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Salesiani di don Bosco

Capitolo Generale 28°


Giornate di Spiritualità

19 febbraio 2020




La priorità della missione salesiana tra i giovani di oggi


Rossano Sala sdb



Auguro a tutti e a ciascuno di voi una buona giornata.

Vivremo insieme tre mattinate di spiritualità, scandite dai tre principali argomenti del nostro Capitolo Generale. Sono mattinate di “spiritualità”, e quindi non dobbiamo produrre nulla di particolare. Siamo chiamati invece a fare la cosa più importante, cioè a creare quel clima spirituale necessario ad affrontare le sfide del nostro Capitolo Generale. Siamo chiamati a rendere concreta, continua e abituale quella apertura all’azione dello Spirito senza la quale qualsiasi atto successivo non attingerà alla sua fonte propria e quindi non porterà i frutti sperati.

Non siamo radunati qui per fare marketing pastorale e nemmeno per pianificare la nostra azione educativa. E nemmeno principalmente per produrre un documento o per fare delle elezioni. Il nostro compito prioritario è ascoltare la voce del Padre, lasciarci guidare dal suo Spirito ed entrare nei sentimenti del suo Figlio. Siamo chiamati a vivere l’atteggiamento di Maria, per poi poter attivarci come Marta: «Maria, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola» (Lc 10,39).

Nella consapevolezza che ogni progresso non può che venire da una rinnovata disponibilità all’azione dello Spirito, cerchiamo in questa prima mattinata di entrare in punta di piedi nel primo nucleo su cui dovremo deliberare nelle prossime settimane: La priorità della missione salesiana tra i giovani di oggi. Non sarà un compito facile, perché avremo bisogno di uno sguardo attento sui giovani di oggi e di uno sguardo profondo sull’essenza della missione salesiana: solo dopo potremo davvero individuare poche e articolate priorità capaci di ridare vigore alla nostra azione educativa e pastorale con e per i giovani.

Come ci suggerisce lo Strumento di lavoro del nostro Capitolo Generale, ho scelto di affrontare questo primo nucleo della missione lasciandomi ispirare «soprattutto dai brani del Vangelo in cui Gesù incontra dei giovani e dai passi delle Memorie dell’Oratorio in cui don Bosco, nel dare inizio alla sua opera, individua le priorità della missione». Cerchiamo quindi fin da subito “i criteri ispiratori” dell’azione di Gesù e “le ragioni profonde” delle scelte vocazionali di don Bosco.


  1. I criteri ispiratori dell’azione di Gesù verso i giovani

Come ben dice l’articolo 10 delle nostre Costituzioni salesiane, «lo spirito salesiano trova il suo modello e la sua sorgente nel cuore stesso di Cristo, apostolo del Padre». E continua dicendo che


nella lettura del Vangelo siamo più sensibili a certi lineamenti della figura del Signore: la gratitudine al Padre per il dono della vocazione divina a tutti gli uomini; la predilezione per i piccoli e i poveri; la sollecitudine nel predicare, guarire, salvare sotto l’urgenza del Regno che viene; l’atteggiamento del Buon Pastore che conquista con la mitezza e il dono di sé; il desiderio di radunare i discepoli nell’unità della comunione fraterna.


Mi è parso dunque utile e necessario porre alla vostra attenzione alcuni incontri di Gesù con i giovani, così da poterci davvero mettere in sintonia con l’atteggiamento, lo stile e il metodo del «primo e più grande evangelizzatore» (cfr. Evangelii gaudium, n. 12; Evangelii nuntiandi, n. 7). Desidero prendere in considerazione quattro incontri che nel cammino sinodale degli ultimi tre anni sono stati valorizzati, lasciando anche che ognuno di voi si senta libero nel prendere in considerazione altri incontri tra Gesù e i giovani narrati nei Vangeli che ritiene significativi per sé e per il cammino del Capitolo Generale che stiamo incominciando.


    1. La priorità della missione: l’attenzione di Gesù per i giovani più poveri e abbandonati

Gesù è venuto perché tutti abbiamo la vita e l’abbiano in abbondanza (cfr. Gv 10,10). Per questo Egli non ha paura di incontrare giovani che vivono in situazione di degrado e di morte, per ridare loro vita, gioia e speranza. Papa Francesco, nel n. 20 dell’Esortazione Apostolica postsinodale Christus vivit, rivolgendosi ai giovani, ha affermato: «Se hai perso il vigore interiore, i sogni, l’entusiasmo, la speranza e la generosità, davanti a te si presenta Gesù come si presentò davanti al figlio morto della vedova, e con tutta la sua potenza di Risorto il Signore ti esorta: “Ragazzo, dico a te, alzati!” (Lc 7,14)».

Se osserviamo con attenzione quel brano (cfr. Lc 7,11-17), ciò che fa davvero la differenza è la compassione di Gesù, l’ascolto empatico di una situazione tragica, che gli mette il cuore in movimento e lo dispone all’azione. Un figlio unico di madre vedova: «Vedendola, il Signore ne ebbe compassione e le disse: “Non piangere!”» (Lc 7,13). Egli davvero patisce insieme a questa madre, entra in quella situazione e la fa propria. Agisce con misericordia perché ha un cuore vivo e profondo.

Domandiamoci: quanti giovani hanno perso il vigore interiore, i sogni, l’entusiasmo, la speranza e la generosità? Quanti giovani sono vivi, ma in realtà sono morti sotto le macerie di una società che uccide i loro sogni e le loro attese? Noi, come Gesù, siamo chiamati a dare di più a chi ha avuto di meno dalla vita. A fare gesti e azioni di speranza, soprattutto per coloro che hanno perso ogni speranza e che hanno smesso di sognare.


Un altro episodio simile è stato ben commentato durante all’Assemblea sinodale e ci aiuta a riconoscere le intenzioni di Gesù, uomo di grande libertà interiore e quindi capace di autentica autorità. Si tratta dell’episodio dell’epilettico indemoniato (cfr. Mc 9,14-29), che ci aiuta a riconoscere quanto la potenza di Gesù sia davvero al servizio della vita piena di ogni giovane. Conviene risentire il n. 71 del Documento finale del Sinodo:


Per compiere un vero cammino di maturazione i giovani hanno bisogno di adulti autorevoli. Nel suo significato etimologico la auctoritas indica la capacità di far crescere; non esprime l’idea di un potere direttivo, ma di una vera forza generativa. Quando Gesù incontrava i giovani, in qualsiasi stato e condizione si trovassero, persino se erano morti, in un modo o nell’altro diceva loro: “Alzati! Cresci!” E la sua parola realizzava quello che diceva (cfr. Mc 5,41; Lc 7,14). Nell’episodio della guarigione dell’epilettico indemoniato (cfr. Mc 9,14-29), che evoca tante forme di alienazione dei giovani di oggi, appare chiaro che la stretta della mano di Gesù non è per togliere la libertà ma per attivarla, per liberarla. Gesù esercita pienamente la sua autorità: non vuole altro che il crescere del giovane, senza alcuna possessività, manipolazione e seduzione.


Qui ci sono cose importanti che ci riguardano molto da vicino: siamo chiamati a riconoscere le diverse forme di povertà e alienazione dei giovani d’oggi; a verificare se l’esercizio dell’autorità che ci è stata consegnata è davvero corretto; ad uscire da ogni forma di abuso (di potere e autorità, amministrativo, di coscienza e sessuale); a impostare la nostra azione educativa nella logica della liberazione della libertà dei giovani e non del loro incatenamento a noi stessi.


    1. Lo stile e il metodo della missione: Gesù in cammino con i discepoli di Emmaus

Metto al centro di questa prima parte il testo che ha maggiormente ispirato il cammino sinodale, quello di Gesù che cammina con i discepoli diretti a Emmaus. Forse lì non si parla direttamente di giovani, perché i due discepoli probabilmente sono adulti, ma è certo che questo episodio ha davvero dato forma al cammino della Chiesa con e per i giovani oggi durante tutto il cammino sinodale. Effettivamente nel Documento finale, al n. 4, si dice che


abbiamo riconosciuto nell’episodio dei discepoli di Emmaus (cfr. Lc 24,13-35) un testo paradigmatico per comprendere la missione ecclesiale in relazione alle giovani generazioni. Questa pagina esprime bene ciò che abbiamo sperimentato al Sinodo e ciò che vorremmo che ogni nostra Chiesa particolare potesse vivere in rapporto ai giovani.


Vi invito soprattutto a meditare gli atteggiamenti e i comportamenti di Gesù.

Prima di tutto egli cammina con i due discepoli che non hanno compreso il senso della sua vicenda e si stanno allontanando da Gerusalemme e dalla comunità con tristezza. Il primo passo che Gesù ci insegna a fare è quello dell’ascolto empatico, è quello di entrare nei sentimenti di questi discepoli delusi, di farli propri, di cercarne le ragioni. A volte i giovani ci dicono che nei loro confronti siamo in “debito di ascolto”, che fatichiamo a metterci davanti a loro con un’apertura autentica rispetto alle loro domande reali e alle loro situazioni concrete. Gesù ci invita prima di tutto ad ascoltare. E non solo: ci invita a camminare con i giovani. Gesù prima di tutto vuole stare con loro, senza preoccuparsi della direzione del cammino. È interessato a non abbandonarli, a stare loro vicino, a creare una relazione di prossimità.

In un secondo momento Gesù prende la parola. Egli si fa dialogo e annuncio. Con affetto ed energia gli offre le corrette chiavi di lettura per poter interpretare quello che hanno vissuto e quello che stanno vivendo. Non ha paura di parlare della croce, che è il cuore della sua rivelazione: totalità di donazione per la vita di tutti, realtà incomprensibile per coloro che hanno il cuore duro, apparente debolezza di Dio che rivela il massimo del suo amore. I discepoli sono chiamati – attraverso i gesti dell’ultima cena – ad entrare nel sentire di Gesù, a convertire le loro posizioni, ad abbracciare la logica di Dio, che è sconvolgente e avvolgente allo stesso tempo.

E Gesù, come ogni vero educatore, ad un certo punto sparisce dalla loro vista con signorilità ed eleganza, mettendo i due discepoli davanti alla loro coscienza e responsabilità. È importante notare che Gesù non rimanda i discepoli a Gerusalemme, ma sono loro a scegliere di tornare nel cuore della comunità per condividere con loro la gioia del Vangelo. La presenza di Gesù ha permesso loro di diventare veramente se stessi, ovvero discepoli missionari di quella buona notizia che ogni giovane è chiamato a ricevere e a donare.


    1. La priorità nella missione: Gesù invita i giovani al dono totale di sé

Uno degli episodi biblici che è stato maggiormente citato e commentato durante il cammino sinodale è stato senz’altro quello del “giovane ricco” (cfr. Documento preparatorio, II,1; Instrumentum laboris, n. 84; Christus vivit, n. 17-18.251). In questo episodio (cfr. Mt 19,16-22; Mc 10,17-22) emerge prima di tutto l’amore di Gesù: «Gesù, fissatolo, lo amò» (Mc 10,21). Un amore che spiazza e stupisce, indicando la via dell’amicizia come via regale di un Vangelo che non ci vuole servi, ma amici (cfr. Gv 15,15). Un Dio che ama e che quindi chiama: non c’è infatti amore che non sia personale e personalizzante: l’amore è sempre amore per una persona concreta, per una persona che è chiamata ad entrare in amicizia e a condividere una missione. Per questo nei Vangeli l’amore è sempre seguito logicamente da una chiamata per nome e anche da una chiamata che cambia il nome.

Per questo, rivolgendosi ai giovani durante la Riunione presinodale (19-24 marzo 2018), papa Francesco così si esprimeva: «Dio ama ciascuno e a ciascuno rivolge personalmente una chiamata. È un dono che, quando lo si scopre, riempie di gioia (cfr. Mt 13,44-46). Siatene certi: Dio ha fiducia in voi, vi ama e vi chiama. E da parte sua non verrà meno, perché è fedele e crede davvero in voi». La “pastorale giovanile” di Gesù è immediatamente pensata e attuata in chiave vocazionale e orientata al dono totale di sé: al giovane ricco Gesù propone di passare dalla logica dell’avere a quella dell’essere; a passare dalla logica chiusa e comoda del progetto a quella aperta e rischiosa della vocazione, dalla logica del trattenere per sé a quella del donare con generosità.

Se ci pensiamo bene, si tratta del senso pieno e profondo dell’educazione, che solo così attinge al suo nucleo generativo: molte volte, quando pensiamo all’educazione, subito andiamo al suo senso maieutico e socratico, a quello dell’educere come “tirar fuori” dal giovane qualcosa che già dentro di lui, ma che è come addormentato e passivo, a far emergere i talenti che già possiede. Ma Gesù, che è ben più di Socrate, va ancora più in profondità, senza negare questa dimensione maieutica dell’educazione: vuole tirar fuori il giovane da se stesso, vuole aiutare il giovane ad uscire dal suo egocentrismo, per invitarlo ad andare verso gli altri, verso il Regno che viene, verso la logica del Vangelo, che è un dare la vita perché tutti abbiano la vita. Allora educere ci dice prima di tutto che dobbiamo uscire da noi stessi, dalle nostre chiusure, che dobbiamo abbattere i nostri muri interiori che ci isolano dagli altri. Gesù sa più di tutti che di narcisismo si muore e spinge questo giovane ad uscire da se stesso per diventare dono per gli altri.

Papa Francesco coglie nel segno quando cerca di spingere ogni giovane all’estasi della vita (concetto a noi molto caro questo dell’“estasi della vita”, perché viene direttamente da san Francesco di Sales: cfr. Trattato dell’Amor di Dio, VII,6-8): «Che tu possa vivere sempre più quella “estasi” che consiste nell’uscire da te stesso per cercare il bene degli altri, fino a dare la vita» (Christus vivit, n. 163). È l’estasi della carità, dell’amore come dono di sé! È forte e propulsivo questo pensiero, che viene poi sviluppato nel numero successivo:


Quando un incontro con Dio si chiama “estasi”, è perché ci tira fuori da noi stessi e ci eleva, catturati dall’amore e dalla bellezza di Dio. Ma possiamo anche essere fatti uscire da noi stessi per riconoscere la bellezza nascosta in ogni essere umano, la sua dignità, la sua grandezza come immagine di Dio e figlio del Padre. Lo Spirito Santo vuole spingerci ad uscire da noi stessi, ad abbracciare gli altri con l’amore e cercare il loro bene (Christus vivit, n. 164).


È evidente che non solo i giovani sono chiamati all’“estasi della vita”. Ogni comunità cristiana, ogni Chiesa locale e la Chiesa nel suo insieme deve lasciarsi riformare da questo tipo di estasi, che non ha nulla a che vedere con forme strane di spiritualismo.

Anche noi come Congregazione salesiana, durante questo Capitolo Generale, ci dobbiamo sentire chiamati ad abbracciare uno stile pastorale caratterizzato da questo tipo di estasi, perché esso sta alla radice della vita di don Bosco, che non ha tenuto nulla per sé, ma si è dato tutto per il bene dei giovani: «Io per voi studio, per voi lavoro, per voi vivo, per voi sono disposto anche a dare la vita» (Costituzioni salesiane, art. 14).

Proprio allora a don Bosco dobbiamo ritornare, e così andiamo verso la seconda parte della meditazione.


  1. Le ragioni profonde delle scelte vocazionali di don Bosco

Se da una parte lo Strumento di lavoro del nostro Capitolo Generale ci invitava a lasciarci ispirare «soprattutto dai brani del Vangelo in cui Gesù incontra dei giovani», dall’altra ci spinge a rivedere i «passi delle Memorie dell’Oratorio in cui don Bosco, nel dare inizio alla sua opera, individua le priorità della missione». Anche qui le scelte potrebbero essere molte, perché il testo delle Memorie dell’Oratorio è ricchissimo di episodi da cui trarre ispirazione per individuare oggi le priorità della missione tra i giovani.

Ho scelto di valorizzare tre spunti dove don Bosco, attraverso un lavoro di autentico discernimento nello Spirito, individua le priorità della missione tra i giovani del suo tempo: il primo è l’incontro con i giovani carcerati e la nascita della prima idea di oratorio; il secondo è il sogno della pastorella o delle tre fermate, che don Bosco riconosce come programma per le sue decisioni vocazionali; il terzo è il confronto con la marchesa di Barolo e la definitiva scelta vocazionale prioritaria di don Bosco per i giovani poveri e abbandonati.


    1. La prima idea dell’oratorio: la saggezza di don Cafasso e l’incontro con i giovani carcerati

Sappiamo che il giovane Giovanni Bosco dopo l’ordinazione sacerdotale non si è buttato a capofitto nell’attività pastorale, ma ha frequentato per ben tre anni il Convitto Ecclesiastico (1841-1844). Anni di approfondimento della teologia morale nell’attività accademica, tempo di esperienze pastorali mirate e pensate per gli studenti, anni di vicinanza a figure spirituali di imponente statura. Don Bosco dirà, ricordando quella bella esperienza che ne ha forgiato il cuore pastorale, che mentre nei seminari si studia il dogma e la speculazione, al convitto “si impara ad essere preti”. Don Bosco qui completò il regolare programma di studi biennale e poi, sotto il sapiente consiglio di don Cafasso, si fermò per un terzo anno. In questi anni, secondo le Memorie dell’Oratorio, incominciano le prime esperienze oratoriane di don Bosco, i suoi primi “esperimenti pastorali” che pian pano matureranno fino a diventare una scuola di santità per i giovani e per gli educatori.

La prima cosa che emerge dal racconto è che, come sempre, don Bosco non agisce in solitudine né di testa sua, ma fa riferimento costante ad una guida: «Don Cafasso, che da sei anni era mia guida, fu eziandio mio direttore spirituale, e se ho fatto qualche cosa di bene lo debbo a questo degno ecclesiastico nelle cui mani riposi ogni mia deliberazione, ogni studio, ogni azione della mia vita». Egli segue il suo maestro, vivendo con fiducia le esperienze che questo uomo santo gli fa vivere. E per questo va anche in carcere:


Per prima cosa egli prese a condurmi nelle carceri, dove imparai tosto a conoscere quanto sia grande la malizia e la miseria degli uomini. Vedere turbe di giovanetti, sull’età dei 12 ai 18 anni; tutti sani, robusti, d’ingegno svegliato; ma vederli là inoperosi, rosicchiati dagli insetti, stentar di pane spirituale e temporale, fu cosa che mi fece inorridire. L’obbrobrio della patria, il disonore delle famiglie, l’infamia di se stesso erano personificati in quegli infelici. Ma quale non fu la mia maraviglia e sorpresa quando mi accorsi che molti di loro uscivano con fermo proposito di vita migliore ed intanto erano in breve ricondotti al luogo di punizione, da cui erano da pochi giorni usciti (Seconda decade, 11).


Vede la malizia e la miseria degli uomini, stupisce davanti alla sanità e all’ingegno di questi giovani, inorridisce nel vederli inoperosi e rosicchiati dagli insetti. Si commuove dell’infelicità di quei ragazzi, che erano proprio come pecore senza pastore, senza nessuno in grado di radunare questo gregge disperso. E studia la questione, si accorge che c’erano buoni propositi in loro, ma non accompagnati da alcuno fuori dal carcere. E pensa, e prega. Non improvvisa soluzioni frettolose, ma si mette in autentico discernimento.

E qui si vede come il Convitto ecclesiastico non era solo luogo di esperienza pastorale, ma anche di riflessione pastorale sulla realtà incontrata. Don Bosco cerca con pazienza e trova con intelligenza le ragioni del fallimento e anche la soluzione:


Fu in quelle occasioni che mi accorsi come parecchi erano ricondotti in quel sito perché abbandonati a se stessi. “Chi sa, diceva tra me, se questi giovanetti avessero fuori un amico, che si prendesse cura di loro, li assistesse e li istruisse nella religione nei giorni festivi, chi sa che non possano tenersi lontani dalla rovina o almeno diminuire il numero di coloro, che ritornano in carcere?”. Comunicai questo pensiero a don Cafasso, e col suo consiglio e co’ suoi lumi mi sono messo a studiar modo di effettuarlo abbandonandone il frutto alla grazia del Signore senza cui sono vani tutti gli sforzi degli uomini.


Ed ecco una prima conclusione: il giovane sacerdote piemontese trova alcune vie pastorali percorribili, si confronta con la sua guida spirituale e segue i suoi consigli, mettendosi a studiare e ponendo il suo impegno nelle mani di Dio, che solo può rendere fecondo ogni azione umana. Così è stata generata la prima idea di “oratorio salesiano” nel cuore di don Bosco. Non in altro modo: questo per noi è un metodo da assumere!


    1. Il programma della missione: il sogno della pastorella o delle tre fermate

Al centro dell’ascolto del carisma di questa mattina mettiamo un sogno importante. Mi pare che questo sogno importante sta proprio al centro tra due grandi momenti della vita di don Bosco: quello iniziale del sogno dei nove anni – a cui don Bosco ha sempre dato un’importanza centrale nella sua vicenda vocazionale – e quello finale della Messa tra le lacrime celebrata al Sacro Cuore di Roma, dove ripensa a quel primo sogno e lo vede realizzato in tutto il suo cammino esistenziale. Penso che il sogno della pastorella – dello anche “delle tre fermate” –, intensificazione e specificazione di quello dei nove anni, ha lo stesso significato che ha avuto il racconto dei discepoli di Emmaus nel cammino sinodale: ovvero ha dato lo stile e il metodo a tutto il cammino percorso. Don Bosco stesso, ritornandoci sopra, dice che gli è servito come “programma” per le successive deliberazioni.

Tutto in quei momenti era incerto: effettivamente, al di là di un don Bosco sicuro di sé e dei disegni della Divina Provvidenza, i testi di quel periodo della sua vita ci restituiscono una grande fatica a riconoscere i disegni di Dio. Don Bosco, come Maria e come tutti i discepoli del Signore, ha dovuto camminare nella fede, che vede solo nel momento in cui si mette in cammino con abbandono e disponibilità. La sera precedente alla comunicazione dell’ennesimo trasferimento dell’Oratorio, questa volta in Valdocco, don Bosco va a letto con il cuore inquieto: e «in quella notte feci un nuovo sogno che pare un’appendice di quello fatto ai Becchi quando aveva nove anni».

Si parte da una moltitudine di animali di ogni razza che spaventava e faceva fuggire don Bosco, mentre una Signora gli fece cenno di andare avanti con loro, mentre ella precedeva. Poi tre fermate e «ad ogni fermata molti di quegli animali si cangiavano in agnelli, il cui numero andavasi ognor più ingrossando». Il primo passaggio è chiaro, molto simile al primo sogno: «Quattro quinti di quegli animali erano diventati agnelli».

Ecco poi un nuovo problema: c’erano parecchi pastorelli che arrivavano, ma subito se ne ripartivano:


Allora succedette una meraviglia. Molti agnelli cangiavansi in pastorelli, che crescendo prendevano cura degli altri. Crescendo i pastorelli in gran numero, si divisero e andavano altrove per raccogliere altri strani animali e guidarli in altri ovili.


Segue nel sogno la visione della Chiesa con la scritta Hic domus mea, inde gloria mea e la promessa di comprensione di tutto ciò che stava capitando nel sogno con l’andare del tempo. Profonda e importante la conclusione del racconto: «Questo [sogno] mi occupo quasi tutta la notte; molte particolarità l’accompagnarono. Allora ne compresi poco il significato perché poca fede ci prestava, ma capii le cose di mano in mano avevano il loro effetto. Anzi più tardi, congiuntamente ad altro sogno, mi servì di programma nelle mie deliberazioni».

In questo sogno ci sta la chiave vocazionale dell’impegno pastorale di don Bosco, ci sta l’inizio e l’essenza della Congregazione e della Famiglia Salesiana: la vocazione di don Bosco diventa per noi una rinnovata convocazione per il bene di tanti giovani. Da lupi, ad agnelli, a pastori: ecco il cammino vocazionale che ci aspetta!

Ci sta soprattutto, e ancora una volta, un don Bosco che si mette sulla scia dell’obbedienza a Maria che, come nel sogno dei nove anni, è senza dubbio la vera Maestra del cammino. Come possiamo essere salesiani di don Bosco senza una rinnovata fiducia in Maria, senza metterci di nuovo alla sua scuola con umiltà e semplicità, senza riconoscere che “senza Maria Ausiliatrice noi salesiani siamo niente”, come ben affermava il protomartire salesiano Luigi Versiglia?

Ci sta infine Don Bosco che si lascia guidare dallo spirito, che nella sua esistenza si è espresso molte volte attraverso i sogni e le visioni, di cui anche oggi abbiamo impellente bisogno. Non rinunciamo a sognare in grande, soprattutto in tempo di crisi, non rinunciamo a osare sentieri nuovi, perché in un “cambiamento d’epoca” come il nostro è quello che Dio e la sua Chiesa si aspettano da noi!


    1. La scelta irrevocabile: dare la vita per i giovani, fino all’ultimo respiro

Un terzo ed ultimo episodio che desidero porre alla vostra attenzione è il dialogo drammatico e risolutivo tra il giovane don Bosco e la marchesa di Barolo, al cui servizio egli si trovava in quel tempo.

Notiamo innanzitutto che questa santa donna è sinceramente preoccupata per la salute e la missione di don Bosco in mezzo ai giovani, tanto da sentirsi in dovere di spingerlo ad una scelta precisa, perché «non è possibile che possa continuare la direzione delle mie opere e quella dei ragazzi abbandonati, tanto più presentemente, che il loro numero è cresciuto fuori misura». La proposta della marchesa è abbastanza chiara: chiede a don Bosco di «sospendere ogni sollecitudine pei fanciulli».

Ripeto, la preoccupazione della Marchesa è sincera, in quanto


io non posso più tollerare che ella si ammazzi. Tante e così svariate occupazioni da volere o non volere tornano a detrimento della sua sanita e dei miei instituti. E poi, le voci che corrono intorno alla sua sanita mentale; l’opposizione delle autorità locali mi costringono a consigliarla […] O a lasciare l’Opera dei ragazzi, o l’Opera del Rifugio. Ci pensi e mi risponderà.


Tutte le ragioni sono contro don Bosco: la sua salute, la mancanza di mezzi, le voci sulla sua presunta pazzia, la carenza di collaboratori, l’opposizione delle autorità. Ma il Vangelo lo sappiamo, nei momenti decisivi, non è ragionevole, ma è amorevole! Don Bosco, in realtà ci aveva già pregato e pensato, e la sua risposta è limpida come l’acqua e dura come un diamante:


La mia risposta è già pensata. Ella ha danaro e con facilita troverà preti quanti ne vuole pe’ suoi istituti. Dei poveri fanciulli non è così. In questo momento se io mi ritiro, ogni cosa va in fumo, perciò io continuerò a fare parimenti quello che posso pel Rifugio, cesserò dall’impiego regolare e mi darò di proposito alla cura dei fanciulli abbandonati.


La motivazione vocazionale è dettata dall’amore per i giovani: se don Bosco non si occuperà di quei poveri fanciulli nessun altro lo farà al suo posto. Questo dice l’unicità e l’insostituibilità della vocazione, che ha bisogno di essere onorata in prima persona singolare e in prima persona plurale, perché ogni autentica vocazione diverrà sempre e comunque una convocazione. La motivazione vocazionale di don Bosco è chiara: se lui non si prende questo impegno – che nella preghiera ha riconosciuto come richiesta di Dio per la sua vita – i giovani saranno davvero abbandonati a se stessi. Questa è la sua vocazione, e di nessun altro. Questa è la sua chiamata singolare e irripetibile, che egli ha il dovere di accogliere fino in fondo, costi quel che costi!

Tutto il resto del dialogo è una conseguenza logica di questa posizione vocazionale irrevocabile. Don Bosco avrà, come ben profetizza la marchesa di Barolo, problemi di sopravvivenza materiale, avrà la salute rovinata, sarà pieno di debiti, avrà difficoltà con le autorità sia civili che ecclesiastiche, e così via. A nulla valgono le diverse minacce e offerte di questa donna («non le darò mai un soldo pei suoi ragazzi […] Io le continuerò lo stipendio, e l’aumenterò se vuole»).

Don Bosco non ha altro da dire, se non ripetere ciò che ha già detto: «Ci ho già pensato, signora marchesa. La mia vita e consacrata al bene della gioventù. La ringrazio delle profferte che mi fa, ma non posso allontanarmi dalla via che la divina Provvidenza mi ha tracciato». L’esito è un licenziamento in tronco: «Dunque preferisce i suoi vagabondi ai miei istituti? Se è così, resta congedato in questo momento». Dopo un breve dialogo, arrivano a deliberare di chiudere il tutto in tre mesi: «Accettai il diffidamento, abbandonandomi a quello che Dio avrebbe disposto di me». E poi l’episodio si conclude, logicamente, con don Bosco ritenuto pazzo: rinuncia ad una vita agiata e sicura per mettersi in strada insieme ai suoi ragazzi!

Qui abbiamo un don Bosco che sceglie, similmente ai due discepoli di Emmaus, di stare dalla parte del Signore, di rischiare e di osare di tener fede alla vocazione ricevuta dalle mani del Signore Gesù, che ha agito attraverso la mediazione di Maria. Come quei due misteriosi viandanti, anche don Bosco entra nella notte per restare dalla parte del Signore e dei giovani poveri e abbandonati. Notte che, sappiamo bene, si manifesterà nella sua vita in molti modi: incomprensioni dentro e fuori dalla Chiesa, fatiche fisiche e difficoltà economiche, abbandoni e fraintendimenti, e tanto altro ancora.

Ma nulla ha mai potuto veramente distogliere don Bosco dalla sua vocazione accolta: «Ho promesso a Dio che fin l’ultimo mio respiro sarebbe stato per i miei poveri giovani» (cfr. Costituzioni salesiane, art. 1). Questo è ciò che ha promesso e fatto don Bosco; ciò dovrebbe accadere anche ad ogni figlio degno di una così grande padre; ciò andrà ripromesso davanti a Dio e riaffermato nei fatti anche dal nostro Capitolo Generale 28°.




Salesiani di don Bosco

Capitolo Generale 28°


Giornate di Spiritualità

19 febbraio 2020




La priorità della missione salesiana tra i giovani di oggi


Testi per la preghiera e la meditazione



1

I criteri ispiratori dell’azione di Gesù


La resurrezione del figlio della vedova di Nain (Lc 7,11-17)

11 In seguito Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. 12 Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. 13 Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: “Non piangere!”. 14 Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: “Ragazzo, dico a te, àlzati!”. 15 Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre. 16 Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: “Un grande profeta è sorto tra noi”, e: “Dio ha visitato il suo popolo”. 17 Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante.


La guarigione dell’epilettico indemoniato (Mc 9,14-29)

14 E arrivando presso i discepoli, videro attorno a loro molta folla e alcuni scribi che discutevano con loro. 15 E subito tutta la folla, al vederlo, fu presa da meraviglia e corse a salutarlo. 16 Ed egli li interrogò: “Di che cosa discutete con loro?”. 17 E dalla folla uno gli rispose: “Maestro, ho portato da te mio figlio, che ha uno spirito muto. 18 Dovunque lo afferri, lo getta a terra ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce. Ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti”. 19 Egli allora disse loro: “O generazione incredula! Fino a quando sarò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? Portatelo da me”. 20 E glielo portarono. Alla vista di Gesù, subito lo spirito scosse con convulsioni il ragazzo ed egli, caduto a terra, si rotolava schiumando. 21 Gesù interrogò il padre: “Da quanto tempo gli accade questo?”. Ed egli rispose: “Dall’infanzia; 22 anzi, spesso lo ha buttato anche nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo. Ma se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci”. 23 Gesù gli disse: “Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede”. 24 Il padre del fanciullo rispose subito ad alta voce: “Credo; aiuta la mia incredulità!”. 25 Allora Gesù, vedendo accorrere la folla, minacciò lo spirito impuro dicendogli: “Spirito muto e sordo, io ti ordino, esci da lui e non vi rientrare più”. 26 Gridando e scuotendolo fortemente, uscì. E il fanciullo diventò come morto, sicché molti dicevano: “È morto”. 27 Ma Gesù lo prese per mano, lo fece alzare ed egli stette in piedi.

28 Entrato in casa, i suoi discepoli gli domandavano in privato: “Perché noi non siamo riusciti a scacciarlo?”. 29 Ed egli disse loro: “Questa specie di demòni non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera”.


Gesù in cammino con i discepoli verso Emmaus (Lc 24,13-35)

13 Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Emmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, 14 e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. 15 Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. 16 Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. 17 Ed egli disse loro: “Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?”. Si fermarono, col volto triste; 18 uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: “Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?”. 19 Domandò loro: “Che cosa?”. Gli risposero: “Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; 20 come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. 21 Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. 22 Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba 23 e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. 24 Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto”.

25 Disse loro: “Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! 26 Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”. 27 E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.

28 Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. 29 Ma essi insistettero: “Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto”. Egli entrò per rimanere con loro. 30 Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. 31 Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. 32 Ed essi dissero l’un l’altro: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?”.

33 Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, 34 i quali dicevano: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!”. 35 Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.


Il giovane ricco (versione di Matteo: Mt 19,16-22)

16 Ed ecco, un tale si avvicinò e gli disse: “Maestro, che cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?”. 17 Gli rispose: “Perché mi interroghi su ciò che è buono? Buono è uno solo. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti”. 18 Gli chiese: “Quali?”. Gesù rispose: “Non ucciderai, non commetterai adulterio, non ruberai, non testimonierai il falso, 19 onora il padre e la madre e amerai il prossimo tuo come te stesso”. 20 Il giovane gli disse: “Tutte queste cose le ho osservate; che altro mi manca?”. 21 Gli disse Gesù: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!”. 22 Udita questa parola, il giovane se ne andò, triste; possedeva infatti molte ricchezze.


Il giovane ricco (versione di Marco: Mc 10,17-22)

17 Mentre andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?”. 18 Gesù gli disse: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. 19 Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”. 20 Egli allora gli disse: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”. 21 Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!”. 22 Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.


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2

Le ragioni profonde delle SCELTE vocazionali di don Bosco


I testi sono tratti da: Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855, in Istituto Storico Salesiano, Fonti salesiane 1. Don Bosco e la sua opera, Roma, LAS 2014, 1170-1308.


Memorie dell’Oratorio, Seconda decade, 11 (pp. 1232-1235)

Convitto ecclesiastico di San Francesco d’Assisi

Sul finire di quelle vacanze mi erano offerti tre impieghi, di cui doveva scegliere uno: l’uffizio di maestro in casa di un signore genovese collo stipendio di mille franchi annui; di cappellano di Morialdo, dove i buoni popolani, pel vivo desiderio di avermi, raddoppiavano lo stipendio dei cappellani antecedenti; di vicecurato in mia patria. Prima di prendere alcuna definitiva deliberazione ho voluto fare una gita a Torino per chiedere consiglio a don Cafasso, che da parecchi anni era divenuto mia guida nelle cose spirituali e temporali. Quel santo sacerdote ascolto tutto, le profferte di buoni stipendii, le insistenze dei parenti e degli amici, il mio buon volere di lavorare. Senza esitare un istante egli mi indirizzo queste parole: “Voi avete bisogno di studiare la morale e la predicazione. Rinunciate per ora ad ogni proposta e venite al Convitto”. Seguii con piacere il savio consiglio e il 3 Novembre 1841 entrai nel mentovato Convitto.

Il Convitto ecclesiastico si può chiamare un complemento dello studio teologico, perciocché ne’ nostri seminarii si studia soltanto la dommatica, la speculativa. Di morale si studiano soltanto le proposizioni controverse. Qui si impara ad essere preti. Meditazione, lettura, due conferenze al giorno, lezioni di predicazione, vita ritirata, ogni comodità di studiare, leggere buoni autori, erano le cose intorno a cui ognuno deve applicare la sua sollecitudine. Due celebrità in quel tempo erano a capo di questo utilissimo istituto: il teologo Luigi Guala e don Giuseppe Cafasso. Il teologo Guala era il fondatore dell’Opera. Uomo disinteressato, ricco di scienza, di prudenza e di coraggio, si era fatto tutto a tutti in tempo del governo di Napoleone I. Affinché poi i giovani leviti, terminati i corsi in seminario, potessero imparare la vita pratica del sacro ministero, fondo quel maraviglioso semenzaio, da cui provenne molto bene alla Chiesa specialmente a sbarbare alcune radici di giansenismo che tuttora si conservava tra noi.

Fra le altre era agitatissima la questione del probabilismo e del probabiliorismo. In capo ai primi era l’Alasia, l’Antoine con altri rigidi autori la cui pratica può condurre al giansenismo. I probabilisti seguivano la dottrina di sant’Alfonso, che ora è stato proclamato dottore di santa Chiesa e la cui autorità si può dire la teologia del Papa, perché la Chiesa proclamo le sue opere potersi insegnare, predicare, praticare, ne esservi cosa che meriti censura. Il teologo Guala si mise fermo in mezzo ai due partiti, e per centro di ogni opinione mettendo la carità di nostro Signore Gesù Cristo riuscì a ravvicinare quegli estremi. Le cose giunsero a tal segno che merce il teologo Guala sant’Alfonso divenne il maestro delle nostre scuole con quel vantaggio che fu lungo tempo desiderato, e che oggidì se ne provano i salutari effetti.

Braccio forte del Guala era don Cafasso. Colla sua virtù che resisteva a tutte prove, colla sua calma prodigiosa, colla sua accortezza, prudenza poté togliere quell’acrimonia che in alcuni ancora rimaneva dei probabilioristi verso ai liguoristi.

Una miniera d’oro nascondevasi nel sacerdote torinese teologo Golzio Felice, egli pure convittore. Nella sua vita modesta fece poco rumore; ma col suo lavoro indefesso, colla sua umiltà, e colla sua scienza era un vero appoggio o meglio un braccio forte del Guala e del Cafasso. Le carceri, gli ospedali, i pulpiti, gli istituti di beneficenza, gli ammalati a domicilio; le città, i paesi e possiamo dire i palazzi dei grandi ed i tuguri dei poveri provarono i salutari effetti dello zelo di questi tre luminari del clero torinese.

Questi erano i tre modelli che la divina Provvidenza mi porgeva, e dipendeva solamente da me seguirne le tracce, la dottrina, le virtù. Don Cafasso, che da sei anni era mia guida, fu eziandio mio direttore spirituale, e se ho fatto qualche cosa di bene lo debbo a questo degno ecclesiastico nelle cui mani riposi ogni mia deliberazione, ogni studio, ogni azione della mia vita. Per prima cosa egli prese a condurmi nelle carceri, dove imparai tosto a conoscere quanto sia grande la malizia e la miseria degli uomini. Vedere turbe di giovanetti, sull’età dei 12 ai 18 anni; tutti sani, robusti, d’ingegno svegliato; ma vederli là inoperosi, rosicchiati dagli insetti, stentar di pane spirituale e temporale, fu cosa che mi fece inorridire. L’obbrobrio della patria, il disonore delle famiglie, l’infamia di se stesso erano personificati in quegli infelici. Ma quale non fu la mia maraviglia e sorpresa quando mi accorsi che molti di loro uscivano con fermo proposito di vita migliore ed intanto erano in breve ricondotti al luogo di punizione, da cui erano da pochi giorni usciti.

Fu in quelle occasioni che mi accorsi come parecchi erano ricondotti in quel sito perché abbandonati a se stessi. “Chi sa, diceva tra me, se questi giovanetti avessero fuori un amico, che si prendesse cura di loro, li assistesse e li istruisse nella religione nei giorni festivi, chi sa che non possano tenersi lontani dalla rovina o almeno diminuire il numero di coloro, che ritornano in carcere?”. Comunicai questo pensiero a don Cafasso, e col suo consiglio e co’ suoi lumi mi sono messo a studiar modo di effettuarlo abbandonandone il frutto alla grazia del Signore senza cui sono vani tutti gli sforzi degli uomini.


Memorie dell’Oratorio, Seconda decade, 15 (pp. 1241-1242)

Un nuovo sogno

La seconda domenica di ottobre di quell’anno (1844) doveva partecipare ai miei giovanetti che l’Oratorio sarebbe stato trasferito in Valdocco. Ma l’incertezza del luogo, dei mezzi, delle persone mi lasciavano veramente sopra pensiero. La sera precedente andai a letto col cuore inquieto. In quella notte feci un nuovo sogno che pare un’appendice di quello fatto ai Becchi quando aveva nove anni. Io giudico bene di esporlo letteralmente.

Sognai di vedermi in mezzo ad una moltitudine di lupi, di capre e capretti, di agnelli, pecore, montoni, cani ed uccelli. Tutti insieme facevano un rumore, uno schiamazzo o meglio un diavolio da incutere spavento ai più coraggiosi. Io voleva fuggire, quando una Signora, assai ben messa a foggia di pastorella, mi fe’ cenno di seguire ed accompagnare quel gregge strano, mentre ella precedeva. Andammo vagando per vari siti; facemmo tre stazioni o fermate. Ad ogni fermata molti di quegli animali si cangiavano in agnelli, il cui numero andavasi ognor più ingrossando. Dopo avere molto camminato mi sono trovato in un prato, dove quegli animali saltellavano e mangiavano insieme senza che gli uni tentassero di nuocere agli altri.

Oppresso dalla stanchezza voleva sedermi accanto di una strada vicina, ma la pastorella mi invito a continuare il cammino. Fatto ancora breve tratto di via, mi sono trovato in un vasto cortile con porticato attorno, alla cui estremità eravi una chiesa. Allora mi accorsi che quattro quinti di quegli animali erano diventati agnelli. Il loro numero poi divenne grandissimo. In quel momento sopraggiunsero parecchi pastorelli per custodirli. Ma essi fermavansi poco e tosto partivano. Allora succedette una meraviglia. Molti agnelli cangiavansi in pastorelli, che crescendo prendevano cura degli altri. Crescendo i pastorelli in gran numero, si divisero e andavano altrove per raccogliere altri strani animali e guidarli in altri ovili.

Io voleva andarmene, perché mi sembrava tempo di recarmi a celebrar messa, ma la pastora mi invito di guardare al mezzodi. Guardando vidi un campo in cui era stata seminata meliga, patate, cavoli, barbabietole, lattughe e molti altri erbaggi.

Guarda un’altra volta, mi disse, e guardai di nuovo. Allora vidi una stupenda ed alta chiesa. Un’orchestra, una musica istrumentale e vocale mi invitavano a cantar messa. Nell’interno di quella chiesa era una fascia bianca, in cui a caratteri cubitali era scritto: Hic domus mea, inde gloria mea.

Continuando nel sogno volli dimandare alla pastora dove mi trovassi; che cosa volevasi indicare con quel camminare, colle fermate, con quella casa, chiesa, poi altra chiesa. “Tu comprenderai ogni cosa quando cogli occhi tuoi materiali vedrai di fatto quanto ora vedi cogli occhi della mente”. Ma parendomi di essere svegliato, dissi: “Io vedo chiaro e vedo cogli occhi materiali; so dove vado e quello che faccio”. In quel momento suono la campana dell’Ave Maria nella chiesa di San Francesco ed io mi svegliai.

Questo [sogno] mi occupo quasi tutta la notte; molte particolarità l’accompagnarono. Allora ne compresi poco il significato perché poca fede ci prestava, ma capii le cose di mano in mano avevano il loro effetto. Anzi più tardi, congiuntamente ad altro sogno, mi servi di programma nelle mie deliberazioni.


Memorie dell’Oratorio, Seconda decade, 22 (pp. 1256-1258)

Congedo dal Rifugio – Altra imputazione di pazzia

Le molte cose che andavansi dicendo sul conto di don Bosco cominciavano ad inquietare la marchesa Barolo, tanto più da che il municipio torinese si mostrava contrario a’ miei progetti.

Un giorno, adunque, venuta in mia camera, ella prese a parlarmi così: “Io sono assai contenta delle cure che si prende pei miei istituti. La ringrazio che abbia cotanto lavorato per introdurre in quelli il canto delle laudi sacre, il canto fermo, la musica, l’aritmetica ed anche il sistema metrico”.

Non occorre ringraziamenti: i preti devono lavorare per loro dovere, Dio pagherà tutto e non si parli più di questo.

Voleva dire, che mi rincresce assai che la moltitudine delle sue occupazioni abbiano alterata la sua sanita. Non è possibile che possa continuare la direzione delle mie opere e quella dei ragazzi abbandonati, tanto più presentemente, che il loro numero è cresciuto fuori misura. Io sono per proporle di fare soltanto quello che è di obbligo suo, cioè direzione dell’Ospedaletto, non più andare nelle carceri, nel Cottolengo e sospendere ogni sollecitudine pei fanciulli. Che ne dice?

Signora marchesa, Dio mi ha finora aiutato e non mancherà di aiutarmi. Non si inquieti sul da farsi. Tra me, don Pacchiotti, il teologo Borel faremo tutto.

Ma io non posso più tollerare che ella si ammazzi. Tante e così svariate occupazioni da volere o non volere tornano a detrimento della sua sanita e dei miei instituti. E poi, le voci che corrono intorno alla sua sanita mentale; l’opposizione delle autorità locali mi costringono a consigliarla...

A che, signora marchesa?

O a lasciare l’Opera dei ragazzi, o l’Opera del Rifugio. Ci pensi e mi risponderà.

La mia risposta è già pensata. Ella ha danaro e con facilita troverà preti quanti ne vuole pe’ suoi istituti. Dei poveri fanciulli non è così. In questo momento se io mi ritiro, ogni cosa va in fumo, perciò io continuerò a fare parimenti quello che posso pel Rifugio, cesserò dall’impiego regolare e mi darò di proposito alla cura dei fanciulli abbandonati.

Ma come potrà vivere?

Dio mi ha sempre aiutato e mi aiuterà anche per l’avvenire.

Ma ella è rovinata di sanita, la sua testa non la serve più; andrà ad ingolfarsi nei debiti; verrà da me, ed io protesto fin d’ora che non le darò mai un soldo pei suoi ragazzi. Ora accetti il mio consiglio di madre. Io le continuerò lo stipendio, e l’aumenterò se vuole. Ella vada a passare uno, tre, cinque anni in qualche sito, si riposi, quando sia ben ristabilito, ritorni al Rifugio e sarà sempre il benvenuto. Altrimenti mi mette nella spiacevole necessita di congedarlo da’ miei istituti. Ci pensi seriamente.

Ci ho già pensato, signora marchesa. La mia vita è consacrata al bene della gioventù. La ringrazio delle profferte che mi fa, ma non posso allontanarmi dalla via che la divina Provvidenza mi ha tracciato.

Dunque preferisce i suoi vagabondi ai miei istituti? Se è così, resta congedato in questo momento. Oggi stesso provvederò chi la deve rimpiazzare.

Le feci vedere che un diffidamento così precipitoso avrebbe fatto supporre motivi non onorevoli né a me né a lei: era meglio agire con calma, e conservare tra noi quella stessa carità, con cui dovremo poi parlare ambidue al tribunale del Signore.

Dunque, conchiuse, le darò tre mesi, dopo cui lascerà ad altri la direzione del mio Ospedaletto.

Accettai il diffidamento, abbandonandomi a quello che Dio avrebbe disposto di me.

Intanto prevaleva ognor più la voce che don Bosco era divenuto pazzo. I miei amici si mostravano dolenti; altri ridevano; ma tutti si tenevano lontani da me. L’arcivescovo lasciava fare; don Cafasso consigliava di temporeggiare, il teologo Borel taceva. Così tutti i miei collaboratori mi lasciarono solo in mezzo a circa quattrocento ragazzi.

In quell’occasione alcune rispettabili persone vollero prendersi cura della mia sanita. “Questo don Bosco, diceva uno di loro, ha delle fissazioni che lo condurranno inevitabilmente alla pazzia. Forse una cura gli farà bene. Conduciamolo al manicomio e cola, coi dovuti riguardi, si farà quanto la prudenza suggerirà”. Furono incaricati due di venirmi a prendere con una carrozza e condurmi al manicomio. I due messaggeri mi salutarono cortesemente, di poi chiestemi notizie della sanita, dell’Oratorio, del futuro edifizio e chiesa, trassero in fine un profondo sospiro e proruppero in queste parole: “E vero”. Dopo ciò mi invitarono di recarmi seco loro a fare una passeggiata. “Un po’ di aria ti farà bene; vieni; abbiamo appunto la carrozza, andremo insieme ed avremo tempo a discorrere”.

Mi accorsi allora del giuoco che mi volevano fare, e senza mostrarmene accorto, li accompagnai alla vettura, insistetti che essi entrassero primi a prendere posto nella carrozza, e invece di entrarci anch’io, ne chiusi lo sportello in fretta dicendo al cocchiere: “Andate con tutta celerità al manicomio, dove questi due ecclesiastici sono aspettati”.


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