CG28|it|Chi dite che io sia?



OMELIA - 20 febbraio 2020

Giacomo 2,1-9 - Marco 8,27-33

 

Chi dite che io sia?

 

Forse che Gesù sta affrontando una crisi d’identità? Si sente forse insicuro? È così importante sapere cosa noi pensiamo di lui? Sa fin troppo bene che ci sono molti che parlan male di lui. È un “ubriacone”, un “mangione”, che se la spassa e beve con i peccatori (Lc 7,33-34; Mt 11,18-19). Insieme a queste accuse c’è anche quella di essere un figlio illegittimo (Gv 8,41) e di essere indemoniato (Mt 12,22-32; Lc. 11,14-23). È chiaro che Gesù dà fastidio ad alcuni dei suoi ascoltatori, mette in crisi la loro visione del mondo e ciò che proclama come una buona notizia è interpretata in realtà come una serie di notizie cattive per loro!

 

Chi dite che io sia?


Questa domanda non è rivolta al grande pubblico, ma a chi gli è più prossimo nel cammino, agli amici più intimi, ai suoi discepoli. Anche noi, che siamo chiamati a seguirlo più da vicino, siamo interpellati personalmente: chi dici che io sia? Non posso rispondere al tuo posto; posso rispondere solo per me stesso. Dal come mi dispongo dinnanzi a questo interrogativo dipende il mio modo di vivere la vita, tutta intera. Mi chiedo come Don Bosco ha risposto a questa domanda. Chi era Gesù per lui?

 

È facile concentrarsi sulla missione di Don Bosco per i giovani, che è una condivisione appieno della missione del Buon Pastore. Tuttavia, per rispondere alla domanda su chi è Gesù per lui, occorre entrare nel suo cuore. Mi sono imbattuto in un modo di comprendere Don Bosco molto interessante, nel Libro di Tutti i Santi, di Adrienne Von Speyr (mistica e amico di Von Balthasar).  Scrive:


Non è facile per Don Bosco guidare i suoi collaboratori nel mondo della sua preghiera ... Se i suoi aiutanti pregano troppo poco e si sentono più soddisfatti nell’azione, nelle imprese, nel lavoro, nell’esteriore, piuttosto che nell’essere con Dio, allora Don Bosco diventa triste, e allo stesso tempo, non sa più cosa fare. Non sa come trasmettere il suo proprio entusiasmo anche a loro.


Ad essere sincero, mi ritrovo pienamente in questa descrizione! Ricordo di aver confessato a un amico che ci sono momenti in cui son pronto a fare di tutto eccetto che pregare! Di tanto in tanto mi sorprendo mentre sto cercando qualunque modo per tenermi occupato, per distrarmi, per divertirmi o anche aiutare gli altri nel fare del bene, pur di non fermarmi ad affrontare l’inquietudine, la noia, la solitudine o comunque ciò che si trova nel profondo di me stesso. Ma se ho imparato qualcosa dal Signore durante la preghiera, questo è esattamente il punto fondamentale a cui sono giunto: non posso incontrare lui se non incontro prima la verità su me stesso.

 

Nel vangelo di Giovanni Gesù parla ad un livello, ma viene compreso ad un livello differente. È spesso frainteso. Le cose non solo molto diverse per me, perché quando si tratta di Gesù, spesso mi sbaglio. Sto ancor sempre imparando. Come succedeva con i suoi discepoli, tra le espressioni che preferisco per riferirmi a Gesù c’è quella di Maestro. Quando Gesù dice “se uno non rinasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio” (Gv 3,3) o “se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 18,3) sta dicendo una verità fondamentale. Non è solo un invito a fidarsi come fa un bambino: c’è in ballo una realtà più profonda. Non possiamo vedere Gesù senza la luce dello Spirito, e quella stessa luce è lo Spirito della verità. La nostra resistenza allo Spirito, alla sua luce e verità, può spesso essere fatta risalire all’infanzia, dove abbiamo imparato a guardare la vita in un certo modo.

 

Questo è diventato molto evidente per me durante gli esercizi spirituali di trenta giorni, che ho fatto diversi anni fa. Gran parte del ritiro l’ho trascorso in dialogo con Gesù, che mi ha riportato alla mia infanzia e mi ha aiutato a rivivere quei ricordi lontani, con lui presente dove pensavo fosse assente. Ho scoperto che il mio standard predefinito fin dall’infanzia era quello di ritirami, così da proteggermi. È difficile persino per Dio avvicinarsi, se siamo noi i primi a proteggerci da lui! Queste difese son finite col diventare per me ostacoli, perché ciò che una volta mi ha protetto, come bambino, era ormai diventato un modo di mantenere le distanze con Dio, tenendolo lontano.

 

Più di due anni e mezzo fa sono diventato ispettore e alla fine del primo anno ho fatto gli esercizi spirituali, in forma personale guidata. Il ritiro è iniziato con l’invito di Gesù che bussava alla porta chiedendo di poter entrare. Questo era in sintonia con un profondo desiderio nel mio cuore, ma con il passare dei giorni mi sentivo sempre più frustrato. A un certo punto mi è venuto da sorridere al pensiero: “Può darsi che non riesca a far entrare Gesù perché in realtà sono io quello che non è in casa!”. Il resto del ritiro è servito a far piena luce sulla verità di quelle parole. La mia reazione iniziale è stata di sentirmi piuttosto giù di corda, o, per così dire, sgonfio. Sempre durante il ritiro, come ho già anticipato questa mattina, sono rimasto impressionato dal contrasto tra un cane che tentava di correre avanti, tirando il suo proprietario dietro di lui, e uno stormo di gabbiani che si lasciavano trasportare dalla brezza. Per la maggior parte dell’anno come ispettore avevo fatto come il cane e, diversamente dai gabbiani, non ero riuscito a farmi trasportare; questo aveva contribuito al “restare fuori”. Sono stato coinvolto in tante attività, cercando di far sì che le cose andassero per il verso giusto, cercando di soddisfare le aspettative degli altri; ma l’essere molto impegnati non è garanzia che stiamo facendo la volontà di Dio. Quando ho potuto finalmente rallentare abbastanza, così da poter guardare con calma quello che mi stava succedendo, sono stato come sopraffatto da altri sentimenti: mi son sentito isolato, privo di sostegni, sopraffatto dalla responsabilità, assorbito dal carico di lavoro, prosciugato di energia, barcollante sotto il peso eccessivo delle aspettative. Mi sono chiesto: “Come ho fatto ad arrivare a questo punto?”. In una parola: mi sentivo come sgonfiato. L’esperienza mi ha insegnato che sentirsi così, come un pallone sgonfio, è spesso il punto di ingresso per Dio; le mie difese sono giù e così finalmentee lui può raggiungermi.

 

Gettare le reti nel profondo era il brano di vangelo con cui ho pregato. Anche qui le mie aspettative si mettevano di traverso. Mi aspettavo una pesca miracolosa, e invece non stava succedendo nulla, né di rapido, né di eccezionale. Sono tornato al testo in un secondo momento di preghiera, e dopo aver gettato le reti dalla barca in mare, mi sono sdraiato nella barca accanto al Signore. Potevo sentire un senso di oppressione, di peso sul petto, e lui mi ha chiesto gentilmente: “Parlami di quello che senti!”. La mia reazione istintiva stavolta non è stata del tipo: “Ho passato l’intero ritiro a scandagliare i miei sentimenti e son proprio stanco di farlo, stufo di analizzare me stesso”. Ho detto semplicemente: “Signore, mi manchi”. Ma è stata piuttosto la sua risposta a cogliermi di sorpresa. “Anche tu mi manchi!” Ero stupefatto. Più meditavo sulle sue parole, più sembravano scavare nel mio cuore. Improvvisamente ho iniziato a capire qualcos’altro: l’avevo privato della mia compagnia; a lui mancava lo stare con me; nella nostra amicizia era lui che non vedeva l’ora che io venissi da lui in preghiera, cosa che invece avevo trascurato. Non solo è il mio maestro; è anche il mio amico. “Il mio diletto è per me e io per lui” (Ct. 2,16). Il fatto che io gli mancassi non era nella mia sceneggiatura, ma era nella sua. Ha superato le mie aspettative. Ho rinnovato la mia alleanza con lui per dedicare più tempo alla preghiera quotidiana. Pensavo che in preghiera io fossi chiamato ad aspettare il Signore, e invece, come ho scoperto lo scorso agosto durante gli esercizi, è Dio in realtà che mi sta già aspettando! Come puoi aspettare qualcuno che è già lì? Sono io il distante e l’assente: Lui è sempre presente. “Il Signore aspetta per farvi grazia, per questo sorge per aver pietà di voi … beati coloro che sperano in lui!” (Is. 30,18). Proprio come ha lavato i piedi ai discepoli, ho scoperto che nella preghiera, e specialmente nell’adorazione eucaristica, si fa nostro servo, mentre ci attende con grazia, pazienza e amore. 

L’esperienza di perdere Dio e di non essere raggiungibile da Dio ha riacceso un incontro precedente con il Signore, durante i trenta giorni di esercizi spirituali di otto anni prima. Verso la fine di quel ritiro, mi ero ritrovato a meditare sul capitolo 21 di Giovanni. Ero sulla spiaggia attorno a un fuoco, con gli apostoli e Gesù che mangiavano e parlavano. A poco a poco siamo rimasti solo io e il Signore, chiacchierando seduti uno di fronte all’altro, con il fuoco lì accanto che ci scaldava. Ha richiamato la mia attenzione sul fuoco, invitandomi a comprenderlo come il fuoco del suo amore. Non c’era bisogno di parole, bastava l’intimità di quel momento, la contentezza di essere alla presenza l’uno dell’altro. Solo più tardi ho compreso appieno il significato di questa esperienza, quando il mio direttore spirituale ha ripetuto le mie stesse parole: quindi c'è del fuoco tra di voi? Se il mio standard predefinito durante l’infanzia era quello di proteggere me stesso e tenere Dio a distanza, Gesù mi stava insegnando un nuovo modo per venire al Padre, attraverso l’intimità con lui. Da quel giorno sono tornato accanto a quel fuoco con il Signore molte volte. Anche quando sono adirato o frustrato, rispondo al suo invito di mettere quel carico, come se fosse un pezzo di legno in più, sul fuoco del suo amore, del bene che Lui e io ci vogliamo, cosicché, mentre si consuma e sale al Padre Nostro, torna come una benedizione per la persona con cui sono adirato e frustrato.

 

Chi dite che io sia?


Sempre trovo che ci sia una differenza tra le mie idee su Gesù e il vero Gesù che incontro in preghiera. E sempre Lui mi sorprende. Apre gli occhi del mio cuore in modo che io possa vedere diversamente, guardare oltre, comprendere meglio. Anche quando sono deluso di me stesso a causa di qualche fallimento o peccato, trovo che la sua voce non si unisce alla mia autocondanna. Mi aiuta ad aprirmi alla verità, e allo stesso tempo a provare pentimento. Accettandomi nella mia debolezza, provo in prima persona la sua misericordia. Immancabilmente mi colma di speranza. Penserai che sia stato in grado di imparare dai miei errori, e invece mi ritrovo spesso a ripeterli. Tante cose possono tenermi a distanza da lui: la mia frenesia, le mie preoccupazioni, i miei peccati, le mie distrazioni e compensazioni. Eppure, senza mai arrendersi, sempre segue i miei passi. Quando finisco in un luogo di anti-libertà a causa delle scelte che ho fatto, che non includono lui, mi raggiunge proprio lì. È costantemente “alla ricerca di me” per “salvare ciò che era perduto” (Lc 19,10), quando ho ad un certo punto messo il mio cuore su qualcosa di diverso da lui. La mia libertà conta per lui. E così, oltre ad essere maestro ed amico, lo sperimento come il mio Signore è Salvatore che guarisce, perdona e mi libera.

 

Mi è diventato più chiaro che non mi fido abbastanza di Dio e che, se volete, questo è il mio peccato originale. Questo spiega perché a volte sono tentato di provare a spingere le cose per farle andare dove io voglio, piuttosto che fare affidamento su di lui. Sono profondamente convinto che il motivo per cui mi ha messo nella mia attuale posizione di ispettore è perché mi sta chiedendo di arrendermi a lui, così da imparare a fidarmi di più di lui. Mi ritrovo in situazioni impossibili, una dopo l’altra, e mi chiede di fidarmi, di arrendermi. Dovrei finalmente aver imparato al lezione, ma ogni appello alla resa richiede un altro passo avanti nella fiducia. Chi dici che io sia? Diventa un invito ad accoglierlo non solo come maestro ed amico, ma anche come Signore. Lo seguirò davvero permettendogli di aprire Lui la strada? Farò affidamento sulla sua forza, ricordando che “senza di me non potete fare nulla” (Gv 15, 5) ma anche che “la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza” (2Cor. 12,9)? In molte situazioni in cui mi si trovo faccia a faccia con i miei limiti o situazioni che sfuggono al mio controllo umano, sono invitato a fidarmi di Lui. Fidarsi veramente e credere che “non è troppo corta la mano del Signore da non poter salvare” (Is. 59,1). Sappiamo però che, prendere la strada della resa e dell’abbandono non è facile, perché a chi di noi piace perdere il controllo? Dio ci dà un paracadute e ci dice: “Salta”. Ci fidiamo di lui? Non lo sapremo mai se non saltiamo. L’unico modo per scoprire se il paracadute sosterrà il nostro peso è fare quel salto di fede nel vuoto. Dobbiamo saltare prima, solo dopo ci sentiremo portati in braccio. Ma non salteremo mai se non siamo convinti che ci si può fidare del Signore, che sarà sempre lì per prenderci e portarci nelle sue mani.

Chi dici che io sia? 

Eunan Mc Donnel SDB





Traduzione dall’inglese: Don Silvio Roggia