i Vangeli e che agisce nel
Popolo di Dio, ispira anche come si deve ascoltare la fede del popolo e come si deve predicare in
ogni Eucaristia. La predica cristiana, pertanto, trova nel cuore della cultura del popolo una fonte
d’acqua viva, sia per saper che cosa deve dire, sia per trovare il modo appropriato di dirlo. Come
a tutti noi piace che ci si parli nella nostra lingua materna, così anche nella fede, ci piace che ci si
parli in chiave di “cultura materna”, in chiave di dialetto materno (cfr 2 Mac 7,21.27), e il cuore si
dispone ad ascoltare meglio. Questa lingua è una tonalità che trasmette coraggio, respiro, forza,
impulso.
140. Questo ambito materno-ecclesiale in cui si sviluppa il dialogo del Signore con il suo popolo si
deve favorire e coltivare mediante la vicinanza cordiale del predicatore, il calore del suo tono di
voce, la mansuetudine dello stile delle sue frasi, la gioia dei suoi gesti. Anche nei casi in cui
l’omelia risulti un po’ noiosa, se si percepisce questo spirito materno-ecclesiale, sarà sempre
feconda, come i noiosi consigli di una madre danno frutto col tempo nel cuore dei figli.
141. Si rimane ammirati dalle risorse impiegate dal Signore per dialogare con il suo popolo, per
rivelare il suo mistero a tutti, per affascinare gente comune con insegnamenti così elevati e così
esigenti. Credo che il segreto si nasconda in quello sguardo di Gesù verso il popolo, al di là delle
sue debolezze e cadute: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a
voi il Regno» (Lc 12,32); Gesù predica con quello spirito. Benedice ricolmo di gioia nello Spirito il
Padre che attrae i piccoli: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai
nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» (Lc 10,21). Il Signore si
compiace veramente nel dialogare con il suo popolo e il predicatore deve far percepire questo
piacere del Signore alla sua gente.
Parole che fanno ardere i cuori
142. Un dialogo è molto di più che la comunicazione di una verità. Si realizza per il piacere di
parlare e per il bene concreto che si comunica tra coloro che si vogliono bene per mezzo delle
parole. È un bene che non consiste in cose, ma nelle stesse persone che scambievolmente si
donano nel dialogo. La predicazione puramente moralista o indottrinante, ed anche quella che si
trasforma in una lezione di esegesi, riducono questa comunicazione tra i cuori che si dà
nell’omelia e che deve avere un carattere quasi sacramentale: «La fede viene dall’ascolto e
l’ascolto riguarda la parola di Cristo» (Rm 10,17). Nell’omelia, la verità si accompagna alla
bellezza e al bene. Non si tratta di verità astratte o di freddi sillogismi, perché si comunica anche
la bellezza delle immagini che il Signore utilizzava per stimolare la pratica del bene. La memoria
del popolo fedele, come quella di Maria, deve rimanere traboccante delle meraviglie di Dio. Il suo
cuore, aperto alla speranza di una pratica gioiosa e possibile dell’amore che gli è stato
annunciato, sente che ogni parola nella Scrittura è anzitutto dono, prima che esigenza.
143. La sfida di una predica inculturata consiste nel trasmettere la sintesi del messaggio

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evangelico, e non idee o valori slegati. Dove sta la tua sintesi, lì sta il tuo cuore. La differenza tra
far luce sulla sintesi e far luce su idee slegate tra loro è la stessa che c’è tra la noia e l’ardore del
cuore. Il predicatore ha la bellissima e difficile missione di unire i cuori che si amano: quello del
Signore e quelli del suo popolo. Il dialogo tra Dio e il suo popolo rafforza ulteriormente l’alleanza
tra di loro e rinsalda il vincolo della carità. Durante il tempo dell’omelia, i cuori dei credenti fanno
silenzio e lasciano che parli Lui. Il Signore e il suo popolo si parlano in mille modi direttamente,
senza intermediari. Tuttavia, nell’omelia, vogliono che qualcuno faccia da strumento ed esprima i
sentimenti, in modo tale che in seguito ciascuno possa scegliere come continuare la
conversazione. La parola è essenzialmente mediatrice e richiede non solo i due dialoganti ma
anche un predicatore che la rappresenti come tale, convinto che « noi non annunciamo noi stessi,
ma Cristo Gesù Signore: quanto a noi, siamo i vostri servitori a causa di Gesù » (2 Cor 4,5).
144. Parlare con il cuore implica mantenerlo non solo ardente, ma illuminato dall’integrità della
Rivelazione e dal cammino che la Parola di Dio ha percorso nel cuore della Chiesa e del nostro
popolo fedele lungo il corso della storia. L’identità cristiana, che è quell’abbraccio battesimale che
ci ha dato da piccoli il Padre, ci fa anelare, come figli prodighi – e prediletti in Maria –, all’altro
abbraccio, quello del Padre misericordioso che ci attende nella gloria. Far sì che il nostro popolo si
senta come in mezzo tra questi due abbracci, è il compito difficile ma bello di chi predica il
Vangelo.
III. La preparazione della predicazione
145. La preparazione della predicazione è un compito così importante che conviene dedicarle un
tempo prolungato di studio, preghiera, riflessione e creatività pastorale. Con molto affetto desidero
soffermarmi a proporre un itinerario di preparazione per l’omelia. Sono indicazioni che per alcuni
potranno apparire ovvie, ma ritengo opportuno suggerirle per ricordare la necessità di dedicare un
tempo privilegiato a questo prezioso ministero. Alcuni parroci sovente sostengono che questo non
è possibile a causa delle tante incombenze che devono svolgere; tuttavia, mi azzardo a chiedere
che tutte le settimane si dedichi a questo compito un tempo personale e comunitario
sufficientemente prolungato, anche se si dovesse dare meno tempo ad altri impegni, pur
importanti. La fiducia nello Spirito Santo che agisce nella predicazione non è meramente passiva,
ma attiva e creativa. Implica offrirsi come strumento (cfr Rm 12,1), con tutte le proprie capacità,
perché possano essere utilizzate da Dio. Un predicatore che non si prepara non è “spirituale”, è
disonesto ed irresponsabile verso i doni che ha ricevuto.
Il culto della verità
146. Il primo passo, dopo aver invocato lo Spirito Santo, è prestare tutta l’attenzione al testo
biblico, che dev’essere il fondamento della predicazione. Quando uno si sofferma a cercare di
comprendere qual è il messaggio di un testo, esercita il «culto della verità».[113] È l’umiltà del
cuore che riconosce che la Parola ci trascende sempre, che non siamo «né padroni, né arbitri, ma

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49
i depositari, gli araldi, i servitori».[114] Tale disposizione di umile e stupita venerazione della
Parola si esprime nel soffermarsi a studiarla con la massima attenzione e con un santo timore di
manipolarla. Per poter interpretare un testo biblico occorre pazienza, abbandonare ogni ansietà e
dare tempo, interesse e dedizione gratuita. Bisogna mettere da parte qualsiasi preoccupazione
che ci assilla per entrare in un altro ambito di serena attenzione. Non vale la pena dedicarsi a
leggere un testo biblico se si vogliono ottenere risultati rapidi, facili o immediati. Perciò, la
preparazione della predicazione richiede amore. Si dedica un tempo gratuito e senza fretta
unicamente alle cose o alle persone che si amano; e qui si tratta di amare Dio che ha voluto
parlare. A partire da tale amore, ci si può trattenere per tutto il tempo necessario, con
l’atteggiamento del discepolo: «Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta» (1 Sam 3,9).
147. Prima di tutto conviene essere sicuri di comprendere adeguatamente il significato delle
parole che leggiamo. Desidero insistere su qualcosa che sembra evidente ma che non sempre è
tenuto presente: il testo biblico che studiamo ha duemila o tremila anni, il suo linguaggio è molto
diverso da quello che utilizziamo oggi. Per quanto ci sembri di comprendere le parole, che sono
tradotte nella nostra lingua, ciò non significa che comprendiamo correttamente quanto intendeva
esprimere lo scrittore sacro. Sono note le varie risorse che offre l’analisi letteraria: prestare
attenzione alle parole che si ripetono o che si distinguono, riconoscere la struttura e il dinamismo
proprio di un testo, considerare il posto che occupano i personaggi, ecc. Ma l’obiettivo non è
quello di capire tutti i piccoli dettagli di un testo, la cosa più importante è scoprire qual è il
messaggio principale, quello che conferisce struttura e unità al testo. Se il predicatore non compie
questo sforzo, è possibile che neppure la sua predicazione abbia unità e ordine; il suo discorso
sarà solo una somma di varie idee disarticolate che non riusciranno a mobilitare gli altri. Il
messaggio centrale è quello che l’autore in primo luogo ha voluto trasmettere, il che implica non
solamente riconoscere un’idea, ma anche l’effetto che quell’autore ha voluto produrre. Se un testo
è stato scritto per consolare, non dovrebbe essere utilizzato per correggere errori; se è stato
scritto per esortare, non dovrebbe essere utilizzato per istruire; se è stato scritto per insegnare
qualcosa su Dio, non dovrebbe essere utilizzato per spiegare diverse idee teologiche; se è stato
scritto per motivare la lode o il compito missionario, non utilizziamolo per informare circa le ultime
notizie.
148. Certamente, per intendere adeguatamente il senso del messaggio centrale di un testo, è
necessario porlo in connessione con l’insegnamento di tutta la Bibbia, trasmessa dalla Chiesa.
Questo è un principio importante dell’interpretazione biblica, che tiene conto del fatto che lo Spirito
Santo non ha ispirato solo una parte, ma l’intera Bibbia, e che in alcune questioni il popolo è
cresciuto nella sua comprensione della volontà di Dio a partire dall’esperienza vissuta. In tal modo
si evitano interpretazioni sbagliate o parziali, che contraddicono altri insegnamenti della stessa
Scrittura. Ma questo non significa indebolire l’accento proprio e specifico del testo che si deve
predicare. Uno dei difetti di una predicazione tediosa e inefficace è proprio quello di non essere in
grado di trasmettere la forza propria del testo proclamato.

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La personalizzazione della Parola
149. Il predicatore «per primo deve sviluppare una grande familiarità personale con la Parola di
Dio: non gli basta conoscere l’aspetto linguistico o esegetico, che pure è necessario; gli occorre
accostare la Parola con cuore docile e orante, perché essa penetri a fondo nei suoi pensieri e
sentimenti e generi in lui una mentalità nuova».[115] Ci fa bene rinnovare ogni giorno, ogni
domenica, il nostro fervore nel preparare l’omelia, e verificare se dentro di noi cresce l’amore per
la Parola che predichiamo. Non è bene dimenticare che «in particolare, la maggiore o minore
santità del ministro influisce realmente sull’annuncio della Parola».[116] Come afferma san Paolo,
«annunciamo, non cercando di piacere agli uomini, ma a Dio, che prova i nostri cuori» (1 Ts 2,4).
Se è vivo questo desiderio di ascoltare noi per primi la Parola che dobbiamo predicare, questa si
trasmetterà in un modo o nell’altro al Popolo di Dio: «la bocca esprime ciò che dal cuore
sovrabbonda» (Mt 12,34). Le letture della domenica risuoneranno in tutto il loro splendore nel
cuore del popolo, se in primo luogo hanno risuonato così nel cuore del Pastore.
150. Gesù si irritava di fronte a questi presunti maestri, molto esigenti con gli altri, che
insegnavano la Parola di Dio, ma non si lasciavano illuminare da essa: «Legano fardelli pesanti e
difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con
un dito» (Mt 23,4). L’Apostolo Giacomo esortava: «Fratelli miei, non siate in molti a fare da
maestri, sapendo che riceveremo un giudizio più severo» (Gc 3,1). Chiunque voglia predicare,
prima dev’essere disposto a lasciarsi commuovere dalla Parola e a farla diventare carne nella sua
esistenza concreta. In questo modo, la predicazione consisterà in quell’attività tanto intensa e
feconda che è «comunicare agli altri ciò che uno ha contemplato».[117] Per tutto questo, prima di
preparare concretamente quello che uno dirà nella predicazione, deve accettare di essere ferito
per primo da quella Parola che ferirà gli altri, perché è una Parola viva ed efficace, che come una
spada «penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla,
e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12). Questo riveste un’importanza pastorale.
Anche in questa epoca la gente preferisce ascoltare i testimoni: «ha sete di autenticità […]
reclama evangelizzatori che gli parlino di un Dio che essi conoscano e che sia a loro familiare,
come se vedessero l’Invisibile».[118]
151. Non ci viene chiesto di essere immacolati, ma piuttosto che siamo sempre in crescita, che
viviamo il desiderio profondo di progredire nella via del Vangelo, e non ci lasciamo cadere le
braccia. La cosa indispensabile è che il predicatore abbia la certezza che Dio lo ama, che Gesù
Cristo lo ha salvato, che il suo amore ha sempre l’ultima parola. Davanti a tanta bellezza, tante
volte sentirà che la sua vita non le dà gloria pienamente e desidererà sinceramente rispondere
meglio ad un amore così grande. Ma se non si sofferma ad ascoltare la Parola con sincera
apertura, se non lascia che tocchi la sua vita, che lo metta in discussione, che lo esorti, che lo
smuova, se non dedica un tempo per pregare con la Parola, allora sì sarà un falso profeta, un
truffatore o un vuoto ciarlatano. In ogni caso, a partire dal riconoscimento della sua povertà e con
il desiderio di impegnarsi maggiormente, potrà sempre donare Gesù Cristo, dicendo come Pietro:

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«Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do» (At 3,6). Il Signore vuole utilizzarci
come esseri vivi, liberi e creativi, che si lasciano penetrare dalla sua Parola prima di trasmetterla; il
suo messaggio deve passare realmente attraverso il predicatore, ma non solo attraverso la
ragione, ma prendendo possesso di tutto il suo essere. Lo Spirito Santo, che ha ispirato la Parola,
è Colui che «oggi come agli inizi della Chiesa, opera in ogni evangelizzatore che si lasci
possedere e condurre da lui, che gli suggerisce le parole che da solo non saprebbe trovare».[119]
La lettura spirituale
152. Esiste una modalità concreta per ascoltare quello che il Signore vuole dirci nella sua Parola e
per lasciarci trasformare dal suo Spirito. È ciò che chiamiamo “lectio divina”. Consiste nella lettura
della Parola di Dio all’interno di un momento di preghiera per permetterle di illuminarci e
rinnovarci. Questa lettura orante della Bibbia non è separata dallo studio che il predicatore compie
per individuare il messaggio centrale del testo; al contrario, deve partire da lì, per cercare di
scoprire che cosa dice quello stesso messaggio alla sua vita. La lettura spirituale di un testo deve
partire dal suo significato letterale. Altrimenti si farà facilmente dire al testo quello che conviene,
quello che serve per confermare le proprie decisioni, quello che si adatta ai propri schemi mentali.
Questo, in definitiva, sarebbe utilizzare qualcosa di sacro a proprio vantaggio e trasferire tale
confusione al Popolo di Dio. Non bisogna mai dimenticare che a volte «anche Satana si maschera
da angelo di luce» (2 Cor 11,14).
153. Alla presenza di Dio, in una lettura calma del testo, è bene domandare, per esempio:
«Signore, che cosa dice a me questo testo? Che cosa vuoi cambiare della mia vita con questo
messaggio? Che cosa mi dà fastidio in questo testo? Perché questo non mi interessa?», oppure:
«Che cosa mi piace, che cosa mi stimola in questa Parola? Che cosa mi attrae? Perché mi
attrae?». Quando si cerca di ascoltare il Signore è normale avere tentazioni. Una di esse è
semplicemente sentirsi infastidito o oppresso, e chiudersi; altra tentazione molto comune è iniziare
a pensare quello che il testo dice agli altri, per evitare di applicarlo alla propria vita. Accade anche
che uno inizia a cercare scuse che gli permettano di annacquare il messaggio specifico di un
testo. Altre volte riteniamo che Dio esiga da noi una decisione troppo grande, che non siamo
ancora in condizione di prendere. Questo porta molte persone a perdere la gioia dell’incontro con
la Parola, ma questo vorrebbe dire dimenticare che nessuno è più paziente di Dio Padre, che
nessuno comprende e sa aspettare come Lui. Egli invita sempre a fare un passo in più, ma non
esige una risposta completa se ancora non abbiamo percorso il cammino che la rende possibile.
Semplicemente desidera che guardiamo con sincerità alla nostra esistenza e la presentiamo
senza finzioni ai suoi occhi, che siamo disposti a continuare a crescere, e che domandiamo a Lui
ciò che ancora non riusciamo ad ottenere.
In ascolto del popolo
154. Il predicatore deve anche porsi in ascolto del popolo, per scoprire quello che i fedeli hanno

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bisogno di sentirsi dire. Un predicatore è un contemplativo della Parola ed anche un contemplativo
del popolo. In questo modo, egli scopre «le aspirazioni, le ricchezze e i limiti, i modi di pregare, di
amare, di considerare la vita e il mondo, che contrassegnano un determinato ambito umano»,
prestando attenzione al «popolo concreto al quale si rivolge, se non utilizza la sua lingua, i suoi
segni e simboli, se non risponde ai problemi da esso posti».[120] Si tratta di collegare il
messaggio del testo biblico con una situazione umana, con qualcosa che essi vivono, con
un’esperienza che ha bisogno della luce della Parola. Questa preoccupazione non risponde a un
atteggiamento opportunista o diplomatico, ma è profondamente religiosa e pastorale. In fondo è
«una vera sensibilità spirituale per saper leggere negli avvenimenti il messaggio di Dio»[121] e
questo è molto di più che trovare qualcosa di interessante da dire. Ciò che si cerca di scoprire è
«ciò che il Signore ha da dire in questa circostanza».[122] Dunque, la preparazione della
predicazione si trasforma in un esercizio di discernimento evangelico, nel quale si cerca di
riconoscere – alla luce dello Spirito – quell’ «“appello”, che Dio fa risuonare nella stessa situazione
storica: anche in essa e attraverso di essa Dio chiama il credente».[123]
155. In questa ricerca è possibile ricorrere semplicemente a qualche esperienza umana frequente,
come la gioia di un nuovo incontro, le delusioni, la paura della solitudine, la compassione per il
dolore altrui, l’insicurezza davanti al futuro, la preoccupazione per una persona cara, ecc.; però
occorre accrescere la sensibilità per riconoscere ciò che realmente ha a che fare con la loro vita.
Ricordiamo che non bisogna mai rispondere a domande che nessuno si pone; neppure è
opportuno offrire cronache dell’attualità per suscitare interesse: per questo ci sono già i programmi
televisivi. È comunque possibile prendere le mosse da qualche fatto affinché la Parola possa
risuonare con forza nel suo invito alla conversione, all’adorazione, ad atteggiamenti concreti di
fraternità e di servizio, ecc., poiché talvolta certe persone hanno piacere di ascoltare nella predica
dei commenti sulla realtà, ma non per questo si lasciano interpellare personalmente.
Strumenti pedagogici
156. Alcuni credono di poter essere buoni predicatori perché sanno quello che devono dire, però
trascurano il come, il modo concreto di sviluppare una predicazione. Si arrabbiano quando gli altri
non li ascoltano o non li apprezzano, ma forse non si sono impegnati a cercare il modo adeguato
di presentare il messaggio. Ricordiamo che «l’importanza evidente del contenuto
dell’evangelizzazione non deve nasconderne l’importanza delle vie e dei mezzi».[124] La
preoccupazione per la modalità della predicazione è anch’essa un atteggiamento profondamente
spirituale. Significa rispondere all’amore di Dio, dedicandoci con tutte le nostre capacità e la nostra
creatività alla missione che Egli ci affida; ma è anche un esercizio squisito di amore al prossimo,
perché non vogliamo offrire agli altri qualcosa di scarsa qualità. Nella Bibbia, per esempio,
troviamo la raccomandazione di preparare la predicazione per assicurare ad essa una misura
adeguata: «Compendia il tuo discorso. Molte cose in poche parole» (Sir 32,8).
157. Solo per esemplificare, ricordiamo alcuni strumenti pratici, che possono arricchire una

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predicazione e renderla più attraente. Uno degli sforzi più necessari è imparare ad usare immagini
nella predicazione, vale a dire a parlare con immagini. A volte si utilizzano esempi per rendere più
comprensibile qualcosa che si intende spiegare, però quegli esempi spesso si rivolgono solo al
ragionamento; le immagini, invece, aiutano ad apprezzare ed accettare il messaggio che si vuole
trasmettere. Un’immagine attraente fa sì che il messaggio venga sentito come qualcosa di
familiare, vicino, possibile, legato alla propria vita. Un’immagine ben riuscita può portare a gustare
il messaggio che si desidera trasmettere, risveglia un desiderio e motiva la volontà nella direzione
del Vangelo. Una buona omelia, come mi diceva un vecchio maestro, deve contenere “un’idea, un
sentimento, un’immagine”.
158. Diceva già Paolo VI che i fedeli «si attendono molto da questa predicazione, e ne ricavano
frutto purché essa sia semplice, chiara, diretta, adatta».[125] La semplicità ha a che vedere con il
linguaggio utilizzato. Dev’essere il linguaggio che i destinatari comprendono per non correre il
rischio di parlare a vuoto. Frequentemente accade che i predicatori si servono di parole che hanno
appreso durante i loro studi e in determinati ambienti, ma che non fanno parte del linguaggio
comune delle persone che li ascoltano. Ci sono parole proprie della teologia o della catechesi, il
cui significato non è comprensibile per la maggioranza dei cristiani. Il rischio maggiore per un
predicatore è abituarsi al proprio linguaggio e pensare che tutti gli altri lo usino e lo comprendano
spontaneamente. Se si vuole adattarsi al linguaggio degli altri per poter arrivare ad essi con la
Parola, si deve ascoltare molto, bisogna condividere la vita della gente e prestarvi volentieri
attenzione. La semplicità e la chiarezza sono due cose diverse. Il linguaggio può essere molto
semplice, ma la predica può essere poco chiara. Può risultare incomprensibile per il suo disordine,
per mancanza di logica, o perché tratta contemporaneamente diversi temi. Pertanto un altro
compito necessario è fare in modo che la predicazione abbia unità tematica, un ordine chiaro e
connessione tra le frasi, in modo che le persone possano seguire facilmente il predicatore e
cogliere la logica di quello che dice.
159. Altra caratteristica è il linguaggio positivo. Non dice tanto quello che non si deve fare ma
piuttosto propone quello che possiamo fare meglio. In ogni caso, se indica qualcosa di negativo,
cerca sempre di mostrare anche un valore positivo che attragga, per non fermarsi alla lagnanza, al
lamento, alla critica o al rimorso. Inoltre, una predicazione positiva offre sempre speranza, orienta
verso il futuro, non ci lascia prigionieri della negatività. Che buona cosa che sacerdoti, diaconi e
laici si riuniscano periodicamente per trovare insieme gli strumenti che rendono più attraente la
predicazione!
IV. Un’evangelizzazione per l’approfondimento del kerygma
160. Il mandato missionario del Signore comprende l’appello alla crescita della fede quando
indica: «insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,20). Così appare
chiaro che il primo annuncio deve dar luogo anche ad un cammino di formazione e di
maturazione. L’evangelizzazione cerca anche la crescita, il che implica prendere molto sul serio

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ogni persona e il progetto che il Signore ha su di essa. Ciascun essere umano ha sempre di più
bisogno di Cristo, e l’evangelizzazione non dovrebbe consentire che qualcuno si accontenti di
poco, ma che possa dire pienamente: «Non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).
161. Non sarebbe corretto interpretare questo appello alla crescita esclusivamente o
prioritariamente come formazione dottrinale. Si tratta di «osservare» quello che il Signore ci ha
indicato, come risposta al suo amore, dove risalta, insieme a tutte le virtù, quel comandamento
nuovo che è il primo, il più grande, quello che meglio ci identifica come discepoli: «Questo è il mio
comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,12). È evidente che
quando gli autori del Nuovo Testamento vogliono ridurre ad un’ultima sintesi, al più essenziale, il
messaggio morale cristiano, ci presentano l’ineludibile esigenza dell’amore del prossimo: «Chi
ama l’altro ha adempiuto la legge ... pienezza della Legge è la carità» (Rm 13,8.10). «Se adempite
quella che, secondo la Scrittura, è la legge regale: Amerai il prossimo tuo come te stesso, fate
bene» (Gc 2,8). «Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo
prossimo come te stesso» (Gal 5,14). Paolo proponeva alle sue comunità un cammino di crescita
nell’amore: «Il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti» (1 Ts
3,12).
162. D’altro canto, questo cammino di risposta e di crescita è sempre preceduto dal dono, perché
lo precede quell’altra richiesta del Signore: «battezzandole nel nome...» (Mt 28,19). L’adozione a
figli che il Padre regala gratuitamente e l’iniziativa del dono della sua grazia (cfr Ef 2,8-9; 1 Cor
4,7) sono la condizione di possibilità di questa santificazione permanente che piace a Dio e gli dà
gloria. Si tratta di lasciarsi trasformare in Cristo per una progressiva vita «secondo lo Spirito» (Rm
8,5).
Una catechesi kerygmatica e mistagogica
163. L’educazione e la catechesi sono al servizio di questa crescita. Abbiamo a disposizione già
diversi testi magisteriali e sussidi sulla catechesi offerti dalla Santa Sede e da diversi Episcopati.
Ricordo l’Esortazione apostolica Catechesi tradendae (1979), il Direttorio generale per la
catechesi (1997) e altri documenti il cui contenuto attuale non è necessario ripetere qui. Vorrei
soffermarmi solamente su alcune considerazioni che mi sembra opportuno rilevare.
164. Abbiamo riscoperto che anche nella catechesi ha un ruolo fondamentale il primo annuncio o
kerygma”, che deve occupare il centro dell’attività evangelizzatrice e di ogni intento di
rinnovamento ecclesiale. Il kerygma è trinitario. È il fuoco dello Spirito che si dona sotto forma di
lingue e ci fa credere in Gesù Cristo, che con la sua morte e resurrezione ci rivela e ci comunica
l’infinita misericordia del Padre. Sulla bocca del catechista torna sempre a risuonare il primo
annuncio: “Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni
giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti”. Quando diciamo che questo annuncio è “il
primo”, ciò non significa che sta all’inizio e dopo si dimentica o si sostituisce con altri contenuti che

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lo superano. È il primo in senso qualitativo, perché è l’annuncio principale, quello che si deve
sempre tornare ad ascoltare in modi diversi e che si deve sempre tornare ad annunciare durante
la catechesi in una forma o nell’altra, in tutte le sue tappe e i suoi momenti.[126] Per questo anche
«il sacerdote, come la Chiesa, deve crescere nella coscienza del suo permanente bisogno di
essere evangelizzato».[127]
165. Non si deve pensare che nella catechesi il kerygma venga abbandonato a favore di una
formazione che si presupporrebbe essere più “solida”. Non c’è nulla di più solido, di più profondo,
di più sicuro, di più consistente e di più saggio di tale annuncio. Tutta la formazione cristiana è
prima di tutto l’approfondimento del kerygma che va facendosi carne sempre più e sempre meglio,
che mai smette di illuminare l’impegno catechistico, e che permette di comprendere
adeguatamente il significato di qualunque tema che si sviluppa nella catechesi. È l’annuncio che
risponde all’anelito d’infinito che c’è in ogni cuore umano. La centralità del kerygma richiede
alcune caratteristiche dell’annuncio che oggi sono necessarie in ogni luogo: che esprima l’amore
salvifico di Dio previo all’obbligazione morale e religiosa, che non imponga la verità e che faccia
appello alla libertà, che possieda qualche nota di gioia, stimolo, vitalità, ed un’armoniosa
completezza che non riduca la predicazione a poche dottrine a volte più filosofiche che
evangeliche. Questo esige dall’evangelizzatore alcune disposizioni che aiutano ad accogliere
meglio l’annuncio: vicinanza, apertura al dialogo, pazienza, accoglienza cordiale che non
condanna.
166. Un’altra caratteristica della catechesi, che si è sviluppata negli ultimi decenni, è quella
dell’iniziazione mistagogica,[128] che significa essenzialmente due cose: la necessaria
progressività dell’esperienza formativa in cui interviene tutta la comunità ed una rinnovata
valorizzazione dei segni liturgici dell’iniziazione cristiana. Molti manuali e molte pianificazioni non
si sono ancora lasciati interpellare dalla necessità di un rinnovamento mistagogico, che potrebbe
assumere forme molto diverse in accordo con il discernimento di ogni comunità educativa.
L’incontro catechistico è un annuncio della Parola ed è centrato su di essa, ma ha sempre bisogno
di un’adeguata ambientazione e di una motivazione attraente, dell’uso di simboli eloquenti,
dell’inserimento in un ampio processo di crescita e dell’integrazione di tutte le dimensioni della
persona in un cammino comunitario di ascolto e di risposta.
167. È bene che ogni catechesi presti una speciale attenzione alla “via della bellezza” (via
pulchritudinis).[129] Annunciare Cristo significa mostrare che credere in Lui e seguirlo non è
solamente una cosa vera e giusta, ma anche bella, capace di colmare la vita di un nuovo
splendore e di una gioia profonda, anche in mezzo alle prove. In questa prospettiva, tutte le
espressioni di autentica bellezza possono essere riconosciute come un sentiero che aiuta ad
incontrarsi con il Signore Gesù. Non si tratta di fomentare un relativismo estetico,[130] che possa
oscurare il legame inseparabile tra verità, bontà e bellezza, ma di recuperare la stima della
bellezza per poter giungere al cuore umano e far risplendere in esso la verità e la bontà del
Risorto. Se, come afferma sant’Agostino, noi non amiamo se non ciò che è bello,[131] il Figlio

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fatto uomo, rivelazione della infinita bellezza, è sommamente amabile, e ci attrae a sé con legami
d’amore. Dunque si rende necessario che la formazione nella via pulchritudinis sia inserita nella
trasmissione della fede. È auspicabile che ogni Chiesa particolare promuova l’uso delle arti nella
sua opera evangelizzatrice, in continuità con la ricchezza del passato, ma anche nella vastità delle
sue molteplici espressioni attuali, al fine di trasmettere la fede in un nuovo “linguaggio
parabolico”.[132] Bisogna avere il coraggio di trovare i nuovi segni, i nuovi simboli, una nuova
carne per la trasmissione della Parola, le diverse forme di bellezza che si manifestano in vari
ambiti culturali, e comprese quelle modalità non convenzionali di bellezza, che possono essere
poco significative per gli evangelizzatori, ma che sono diventate particolarmente attraenti per gli
altri.
168. Per quanto riguarda la proposta morale della catechesi, che invita a crescere nella fedeltà
allo stile di vita del Vangelo, è opportuno indicare sempre il bene desiderabile, la proposta di vita,
di maturità, di realizzazione, di fecondità, alla cui luce si può comprendere la nostra denuncia dei
mali che possono oscurarla. Più che come esperti in diagnosi apocalittiche o giudici oscuri che si
compiacciono di individuare ogni pericolo o deviazione, è bene che possano vederci come gioiosi
messaggeri di proposte alte, custodi del bene e della bellezza che risplendono in una vita fedele al
Vangelo.
L’accompagnamento personale dei processi di crescita
169. In una civiltà paradossalmente ferita dall’anonimato e, al tempo stesso, ossessionata per i
dettagli della vita degli altri, spudoratamente malata di curiosità morbosa, la Chiesa ha bisogno di
uno sguardo di vicinanza per contemplare, commuoversi e fermarsi davanti all’altro tutte le volte
che sia necessario. In questo mondo i ministri ordinati e gli altri operatori pastorali possono
rendere presente la fragranza della presenza vicina di Gesù ed il suo sguardo personale. La
Chiesa dovrà iniziare i suoi membri – sacerdoti, religiosi e laici – a questa “arte
dell’accompagnamento”, perché tutti imparino sempre a togliersi i sandali davanti alla terra sacra
dell’altro (cfr Es 3,5). Dobbiamo dare al nostro cammino il ritmo salutare della prossimità, con uno
sguardo rispettoso e pieno di compassione ma che nel medesimo tempo sani, liberi e incoraggi a
maturare nella vita cristiana.
170. Benché suoni ovvio, l’accompagnamento spirituale deve condurre sempre più verso Dio, in
cui possiamo raggiungere la vera libertà. Alcuni si credono liberi quando camminano in disparte
dal Signore, senza accorgersi che rimangono esistenzialmente orfani, senza un riparo, senza una
dimora dove fare sempre ritorno. Cessano di essere pellegrini e si trasformano in erranti, che
ruotano sempre intorno a sé stessi senza arrivare da nessuna parte. L’accompagnamento
sarebbe controproducente se diventasse una specie di terapia che rafforzi questa chiusura delle
persone nella loro immanenza e cessi di essere un pellegrinaggio con Cristo verso il Padre.
171. Più che mai abbiamo bisogno di uomini e donne che, a partire dalla loro esperienza di

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accompagnamento, conoscano il modo di procedere, dove spiccano la prudenza, la capacità di
comprensione, l’arte di aspettare, la docilità allo Spirito, per proteggere tutti insieme le pecore che
si affidano a noi dai lupi che tentano di disgregare il gregge. Abbiamo bisogno di esercitarci
nell’arte di ascoltare, che è più che sentire. La prima cosa, nella comunicazione con l’altro, è la
capacità del cuore che rende possibile la prossimità, senza la quale non esiste un vero incontro
spirituale. L’ascolto ci aiuta ad individuare il gesto e la parola opportuna che ci smuove dalla
tranquilla condizione di spettatori. Solo a partire da questo ascolto rispettoso e capace di
compatire si possono trovare le vie per un’autentica crescita, si può risvegliare il desiderio
dell’ideale cristiano, l’ansia di rispondere pienamente all’amore di Dio e l’anelito di sviluppare il
meglio di quanto Dio ha seminato nella propria vita. Sempre però con la pazienza di chi conosce
quanto insegnava san Tommaso: che qualcuno può avere la grazia e la carità, ma non esercitare
bene nessuna delle virtù «a causa di alcune inclinazioni contrarie»[133] che persistono. In altri
termini, l’organicità delle virtù si dà sempre e necessariamente “in habitu”, benché i
condizionamenti possano rendere difficili le attuazioni di quegli abiti virtuosi. Da qui la necessità di
«una pedagogia che introduca le persone, passo dopo passo, alla piena appropriazione del
mistero».[134] Per giungere ad un punto di maturità, cioè perché le persone siano capaci di
decisioni veramente libere e responsabili, è indispensabile dare tempo, con una immensa
pazienza. Come diceva il beato Pietro Fabro: «Il tempo è il messaggero di Dio».
172. Chi accompagna sa riconoscere che la situazione di ogni soggetto davanti a Dio e alla sua
vita di grazia è un mistero che nessuno può conoscere pienamente dall’esterno. Il Vangelo ci
propone di correggere e aiutare a crescere una persona a partire dal riconoscimento della
malvagità oggettiva delle sue azioni (cfr Mt 18,15), ma senza emettere giudizi sulla sua
responsabilità e colpevolezza (cfr Mt 7,1; Lc 6,37). In ogni caso un valido accompagnatore non
accondiscende ai fatalismi o alla pusillanimità. Invita sempre a volersi curare, a rialzarsi, ad
abbracciare la croce, a lasciare tutto, ad uscire sempre di nuovo per annunciare il Vangelo. La
personale esperienza di lasciarci accompagnare e curare, riuscendo ad esprimere con piena
sincerità la nostra vita davanti a chi ci accompagna, ci insegna ad essere pazienti e comprensivi
con gli altri e ci mette in grado di trovare i modi per risvegliarne in loro la fiducia, l’apertura e la
disposizione a crescere.
173. L’autentico accompagnamento spirituale si inizia sempre e si porta avanti nell’ambito del
servizio alla missione evangelizzatrice. La relazione di Paolo con Timoteo e Tito è esempio di
questo accompagnamento e di questa formazione durante l’azione apostolica. Nell’affidare loro la
missione di fermarsi in ogni città per “mettere ordine in quello che rimane da fare” (cfr Tt 1,5; cfr 1
Tm 1,3-5), dà loro dei criteri per la vita personale e per l’azione pastorale. Tutto questo si
differenzia chiaramente da qualsiasi tipo di accompagnamento intimista, di autorealizzazione
isolata. I discepoli missionari accompagnano i discepoli missionari.
Circa la Parola di Dio

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174. Non solamente l’omelia deve alimentarsi della Parola di Dio. Tutta l’evangelizzazione è
fondata su di essa, ascoltata, meditata, vissuta, celebrata e testimoniata. La Sacra Scrittura è
fonte dell’evangelizzazione. Pertanto, bisogna formarsi continuamente all’ascolto della Parola. La
Chiesa non evangelizza se non si lascia continuamente evangelizzare. È indispensabile che la
Parola di Dio «diventi sempre più il cuore di ogni attività ecclesiale».[135] La Parola di Dio
ascoltata e celebrata, soprattutto nell’Eucaristia, alimenta e rafforza interiormente i cristiani e li
rende capaci di un’autentica testimonianza evangelica nella vita quotidiana. Abbiamo ormai
superato quella vecchia contrapposizione tra Parola e Sacramento. La Parola proclamata, viva ed
efficace, prepara la recezione del Sacramento, e nel Sacramento tale Parola raggiunge la sua
massima efficacia.
175. Lo studio della Sacra Scrittura dev’essere una porta aperta a tutti i credenti.[136] È
fondamentale che la Parola rivelata fecondi radicalmente la catechesi e tutti gli sforzi per
trasmettere la fede.[137] L’evangelizzazione richiede la familiarità con la Parola di Dio e questo
esige che le diocesi, le parrocchie e tutte le aggregazioni cattoliche propongano uno studio serio e
perseverante della Bibbia, come pure ne promuovano la lettura orante personale e
comunitaria.[138] Noi non cerchiamo brancolando nel buio, né dobbiamo attendere che Dio ci
rivolga la parola, perché realmente «Dio ha parlato, non è più il grande sconosciuto, ma ha
mostrato se stesso».[139] Accogliamo il sublime tesoro della Parola rivelata.
CAPITOLO QUARTO
LA DIMENSIONE SOCIALE DELL'EVANGELIZZAZIONE
176. Evangelizzare è rendere presente nel mondo il Regno di Dio. Ma «nessuna definizione
parziale e frammentaria può dare ragione della realtà ricca, complessa e dinamica, quale è quella
dell’evangelizzazione, senza correre il rischio di impoverirla e perfino di mutilarla».[140] Ora vorrei
condividere le mie preoccupazioni a proposito della dimensione sociale dell’evangelizzazione
precisamente perché, se questa dimensione non viene debitamente esplicitata, si corre sempre il
rischio di sfigurare il significato autentico e integrale della missione evangelizzatrice.
I. Le ripercussioni comunitarie e sociali del kerygma
177. Il kerygma possiede un contenuto ineludibilmente sociale: nel cuore stesso del Vangelo vi
sono la vita comunitaria e l’impegno con gli altri. Il contenuto del primo annuncio ha un’immediata
ripercussione morale il cui centro è la carità.
Confessione della fede e impegno sociale
178. Confessare un Padre che ama infinitamente ciascun essere umano implica scoprire che «con
ciò stesso gli conferisce una dignità infinita».[141] Confessare che il Figlio di Dio ha assunto la
nostra carne umana significa che ogni persona umana è stata elevata al cuore stesso di Dio.

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Confessare che Gesù ha dato il suo sangue per noi ci impedisce di conservare il minimo dubbio
circa l’amore senza limiti che nobilita ogni essere umano. La sua redenzione ha un significato
sociale perché «Dio, in Cristo, non redime solamente la singola persona, ma anche le relazioni
sociali tra gli uomini».[142] Confessare che lo Spirito Santo agisce in tutti implica riconoscere che
Egli cerca di penetrare in ogni situazione umana e in tutti i vincoli sociali: «Lo Spirito Santo
possiede un’inventiva infinita, propria della mente divina, che sa provvedere e sciogliere i nodi
delle vicende umane anche più complesse e impenetrabili».[143] L’evangelizzazione cerca di
cooperare anche con tale azione liberatrice dello Spirito. Lo stesso mistero della Trinità ci ricorda
che siamo stati creati a immagine della comunione divina, per cui non possiamo realizzarci né
salvarci da soli. Dal cuore del Vangelo riconosciamo l’intima connessione tra evangelizzazione e
promozione umana, che deve necessariamente esprimersi e svilupparsi in tutta l’azione
evangelizzatrice. L’accettazione del primo annuncio, che invita a lasciarsi amare da Dio e ad
amarlo con l’amore che Egli stesso ci comunica, provoca nella vita della persona e nelle sue
azioni una prima e fondamentale reazione: desiderare, cercare e avere a cuore il bene degli altri.
179. Questo indissolubile legame tra l’accoglienza dell’annuncio salvifico e un effettivo amore
fraterno è espressa in alcuni testi della Scrittura che è bene considerare e meditare attentamente
per ricavarne tutte le conseguenze. Si tratta di un messaggio al quale frequentemente ci
abituiamo, lo ripetiamo quasi meccanicamente, senza però assicurarci che abbia una reale
incidenza nella nostra vita e nelle nostre comunità. Com’è pericolosa e dannosa questa
assuefazione che ci porta a perdere la meraviglia, il fascino, l’entusiasmo di vivere il Vangelo della
fraternità e della giustizia! La Parola di Dio insegna che nel fratello si trova il permanente
prolungamento dell’Incarnazione per ognuno di noi: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di
questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Quanto facciamo per gli altri ha una
dimensione trascendente: «Con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi» (Mt 7,2); e
risponde alla misericordia divina verso di noi: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è
misericordioso. Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati;
perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato […] Con la misura con la quale misurate, sarà
misurato a voi in cambio» (Lc 6,36-38). Ciò che esprimono questi testi è l’assoluta priorità dell’
«uscita da sé verso il fratello» come uno dei due comandamenti principali che fondano ogni norma
morale e come il segno più chiaro per fare discernimento sul cammino di crescita spirituale in
risposta alla donazione assolutamente gratuita di Dio. Per ciò stesso «anche il servizio della carità
è una dimensione costitutiva della missione della Chiesa ed è espressione irrinunciabile della sua
stessa essenza».[144] Come la Chiesa è missionaria per natura, così sgorga inevitabilmente da
tale natura la carità effettiva per il prossimo, la compassione che comprende, assiste e promuove.
Il Regno che ci chiama
180. Leggendo le Scritture risulta peraltro chiaro che la proposta del Vangelo non consiste solo in
una relazione personale con Dio. E neppure la nostra risposta di amore dovrebbe intendersi come
una mera somma di piccoli gesti personali nei confronti di qualche individuo bisognoso, il che

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potrebbe costituire una sorta di “carità à la carte”, una serie di azioni tendenti solo a tranquillizzare
la propria coscienza. La proposta è il Regno di Dio (Lc 4,43); si tratta di amare Dio che regna nel
mondo. Nella misura in cui Egli riuscirà a regnare tra di noi, la vita sociale sarà uno spazio di
fraternità, di giustizia, di pace, di dignità per tutti. Dunque, tanto l’annuncio quanto l’esperienza
cristiana tendono a provocare conseguenze sociali. Cerchiamo il suo Regno: «Cercate anzitutto il
Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33). Il
progetto di Gesù è instaurare il Regno del Padre suo; Egli chiede ai suoi discepoli: «Predicate,
dicendo che il Regno dei cieli è vicino» (Mt 10,7).
181. Il Regno che viene anticipato e cresce tra di noi riguarda tutto e ci ricorda quel principio del
discernimento che Paolo VI proponeva in relazione al vero sviluppo: «ogni uomo e tutto
l’uomo».[145] Sappiamo che «l’evangelizzazione non sarebbe completa se non tenesse conto del
reciproco appello, che si fanno continuamente il Vangelo e la vita concreta, personale e sociale,
dell’uomo».[146] Si tratta del criterio di universalità, proprio della dinamica del Vangelo, dal
momento che il Padre desidera che tutti gli uomini si salvino e il suo disegno di salvezza consiste
nel ricapitolare tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra, sotto un solo Signore, che è
Cristo (cfr Ef 1,10). Il mandato è: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni
creatura» (Mc 16,15), perché «l’ardente aspettativa della creazione è protesa verso la rivelazione
dei figli di Dio» (Rm 8,19). Tutta la creazione vuol dire anche tutti gli aspetti della natura umana, in
modo che «la missione dell’annuncio della Buona Novella di Gesù Cristo possiede una
destinazione universale. Il suo mandato della carità abbraccia tutte le dimensioni dell’esistenza,
tutte le persone, tutti gli ambienti della convivenza e tutti i popoli. Nulla di quanto è umano può
risultargli estraneo».[147] La vera speranza cristiana, che cerca il Regno escatologico, genera
sempre storia.
L'insegnamento della Chiesa sulle questioni sociali
182. Gli insegnamenti della Chiesa sulle situazioni contingenti sono soggetti a maggiori o nuovi
sviluppi e possono essere oggetto di discussione, però non possiamo evitare di essere concreti –
senza pretendere di entrare in dettagli – perché i grandi principi sociali non rimangano mere
indicazioni generali che non interpellano nessuno. Bisogna ricavarne le conseguenze pratiche
perché «possano con efficacia incidere anche nelle complesse situazioni odierne».[148] I Pastori,
accogliendo gli apporti delle diverse scienze, hanno il diritto di emettere opinioni su tutto ciò che
riguarda la vita delle persone, dal momento che il compito dell’evangelizzazione implica ed esige
una promozione integrale di ogni essere umano. Non si può più affermare che la religione deve
limitarsi all’ambito privato e che esiste solo per preparare le anime per il cielo. Sappiamo che Dio
desidera la felicità dei suoi figli anche su questa terra, benché siano chiamati alla pienezza eterna,
perché Egli ha creato tutte le cose «perché possiamo goderne» (1 Tm 6,17), perché tutti possano
goderne. Ne deriva che la conversione cristiana esige di riconsiderare «specialmente tutto ciò che
concerne l’ordine sociale ed il conseguimento del bene comune».[149]

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183. Di conseguenza, nessuno può esigere da noi che releghiamo la religione alla segreta intimità
delle persone, senza alcuna influenza sulla vita sociale e nazionale, senza preoccuparci per la
salute delle istituzioni della società civile, senza esprimersi sugli avvenimenti che interessano i
cittadini. Chi oserebbe rinchiudere in un tempio e far tacere il messaggio di san Francesco di
Assisi e della beata Teresa di Calcutta? Essi non potrebbero accettarlo. Una fede autentica – che
non è mai comoda e individualista – implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo,
di trasmettere valori, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio sulla terra. Amiamo
questo magnifico pianeta dove Dio ci ha posto, e amiamo l’umanità che lo abita, con tutti i suoi
drammi e le sue stanchezze, con i suoi aneliti e le sue speranze, con i suoi valori e le sue fragilità.
La terra è la nostra casa comune e tutti siamo fratelli. Sebbene «il giusto ordine della società e
dello Stato sia il compito principale della politica», la Chiesa «non può né deve rimanere ai margini
della lotta per la giustizia».[150] Tutti i cristiani, anche i Pastori, sono chiamati a preoccuparsi della
costruzione di un mondo migliore. Di questo si tratta, perché il pensiero sociale della Chiesa è in
primo luogo positivo e propositivo, orienta un’azione trasformatrice, e in questo senso non cessa
di essere un segno di speranza che sgorga dal cuore pieno d’amore di Gesù Cristo. Al tempo
stesso, unisce «il proprio impegno a quello profuso nel campo sociale dalle altre Chiese e
Comunità Ecclesiali, sia a livello di riflessione dottrinale sia a livello pratico».[151]
184. Non è il momento qui per sviluppare tutte le gravi questioni sociali che segnano il mondo
attuale, alcune delle quali ho commentato nel secondo capitolo. Questo non è un documento
sociale, e per riflettere su quelle varie tematiche disponiamo di uno strumento molto adeguato nel
Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, il cui uso e studio raccomando vivamente. Inoltre,
né il Papa né la Chiesa posseggono il monopolio dell’interpretazione della realtà sociale o della
proposta di soluzioni per i problemi contemporanei. Posso ripetere qui ciò che lucidamente
indicava Paolo VI: «Di fronte a situazioni tanto diverse, ci è difficile pronunciare una parola unica e
proporre una soluzione di valore universale. Del resto non è questa la nostra ambizione e neppure
la nostra missione. Spetta alle comunità cristiane analizzare obiettivamente la situazione del loro
paese».[152]
185. Nel seguito cercherò di concentrarmi su due grandi questioni che mi sembrano fondamentali
in questo momento della storia. Le svilupperò con una certa ampiezza perché considero che
determineranno il futuro dell’umanità. Si tratta, in primo luogo, della inclusione sociale dei poveri e,
inoltre, della pace e del dialogo sociale.
II. L’inclusione sociale dei poveri
186. Dalla nostra fede in Cristo fattosi povero, e sempre vicino ai poveri e agli esclusi, deriva la
preoccupazione per lo sviluppo integrale dei più abbandonati della società.
Uniti a Dio ascoltiamo un grido

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187. Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati ad essere strumenti di Dio per la liberazione e
la promozione dei poveri, in modo che essi possano integrarsi pienamente nella società; questo
suppone che siamo docili e attenti ad ascoltare il grido del povero e soccorrerlo. È sufficiente
scorrere le Scritture per scoprire come il Padre buono desidera ascoltare il grido dei poveri: «Ho
osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi
sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo … Perciò va’! Io ti mando» (Es
3,7-8.10), e si mostra sollecito verso le sue necessità: «Poi [gli israeliti] gridarono al Signore ed
egli fece sorgere per loro un salvatore» (Gdc 3,15). Rimanere sordi a quel grido, quando noi
siamo gli strumenti di Dio per ascoltare il povero, ci pone fuori dalla volontà del Padre e dal suo
progetto, perché quel povero «griderebbe al Signore contro di te e un peccato sarebbe su di te»
(Dt 15,9). E la mancanza di solidarietà verso le sue necessità influisce direttamente sul nostro
rapporto con Dio: «Se egli ti maledice nell’amarezza del cuore, il suo creatore ne esaudirà la
preghiera» (Sir 4,6). Ritorna sempre la vecchia domanda: «Se uno ha ricchezze di questo mondo
e, vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui l’amore di
Dio?» (1 Gv 3,17). Ricordiamo anche con quanta convinzione l’Apostolo Giacomo riprendeva
l’immagine del grido degli oppressi: «Il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, e
che voi non avete pagato, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte agli orecchi del Signore
onnipotente» (5,4).
188. La Chiesa ha riconosciuto che l’esigenza di ascoltare questo grido deriva dalla stessa opera
liberatrice della grazia in ciascuno di noi, per cui non si tratta di una missione riservata solo ad
alcuni: «La Chiesa, guidata dal Vangelo della misericordia e dall’amore all’essere umano, ascolta
il grido per la giustizia e desidera rispondervi con tutte le sue forze».[153] In questo quadro si
comprende la richiesta di Gesù ai suoi discepoli: «Voi stessi date loro da mangiare» (Mc 6,37), e
ciò implica sia la collaborazione per risolvere le cause strutturali della povertà e per promuovere lo
sviluppo integrale dei poveri, sia i gesti più semplici e quotidiani di solidarietà di fronte alle miserie
molto concrete che incontriamo. La parola “solidarietà” si è un po’ logorata e a volte la si interpreta
male, ma indica molto di più di qualche atto sporadico di generosità. Richiede di creare una nuova
mentalità che pensi in termini di comunità, di priorità della vita di tutti rispetto all’appropriazione dei
beni da parte di alcuni.
189. La solidarietà è una reazione spontanea di chi riconosce la funzione sociale della proprietà e
la destinazione universale dei beni come realtà anteriori alla proprietà privata. Il possesso privato
dei beni si giustifica per custodirli e accrescerli in modo che servano meglio al bene comune, per
cui la solidarietà si deve vivere come la decisione di restituire al povero quello che gli corrisponde.
Queste convinzioni e pratiche di solidarietà, quando si fanno carne, aprono la strada ad altre
trasformazioni strutturali e le rendono possibili. Un cambiamento nelle strutture che non generi
nuove convinzioni e atteggiamenti farà sì che quelle stesse strutture presto o tardi diventino
corrotte, pesanti e inefficaci.
190. A volte si tratta di ascoltare il grido di interi popoli, dei popoli più poveri della terra, perché «la

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pace si fonda non solo sul rispetto dei diritti dell’uomo, ma anche su quello dei diritti dei
popoli».[154] Deplorevolmente, persino i diritti umani possono essere utilizzati come
giustificazione di una difesa esacerbata dei diritti individuali o dei diritti dei popoli più ricchi.
Rispettando l’indipendenza e la cultura di ciascuna Nazione, bisogna ricordare sempre che il
pianeta è di tutta l’umanità e per tutta l’umanità, e che il solo fatto di essere nati in un luogo con
minori risorse o minor sviluppo non giustifica che alcune persone vivano con minore dignità.
Bisogna ripetere che «i più favoriti devono rinunciare ad alcuni dei loro diritti per mettere con
maggiore liberalità i loro beni al servizio degli altri».[155] Per parlare in modo appropriato dei nostri
diritti dobbiamo ampliare maggiormente lo sguardo e aprire le orecchie al grido di altri popoli o di
altre regioni del nostro Paese. Abbiamo bisogno di crescere in una solidarietà che «deve
permettere a tutti i popoli di giungere con le loro forze ad essere artefici del loro destino»,[156]
così come «ciascun essere umano è chiamato a svilupparsi».[157]
191. In ogni luogo e circostanza i cristiani, incoraggiati dai loro Pastori, sono chiamati ad ascoltare
il grido dei poveri, come hanno affermato così bene i Vescovi del Brasile: «Desideriamo
assumere, ogni giorno, le gioie e le speranze, le angosce e le tristezze del popolo brasiliano,
specialmente delle popolazioni delle periferie urbane e delle zone rurali – senza terra, senza tetto,
senza pane, senza salute – violate nei loro diritti. Vedendo le loro miserie, ascoltando le loro grida
e conoscendo la loro sofferenza, ci scandalizza il fatto di sapere che esiste cibo sufficiente per tutti
e che la fame si deve alla cattiva distribuzione dei beni e del reddito. Il problema si aggrava con la
pratica generalizzata dello spreco».[158]
192. Desideriamo però ancora di più, il nostro sogno vola più alto. Non parliamo solamente di
assicurare a tutti il cibo, o un «decoroso sostentamento», ma che possano avere «prosperità nei
suoi molteplici aspetti».[159] Questo implica educazione, accesso all’assistenza sanitaria, e
specialmente lavoro, perché nel lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale, l’essere umano
esprime e accresce la dignità della propria vita. Il giusto salario permette l’accesso adeguato agli
altri beni che sono destinati all’uso comune.
Fedeltà al Vangelo per non correre invano
193. L’imperativo di ascoltare il grido dei poveri si fa carne in noi quando ci commuoviamo nel più
intimo di fronte all’altrui dolore. Rileggiamo alcuni insegnamenti della Parola di Dio sulla
misericordia, perché risuonino con forza nella vita della Chiesa. Il Vangelo proclama: «Beati i
misericordiosi, perché troveranno misericordia» (Mt 5,7). L’Apostolo Giacomo insegna che la
misericordia verso gli altri ci permette di uscire trionfanti nel giudizio divino: «Parlate e agite come
persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà, perché il giudizio sarà senza
misericordia contro chi non avrà usato misericordia. La misericordia ha sempre la meglio sul
giudizio” (2,12-13). In questo testo, Giacomo si mostra erede della maggiore ricchezza della
spiritualità ebraica del post-esilio, che attribuiva alla misericordia uno speciale valore salvifico:
«Sconta i tuoi peccati con l’elemosina e le tue iniquità con atti di misericordia verso gli afflitti,

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perché tu possa godere lunga prosperità» (Dn 4,24). In questa stessa prospettiva, la letteratura
sapienziale parla dell’elemosina come esercizio concreto della misericordia verso i bisognosi:
«L’elemosina salva dalla morte e purifica da ogni peccato» (Tb 12,9). In modo più plastico lo
esprime anche il Siracide: «L’acqua spegne il fuoco che divampa, l’elemosina espia i peccati»
(3,30). La medesima sintesi appare contenuta nel Nuovo Testamento: «Soprattutto conservate tra
voi una carità fervente, perché la carità copre una moltitudine di peccati» (1 Pt 4,8). Questa verità
penetrò profondamente la mentalità dei Padri della Chiesa ed esercitò una resistenza profetica,
come alternativa culturale, di fronte all’individualismo edonista pagano. Ricordiamo solo un
esempio: «Come, in pericolo d’incendio, corriamo a cercare acqua per spegnerlo, […] allo stesso
modo, se dalla nostra paglia sorgesse la fiamma del peccato e per tale motivo ne fossimo turbati,
una volta che ci venga data l’occasione di un’opera di misericordia, rallegriamoci di tale opera
come se fosse una fonte che ci viene offerta perché possiamo soffocare l’incendio».[160]
194. È un messaggio così chiaro, così diretto, così semplice ed eloquente, che nessuna
ermeneutica ecclesiale ha il diritto di relativizzarlo. La riflessione della Chiesa su questi testi non
dovrebbe oscurare o indebolire il loro significato esortativo, ma piuttosto aiutare a farli propri con
coraggio e fervore. Perché complicare ciò che è così semplice? Gli apparati concettuali esistono
per favorire il contatto con la realtà che si vuole spiegare e non per allontanarci da essa. Questo
vale soprattutto per le esortazioni bibliche che invitano con tanta determinazione all’amore
fraterno, al servizio umile e generoso, alla giustizia, alla misericordia verso il povero. Gesù ci ha
indicato questo cammino di riconoscimento dell’altro con le sue parole e con i suoi gesti. Perché
oscurare ciò che è così chiaro? Non preoccupiamoci solo di non cadere in errori dottrinali, ma
anche di essere fedeli a questo cammino luminoso di vita e di sapienza. Perché « ai difensori
“dell’ortodossia” si rivolge a volte il rimprovero di passività, d’indulgenza o di colpevoli complicità
rispetto a situazioni di ingiustizia intollerabili e verso i regimi politici che le mantengono ».[161]
195. Quando san Paolo si recò dagli Apostoli a Gerusalemme per discernere se stava correndo o
aveva corso invano (cfr Gal 2,2), il criterio-chiave di autenticità che gli indicarono fu che non si
dimenticasse dei poveri (cfr Gal 2,10). Questo grande criterio, affinché le comunità paoline non si
lasciassero trascinare dallo stile di vita individualista dei pagani, ha una notevole attualità nel
contesto presente, dove tende a svilupparsi un nuovo paganesimo individualista. La bellezza
stessa del Vangelo non sempre può essere adeguatamente manifestata da noi, ma c’è un segno
che non deve mai mancare: l’opzione per gli ultimi, per quelli che la società scarta e getta via.
196. A volte siamo duri di cuore e di mente, ci dimentichiamo, ci divertiamo, ci estasiamo con le
immense possibilità di consumo e di distrazione che offre questa società. Così si produce una
specie di alienazione che ci colpisce tutti, poiché «è alienata una società che, nelle sue forme di
organizzazione sociale, di produzione e di consumo, rende più difficile la realizzazione di questa
donazione e la formazione di quella solidarietà interumana».[162]
Il posto privilegiato dei poveri nel Popolo di Dio

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197. Nel cuore di Dio c’è un posto preferenziale per i poveri, tanto che Egli stesso «si fece
povero» (2 Cor 8,9). Tutto il cammino della nostra redenzione è segnato dai poveri. Questa
salvezza è giunta a noi attraverso il “” di una umile ragazza di un piccolo paese sperduto nella
periferia di un grande impero. Il Salvatore è nato in un presepe, tra gli animali, come accadeva per
i figli dei più poveri; è stato presentato al Tempio con due piccioni, l’offerta di coloro che non
potevano permettersi di pagare un agnello (cfr Lc 2,24; Lv 5,7); è cresciuto in una casa di semplici
lavoratori e ha lavorato con le sue mani per guadagnarsi il pane. Quando iniziò ad annunciare il
Regno, lo seguivano folle di diseredati, e così manifestò quello che Egli stesso aveva detto: «Lo
Spirito del Signore è sopra di me; perché mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a
portare ai poveri il lieto annuncio» (Lc 4,18). A quelli che erano gravati dal dolore, oppressi dalla
povertà, assicurò che Dio li portava al centro del suo cuore: «Beati voi, poveri, perché vostro è il
Regno di Dio» (Lc 6,20); e con essi si identificò: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare»,
insegnando che la misericordia verso di loro è la chiave del cielo (cfr Mt 25,35s).
198. Per la Chiesa l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale,
sociologica, politica o filosofica. Dio concede loro «la sua prima misericordia».[163] Questa
preferenza divina ha delle conseguenze nella vita di fede di tutti i cristiani, chiamati ad avere «gli
stessi sentimenti di Gesù» (Fil 2,5). Ispirata da essa, la Chiesa ha fatto una opzione per i poveri
intesa come una «forma speciale di primazia nell’esercizio della carità cristiana, della quale dà
testimonianza tutta la tradizione della Chiesa».[164] Questa opzione – insegnava Benedetto XVI
«è implicita nella fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero per noi, per arricchirci mediante
la sua povertà».[165] Per questo desidero una Chiesa povera per i poveri. Essi hanno molto da
insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo
sofferente. È necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro. La nuova evangelizzazione è
un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della
Chiesa. Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro
cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa
sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro.
199. Il nostro impegno non consiste esclusivamente in azioni o in programmi di promozione e
assistenza; quello che lo Spirito mette in moto non è un eccesso di attivismo, ma prima di tutto
un’attenzione rivolta all’altro «considerandolo come un’unica cosa con se stesso».[166] Questa
attenzione d’amore è l’inizio di una vera preoccupazione per la sua persona e a partire da essa
desidero cercare effettivamente il suo bene. Questo implica apprezzare il povero nella sua bontà
propria, col suo modo di essere, con la sua cultura, con il suo modo di vivere la fede. L’amore
autentico è sempre contemplativo, ci permette di servire l’altro non per necessità o vanità, ma
perché è bello, al di là delle apparenze. «Dall’amore per cui a uno è gradita l’altra persona
dipende il fatto che le dia qualcosa gratuitamente».[167] Il povero, quando è amato, «è
considerato di grande valore»,[168] e questo differenzia l’autentica opzione per i poveri da
qualsiasi ideologia, da qualunque intento di utilizzare i poveri al servizio di interessi personali o
politici. Solo a partire da questa vicinanza reale e cordiale possiamo accompagnarli

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adeguatamente nel loro cammino di liberazione. Soltanto questo renderà possibile che «i poveri si
sentano, in ogni comunità cristiana, come “a casa loro”. Non sarebbe, questo stile, la più grande
ed efficace presentazione della buona novella del Regno?».[169] Senza l’opzione preferenziale
per i più poveri, «l’annuncio del Vangelo, che pur è la prima carità, rischia di essere incompreso o
di affogare in quel mare di parole a cui l’odierna società della comunicazione quotidianamente ci
espone».[170]
200. Dal momento che questa Esortazione è rivolta ai membri della Chiesa Cattolica, desidero
affermare con dolore che la peggior discriminazione di cui soffrono i poveri è la mancanza di
attenzione spirituale. L’immensa maggioranza dei poveri possiede una speciale apertura alla fede;
hanno bisogno di Dio e non possiamo tralasciare di offrire loro la sua amicizia, la sua benedizione,
la sua Parola, la celebrazione dei Sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e di
maturazione nella fede. L’opzione preferenziale per i poveri deve tradursi principalmente in
un’attenzione religiosa privilegiata e prioritaria.
201. Nessuno dovrebbe dire che si mantiene lontano dai poveri perché le sue scelte di vita
comportano di prestare più attenzione ad altre incombenze. Questa è una scusa frequente negli
ambienti accademici, imprenditoriali o professionali, e persino ecclesiali. Sebbene si possa dire in
generale che la vocazione e la missione propria dei fedeli laici è la trasformazione delle varie
realtà terrene affinché ogni attività umana sia trasformata dal Vangelo,[171] nessuno può sentirsi
esonerato dalla preoccupazione per i poveri e per la giustizia sociale: «La conversione spirituale,
l’intensità dell’amore a Dio e al prossimo, lo zelo per la giustizia e la pace, il significato evangelico
dei poveri e della povertà sono richiesti a tutti».[172] Temo che anche queste parole siano
solamente oggetto di qualche commento senza una vera incidenza pratica. Nonostante ciò,
confido nell’apertura e nelle buone disposizioni dei cristiani, e vi chiedo di cercare
comunitariamente nuove strade per accogliere questa rinnovata proposta.
Economia e distribuzione delle entrate
202. La necessità di risolvere le cause strutturali della povertà non può attendere, non solo per
una esigenza pragmatica di ottenere risultati e di ordinare la società, ma per guarirla da una
malattia che la rende fragile e indegna e che potrà solo portarla a nuove crisi. I piani assistenziali,
che fanno fronte ad alcune urgenze, si dovrebbero considerare solo come risposte provvisorie.
Finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando all’autonomia assoluta
dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali della inequità,[173]
non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema. L’inequità è la radice dei
mali sociali.
203. La dignità di ogni persona umana e il bene comune sono questioni che dovrebbero
strutturare tutta la politica economica, ma a volte sembrano appendici aggiunte dall’esterno per
completare un discorso politico senza prospettive né programmi di vero sviluppo integrale. Quante

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parole sono diventate scomode per questo sistema! Dà fastidio che si parli di etica, dà fastidio che
si parli di solidarietà mondiale, dà fastidio che si parli di distribuzione dei beni, dà fastidio che si
parli di difendere i posti di lavoro, dà fastidio che si parli della dignità dei deboli, dà fastidio che si
parli di un Dio che esige un impegno per la giustizia. Altre volte accade che queste parole
diventino oggetto di una manipolazione opportunista che le disonora. La comoda indifferenza di
fronte a queste questioni svuota la nostra vita e le nostre parole di ogni significato. La vocazione di
un imprenditore è un nobile lavoro, sempre che si lasci interrogare da un significato più ampio
della vita; questo gli permette di servire veramente il bene comune, con il suo sforzo di moltiplicare
e rendere più accessibili per tutti i beni di questo mondo.
204. Non possiamo più confidare nelle forze cieche e nella mano invisibile del mercato. La
crescita in equità esige qualcosa di più della crescita economica, benché la presupponga, richiede
decisioni, programmi, meccanismi e processi specificamente orientati a una migliore distribuzione
delle entrate, alla creazione di opportunità di lavoro, a una promozione integrale dei poveri che
superi il mero assistenzialismo. Lungi da me il proporre un populismo irresponsabile, ma
l’economia non può più ricorrere a rimedi che sono un nuovo veleno, come quando si pretende di
aumentare la redditività riducendo il mercato del lavoro e creando in tal modo nuovi esclusi.
205. Chiedo a Dio che cresca il numero di politici capaci di entrare in un autentico dialogo che si
orienti efficacemente a sanare le radici profonde e non l’apparenza dei mali del nostro mondo! La
politica, tanto denigrata, è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose della carità,
perché cerca il bene comune.[174] Dobbiamo convincerci che la carità «è il principio non solo
delle micro-relazioni: rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo, ma anche delle macro-relazioni:
rapporti sociali, economici, politici».[175] Prego il Signore che ci regali più politici che abbiano
davvero a cuore la società, il popolo, la vita dei poveri! È indispensabile che i governanti e il potere
finanziario alzino lo sguardo e amplino le loro prospettive, che facciano in modo che ci sia un
lavoro degno, istruzione e assistenza sanitaria per tutti i cittadini. E perché non ricorrere a Dio
affinché ispiri i loro piani? Sono convinto che a partire da un’apertura alla trascendenza potrebbe
formarsi una nuova mentalità politica ed economica che aiuterebbe a superare la dicotomia
assoluta tra l’economia e il bene comune sociale.
206. L’economia, come indica la stessa parola, dovrebbe essere l’arte di raggiungere un’adeguata
amministrazione della casa comune, che è il mondo intero. Ogni azione economica di una certa
portata, messa in atto in una parte del pianeta, si ripercuote sul tutto; perciò nessun governo può
agire al di fuori di una comune responsabilità. Di fatto, diventa sempre più difficile individuare
soluzioni a livello locale per le enormi contraddizioni globali, per cui la politica locale si riempie di
problemi da risolvere. Se realmente vogliamo raggiungere una sana economia mondiale, c’è
bisogno in questa fase storica di un modo più efficiente di interazione che, fatta salva la sovranità
delle nazioni, assicuri il benessere economico di tutti i Paesi e non solo di pochi.
207. Qualsiasi comunità della Chiesa, nella misura in cui pretenda di stare tranquilla senza

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occuparsi creativamente e cooperare con efficacia affinché i poveri vivano con dignità e per
l’inclusione di tutti, correrà anche il rischio della dissoluzione, benché parli di temi sociali o critichi i
governi. Facilmente finirà per essere sommersa dalla mondanità spirituale, dissimulata con
pratiche religiose, con riunioni infeconde o con discorsi vuoti.
208. Se qualcuno si sente offeso dalle mie parole, gli dico che le esprimo con affetto e con la
migliore delle intenzioni, lontano da qualunque interesse personale o ideologia politica. La mia
parola non è quella di un nemico né di un oppositore. Mi interessa unicamente fare in modo che
quelli che sono schiavi di una mentalità individualista, indifferente ed egoista, possano liberarsi da
quelle indegne catene e raggiungano uno stile di vita e di pensiero più umano, più nobile, più
fecondo, che dia dignità al loro passaggio su questa terra.
Avere cura della fragilità
209. Gesù, l’evangelizzatore per eccellenza e il Vangelo in persona, si identifica specialmente con
i più piccoli (cfr Mt 25,40). Questo ci ricorda che tutti noi cristiani siamo chiamati a prenderci cura
dei più fragili della Terra. Ma nel vigente modello “di successo” e “privatistico”, non sembra abbia
senso investire affinché quelli che rimangono indietro, i deboli o i meno dotati possano farsi strada
nella vita.
210. È indispensabile prestare attenzione per essere vicini a nuove forme di povertà e di fragilità
in cui siamo chiamati a riconoscere Cristo sofferente, anche se questo apparentemente non ci
porta vantaggi tangibili e immediati: i senza tetto, i tossicodipendenti, i rifugiati, i popoli indigeni, gli
anziani sempre più soli e abbandonati, ecc. I migranti mi pongono una particolare sfida perché
sono Pastore di una Chiesa senza frontiere che si sente madre di tutti. Perciò esorto i Paesi ad
una generosa apertura, che invece di temere la distruzione dell’identità locale sia capace di creare
nuove sintesi culturali. Come sono belle le città che superano la sfiducia malsana e integrano i
differenti, e che fanno di tale integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Come sono belle le città
che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in
relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro!
211. Mi ha sempre addolorato la situazione di coloro che sono oggetto delle diverse forme di tratta
di persone. Vorrei che si ascoltasse il grido di Dio che chiede a tutti noi: «Dov’è tuo fratello?» (Gen
4,9). Dov’è il tuo fratello schiavo? Dov’è quello che stai uccidendo ogni giorno nella piccola
fabbrica clandestina, nella rete della prostituzione, nei bambini che utilizzi per l’accattonaggio, in
quello che deve lavorare di nascosto perché non è stato regolarizzato? Non facciamo finta di
niente. Ci sono molte complicità. La domanda è per tutti! Nelle nostre città è impiantato questo
crimine mafioso e aberrante, e molti hanno le mani che grondano sangue a causa di una
complicità comoda e muta.
212. Doppiamente povere sono le donne che soffrono situazioni di esclusione, maltrattamento e

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violenza, perché spesso si trovano con minori possibilità di difendere i loro diritti. Tuttavia, anche
tra di loro troviamo continuamente i più ammirevoli gesti di quotidiano eroismo nella difesa e nella
cura della fragilità delle loro famiglie.
213. Tra questi deboli, di cui la Chiesa vuole prendersi cura con predilezione, ci sono anche i
bambini nascituri, che sono i più indifesi e innocenti di tutti, ai quali oggi si vuole negare la dignità
umana al fine di poterne fare quello che si vuole, togliendo loro la vita e promuovendo legislazioni
in modo che nessuno possa impedirlo. Frequentemente, per ridicolizzare allegramente la difesa
che la Chiesa fa delle vite dei nascituri, si fa in modo di presentare la sua posizione come
qualcosa di ideologico, oscurantista e conservatore. Eppure questa difesa della vita nascente è
intimamente legata alla difesa di qualsiasi diritto umano. Suppone la convinzione che un essere
umano è sempre sacro e inviolabile, in qualunque situazione e in ogni fase del suo sviluppo. È un
fine in sé stesso e mai un mezzo per risolvere altre difficoltà. Se cade questa convinzione, non
rimangono solide e permanenti fondamenta per la difesa dei diritti umani, che sarebbero sempre
soggetti alle convenienze contingenti dei potenti di turno. La sola ragione è sufficiente per
riconoscere il valore inviolabile di ogni vita umana, ma se la guardiamo anche a partire dalla fede,
«ogni violazione della dignità personale dell’essere umano grida vendetta al cospetto di Dio e si
configura come offesa al Creatore dell’uomo».[176]
214. Proprio perché è una questione che ha a che fare con la coerenza interna del nostro
messaggio sul valore della persona umana, non ci si deve attendere che la Chiesa cambi la sua
posizione su questa questione. Voglio essere del tutto onesto al riguardo. Questo non è un
argomento soggetto a presunte riforme o a “modernizzazioni”. Non è progressista pretendere di
risolvere i problemi eliminando una vita umana. Però è anche vero che abbiamo fatto poco per
accompagnare adeguatamente le donne che si trovano in situazioni molto dure, dove l’aborto si
presenta loro come una rapida soluzione alle loro profonde angustie, particolarmente quando la
vita che cresce in loro è sorta come conseguenza di una violenza o in un contesto di estrema
povertà. Chi può non capire tali situazioni così dolorose?
215. Ci sono altri esseri fragili e indifesi, che molte volte rimangono alla mercé degli interessi
economici o di un uso indiscriminato. Mi riferisco all’insieme della creazione. Come esseri umani
non siamo dei meri beneficiari, ma custodi delle altre creature. Mediante la nostra realtà corporea,
Dio ci ha unito tanto strettamente al mondo che ci circonda, che la desertificazione del suolo è
come una malattia per ciascuno, e possiamo lamentare l’estinzione di una specie come fosse una
mutilazione. Non lasciamo che al nostro passaggio rimangano segni di distruzione e di morte che
colpiscono la nostra vita e quella delle future generazioni.[177] In questo senso, faccio proprio il
lamento bello e profetico che diversi anni fa hanno espresso i Vescovi delle Filippine:
«Un’incredibile varietà d’insetti viveva nella selva ed erano impegnati con ogni sorta di compito
proprio […] Gli uccelli volavano nell’aria, le loro brillanti piume e i loro differenti canti aggiungevano
colore e melodie al verde dei boschi [...] Dio ha voluto questa terra per noi, sue creature speciali,
ma non perché potessimo distruggerla e trasformarla in un terreno desertico [...] Dopo una sola

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notte di pioggia, guarda verso i fiumi marron-cioccolato dei tuoi paraggi, e ricorda che si portano
via il sangue vivo della terra verso il mare [...] Come potranno nuotare i pesci in fogne come il rio
Pasig e tanti altri fiumi che abbiamo contaminato? Chi ha trasformato il meraviglioso mondo
marino in cimiteri subacquei spogliati di vita e di colore?».[178]
216. Piccoli ma forti nell’amore di Dio, come san Francesco d’Assisi, tutti i cristiani siamo chiamati
a prenderci cura della fragilità del popolo e del mondo in cui viviamo.
III. Il bene comune e la pace sociale
217. Abbiamo parlato molto della gioia e dell’amore, ma la Parola di Dio menziona anche il frutto
della pace (cfr Gal 5,22).
218. La pace sociale non può essere intesa come irenismo o come una mera assenza di violenza
ottenuta mediante l’imposizione di una parte sopra le altre. Sarebbe parimenti una falsa pace
quella che servisse come scusa per giustificare un’organizzazione sociale che metta a tacere o
tranquillizzi i più poveri, in modo che quelli che godono dei maggiori benefici possano mantenere il
loro stile di vita senza scosse mentre gli altri sopravvivono come possono. Le rivendicazioni
sociali, che hanno a che fare con la distribuzione delle entrate, l’inclusione sociale dei poveri e i
diritti umani, non possono essere soffocate con il pretesto di costruire un consenso a tavolino o
un’effimera pace per una minoranza felice. La dignità della persona umana e il bene comune
stanno al di sopra della tranquillità di alcuni che non vogliono rinunciare ai loro privilegi. Quando
questi valori vengono colpiti, è necessaria una voce profetica.
219. La pace «non si riduce ad un’assenza di guerra, frutto dell’equilibrio sempre precario delle
forze. Essa si costruisce giorno per giorno, nel perseguimento di un ordine voluto da Dio, che
comporta una giustizia più perfetta tra gli uomini».[179] In definitiva, una pace che non sorga
come frutto dello sviluppo integrale di tutti, non avrà nemmeno futuro e sarà sempre seme di nuovi
conflitti e di varie forme di violenza.
220. In ogni nazione, gli abitanti sviluppano la dimensione sociale della loro vita configurandosi
come cittadini responsabili in seno ad un popolo, non come massa trascinata dalle forze
dominanti. Ricordiamo che «l’essere fedele cittadino è una virtù e la partecipazione alla vita
politica è un’obbligazione morale».[180] Ma diventare un popolo è qualcosa di più, e richiede un
costante processo nel quale ogni nuova generazione si vede coinvolta. È un lavoro lento e arduo
che esige di volersi integrare e di imparare a farlo fino a sviluppare una cultura dell’incontro in una
pluriforme armonia.
221. Per avanzare in questa costruzione di un popolo in pace, giustizia e fraternità, vi sono quattro
principi relazionati a tensioni bipolari proprie di ogni realtà sociale. Derivano dai grandi postulati
della Dottrina Sociale della Chiesa, i quali costituiscono «il primo e fondamentale parametro di

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riferimento per l’interpretazione e la valutazione dei fenomeni sociali».[181] Alla luce di essi
desidero ora proporre questi quattro principi che orientano specificamente lo sviluppo della
convivenza sociale e la costruzione di un popolo in cui le differenze si armonizzino all’interno di un
progetto comune. Lo faccio nella convinzione che la loro applicazione può rappresentare
un’autentica via verso la pace all’interno di ciascuna nazione e nel mondo intero.
Il tempo è superiore allo spazio
222. Vi è una tensione bipolare tra la pienezza e il limite. La pienezza provoca la volontà di
possedere tutto e il limite è la parete che ci si pone davanti. Il “tempo”, considerato in senso
ampio, fa riferimento alla pienezza come espressione dell’orizzonte che ci si apre dinanzi, e il
momento è espressione del limite che si vive in uno spazio circoscritto. I cittadini vivono in
tensione tra la congiuntura del momento e la luce del tempo, dell’orizzonte più grande, dell’utopia
che ci apre al futuro come causa finale che attrae. Da qui emerge un primo principio per
progredire nella costruzione di un popolo: il tempo è superiore allo spazio.
223. Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati
immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani
che il dinamismo della realtà impone. È un invito ad assumere la tensione tra pienezza e limite,
assegnando priorità al tempo. Uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica
consiste nel privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi. Dare priorità allo spazio
porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso
di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di
fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi.
Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza
retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e
coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti
avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci.
224. A volte mi domando chi sono quelli che nel mondo attuale si preoccupano realmente di dar
vita a processi che costruiscano un popolo, più che ottenere risultati immediati che producano una
rendita politica facile, rapida ed effimera, ma che non costruiscono la pienezza umana. La storia
forse li giudicherà con quel criterio che enunciava Romano Guardini: «L’unico modello per
valutare con successo un’epoca è domandare fino a che punto si sviluppa in essa e raggiunge
un’autentica ragion d’essere la pienezza dell’esistenza umana, in accordo con il carattere
peculiare e le possibilità della medesima epoca».[182]
225. Questo criterio è molto appropriato anche per l’evangelizzazione, che richiede di tener
presente l’orizzonte, di adottare i processi possibili e la strada lunga. Il Signore stesso nella sua
vita terrena fece intendere molte volte ai suoi discepoli che vi erano cose che non potevano
ancora comprendere e che era necessario attendere lo Spirito Santo (cfr Gv 16,12-13). La

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parabola del grano e della zizzania (cfr Mt 13, 24-30) descrive un aspetto importante
dell’evangelizzazione, che consiste nel mostrare come il nemico può occupare lo spazio del
Regno e causare danno con la zizzania, ma è vinto dalla bontà del grano che si manifesta con il
tempo.
L’unità prevale sul conflitto
226. Il conflitto non può essere ignorato o dissimulato. Dev’essere accettato. Ma se rimaniamo
intrappolati in esso, perdiamo la prospettiva, gli orizzonti si limitano e la realtà stessa resta
frammentata. Quando ci fermiamo nella congiuntura conflittuale, perdiamo il senso dell’unità
profonda della realtà.
227. Di fronte al conflitto, alcuni semplicemente lo guardano e vanno avanti come se nulla fosse,
se ne lavano le mani per poter continuare con la loro vita. Altri entrano nel conflitto in modo tale
che ne rimangono prigionieri, perdono l’orizzonte, proiettano sulle istituzioni le proprie confusioni e
insoddisfazioni e così l’unità diventa impossibile. Vi è però un terzo modo, il più adeguato, di porsi
di fronte al conflitto. È accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di
collegamento di un nuovo processo. «Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9).
228. In questo modo, si rende possibile sviluppare una comunione nelle differenze, che può
essere favorita solo da quelle nobili persone che hanno il coraggio di andare oltre la superficie
conflittuale e considerano gli altri nella loro dignità più profonda. Per questo è necessario
postulare un principio che è indispensabile per costruire l’amicizia sociale: l’unità è superiore al
conflitto. La solidarietà, intesa nel suo significato più profondo e di sfida, diventa così uno stile di
costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono
raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita. Non significa puntare al sincretismo, né
all’assorbimento di uno nell’altro, ma alla risoluzione su di un piano superiore che conserva in sé
le preziose potenzialità delle polarità in contrasto.
229. Questo criterio evangelico ci ricorda che Cristo ha unificato tutto in Sé: cielo e terra, Dio e
uomo, tempo ed eternità, carne e spirito, persona e società. Il segno distintivo di questa unità e
riconciliazione di tutto in Sé è la pace. Cristo «è la nostra pace» (Ef 2,14). L’annuncio evangelico
inizia sempre con il saluto di pace, e la pace corona e cementa in ogni momento le relazioni tra i
discepoli. La pace è possibile perché il Signore ha vinto il mondo e la sua permanente conflittualità
avendolo «pacificato con il sangue della sua croce» (Col 1,20). Ma se andiamo a fondo in questi
testi biblici, scopriremo che il primo ambito in cui siamo chiamati a conquistare questa
pacificazione nelle differenze è la propria interiorità, la propria vita, sempre minacciata dalla
dispersione dialettica.[183] Con cuori spezzati in mille frammenti sarà difficile costruire
un’autentica pace sociale.
230. L’annuncio di pace non è quello di una pace negoziata, ma la convinzione che l’unità dello

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73
Spirito armonizza tutte le diversità. Supera qualsiasi conflitto in una nuova, promettente sintesi. La
diversità è bella quando accetta di entrare costantemente in un processo di riconciliazione, fino a
sigillare una specie di patto culturale che faccia emergere una “diversità riconciliata”, come ben
insegnarono i Vescovi del Congo: «La diversità delle nostre etnie è una ricchezza [...] Solo con
l’unità, con la conversione dei cuori e con la riconciliazione potremo far avanzare il nostro
Paese».[184]
La realtà è più importante dell’idea
231. Esiste anche una tensione bipolare tra l’idea e la realtà. La realtà semplicemente è, l’idea si
elabora. Tra le due si deve instaurare un dialogo costante, evitando che l’idea finisca per separarsi
dalla realtà. È pericoloso vivere nel regno della sola parola, dell’immagine, del sofisma. Da qui si
desume che occorre postulare un terzo principio: la realtà è superiore all’idea. Questo implica di
evitare diverse forme di occultamento della realtà: i purismi angelicati, i totalitarismi del relativo, i
nominalismi dichiarazionisti, i progetti più formali che reali, i fondamentalismi antistorici, gli eticismi
senza bontà, gli intellettualismi senza saggezza.
232. L’idea – le elaborazioni concettuali – è in funzione del cogliere, comprendere e dirigere la
realtà. L’idea staccata dalla realtà origina idealismi e nominalismi inefficaci, che al massimo
classificano o definiscono, ma non coinvolgono. Ciò che coinvolge è la realtà illuminata dal
ragionamento. Bisogna passare dal nominalismo formale all’oggettività armoniosa. Diversamente
si manipola la verità, così come si sostituisce la ginnastica con la cosmesi.[185] Vi sono politici – e
anche dirigenti religiosi – che si domandano perché il popolo non li comprende e non li segue, se
le loro proposte sono così logiche e chiare. Probabilmente è perché si sono collocati nel regno
delle pure idee e hanno ridotto la politica o la fede alla retorica. Altri hanno dimenticato la
semplicità e hanno importato dall’esterno una razionalità estranea alla gente.
233. La realtà è superiore all’idea. Questo criterio è legato all’incarnazione della Parola e alla sua
messa in pratica: « In questo potete riconoscere lo Spirito di Dio: ogni spirito che riconosce Gesù
Cristo venuto nella carne, è da Dio » (1 Gv 4,2). Il criterio di realtà, di una Parola già incarnata e
che sempre cerca di incarnarsi, è essenziale all’evangelizzazione. Ci porta, da un lato, a
valorizzare la storia della Chiesa come storia di salvezza, a fare memoria dei nostri santi che
hanno inculturato il Vangelo nella vita dei nostri popoli, a raccogliere la ricca tradizione bimillenaria
della Chiesa, senza pretendere di elaborare un pensiero disgiunto da questo tesoro, come se
volessimo inventare il Vangelo. Dall’altro lato, questo criterio ci spinge a mettere in pratica la
Parola, a realizzare opere di giustizia e carità nelle quali tale Parola sia feconda. Non mettere in
pratica, non condurre la Parola alla realtà, significa costruire sulla sabbia, rimanere nella pura idea
e degenerare in intimismi e gnosticismi che non danno frutto, che rendono sterile il suo
dinamismo.
Il tutto è superiore alla parte

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74
234. Anche tra la globalizzazione e la localizzazione si produce una tensione. Bisogna prestare
attenzione alla dimensione globale per non cadere in una meschinità quotidiana. Al tempo stesso,
non è opportuno perdere di vista ciò che è locale, che ci fa camminare con i piedi per terra. Le due
cose unite impediscono di cadere in uno di questi due estremi: l’uno, che i cittadini vivano in un
universalismo astratto e globalizzante, passeggeri mimetizzati del vagone di coda, che ammirano i
fuochi artificiali del mondo, che è di altri, con la bocca aperta e applausi programmati; l’altro, che
diventino un museo folkloristico di “eremiti” localisti, condannati a ripetere sempre le stesse cose,
incapaci di lasciarsi interpellare da ciò che è diverso e di apprezzare la bellezza che Dio diffonde
fuori dai loro confini.
235. Il tutto è più delle parti, ed è anche più della loro semplice somma. Dunque, non si
dev’essere troppo ossessionati da questioni limitate e particolari. Bisogna sempre allargare lo
sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi. Però occorre farlo
senza evadere, senza sradicamenti. È necessario affondare le radici nella terra fertile e nella
storia del proprio luogo, che è un dono di Dio. Si lavora nel piccolo, con ciò che è vicino, però con
una prospettiva più ampia. Allo stesso modo, una persona che conserva la sua personale
peculiarità e non nasconde la sua identità, quando si integra cordialmente in una comunità, non si
annulla ma riceve sempre nuovi stimoli per il proprio sviluppo. Non è né la sfera globale che
annulla, né la parzialità isolata che rende sterili.
236. Il modello non è la sfera, che non è superiore alle parti, dove ogni punto è equidistante dal
centro e non vi sono differenze tra un punto e l’altro. Il modello è il poliedro, che riflette la
confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità. Sia l’azione pastorale
sia l’azione politica cercano di raccogliere in tale poliedro il meglio di ciascuno. Lì sono inseriti i
poveri, con la loro cultura, i loro progetti e le loro proprie potenzialità. Persino le persone che
possono essere criticate per i loro errori, hanno qualcosa da apportare che non deve andare
perduto. È l’unione dei popoli, che, nell’ordine universale, conservano la loro peculiarità; è la
totalità delle persone in una società che cerca un bene comune che veramente incorpora tutti.
237. A noi cristiani questo principio parla anche della totalità o integrità del Vangelo che la Chiesa
ci trasmette e ci invia a predicare. La sua ricchezza piena incorpora gli accademici e gli operai, gli
imprenditori e gli artisti, tutti. La “mistica popolare” accoglie a suo modo il Vangelo intero e lo
incarna in espressioni di preghiera, di fraternità, di giustizia, di lotta e di festa. La Buona Notizia è
la gioia di un Padre che non vuole che si perda nessuno dei suoi piccoli. Così sboccia la gioia nel
Buon Pastore che incontra la pecora perduta e la riporta nel suo ovile. Il Vangelo è lievito che
fermenta tutta la massa e città che brilla sull’alto del monte illuminando tutti i popoli. Il Vangelo
possiede un criterio di totalità che gli è intrinseco: non cessa di essere Buona Notizia finché non è
annunciato a tutti, finché non feconda e risana tutte le dimensioni dell’uomo, e finché non unisce
tutti gli uomini nella mensa del Regno. Il tutto è superiore alla parte.
IV. Il dialogo sociale come contributo per la pace

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238. L’evangelizzazione implica anche un cammino di dialogo. Per la Chiesa, in questo tempo ci
sono in modo particolare tre ambiti di dialogo nei quali deve essere presente, per adempiere un
servizio in favore del pieno sviluppo dell’essere umano e perseguire il bene comune: il dialogo con
gli Stati, con la società – che comprende il dialogo con le culture e le scienze – e quello con altri
credenti che non fanno parte della Chiesa cattolica. In tutti i casi «la Chiesa parla a partire da
quella luce che le offre la fede»,[186] apporta la sua esperienza di duemila anni e conserva
sempre nella memoria le vite e le sofferenze degli esseri umani. Questo va aldilà della ragione
umana, ma ha anche un significato che può arricchire quelli che non credono e invita la ragione ad
ampliare le sue prospettive.
239. La Chiesa proclama «il vangelo della pace» (Ef 6,15) ed è aperta alla collaborazione con
tutte le autorità nazionali e internazionali per prendersi cura di questo bene universale tanto
grande. Nell’annunciare Gesù Cristo, che è la pace in persona (cfr Ef 2,14), la nuova
evangelizzazione sprona ogni battezzato ad essere strumento di pacificazione e testimonianza
credibile di una vita riconciliata.[187] È tempo di sapere come progettare, in una cultura che
privilegi il dialogo come forma d’incontro, la ricerca di consenso e di accordi, senza però separarla
dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni. L’autore
principale, il soggetto storico di questo processo, è la gente e la sua cultura, non una classe, una
frazione, un gruppo, un’élite. Non abbiamo bisogno di un progetto di pochi indirizzato a pochi, o di
una minoranza illuminata o testimoniale che si appropri di un sentimento collettivo. Si tratta di un
accordo per vivere insieme, di un patto sociale e culturale.
240. Allo Stato compete la cura e la promozione del bene comune della società.[188] Sulla base
dei principi di sussidiarietà e di solidarietà, e con un notevole sforzo di dialogo politico e di
creazione del consenso, svolge un ruolo fondamentale, che non può essere delegato, nel
perseguire lo sviluppo integrale di tutti. Questo ruolo, nelle circostanze attuali, esige una profonda
umiltà sociale.
241. Nel dialogo con lo Stato e con la società, la Chiesa non dispone di soluzioni per tutte le
questioni particolari. Tuttavia, insieme con le diverse forze sociali, accompagna le proposte che
meglio possono rispondere alla dignità della persona umana e al bene comune. Nel farlo, propone
sempre con chiarezza i valori fondamentali dell’esistenza umana, per trasmettere convinzioni che
poi possano tradursi in azioni politiche.
Il dialogo tra la fede, la ragione e le scienze
242. Anche il dialogo tra scienza e fede è parte dell’azione evangelizzatrice che favorisce la
pace.[189] Lo scientismo e il positivismo si rifiutano di «ammettere come valide forme di
conoscenza diverse da quelle proprie delle scienze positive».[190] La Chiesa propone un altro
cammino, che esige una sintesi tra un uso responsabile delle metodologie proprie delle scienze
empiriche e gli altri saperi come la filosofia, la teologia, e la stessa fede, che eleva l’essere umano

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fino al mistero che trascende la natura e l’intelligenza umana. La fede non ha paura della ragione;
al contrario, la cerca e ha fiducia in essa, perché «la luce della ragione e quella della fede
provengono ambedue da Dio»,[191] e non possono contraddirsi tra loro. L’evangelizzazione è
attenta ai progressi scientifici per illuminarli con la luce della fede e della legge naturale, affinché
rispettino sempre la centralità e il valore supremo della persona umana in tutte le fasi della sua
esistenza. Tutta la società può venire arricchita grazie a questo dialogo che apre nuovi orizzonti al
pensiero e amplia le possibilità della ragione. Anche questo è un cammino di armonia e di
pacificazione.
243. La Chiesa non pretende di arrestare il mirabile progresso delle scienze. Al contrario, si
rallegra e perfino gode riconoscendo l’enorme potenziale che Dio ha dato alla mente umana.
Quando il progresso delle scienze, mantenendosi con rigore accademico nel campo del loro
specifico oggetto, rende evidente una determinata conclusione che la ragione non può negare, la
fede non la contraddice. Tanto meno i credenti possono pretendere che un’opinione scientifica a
loro gradita, e che non è stata neppure sufficientemente comprovata, acquisisca il peso di un
dogma di fede. Però, in alcune occasioni, alcuni scienziati vanno oltre l’oggetto formale della loro
disciplina e si sbilanciano con affermazioni o conclusioni che eccedono il campo propriamente
scientifico. In tal caso, non è la ragione ciò che si propone, ma una determinata ideologia, che
chiude la strada ad un dialogo autentico, pacifico e fruttuoso.
Il dialogo ecumenico
244. L’impegno ecumenico risponde alla preghiera del Signore Gesù che chiede che «tutti siano
una sola cosa» (Gv 17,21). La credibilità dell’annuncio cristiano sarebbe molto più grande se i
cristiani superassero le loro divisioni e la Chiesa realizzasse «la pienezza della cattolicità a lei
propria in quei figli che le sono certo uniti col battesimo, ma sono separati dalla sua piena
comunione».[192] Dobbiamo sempre ricordare che siamo pellegrini, e che peregriniamo insieme.
A tale scopo bisogna affidare il cuore al compagno di strada senza sospetti, senza diffidenze, e
guardare anzitutto a quello che cerchiamo: la pace nel volto dell’unico Dio. Affidarsi all’altro è
qualcosa di artigianale, la pace è artigianale. Gesù ci ha detto: «Beati gli operatori di pace» (Mt
5,9). In questo impegno, anche tra di noi, si compie l’antica profezia: «Spezzeranno le loro spade
e ne faranno aratri» (Is 2,4).
245. In questa luce, l’ecumenismo è un apporto all’unità della famiglia umana. La presenza al
Sinodo del Patriarca di Costantinopoli, Sua Santità Bartolomeo I, e dell’Arcivescovo di Canterbury,
Sua Grazia Rowan Douglas Williams,[193] è stato un autentico dono di Dio e una preziosa
testimonianza cristiana.
246. Data la gravità della controtestimonianza della divisione tra cristiani, particolarmente in Asia e
Africa, la ricerca di percorsi di unità diventa urgente. I missionari in quei continenti menzionano
ripetutamente le critiche, le lamentele e le derisioni che ricevono a causa dello scandalo dei

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cristiani divisi. Se ci concentriamo sulle convinzioni che ci uniscono e ricordiamo il principio della
gerarchia delle verità, potremo camminare speditamente verso forme comuni di annuncio, di
servizio e di testimonianza. L’immensa moltitudine che non ha accolto l’annuncio di Gesù Cristo
non può lasciarci indifferenti. Pertanto, l’impegno per un’unità che faciliti l’accoglienza di Gesù
Cristo smette di essere mera diplomazia o un adempimento forzato, per trasformarsi in una via
imprescindibile dell’evangelizzazione. I segni di divisione tra cristiani in Paesi che già sono lacerati
dalla violenza, aggiungono altra violenza da parte di coloro che dovrebbero essere un attivo
fermento di pace. Sono tante e tanto preziose le cose che ci uniscono! E se realmente crediamo
nella libera e generosa azione dello Spirito, quante cose possiamo imparare gli uni dagli altri! Non
si tratta solamente di ricevere informazioni sugli altri per conoscerli meglio, ma di raccogliere
quello che lo Spirito ha seminato in loro come un dono anche per noi. Solo per fare un esempio,
nel dialogo con i fratelli ortodossi, noi cattolici abbiamo la possibilità di imparare qualcosa di più
sul significato della collegialità episcopale e sulla loro esperienza della sinodalità. Attraverso uno
scambio di doni, lo Spirito può condurci sempre di più alla verità e al bene.
Le relazioni con l’Ebraismo
247. Uno sguardo molto speciale si rivolge al popolo ebreo, la cui Alleanza con Dio non è mai
stata revocata, perché «i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili» (Rm 11,29). La Chiesa, che
condivide con l’Ebraismo una parte importante delle Sacre Scritture, considera il popolo
dell’Alleanza e la sua fede come una radice sacra della propria identità cristiana (cfr Rm 11,16-
18). Come cristiani non possiamo considerare l’Ebraismo come una religione estranea, né
includiamo gli ebrei tra quanti sono chiamati ad abbandonare gli idoli per convertirsi al vero Dio
(cfr 1 Ts 1,9). Crediamo insieme con loro nell’unico Dio che agisce nella storia, e accogliamo con
loro la comune Parola rivelata.
248. Il dialogo e l’amicizia con i figli d’Israele sono parte della vita dei discepoli di Gesù. L’affetto
che si è sviluppato ci porta sinceramene ed amaramente a dispiacerci per le terribili persecuzioni
di cui furono e sono oggetto, particolarmente per quelle che coinvolgono o hanno coinvolto
cristiani.
249. Dio continua ad operare nel popolo dell’Antica Alleanza e fa nascere tesori di saggezza che
scaturiscono dal suo incontro con la Parola divina. Per questo anche la Chiesa si arricchisce
quando raccoglie i valori dell’Ebraismo. Sebbene alcune convinzioni cristiane siano inaccettabili
per l’Ebraismo, e la Chiesa non possa rinunciare ad annunciare Gesù come Signore e Messia,
esiste una ricca complementarietà che ci permette di leggere insieme i testi della Bibbia ebraica e
aiutarci vicendevolmente a sviscerare le ricchezze della Parola, come pure di condividere molte
convinzioni etiche e la comune preoccupazione per la giustizia e lo sviluppo dei popoli.
Il dialogo interreligioso

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250. Un atteggiamento di apertura nella verità e nell’amore deve caratterizzare il dialogo con i
credenti delle religioni non cristiane, nonostante i vari ostacoli e le difficoltà, particolarmente i
fondamentalismi da ambo le parti. Questo dialogo interreligioso è una condizione necessaria per
la pace nel mondo, e pertanto è un dovere per i cristiani, come per le altre comunità religiose.
Questo dialogo è in primo luogo una conversazione sulla vita umana o semplicemente, come
propongono i vescovi dell’India «un’atteggiamento di apertura verso di loro, condividendo le loro
gioie e le loro pene».[194] Così impariamo ad accettare gli altri nel loro differente modo di essere,
di pensare e di esprimersi. Con questo metodo, potremo assumere insieme il dovere di servire la
giustizia e la pace, che dovrà diventare un criterio fondamentale di qualsiasi interscambio. Un
dialogo in cui si cerchi la pace sociale e la giustizia è in sé stesso, al di là dell’aspetto meramente
pragmatico, un impegno etico che crea nuove condizioni sociali. Gli sforzi intorno ad un tema
specifico possono trasformarsi in un processo in cui, mediante l’ascolto dell’altro, ambo le parti
trovano purificazione e arricchimento. Pertanto, anche questi sforzi possono avere il significato di
amore per la verità.
251. In questo dialogo, sempre affabile e cordiale, non si deve mai trascurare il vincolo essenziale
tra dialogo e annuncio, che porta la Chiesa a mantenere ed intensificare le relazioni con i non
cristiani.[195] Un sincretismo conciliante sarebbe in ultima analisi un totalitarismo di quanti
pretendono di conciliare prescindendo da valori che li trascendono e di cui non sono padroni. La
vera apertura implica il mantenersi fermi nelle proprie convinzioni più profonde, con un’identità
chiara e gioiosa, ma aperti «a comprendere quelle dell’altro» e «sapendo che il dialogo può
arricchire ognuno».[196] Non ci serve un’apertura diplomatica, che dice sì a tutto per evitare i
problemi, perché sarebbe un modo di ingannare l’altro e di negargli il bene che uno ha ricevuto
come un dono da condividere generosamente. L’evangelizzazione e il dialogo interreligioso, lungi
dall’opporsi tra loro, si sostengono e si alimentano reciprocamente.[197]
252. In quest’epoca acquista una notevole importanza la relazione con i credenti dell’Islam, oggi
particolarmente presenti in molti Paesi di tradizione cristiana dove essi possono celebrare
liberamente il loro culto e vivere integrati nella società. Non bisogna mai dimenticare che essi,
«professando di avere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso, che
giudicherà gli uomini nel giorno finale».[198] Gli scritti sacri dell’Islam conservano parte degli
insegnamenti cristiani; Gesù Cristo e Maria sono oggetto di profonda venerazione ed è
ammirevole vedere come giovani e anziani, donne e uomini dell’Islam sono capaci di dedicare
quotidianamente tempo alla preghiera e di partecipare fedelmente ai loro riti religiosi. Al tempo
stesso, molti di loro sono profondamente convinti che la loro vita, nella sua totalità, è di Dio e per
Lui. Riconoscono anche la necessità di rispondere a Dio con un impegno etico e con la
misericordia verso i più poveri.
253. Per sostenere il dialogo con l’Islam è indispensabile la formazione adeguata degli
interlocutori, non solo perché siano solidamente e gioiosamente radicati nella loro identità, ma
perché siano capaci di riconoscere i valori degli altri, di comprendere le preoccupazioni

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soggiacenti alle loro richieste e di fare emergere le convinzioni comuni. Noi cristiani dovremmo
accogliere con affetto e rispetto gli immigrati dell’Islam che arrivano nei nostri Paesi, così come
speriamo e preghiamo di essere accolti e rispettati nei Paesi di tradizione islamica. Prego, imploro
umilmente tali Paesi affinché assicurino libertà ai cristiani affinché possano celebrare il loro culto e
vivere la loro fede, tenendo conto della libertà che i credenti dell’Islam godono nei paesi
occidentali! Di fronte ad episodi di fondamentalismo violento che ci preoccupano, l’affetto verso gli
autentici credenti dell’Islam deve portarci ad evitare odiose generalizzazioni, perché il vero Islam e
un’adeguata interpretazione del Corano si oppongono ad ogni violenza.
254. I non cristiani, per la gratuita iniziativa divina, e fedeli alla loro coscienza, possono vivere
«giustificati mediante la grazia di Dio»,[199] e in tal modo «associati al mistero pasquale di Gesù
Cristo».[200] Ma, a causa della dimensione sacramentale della grazia santificante, l’azione divina
in loro tende a produrre segni, riti, espressioni sacre, che a loro volta avvicinano altri ad una
esperienza comunitaria di cammino verso Dio.[201] Non hanno il significato e l’efficacia dei
Sacramenti istituiti da Cristo, ma possono essere canali che lo stesso Spirito suscita per liberare i
non cristiani dall’immanentismo ateo o da esperienze religiose meramente individuali. Lo stesso
Spirito suscita in ogni luogo forme di saggezza pratica che aiutano a sopportare i disagi
dell’esistenza e a vivere con più pace e armonia. Anche noi cristiani possiamo trarre profitto da
tale ricchezza consolidata lungo i secoli, che può aiutarci a vivere meglio le nostre peculiari
convinzioni.
Il dialogo sociale in un contesto di libertà religiosa
255. I Padri sinodali hanno ricordato l’importanza del rispetto per la libertà religiosa, considerata
come un diritto umano fondamentale.[202] Essa comprende «la libertà di scegliere la religione che
si considera vera e di manifestare pubblicamente la propria fede».[203] Un sano pluralismo, che
davvero rispetti gli altri ed i valori come tali, non implica una privatizzazione delle religioni, con la
pretesa di ridurle al silenzio e all’oscurità della coscienza di ciascuno, o alla marginalità del recinto
chiuso delle chiese, delle sinagoghe o delle moschee. Si tratterebbe, in definitiva, di una nuova
forma di discriminazione e di autoritarismo. Il rispetto dovuto alle minoranze di agnostici o di non
credenti non deve imporsi in un modo arbitrario che metta a tacere le convinzioni di maggioranze
credenti o ignori la ricchezza delle tradizioni religiose. Questo alla lunga fomenterebbe più il
risentimento che la tolleranza e la pace.
256. Al momento di interrogarsi circa l’incidenza pubblica della religione, bisogna distinguere
diversi modi di viverla. Sia gli intellettuali sia i commenti giornalistici cadono frequentemente in
grossolane e poco accademiche generalizzazioni quando parlano dei difetti delle religioni e molte
volte non sono in grado di distinguere che non tutti i credenti – né tutte le autorità religiose – sono
uguali. Alcuni politici approfittano di questa confusione per giustificare azioni discriminatorie. Altre
volte si disprezzano gli scritti che sono sorti nell’ambito di una convinzione credente, dimenticando
che i testi religiosi classici possono offrire un significato destinato a tutte le epoche, posseggono

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una forza motivante che apre sempre nuovi orizzonti, stimola il pensiero, allarga la mente e la
sensibilità. Vengono disprezzati per la ristrettezza di visione dei razionalismi. È ragionevole e
intelligente relegarli nell’oscurità solo perché sono nati nel contesto di una credenza religiosa?
Portano in sé principi profondamente umanistici, che hanno un valore razionale benché siano
pervasi di simboli e dottrine religiose.
257. Come credenti ci sentiamo vicini anche a quanti, non riconoscendosi parte di alcuna
tradizione religiosa, cercano sinceramente la verità, la bontà e la bellezza, che per noi trovano la
loro massima espressione e la loro fonte in Dio. Li sentiamo come preziosi alleati nell’impegno per
la difesa della dignità umana, nella costruzione di una convivenza pacifica tra i popoli e nella
custodia del creato. Uno spazio peculiare è quello dei cosiddetti nuovi Areopaghi, come il “Cortile
dei Gentili”, dove «credenti e non credenti possono dialogare sui temi fondamentali dell’etica,
dell’arte, e della scienza, e sulla ricerca della trascendenza».[204] Anche questa è una via di pace
per il nostro mondo ferito.
258. A partire da alcuni temi sociali, importanti in ordine al futuro dell’umanità, ho cercato ancora
una volta di esplicitare l’ineludibile dimensione sociale dell’annuncio del Vangelo, per incoraggiare
tutti i cristiani a manifestarla sempre nelle loro parole, atteggiamenti e azioni.
CAPITOLO QUINTO
EVANGELIZZATORI CON SPIRITO
259. Evangelizzatori con Spirito vuol dire evangelizzatori che si aprono senza paura all’azione
dello Spirito Santo. A Pentecoste, lo Spirito fa uscire gli Apostoli da se stessi e li trasforma in
annunciatori delle grandezze di Dio, che ciascuno incomincia a comprendere nella propria lingua.
Lo Spirito Santo, inoltre, infonde la forza per annunciare la novità del Vangelo con audacia
(parresia), a voce alta e in ogni tempo e luogo, anche controcorrente. Invochiamolo oggi, ben
fondati sulla preghiera, senza la quale ogni azione corre il rischio di rimanere vuota e l’annuncio
alla fine è privo di anima. Gesù vuole evangelizzatori che annuncino la Buona Notizia non solo
con le parole, ma soprattutto con una vita trasfigurata dalla presenza di Dio.
260. In quest’ultimo capitolo non offrirò una sintesi della spiritualità cristiana, né svilupperò grandi
temi come la preghiera, l’adorazione eucaristica o la celebrazione della fede, sui quali disponiamo
già di preziosi testi magisteriali e celebri scritti di grandi autori. Non pretendo di rimpiazzare né di
superare tanta ricchezza. Semplicemente proporrò alcune riflessioni circa lo spirito della nuova
evangelizzazione.
261. Quando si afferma che qualcosa ha “spirito”, questo indicare di solito qualche movente
interiore che dà impulso, motiva, incoraggia e dà senso all’azione personale e comunitaria.
Un’evangelizzazione con spirito è molto diversa da un insieme di compiti vissuti come un pesante
obbligo che semplicemente si tollera, o si sopporta come qualcosa che contraddice le proprie

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inclinazioni e i propri desideri. Come vorrei trovare le parole per incoraggiare una stagione
evangelizzatrice più fervorosa, gioiosa, generosa, audace, piena d’amore fino in fondo e di vita
contagiosa! Ma so che nessuna motivazione sarà sufficiente se non arde nei cuori il fuoco dello
Spirito. In definitiva, un’evangelizzazione con spirito è un’evangelizzazione con Spirito Santo, dal
momento che Egli è l’anima della Chiesa evangelizzatrice. Prima di proporre alcune motivazioni e
suggerimenti spirituali, invoco ancora una volta lo Spirito Santo, lo prego che venga a rinnovare, a
scuotere, a dare impulso alla Chiesa in un’audace uscita fuori da sé per evangelizzare tutti i
popoli.
I. Motivazioni per un rinnovato impulso missionario
262. Evangelizzatori con Spirito significa evangelizzatori che pregano e lavorano. Dal punto di
vista dell’evangelizzazione, non servono né le proposte mistiche senza un forte impegno sociale e
missionario, né i discorsi e le prassi sociali e pastorali senza una spiritualità che trasformi il cuore.
Tali proposte parziali e disgreganti raggiungono solo piccoli gruppi e non hanno una forza di
ampia penetrazione, perché mutilano il Vangelo. Occorre sempre coltivare uno spazio interiore
che conferisca senso cristiano all’impegno e all’attività.[205] Senza momenti prolungati di
adorazione, di incontro orante con la Parola, di dialogo sincero con il Signore, facilmente i compiti
si svuotano di significato, ci indeboliamo per la stanchezza e le difficoltà, e il fervore si spegne. La
Chiesa non può fare a meno del polmone della preghiera, e mi rallegra immensamente che si
moltiplichino in tutte le istituzioni ecclesiali i gruppi di preghiera, di intercessione, di lettura orante
della Parola, le adorazioni perpetue dell’Eucaristia. Nello stesso tempo «si deve respingere la
tentazione di una spiritualità intimistica e individualistica, che mal si comporrebbe con le esigenze
della carità, oltre che con la logica dell’Incarnazione».[206] C’è il rischio che alcuni momenti di
preghiera diventino una scusa per evitare di donare la vita nella missione, perché la
privatizzazione dello stile di vita può condurre i cristiani a rifugiarsi in qualche falsa spiritualità.
263. È salutare ricordarsi dei primi cristiani e di tanti fratelli lungo la storia che furono pieni di gioia,
ricolmi di coraggio, instancabili nell’annuncio e capaci di una grande resistenza attiva. Vi è chi si
consola dicendo che oggi è più difficile; tuttavia dobbiamo riconoscere che il contesto dell’Impero
romano non era favorevole all’annuncio del Vangelo, né alla lotta per la giustizia, né alla difesa
della dignità umana. In ogni momento della storia è presente la debolezza umana, la malsana
ricerca di sé, l’egoismo comodo e, in definitiva, la concupiscenza che ci minaccia tutti. Tale realtà
è sempre presente, sotto l’una o l’altra veste; deriva dal limite umano più che dalle circostanze.
Dunque, non diciamo che oggi è più difficile; è diverso. Impariamo piuttosto dai santi che ci hanno
preceduto ed hanno affrontato le difficoltà proprie della loro epoca. A tale scopo vi propongo di
soffermarci a recuperare alcune motivazioni che ci aiutino a imitarli nei nostri giorni.[207]L'incontro
personale con l’amore di Gesù che ci salva264. La prima motivazione per evangelizzare è l’amore
di Gesù che abbiamo ricevuto, l’esperienza di essere salvati da Lui che ci spinge ad amarlo
sempre di più. Però, che amore è quello che non sente la necessità di parlare della persona
amata, di presentarla, di farla conoscere? Se non proviamo l’intenso desiderio di comunicarlo,

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abbiamo bisogno di soffermarci in preghiera per chiedere a Lui che torni ad affascinarci. Abbiamo
bisogno d’implorare ogni giorno, di chiedere la sua grazia perché apra il nostro cuore freddo e
scuota la nostra vita tiepida e superficiale. Posti dinanzi a Lui con il cuore aperto, lasciando che
Lui ci contempli, riconosciamo questo sguardo d’amore che scoprì Natanaele il giorno in cui Gesù
si fece presente e gli disse: «Io ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi» (Gv 1,48). Che dolce è
stare davanti a un crocifisso, o in ginocchio davanti al Santissimo, e semplicemente essere
davanti ai suoi occhi! Quanto bene ci fa lasciare che Egli torni a toccare la nostra esistenza e ci
lanci a comunicare la sua nuova vita! Dunque, ciò che succede è che, in definitiva, «quello che
abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo» (1 Gv 1,3). La migliore motivazione per decidersi a
comunicare il Vangelo è contemplarlo con amore, è sostare sulle sue pagine e leggerlo con il
cuore. Se lo accostiamo in questo modo, la sua bellezza ci stupisce, torna ogni volta ad
affascinarci. Perciò è urgente ricuperare uno spirito contemplativo, che ci permetta di riscoprire
ogni giorno che siamo depositari di un bene che umanizza, che aiuta a condurre una vita nuova.
Non c’è niente di meglio da trasmettere agli altri.265. Tutta la vita di Gesù, il suo modo di trattare i
poveri, i suoi gesti, la sua coerenza, la sua generosità quotidiana e semplice, e infine la sua
dedizione totale, tutto è prezioso e parla alla nostra vita personale. Ogni volta che si torna a
scoprirlo, ci si convince che proprio questo è ciò di cui gli altri hanno bisogno, anche se non lo
riconoscano: «Colui che, senza conoscerlo, voi adorate, io ve lo annuncio» (At 17,23). A volte
perdiamo l’entusiasmo per la missione dimenticando che il Vangelo risponde alle necessità più
profonde delle persone, perché tutti siamo stati creati per quello che il Vangelo ci propone:
l’amicizia con Gesù e l’amore fraterno. Quando si riesce ad esprimere adeguatamente e con
bellezza il contenuto essenziale del Vangelo, sicuramente quel messaggio risponderà alle
domande più profonde dei cuori: «Il missionario è convinto che esiste già nei singoli e nei popoli,
per l’azione dello Spirito, un’attesa anche se inconscia di conoscere la verità su Dio, sull’uomo,
sulla via che porta alla liberazione dal peccato e dalla morte. L’entusiasmo nell’annunziare il Cristo
deriva dalla convinzione di rispondere a tale attesa».[208]L’entusiasmo nell’evangelizzazione si
fonda su questa convinzione. Abbiamo a disposizione un tesoro di vita e di amore che non può
ingannare, il messaggio che non può manipolare né illudere. È una risposta che scende nel più
profondo dell’essere umano e che può sostenerlo ed elevarlo. È la verità che non passa di moda
perché è in grado di penetrare là dove nient’altro può arrivare. La nostra tristezza infinita si cura
soltanto con un infinito amore.266. Tale convinzione, tuttavia, si sostiene con l’esperienza
personale, costantemente rinnovata, di gustare la sua amicizia e il suo messaggio. Non si può
perseverare in un’evangelizzazione piena di fervore se non si resta convinti, in virtù della propria
esperienza, che non è la stessa cosa aver conosciuto Gesù o non conoscerlo, non è la stessa
cosa camminare con Lui o camminare a tentoni, non è la stessa cosa poterlo ascoltare o ignorare
la sua Parola, non è la stessa cosa poterlo contemplare, adorare, riposare in Lui, o non poterlo
fare. Non è la stessa cosa cercare di costruire il mondo con il suo Vangelo piuttosto che farlo
unicamente con la propria ragione. Sappiamo bene che la vita con Gesù diventa molto più piena e
che con Lui è più facile trovare il senso di ogni cosa. È per questo che evangelizziamo. Il vero
missionario, che non smette mai di essere discepolo, sa che Gesù cammina con lui, parla con lui,
respira con lui, lavora con lui. Sente Gesù vivo insieme con lui nel mezzo dell’impegno

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missionario. Se uno non lo scopre presente nel cuore stesso dell’impresa missionaria, presto
perde l’entusiasmo e smette di essere sicuro di ciò che trasmette, gli manca la forza e la passione.
E una persona che non è convinta, entusiasta, sicura, innamorata, non convince nessuno.267.
Uniti a Gesù, cerchiamo quello che Lui cerca, amiamo quello che Lui ama. In definitiva, quello che
cerchiamo è la gloria del Padre, viviamo e agiamo «a lode dello splendore della sua grazia» (Ef
1,6). Se vogliamo donarci a fondo e con costanza, dobbiamo spingerci oltre ogni altra
motivazione. Questo è il movente definitivo, il più profondo, il più grande, la ragione e il senso
ultimo di tutto il resto. Si tratta della gloria del Padre, che Gesù ha cercato nel corso di tutta la sua
esistenza. Egli è il Figlio eternamente felice con tutto il suo essere «nel seno del Padre» (Gv
1,18). Se siamo missionari è anzitutto perché Gesù ci ha detto: «In questo è glorificato il Padre
mio: che portiate molto frutto» (Gv 15,8). Al di là del fatto che ci convenga o meno, che ci interessi
o no, che ci serva oppure no, al di là dei piccoli limiti dei nostri desideri, della nostra comprensione
e delle nostre motivazioni, noi evangelizziamo per la maggior gloria del Padre che ci ama.Il
piacere spirituale di essere popolo268. La Parola di Dio ci invita anche a riconoscere che siamo
popolo: «Un tempo voi eravate non-popolo, ora invece siete popolo di Dio» (1 Pt 2,10). Per essere
evangelizzatori autentici occorre anche sviluppare il gusto spirituale di rimanere vicini alla vita
della gente, fino al punto di scoprire che ciò diventa fonte di una gioia superiore. La missione è
una passione per Gesù ma, al tempo stesso, è una passione per il suo popolo. Quando sostiamo
davanti a Gesù crocifisso, riconosciamo tutto il suo amore che ci dà dignità e ci sostiene, però, in
quello stesso momento, se non siamo ciechi, incominciamo a percepire che quello sguardo di
Gesù si allarga e si rivolge pieno di affetto e di ardore verso tutto il suo popolo. Così riscopriamo
che Lui vuole servirsi di noi per arrivare sempre più vicino al suo popolo amato. Ci prende in
mezzo al popolo e ci invia al popolo, in modo che la nostra identità non si comprende senza
questa appartenenza.269. Gesù stesso è il modello di questa scelta evangelizzatrice che ci
introduce nel cuore del popolo. Quanto bene ci fa vederlo vicino a tutti! Se parlava con qualcuno,
guardava i suoi occhi con una profonda attenzione piena d’amore: «Gesù fissò lo sguardo su di
lui, lo amò» (Mc 10, 21). Lo vediamo aperto all’incontro quando si avvicina al cieco lungo la strada
(cfr Mc 10,46-52) e quando mangia e beve con i peccatori (cfr Mc 2,16), senza curarsi che lo
trattino da mangione e beone (cfr Mt 11,19). Lo vediamo disponibile quando lascia che una
prostituta unga i suoi piedi (cfr Lc 7,36-50) o quando riceve di notte Nicodemo (cfr Gv 3,1-15). Il
donarsi di Gesù sulla croce non è altro che il culmine di questo stile che ha contrassegnato tutta la
sua esistenza. Affascinati da tale modello, vogliamo inserirci a fondo nella società, condividiamo la
vita con tutti, ascoltiamo le loro preoccupazioni, collaboriamo materialmente e spiritualmente nelle
loro necessità, ci rallegriamo con coloro che sono nella gioia, piangiamo con quelli che piangono e
ci impegniamo nella costruzione di un mondo nuovo, gomito a gomito con gli altri. Ma non come
un obbligo, non come un peso che ci esaurisce, ma come una scelta personale che ci riempie di
gioia e ci conferisce identità.270. A volte sentiamo la tentazione di essere cristiani mantenendo
una prudente distanza dalle piaghe del Signore. Ma Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana,
che tocchiamo la carne sofferente degli altri. Aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari
personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano,
affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e

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conosciamo la forza della tenerezza. Quando lo facciamo, la vita ci si complica sempre
meravigliosamente e viviamo l’intensa esperienza di essere popolo, l’esperienza di appartenere a
un popolo.271. È vero che, nel nostro rapporto con il mondo, siamo invitati a dare ragione della
nostra speranza, ma non come nemici che puntano il dito e condannano. Siamo molto
chiaramente avvertiti: «sia fatto con dolcezza e rispetto» (1 Pt 3,16), e «se possibile, per quanto
dipende da voi, vivete in pace con tutti» (Rm 12,18). Siamo anche esortati a cercare di vincere «il
male con il bene» (Rm 12,21), senza stancarci di «fare il bene»
(Gal 6,9) e senza pretendere di apparire superiori ma considerando «gli altri superiori a se stesso»
(Fil 2,3). Di fatto gli Apostoli del Signore godevano «il favore di tutto il popolo» (At 2,47; cfr
4,21.33; 5,13). Resta chiaro che Gesù Cristo non ci vuole come principi che guardano in modo
sprezzante, ma come uomini e donne del popolo. Questa non è l’opinione di un Papa né
un’opzione pastorale tra altre possibili; sono indicazioni della Parola di Dio così chiare, dirette ed
evidenti che non hanno bisogno di interpretazioni che toglierebbero ad esse forza interpellante.
Viviamole “sine glossa”, senza commenti. In tal modo sperimenteremo la gioia missionaria di
condividere la vita con il popolo fedele a Dio cercando di accendere il fuoco nel cuore del
mondo.272. L’amore per la gente è una forza spirituale che favorisce l’incontro in pienezza con
Dio fino al punto che chi non ama il fratello «cammina nelle tenebre» (1 Gv 2,11), «rimane nella
morte» (1 Gv 3,14) e «non ha conosciuto Dio» (1 Gv 4,8). Benedetto XVI ha detto che «chiudere
gli occhi di fronte al prossimo rende ciechi anche di fronte a Dio»,[209] e che l’amore è in fondo
l’unica luce che «rischiara sempre di nuovo un mondo buio e ci dà il coraggio di vivere e di
agire».[210] Pertanto, quando viviamo la mistica di avvicinarci agli altri con l’intento di cercare il
loro bene, allarghiamo la nostra interiorità per ricevere i più bei regali del Signore. Ogni volta che
ci incontriamo con un essere umano nell’amore, ci mettiamo nella condizione di scoprire qualcosa
di nuovo riguardo a Dio. Ogni volta che apriamo gli occhi per riconoscere l’altro, viene
maggiormente illuminata la fede per riconoscere Dio. Come conseguenza di ciò, se vogliamo
crescere nella vita spirituale, non possiamo rinunciare ad essere missionari. L’impegno
dell’evangelizzazione arricchisce la mente ed il cuore, ci apre orizzonti spirituali, ci rende più
sensibili per riconoscere l’azione dello Spirito, ci fa uscire dai nostri schemi spirituali limitati.
Contemporaneamente, un missionario pienamente dedito al suo lavoro sperimenta il piacere di
essere una sorgente, che tracima e rinfresca gli altri. Può essere missionario solo chi si sente
bene nel cercare il bene del prossimo, chi desidera la felicità degli altri. Questa apertura del cuore
è fonte di felicità, perché «si è più beati nel dare che nel ricevere» (At 20,35). Non si vive meglio
fuggendo dagli altri, nascondendosi, negandosi alla condivisione, se si resiste a dare, se ci si
rinchiude nella comodità. Ciò non è altro che un lento suicidio.273. La missione al cuore del
popolo non è una parte della mia vita, o un ornamento che mi posso togliere, non è un’appendice,
o un momento tra i tanti dell’esistenza. È qualcosa che non posso sradicare dal mio essere se non
voglio distruggermi. Io sono una missione su questa terra, e per questo mi trovo in questo mondo.
Bisogna riconoscere sé stessi come marcati a fuoco da tale missione di illuminare, benedire,
vivificare, sollevare, guarire, liberare. Lì si rivela l’infermiera nell’animo, il maestro nell’animo, il
politico nell’animo, quelli che hanno deciso nel profondo di essere con gli altri e per gli altri.
Tuttavia, se uno divide da una parte il suo dovere e dall’altra la propria vita privata, tutto diventa

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grigio e andrà continuamente cercando riconoscimenti o difendendo le proprie esigenze. Smetterà
di essere popolo.274. Per condividere la vita con la gente e donarci generosamente, abbiamo
bisogno di riconoscere anche che ogni persona è degna della nostra dedizione. Non per il suo
aspetto fisico, per le sue capacità, per il suo linguaggio, per la sua mentalità o per le soddisfazioni
che ci può offrire, ma perché è opera di Dio, sua creatura. Egli l’ha creata a sua immagine, e
riflette qualcosa della sua gloria. Ogni essere umano è oggetto dell’infinita tenerezza del Signore,
ed Egli stesso abita nella sua vita. Gesù Cristo ha donato il suo sangue prezioso sulla croce per
quella persona. Al di là di qualsiasi apparenza, ciascuno è immensamente sacro e merita il nostro
affetto e la nostra dedizione. Perciò, se riesco ad aiutare una sola persona a vivere meglio, questo
è già sufficiente a giustificare il dono della mia vita. È bello essere popolo fedele di Dio. E
acquistiamo pienezza quando rompiamo le pareti e il nostro cuore si riempie di volti e di
nomi!L’azione misteriosa del Risorto e del suo Spirito275. Nel secondo capitolo abbiamo riflettuto
su quella carenza di spiritualità profonda che si traduce nel pessimismo, nel fatalismo, nella
sfiducia. Alcune persone non si dedicano alla missione perché credono che nulla può cambiare e
dunque per loro è inutile sforzarsi. Pensano così: “Perché mi dovrei privare delle mie comodità e
piaceri se non vedo nessun risultato importante?”. Con questa mentalità diventa impossibile
essere missionari. Questo atteggiamento è precisamente una scusa maligna per rimanere chiusi
nella comodità, nella pigrizia, nella tristezza insoddisfatta, nel vuoto egoista. Si tratta di un
atteggiamento autodistruttivo perché «l’uomo non può vivere senza speranza: la sua vita,
condannata all’insignificanza, diventerebbe insopportabile».[211] Se pensiamo che le cose non
cambieranno, ricordiamo che Gesù Cristo ha trionfato sul peccato e sulla morte ed è ricolmo di
potenza. Gesù Cristo vive veramente. Altrimenti, «se Cristo non è risorto, vuota è la nostra
predicazione» (1 Cor 15,14). Il Vangelo ci racconta che quando i primi discepoli partirono per
predicare, «il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola» (Mc 16,20). Questo accade
anche oggi. Siamo invitati a scoprirlo, a viverlo. Cristo risorto e glorioso è la sorgente profonda
della nostra speranza, e non ci mancherà il suo aiuto per compiere la missione che Egli ci
affida.276. La sua risurrezione non è una cosa del passato; contiene una forza di vita che ha
penetrato il mondo. Dove sembra che tutto sia morto, da ogni parte tornano ad apparire i germogli
della risurrezione. È una forza senza uguali. È vero che molte volte sembra che Dio non esista:
vediamo ingiustizie, cattiverie, indifferenze e crudeltà che non diminuiscono. Però è altrettanto
certo che nel mezzo dell’oscurità comincia sempre a sbocciare qualcosa di nuovo, che presto o
tardi produce un frutto. In un campo spianato torna ad apparire la vita, ostinata e invincibile. Ci
saranno molte cose brutte, tuttavia il bene tende sempre a ritornare a sbocciare ed a diffondersi.
Ogni giorno nel mondo rinasce la bellezza, che risuscita trasformata attraverso i drammi della
storia. I valori tendono sempre a riapparire in nuove forme, e di fatto l’essere umano è rinato molte
volte da situazioni che sembravano irreversibili. Questa è la forza della risurrezione e ogni
evangelizzatore è uno strumento di tale dinamismo.277. Continuamente appaiono anche nuove
difficoltà, l’esperienza del fallimento, meschinità umane che fanno tanto male. Tutti sappiamo per
esperienza che a volte un compito non offre le soddisfazioni che avremmo desiderato, i frutti sono
scarsi e i cambiamenti sono lenti e uno ha la tentazione di stancarsi. Tuttavia non è la stessa cosa
quando uno, per la stanchezza, abbassa momentaneamente le braccia rispetto a chi le abbassa

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definitivamente dominato da una cronica scontentezza, da un’accidia che gli inaridisce l’anima.
Può succedere che il cuore si stanchi di lottare perché in definitiva cerca se stesso in un
carrierismo assetato di riconoscimenti, applausi, premi, posti; allora uno non abbassa le braccia,
però non ha più grinta, gli manca la risurrezione. Così, il Vangelo, che è il messaggio più bello che
c’è in questo mondo, rimane sepolto sotto molte scuse.278. La fede significa anche credere in Lui,
credere che veramente ci ama, che è vivo, che è capace di intervenire misteriosamente, che non
ci abbandona, che trae il bene dal male con la sua potenza e con la sua infinita creatività. Significa
credere che Egli avanza vittorioso nella storia insieme con «quelli che stanno con lui … i chiamati,
gli eletti, i fedeli» (Ap 17,14). Crediamo al Vangelo che dice che il Regno di Dio è già presente nel
mondo, e si sta sviluppando qui e là, in diversi modi: come il piccolo seme che può arrivare a
trasformarsi in una grande pianta (cfr Mt 13,31-32), come una manciata di lievito, che fermenta
una grande massa (cfr Mt 13,33) e come il buon seme che cresce in mezzo alla zizzania (cfr Mt
13,24-30), e ci può sempre sorprendere in modo gradito. È presente, viene di nuovo, combatte per
fiorire nuovamente. La risurrezione di Cristo produce in ogni luogo germi di questo mondo nuovo;
e anche se vengono tagliati, ritornano a spuntare, perché la risurrezione del Signore ha già
penetrato la trama nascosta di questa storia, perché Gesù non è risuscitato invano. Non
rimaniamo al margine di questo cammino della speranza viva!279. Poiché non sempre vediamo
questi germogli, abbiamo bisogno di una certezza interiore, cioè della convinzione che Dio può
agire in qualsiasi circostanza, anche in mezzo ad apparenti fallimenti, perché «abbiamo questo
tesoro in vasi di creta» (2 Cor 4,7). Questa certezza è quello che si chiama “senso del mistero”. È
sapere con certezza che chi si offre e si dona a Dio per amore, sicuramente sarà fecondo (cfr Gv
15,5). Tale fecondità molte volte è invisibile, inafferrabile, non può essere contabilizzata. Uno è
ben consapevole che la sua vita darà frutto, ma senza pretendere di sapere come, né dove, né
quando. Ha la sicurezza che non va perduta nessuna delle sue opere svolte con amore, non va
perduta nessuna delle sue sincere preoccupazioni per gli altri, non va perduto nessun atto
d’amore per Dio, non va perduta nessuna generosa fatica, non va perduta nessuna dolorosa
pazienza. Tutto ciò circola attraverso il mondo come una forza di vita. A volte ci sembra di non
aver ottenuto con i nostri sforzi alcun risultato, ma la missione non è un affare o un progetto
aziendale, non è neppure un’organizzazione umanitaria, non è uno spettacolo per contare quanta
gente vi ha partecipato grazie alla nostra propaganda; è qualcosa di molto più profondo, che
sfugge ad ogni misura. Forse il Signore si avvale del nostro impegno per riversare benedizioni in
un altro luogo del mondo dove non andremo mai. Lo Spirito Santo opera come vuole, quando
vuole e dove vuole; noi ci spendiamo con dedizione ma senza pretendere di vedere risultati
appariscenti. Sappiamo soltanto che il dono di noi stessi è necessario. Impariamo a riposare nella
tenerezza delle braccia del Padre in mezzo alla nostra dedizione creativa e generosa. Andiamo
avanti, mettiamocela tutta, ma lasciamo che sia Lui a rendere fecondi i nostri sforzi come pare a
Lui.280. Per mantenere vivo l’ardore missionario occorre una decisa fiducia nello Spirito Santo,
perché Egli «viene in aiuto alla nostra debolezza» (Rm 8,26). Ma tale fiducia generosa deve
alimentarsi e perciò dobbiamo invocarlo costantemente. Egli può guarirci da tutto ciò che ci
debilita nell’impegno missionario. È vero che questa fiducia nell’invisibile può procurarci una certa
vertigine: è come immergersi in un mare dove non sappiamo che cosa incontreremo. Io stesso

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l’ho sperimentato tante volte. Tuttavia non c’è maggior libertà che quella di lasciarsi portare dallo
Spirito, rinunciando a calcolare e a controllare tutto, e permettere che Egli ci illumini, ci guidi, ci
orienti, ci spinga dove Lui desidera. Egli sa bene ciò di cui c’è bisogno in ogni epoca e in ogni
momento. Questo si chiama essere misteriosamente fecondi!La forza missionaria
dell’intercessione281. C’è una forma di preghiera che ci stimola particolarmente a spenderci
nell’evangelizzazione e ci motiva a cercare il bene degli altri: è l’intercessione. Osserviamo per un
momento l’interiorità di un grande evangelizzatore come San Paolo, per cogliere come era la sua
preghiera. Tale preghiera era ricolma di persone: «Sempre, quando prego per tutti voi, lo faccio
con gioia […] perché vi porto nel cuore» (Fil 1,4.7). Così scopriamo che intercedere non ci separa
dalla vera contemplazione, perché la contemplazione che lascia fuori gli altri è un inganno.282.
Questo atteggiamento si trasforma anche in un ringraziamento a Dio per gli altri: «Anzitutto rendo
grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi» (Rm 1,8). Si tratta di un
ringraziamento costante: «Rendo grazie continuamente al mio Dio per voi, a motivo della grazia di
Dio che vi è stata data in Cristo Gesù» (1 Cor 1,4); «Rendo grazie al mio Dio ogni volta che mi
ricordo di voi» (Fil 1,3). Non è uno sguardo incredulo, negativo e senza speranza, ma uno sguardo
spirituale, di profonda fede, che riconosce quello che Dio stesso opera in loro. Al tempo stesso, è
la gratitudine che sgorga da un cuore veramente attento agli altri. In tale maniera, quando un
evangelizzatore riemerge dalla preghiera, il suo cuore è diventato più generoso, si è liberato della
coscienza isolata ed è desideroso di compiere il bene e di condividere la vita con gli altri.283. I
grandi uomini e donne di Dio sono stati grandi intercessori. L’intercessione è come “lievito” nel
seno della Trinità. È un addentrarci nel Padre e scoprire nuove dimensioni che illuminano le
situazioni concrete e le cambiano. Possiamo dire che il cuore di Dio si commuove per
l’intercessione, ma in realtà Egli sempre ci anticipa, e quello che possiamo fare con la nostra
intercessione è che la sua potenza, il suo amore e la sua lealtà si manifestino con maggiore
chiarezza nel popolo.II. Maria, la Madre dell’evangelizzazione284. Con lo Spirito Santo, in mezzo
al popolo sta sempre Maria. Lei radunava i discepoli per invocarlo (At 1,14), e così ha reso
possibile l’esplosione missionaria che avvenne a Pentecoste. Lei è la Madre della Chiesa
evangelizzatrice e senza di lei non possiamo comprendere pienamente lo spirito della nuova
evangelizzazione.Il dono di Gesù al suo popolo285. Sulla croce, quando Cristo soffriva nella sua
carne il drammatico incontro tra il peccato del mondo e la misericordia divina, poté vedere ai suoi
piedi la presenza consolante della Madre e dell’amico. In quel momento cruciale, prima di
dichiarare compiuta l’opera che il Padre gli aveva affidato, Gesù disse a Maria: «Donna, ecco tuo
figlio!». Poi disse all’amico amato: «Ecco tua madre!» (Gv 19,26-27). Queste parole di Gesù sulla
soglia della morte non esprimono in primo luogo una preoccupazione compassionevole verso sua
madre, ma sono piuttosto una formula di rivelazione che manifesta il mistero di una speciale
missione salvifica. Gesù ci lasciava sua madre come madre nostra. Solo dopo aver fatto questo
Gesù ha potuto sentire che «tutto era compiuto» (Gv 19,28). Ai piedi della croce, nell’ora suprema
della nuova creazione, Cristo ci conduce a Maria. Ci conduce a Lei perché non vuole che
camminiamo senza una madre, e il popolo legge in quell’immagine materna tutti i misteri del
Vangelo. Al Signore non piace che manchi alla sua Chiesa l’icona femminile. Ella, che lo generò
con tanta fede, accompagna pure «il resto della sua discendenza, […] quelli che osservano i

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comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù» (Ap 12,17). L’intima
connessione tra Maria, la Chiesa e ciascun fedele, in quanto, in modi diversi, generano Cristo, è
stata magnificamente espressa dal Beato Isacco della Stella: «Nelle Scritture divinamente ispirate,
quello che si intende in generale della Chiesa, vergine e madre, si intende in particolare della
Vergine Maria […] Si può parimenti dire che ciascuna anima fedele è sposa del Verbo di Dio,
madre di Cristo, figlia e sorella, vergine e madre feconda […]. Cristo rimase nove mesi nel seno di
Maria, rimarrà nel tabernacolo della fede della Chiesa fino alla consumazione dei secoli; e, nella
conoscenza e nell’amore dell’anima fedele, per i secoli dei secoli».[212]286. Maria è colei che sa
trasformare una grotta per animali nella casa di Gesù, con alcune povere fasce e una montagna di
tenerezza. Lei è la piccola serva del Padre che trasalisce di gioia nella lode. È l’amica sempre
attenta perché non venga a mancare il vino nella nostra vita. È colei che ha il cuore trafitto dalla
spada, che comprende tutte le pene. Quale madre di tutti, è segno di speranza per i popoli che
soffrono i dolori del parto finché non germogli la giustizia. È la missionaria che si avvicina a noi per
accompagnarci nella vita, aprendo i cuori alla fede con il suo affetto materno. Come una vera
madre, cammina con noi, combatte con noi, ed effonde incessantemente la vicinanza dell’amore
di Dio. Attraverso le varie devozioni mariane, legate generalmente ai santuari, condivide le
vicende di ogni popolo che ha ricevuto il Vangelo, ed entra a far parte della sua identità storica.
Molti genitori cristiani chiedono il Battesimo per i loro figli in un santuario mariano, manifestando
così la fede nell’azione materna di Maria che genera nuovi figli per Dio. È lì, nei santuari, dove si
può osservare come Maria riunisce attorno a sé i figli che con tante fatiche vengono pellegrini per
vederla e lasciarsi guardare da Lei. Lì trovano la forza di Dio per sopportare le sofferenze e le
stanchezze della vita. Come a san Juan Diego, Maria offre loro la carezza della sua consolazione
materna e dice loro: «Non si turbi il tuo cuore […] Non ci sono qui io, che son tua Madre?».[213]La
Stella della nuova evangelizzazione287. Alla Madre del Vangelo vivente chiediamo che interceda
affinché questo invito a una nuova tappa dell’evangelizzazione venga accolta da tutta la comunità
ecclesiale. Ella è la donna di fede, che cammina nella fede,[214] e «la sua eccezionale
peregrinazione della fede rappresenta un costante punto di riferimento per la Chiesa».[215] Ella si
è lasciata condurre dallo Spirito, attraverso un itinerario di fede, verso un destino di servizio e
fecondità. Noi oggi fissiamo lo sguardo su di lei, perché ci aiuti ad annunciare a tutti il messaggio
di salvezza, e perché i nuovi discepoli diventino operosi evangelizzatori.[216] In questo
pellegrinaggio di evangelizzazione non mancano le fasi di aridità, di nascondimento e persino di
una certa fatica, come quella che visse Maria negli anni di Nazaret, mentre Gesù cresceva: «È
questo l’inizio del Vangelo, ossia della buona, lieta novella. Non è difficile, però, notare in questo
inizio una particolare fatica del cuore, unita a una sorta di «notte della fede» – per usare le parole
di san Giovanni della Croce – , quasi un «velo» attraverso il quale bisogna accostarsi all’Invisibile
e vivere nell’intimità col mistero. È infatti in questo modo che Maria, per molti anni, rimase
nell’intimità col mistero del suo Figlio, e avanzava nel suo itinerario di fede».[217]288. Vi è uno
stile mariano nell’attività evangelizzatrice della Chiesa. Perché ogni volta che guardiamo a Maria
torniamo a credere nella forza rivoluzionaria della tenerezza e dell’affetto. In lei vediamo che
l’umiltà e la tenerezza non sono virtù dei deboli ma dei forti, che non hanno bisogno di maltrattare
gli altri per sentirsi importanti. Guardando a lei scopriamo che colei che lodava Dio perché «ha

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rovesciato i potenti dai troni» e « ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1,52.53) è la stessa che
assicura calore domestico alla nostra ricerca di giustizia. È anche colei che conserva
premurosamente «tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19). Maria sa riconoscere
le orme dello Spirito di Dio nei grandi avvenimenti ed anche in quelli che sembrano impercettibili.
È contemplativa del mistero di Dio nel mondo, nella storia e nella vita quotidiana di ciascuno e di
tutti. È la donna orante e lavoratrice a Nazaret, ed è anche nostra Signora della premura, colei che
parte dal suo villaggio per aiutare gli altri «senza indugio» (Lc 1,39). Questa dinamica di giustizia e
di tenerezza, di contemplazione e di cammino verso gli altri, è ciò che fa di lei un modello
ecclesiale per l’evangelizzazione. Le chiediamo che con la sua preghiera materna ci aiuti affinché
la Chiesa diventi una casa per molti, una madre per tutti i popoli e renda possibile la nascita di un
mondo nuovo. È il Risorto che ci dice, con una potenza che ci riempie di immensa fiducia e di
fermissima speranza: «Io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5). Con Maria avanziamo fiduciosi
verso questa promessa, e diciamole:Vergine e Madre Maria,
tu che, mossa dallo Spirito,
hai accolto il Verbo della vita
nella profondità della tua umile fede,
totalmente donata all’Eterno,
aiutaci a dire il nostro “sì”
nell’urgenza, più imperiosa che mai,
di far risuonare la Buona Notizia di Gesù.Tu, ricolma della presenza di Cristo,
hai portato la gioia a Giovanni il Battista,
facendolo esultare nel seno di sua madre.
Tu, trasalendo di giubilo,
hai cantato le meraviglie del Signore.
Tu, che rimanesti ferma davanti alla Croce
con una fede incrollabile,
e ricevesti la gioiosa consolazione della risurrezione,
hai radunato i discepoli nell’attesa dello Spirito
perché nascesse la Chiesa evangelizzatrice.Ottienici ora un nuovo ardore di risorti
per portare a tutti il Vangelo della vita
che vince la morte.
Dacci la santa audacia di cercare nuove strade
perché giunga a tutti
il dono della bellezza che non si spegne.Tu, Vergine dell’ascolto e della contemplazione,
madre dell’amore, sposa delle nozze eterne,
intercedi per la Chiesa, della quale sei l’icona purissima,
perché mai si rinchiuda e mai si fermi
nella sua passione per instaurare il Regno.Stella della nuova evangelizzazione,
aiutaci a risplendere nella testimonianza della comunione,
del servizio, della fede ardente e generosa,
della giustizia e dell’amore verso i poveri,

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perché la gioia del Vangelo
giunga sino ai confini della terra
e nessuna periferia sia priva della sua luce.Madre del Vangelo vivente,
sorgente di gioia per i piccoli,
prega per noi.
Amen. Alleluia. Dato a Roma, presso San Pietro, alla chiusura dell’Anno della fede, il 24
novembre, Solennità di N. S. Gesù Cristo Re dell’Universo, dell’anno 2013, primo del mio
Pontificato. FRANCISCUS
[1] Paolo VI, Esort. ap. Gaudete in Domino (9 maggio 1975), 22: AAS 67 (1975), 297.[2] Ibid., 8:
AAS 67 (1975), 292.[3] Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), 1: AAS 98 (2006), 217.[4]
V Conferenza Generale dell’Episcopato Latino-americano e dei Caraibi, Documento di Aparecida
(31 maggio 2007), 360.[5] Ibid.[6] Paolo VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975), 80:
AAS 68 (1976), 75.[7] Cantico spirituale, 36, 10.[8] Adversus haereses, IV, c. 34, n.1: PG 7 pars
prior, 1083: « Omnem novitatem attulit, semetipsum afferens ».[9] Paolo VI, Esort. ap. Evangelii
nuntiandi (8 dicembre 1975), 7: AAS 68 (1976), 9.[10] Cfr Propositio 7.[11] Benedetto XVI, Omelia
nella Santa Messa di conclusione della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei
Vescovi (28 ottobre 2012): AAS 104 (2012), 890.[12] Ibid.[13] Benedetto XVI, Omelia nella Santa
Messa di inaugurazione della V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei
Caraibi presso il Santuario “La Aparecida” (13 maggio 2007), AAS 99 (2007), 437.[14] Lett. enc.
Redemptoris missio (7 dicembre 1990), 34: AAS 83 (1991), 280.[15] Ibid., 40: AAS 83 (1991),
287.[16] Ibid., 86: AAS 83 (1991), 333.[17] V Conferenza Generale dell’Episcopato Latino-
americano e dei Caraibi, Documento di Aparecida (31 maggio 2007), 548.[18] Ibid., 370[19] Cfr
Propositio 1.[20] Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsinodale Christifideles laici (30 dicembre 1988),
32: AAS 81 (1989), 451.[21] V Conferenza Generale dell’Episcopato Latino-americano e dei
Caraibi, Documento di Aparecida (31 maggio 2007), 201.[22] Ibid., 551.[23] Paolo VI, Lett. enc.
Ecclesiam suam (6 agosto 1964), 10: AAS 56 (1964), 611-612.[24] Conc. Ecum. Vat. II, Decreto
sull’ecumenismo Unitatis redintegratio, 6.[25] Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsinodale Ecclesia in
Oceania (22 novembre 2001), 19: AAS 94 (2002), 390.[26] Giovanni Paolo II, Esort. ap.
postsinodale Christifideles laici (30 dicembre 1988), 26: AAS 81 (1989), 438.[27] Cfr Propositio
26.[28] Cfr Propositio 44.[29] Cfr Propositio 26.[30] Cfr Propositio 41.[31] Conc. Ecum. Vat. II,
Decr. sulla missione pastorale dei vescovi nella Chiesa Christus Dominus, 11.[32] Cfr Benedetto
XVI, Discorso ai partecipanti al Convegno Internazionale in occasione del 40º anniversario del
Decreto Conciliare Ad gentes (11 marzo 2006): AAS 98 (2006), 337.[33] Cfr Propositio 42.[34] Cfr
cc. 460-468; 492-502; 511-514; 536-537.[35] Lett. enc. Ut unum sint (25 maggio 1995), 95: AAS
87 (1995), 977-978.[36] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 23.[37] Cfr
Giovanni Paolo II, Motu proprio Apostolos suos (21 maggio 1998): AAS 90 (1998), 641-658.[38]
Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sull’ecumenismo Unitatis redintegratio, 11.[39] Cfr Summa Theologiae,
I-II, q. 66, art. 4-6.[40] Summa Theologiae, I-II, q. 108, art. 1.[41] Summa Theologiae, II-II, q. 30,
art. 4. Cfr ibid., q. 30, art. 4, ad 1: «Non esercitiamo il culto verso Dio con sacrifici e con offerte
esteriori a suo vantaggio, ma a vantaggio nostro e del prossimo. Egli infatti non ha bisogno dei
nostri sacrifici, ma vuole che essi gli vengano offerti per la nostra devozione e a vantaggio del

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prossimo. Perciò la misericordia, con la quale si soccorre la miseria altrui, è un sacrificio a lui più
accetto, assicurando esso più da vicino il bene del prossimo».[42] Conc. Ecum. Vat. II, Cost.
dogm. sulla divina rivelazione Dei Verbum, 12.[43] Motu proprio Socialium Scientiarum (1 gennaio
1994): AAS 86 (1994), 209.[44] San Tommaso d’Aquino sottolineava che la molteplicità e
distinzione «proviene dall’intenzione del primo agente», colui che volle che «ciò che mancava a
ogni cosa per rappresentare la bontà divina, fosse compensato dalle altre», perché la sua bontà
«non potrebbe essere rappresentata convenientemente da una sola creatura» (Summa
Theologiae I, q. 47, art. 1). Perciò noi abbiamo bisogno di cogliere la varietà delle cose nella sue
molteplici relazioni (cfr Summa Theologiae. I, q. 47, art. 2, ad 1; q. 47, art. 3). Per analoghe
ragioni, abbiamo bisogno di ascoltarci gli uni gli altri e completarci nella nostra recezione parziale
della realtà e del Vangelo.[45] Giovanni XXIII, Discorso nella solenne apertura del Concilio
Vaticano II (11 ottobre 1962): AAS 54 (1962), 786: «Est enim aliud ipsum depositum Fidei, seu
veritates, quae veneranda doctrina nostra continentur, aliud modus, quo eaedem enuntiantur».[46]
Giovanni Paolo II, Lett. enc. Ut unum sint (25 maggio 1995), 19: AAS 87 (1995), 933.[47] Summa
Theologiae, I-II, q. 107, art. 4.[48] Ibid.[49] N. 1735.[50] Cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap.
postsinodale Familiaris consortio (22 novembre 1981), 34: AAS 74 (1982), 123-125.[51] Cfr
Sant’Ambrogio, De Sacramentis, IV, vi, 28: PL 16, 464: «Devo riceverlo sempre, perché sempre
perdoni i miei peccati. Se pecco continuamente, devo avere sempre un rimedio»; ibid., IV, v, 24:
PL 16, 463:«Colui che mangiò la manna, morì; colui che mangia di questo corpo, otterrà il
perdono dei suoi peccati»; San Cirillo di Alessandria, In Joh. Evang. IV, 2: PG 73, 584-585: «Mi
sono esaminato e mi sono riconosciuto indegno. A coloro che parlano così dico: e quando sarete
degni? Quando vi presenterete allora davanti a Cristo? E se i vostri peccati vi impediscono di
avvicinarvi e se non smettete mai di cadere –chi conosce i suoi delitti?, dice il salmo– voi rimarrete
senza prender parte della santificazione che vivifica per l’eternità?».[52] Benedetto XVI, Discorso
in occasione dell’incontro con i Vescovi del Brasile presso la Chiesa Cattedrale di San Paolo (11
maggio 2007), 3: AAS 99 (2007), 428.[53] Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsinodale Pastores
dabo vobis (25 marzo 1992), 10: AAS 84 (1992), 673.[54] Paolo VI, Lett. enc. Ecclesiam suam (6
agosto 1964), 19: AAS 56 (1964), 632.[55] San Giovanni Crisostomo, De Lazaro Concio II, 6: PG
48, 992.[56] Cfr Propositio 13.[57] Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsinodale Ecclesia in Africa (14
settembre 1995), 52: AAS 88 (1996), 32-33; Id., Lett enc. Sollicitudo rei socialis (30 dicembre
1987), 22: AAS 80 (1988), 539.[58] Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsinodale Ecclesia in Asia (6
novembre 1999), 7: AAS 92 (2000), 458.[59] United States Conference of Catholic Bishops,
Ministry to persons with a Homosexual Inclination: Guidelines for Pastoral Care (2006), 17.[60]
Conférence des Évêques de France. Conseil Famille et Société, Élargir le mariage aux personnes
de même sexe? Ouvrons le débat! (28 septiembre 2012).[61] Cfr Propositio 25.[62] Azione
Cattolica Italiana, Messaggio della XIV Assemblea Nazionale alla Chiesa ed al Paese (8 maggio
2011).[63] Joseph Ratzinger, Situazione attuale della fede e della teologia. Conferenza
pronunciata durante l’Incontro dei Presidenti delle Commissioni Episcopali dell’America Latina per
la dottrina della fede, celebrato a Guadalajara, México, 1996. Pubblicata ne L’Osservatore
Romano, 1 novembre 1996; citato in: V Conferenza generale dell’Episcopato latino-americano e
dei Caraibi, Documento di Aparecida (29 giugno 2007), 12.[64] Georges Bernanos, Journal d’un

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curé de campagne, Paris, 1974, p. 135.[65] Discorso di apertura del Concilio Ecumenico Vaticano
II (11 ottobre 1962), 4, 2-4: AAS 54 (1962), 789.[66] John Henry Newman, Letter of 26 January
1833,in:The Letters and Diaries of John Henry Newman, vol. III, Oxford 1979, p. 204.[67]
Benedetto XVI, Omelia nella Santa Messa di apertura dell’Anno della fede (11 ottobre 2012): AAS
104 (2012), 881.[68] Tommaso da Kempis, De Imitatione Christi, Liber I, IX, 5: « Andar sognando
luoghi diversi, e passare dall’uno all’altro, è stato per molti un inganno ».[69] Vale la testimonianza
di Santa Teresa di Lisieux, nella sua relazione con quella consorella che le risultava
particolarmente sgradevole, in cui un’esperienza interiore ha avuto un impatto decisivo: «Una sera
d’inverno stavo facendo, come di solito, il mio dolce compito per la sorella Saint Pierre. Faceva
freddo, stava facendosi notte... Improvvisamente ascoltai di lontano il suono armonioso di uno
strumento musicale. Mi immaginai perciò un salone molto illuminato, tutto risplendente di
drappeggi dorati; e in tale salone signorine elegantemente vestite che si scambiavano complimenti
e cortesie mondane. Poi fissai la povera inferma alla quale io davo sostegno. Al posto di una
melodia potevo sentire ogni tanto i suoi gemiti pietosi (...). Non posso dire quello che accadde nel
mio animo. La sola cosa che so è che il Signore illuminò la mia anima con i raggi della verità, i
quali superavano a tal punto il luccichio tenebroso delle feste della Terra, che non potevo credere
al grado della mia felicità»: Manoscritto C, 29 v° – 30 r°, in Oeuvres complètes, Paris, 1992, pp.
274-275.[70] Cfr Propositio 8.[71] Henry De Lubac, Méditation sue l’église, Paris, 1968, p. 321.[72]
Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa,
295.[73] Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsinodale, Christifideles laici (30 dicembre 1988), 51:
AAS 81 (1989), 493.[74] Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione Inter insigniores,
sulla questione dell’ammissione della donna al sacerdozio ministeriale (15 ottobre 1976), VI: AAS
68 (1977) 115; citata in: Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsinodale, Christifideles laici (30 dicembre
1988), 51 (nota 190): AAS 81 (1989), 493.[75] Giovanni Paolo II, Lett. ap. Mulieris dignitatem (15
agosto 1988), 27: AAS 80 (1988), 1718.[76] Cfr Propositio 51.[77] Giovanni Paolo II, Esort. ap.
postsinodale Ecclesia in Asia (6 novembre 1999), 19: AAS 92 (2000), 478.[78] Ibid., 2: AAS 92
(2000), 451.[79] Cfr Propositio 4.[80] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium sulla
Chiesa, 1.[81] Meditazione durante la prima Congregazione generale della XIII Assemblea
generale ordinaria del Sinodo dei vescovi (8 ottobre 2012) : AAS 104 (2012), 897.[82] Cfr
Propositio 6; Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et
spes, 22.[83] Cfr Conc. Ecum. Vat.II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 9.[84] Cfr III
Conferenza Generale dell’Episcopato Latino-americano e dei Caraibi, Documento di Puebla (23
marzo 1979), 386-387.[85] Cfr Conc. Ecum. Vat.II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo Gaudium et spes, 36.[86] Ibid., 25.[87] Ibid., 53.[88] Giovanni Paolo II, Lett. ap.
Novo Millennio ineunte (6 gennaio 2001), 40: AAS 93 (2001), 294-295.[89] Ibid.40: AAS 93 (2001),
295.[90] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptoris missio (7 dicembre 1990), 52: AAS 83 (1991),
299. Cfr Esort. ap. Catechesi Tradendae (16 ottobre 1979) 53: AAS 71 (1979), 1321.[91] Giovanni
Paolo II, Esort. ap. postsinodale Ecclesia in Oceania (22 novembre 2001), 16: AAS 94 (2002),
384.[92] Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsinodale Ecclesia in Africa (14 settembre 1995), 61:
AAS 88 (1996), 39.[93] Cfr San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 39, art. 8, cons. 2:
«Se si esclude lo Spirito Santo, che è il legame di entrambi, non si può comprendere la concordia

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dell’unità tra il Padre e il Figlio»; ibid., I, q. 37, art. 1, ad 3.[94] Giovanni Paolo II, Esort. ap.
postsinodale Ecclesia in Oceania (22 novembre 2001), 17: AAS 94 (2002), 385.[95] Cfr Giovanni
Paolo II, Esort.. ap. postsinodale Ecclesia in Asia (6 novembre 1999), 20: AAS 92 (2000), 478-
482.[96] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 12.[97] Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Fides et ratio (14 settembre 1998), 71: AAS 91 (1999), 60.[98] III Conferenza
Generale dell’Episcopato Latino-americano e dei Caraibi, Documento di Puebla (23 marzo 1979),
450; cfr V Conferenza Generale dell’Episcopato Latino-americano e dei Caraibi, Documento di
Aparecida (29 giugno 2007), 264.[99] Cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsinodale Ecclesia in
Asia (6 novembre 1999), 21: AAS 92 (2000), 482-484.[100] N. 48: AAS 68 (1976), 38.[101]
Ibid.[102] Discorso durante la Sessione inaugurale della V Conferenza generale dell’Episcopato
Latino-americano e dei Caraibi (13 maggio 2007), 1: AAS 99 (2007), 446-447.[103] V Conferenza
Generale dell’Episcopato Latino-americano e dei Caraibi, Documento di Aparecida (29 giugno
2007), 262.[104] Ibid., 263.[105] Cfr San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae II-II, q 2, art.
2.[106] V Conferenza Generale dell’Episcopato Latino-americano e dei Caraibi, Documento di
Aparecida (29 giugno 2007), 264.[107] Ibid.[108] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla
Chiesa Lumen gentium, 12.[109] Cfr Propositio 17.[110] Cfr Propositio 30[111] Cfr Propositio
27.[112] Giovanni Paolo II, Lett. ap. Dies Domini (31 maggio 1998), 41: AAS 90 (1998), 738-
739.[113] Paolo VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975), 78: AAS 68 (1976), 71.[114]
Ibid.[115] Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsinodale Pastores dabo vobis (25 marzo 1992), 26:
AAS 84 (1992), 698.[116] Ibid., 25: AAS 84 (1992), 696.[117] San Tommaso d’Aquino, Summa
Theologiae, II-II, q. 188, art. 6.[118] Paolo VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975), 76:
AAS 68 (1976), 68.[119] Ibid., 75: AAS 68 (1976), 65.[120] Ibid., 63: AAS 68 (1976), 53.[121] Ibid.,
43: AAS 68 (1976), 33.[122] Ibid.[123] Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsinodale Pastores dabo
vobis (25 marzo 1992), 10: AAS 84 (1992), 672.[124] Paolo VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi (8
dicembre 1975), 40: AAS 68 (1976), 31.[125] Ibid., 43: AAS 68 (1976), 33.[126] Cfr Propositio
9.[127] Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsinodale Pastores dabo vobis (25 marzo 1992), 26: AAS
84 (1992), 698.[128] Cfr Propositio 38.[129] Cfr Propositio 20.[130] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Decr.
sui mezzi di comunicazione sociale Inter mirifica, 6.[131] Cfr De musica, VI, XIII, 38: PL 32, 1183-
1184; Conf., IV, XIII, 20: PL 32, 701.[132] Benedetto XVI, Discorso in occasione della proiezione
del documentario “Arte e fede – via pulchritudinis” (25 ottobre 2012): L’Osservatore Romano (27
ottobre 2012), p. 7.[133] Summa Theologiae, I-II, q. 65, art. 3, ad 2: «propter aliquas dispositiones
contrarias».[134] Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsinodale Ecclesia in Asia (6 novembre 1999),
20: AAS 92 (2000), 481.[135] Benedetto XVI, Esort. ap. postsinodale Verbum Domini (30
settembre 2010), 1: AAS 102 (2010), 682.[136] Cfr Propositio 11.[137] Cfr Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. dogm. sulla divina rivelazione Dei Verbum, 21-22.[138] Cfr Benedetto XVI, Esort. ap.
postsinodale Verbum Domini (30 settembre 2010), 86- 87: AAS 102 (2010), 757-760.[139]
Benedetto XVI, Meditazione durante la prima Congregazione generale della XIII Assemblea
Generale del Sinodo dei Vescovi (8 ottobre 2012): AAS 104 (2012), 896.[140] Paolo VI, Esort. ap.
Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975), 17: AAS 68 (1976), 17.[141] Giovanni Paolo II, Angelus
con i disabili nella Chiesa Cattedrale di Osnbrück [16 novembre1980]: Insegnamenti III/2 [1980],
1232.[142] Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della

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Chiesa, 52.[143] Giovanni Paolo II, Udienza Generale [24 aprile 1991]: Insegnamenti XIV/1[1991],
856.[144] Benedetto XVI, Lett. ap. in forma di motu proprio Intima Ecclesiae natura (11 novembre
2012): AAS 104 (2012), 996.[145] Lett. enc. Populorum Progressio (26 marzo 1967), 14: AAS 59
(1967), 264.[146] Paolo VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975), 29: AAS 68 (1976),
25.[147] V Conferenza Generale dell’Episcopato Latino-americano e dei Caraibi, Documento di
Aparecida (29 giugno 2007), 380.[148] Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace,
Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 9.[149] Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsinodale
Ecclesia in America (22 gennaio 1999) 27: AAS 91 (1999), 762.[150] Benedetto XVI, Lett. enc.
Deus caritas est (25 dicembre 2005), 28: AAS 98 (2006), 239-240.[151] Pontificio Consiglio della
Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 12.[152] Lett. ap.
Octogesima adveniens, 23 (14 maggio 1971), 4: AAS 63 (1971), 403.[153] Congregazione per la
Dottrina della Fede, Istruzione Libertatis nuntius (6 agosto 1984), XI, 1: AAS 76 (1984), 903.[154]
Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa,
157.[155] Paolo VI, Lett. ap. Octogesima adveniens, 23 (14 maggio 1971): AAS 63 (1971)
418.[156] Paolo VI, Lett. enc. Populorum Progressio (26 marzo 1967), 65: AAS 59 (1967),
289.[157] Ibid., 15: AAS 59 (1967), 265.[158] Conferência Nacional dos Bispos do Brasil,
Documento Exigências evangélicas e éticas de superação da miséria e da fome, Introduzione,
2.[159] Giovanni XXIII, Lett. enc. Mater et Magistra, 2 (15 maggio 1961), 2: AAS 53 (1961),
402.[160] Sant’Agostino, De catechizandis rudibus, I, XIV, 22: PL 40, 327.[161] Congregazione
per la Dottrina della Fede, Istruzione Libertatis nuntius (6 agosto 1984), XI, 18: AAS 76 (1984),
907-908.[162] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus (1 maggio 1991), 41: AAS 83
(1991), 844-845.[163] Giovanni Paolo II, Omelia durante la Messa per l’evangelizzazione dei
popoli a Santo Domingo (11 ottobre 1984) 5: AAS 77 (1985) 358.[164] Giovanni Paolo II, Lett. enc.
Sollicitudo rei socialis (30 dicembre 1987), 42: AAS 80 (1988), 572.[165] Benedetto XVI, Discorso
alla Sessione inaugurale della V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei
Caraibi (13 maggio 2007), 3: AAS 99 (2007), 450.[166] San Tommaso d’Aquino, Summa
Theologiae, II-II, q. 27, art. 2.[167] Ibid., I-II, q. 110, art. 1.[168] Ibid., I-II, q. 26, art. 3.[169]
Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo Millennio ineunte (6 gennaio 2001), 50: AAS 93 (2001), 303.[170]
Ibid.[171] Cfr Propositio 45.[172] Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione Libertatis
nuntius (6 agosto 1984), XI, 18: AAS 76 (1984), 908.[173] Questo implica «eliminare le cause
strutturali delle disfunzioni della economia mondiale»: Benedetto XVI, Discorso al Corpo
Diplomatico (8 gennaio 2007): AAS 99 (2007), 73.[174] Cfr Commission sociale des évêques de
France, Dichiarazione Réhabiliter la politique (17 febbraio 1999); Pio XI, Messaggio, 18 dicembre
1927.[175] Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 2: AAS 101 (2009),
642.[176] Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsinodale, Christifideles laici (30 dicembre 1988), 37:
AAS 81 (1989), 461.[177] Cfr Propositio 56.[178] Catholic Bishops’ Conference of the Philippines,
Lettera pastorale What is Happening to our Beautiful Land? (29 gennaio 1988).[179] Paolo VI,
Lett. enc. Populorum Progressio (26 marzo 1967), 76: AAS 59 (1967), 294-295.[180] United
States Conference of Catholic Bishops, Lettera pastorale Forming Consciences for Faithful
Citizenship (novembre 2007), 13.[181] Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace,
Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 161.[182] Das Ende der Neuzeit, Würzburg, 1965,

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30-31.[183] Cfr I. Quiles, S.I., Filosofia de la educación personalista, Buenos Aires, 1981, 46-
53.[184] Comité permanent de la Conférence Episcopale Nationale du Congo, Message sur la
situation sécuritaire dans le pays (5 dicembre 2012), 11.[185] Cfr Platone, Gorgia, 465.[186]
Benedetto XVI, Discorso alla Curia Romana (21 dicembre 2012): AAS 105 (2006), 51.[187] Cfr
Propositio 14.[188] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, 1910; Pontificio Consiglio della
Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 168.
[189] Cfr
Propositio 54.[190] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Fides et ratio (14 settembre 1998), 88: AAS 91
(1999), 74.[191] San Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, I, VII; cfr Giovanni Paolo II,
Lett. enc. Fides et ratio (14 settembre 1998), 43: AAS 91 (1999), 39.[192] Conc. Ecum. Vat. II,
Decr. sull’ecumenismo Unitatis redintegratio, 4.[193] Cfr Propositio 52.[194] Catholic Bishops’
Conference of India, Dichiarazione finale della 30.ma Assemblea generale: The Church’s Role for
a better India (8 marzo 2012), 8.9.[195] Cfr Propositio 53.[196] Giovanni Paolo II, Lett. enc.
Redemptoris missio (7 dicembre 1990), 56: AAS 83 (1991), 304.[197] Cfr Benedetto XVI, Discorso
alla Curia Romana (21 dicembre 2012): AAS 105 (2006), 51.[198] Conc. Ecum. Vat.II, Cost.
dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 16.[199] Commissione Teologica Internazionale, Il
cristianesimo e le religioni (1996), 72: Ench. Vat. 15, n. 1061.[200] Ibid.[201] Cfr ibid., 81-87: Ench.
Vat. 15, n. 1070-1076.[202] Cfr Propositio 16.[203] Benedettto XVI, Esort. ap. postsinodale
Ecclesia in Medio Oriente (14 settembre 2012), 26: AAS 104 (2012), 762.[204] Propositio 55.[205]
Cfr Propositio 36.[206] Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo Millennio ineunte (6 gennaio 2001), 52:
AAS 93 (2001), 304.[207] Cfr V. M. Fernández, «Espiritualidad para la esperanza activa». Acto de
apertura del I Congreso Nacional de Doctrina social de la Iglesia, Rosario (Argentina), 2011:
UCActualidad 142 (2011), 16.[208] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptoris missio (7 dicembre
1990), 45: AAS 83 (1991), 292.[209] Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre
2005), 16: AAS 98 (2006), 230.[210] Ibid., 39: AAS 98 (2006), 250.[211] II Assemblea speciale per
l’Europa del Sinodo dei Vescovi, Messaggio finale, 1: L’Osservatore Romano (23 ottobre 1999),
5.[212] Isacco della Stella, Sermo 51: PL 194, 1863.1865.[213] Nican Mopohua, 118-119.[214] Cfr
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, cap. VIII, 52-69.[215] Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Redemptoris Mater (25 marzo 1987), 6: AAS 79 (1987), 366.[216] Cfr
Propositio 58.[217] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptoris Mater (25 marzo 1987), 17: AAS 79
(1987), 381.
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