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MEDITAZIONE SULLA SPERANZA


1.- Cosa possiamo aspettare?


L’esortazione apostolica postsinodale Ecclesia in Europa, nella quale Giovanni Paolo II riprende i lavori e le conclusioni del Sinodo dei Vescovi in preparazione al grande Giubileo del Duemila, dice: “Lungo il Sinodo, man mano si è resa evidente una forte tensione verso la speranza. Pur facendo proprie le analisi della complessità che caratterizza il continente, i padri sinodali hanno colto come l’urgenza forse più grande che lo attraversa, a Est come ad Ovest, consiste in un accresciuto bisogno di speranza, così da poter dare senso alla vita e alla storia e camminare insieme” (EiE, n. 4).


Il Magistero pontificio più recente ha preso proprio la speranza come tema centrale. L’Enciclica di Benedetto XVI “Spe Salvi” ci offre preziosi elementi per arricchire la nostra riflessione su questa virtù teologale, ed è chiaro che, tra altre intenzioni, una delle più importanti è quella di offrire una risposta, dalla prospettiva dell’identità cristiana, a questo bisogno non soltanto europeo, ma mondiale. Citiamo, tra altri testi: “Così ci troviamo nuovamente di fronte alla domanda: che cosa possiamo sperare? È necessaria un’autocritica dell’età moderna in dialogo col cristianesimo e con la sua concezione della speranza” (Spe Salvi, 22); anche se indica, ugualmente, che “bisogna che nell’autocritica dell’età moderna confluisca anche un’autocritica del cristianesimo moderno” (ibidem).


Guardando la Congregazione a livello mondiale, non possiamo negare che questo “accresciuto bisogno di speranza” si costata anche nei nostri ambienti: in maniera, indubbiamente, diversificata. La scarsità delle vocazioni, tranne in qualche regione della geografia salesiana; la fragilità formativa delle nuove generazioni; la problematica della gioventù odierna, stimolata ancor di più da fattori esterni come la violenza, la droga, le antiche e nuove povertà; e, ancor più in profondità, anche molte volte l’indebolimento della passione apostolica e l’assunzione di modelli di vita religiosa non sempre secondo l’ideale evangelico, sono alcuni degli elementi che non ci permettono di vedere con molta chiarezza ed entusiasmo il futuro. Il Rettor Maggiore presenta, in diverse parti della Lettera di convocazione del Capitolo, alcune di queste realtà preoccupanti della situazione della Congregazione (ACG 394, pp. 9-11. 17-20. 25-26, et passim).


Nella preparazione del CG 26, si costata, un po’ dovunque (forse con certe eccezioni), una sensazione simile. La stessa insistenza della Congregazione nel “ripartire da Don Bosco per risvegliare il cuore di ogni salesiano” attorno all’identità carismatica e la passione apostolica, presuppone questa problematica, e vuole metterci in allerta di fronte ad essa.


Sappiamo bene che la speranza è generata dalla fede, e sostiene l’amore. Ciò nonostante, può anche succedere che la fede, proprio perché si fonda in una realtà storica concreta, può, paradossalmente, bloccarsi di fronte alla speranza, chiudendosi nel dolore del ricordo (etimologicamente: nostalgia) e nel lamento del passato.


Mi sembra che questa situazione può vedersi chiaramente “dipinta” nel racconto biblico della vocazione di Gedeone:


Ora l’angelo del Signore venne a sedere sotto il terebinto di Ofra, che apparteneva a Ioas, Abiezerita; Gedeone, figlio di Ioas, batteva il grano nel tino per sottrarlo ai Madianiti. L’angelo del Signore gli apparve e gli disse: “Il Signore è con te, uomo forte e valoroso!”. Gedeone gli rispose: “Signor mio, se il Signore è con noi, perché ci è capitato tutto questo? Dove sono tutti i suoi prodigi che i nostri padri ci hanno narrato, dicendo: il Signore non ci ha fatto uscire dall’Egitto? Ma ora il Signore ci ha abbandonati e ci ha messi nelle mani di Madian”. Allora il Signore si volse a lui e gli disse: “Va’ con questa tua forza e salva Israele dalla mano di Madian; non ti mando forse io?”. Gli rispose: “Signor mio, come salverò Israele? Ecco, la mia famiglia è la più povera di Manasse e io sono il più piccolo nella casa di mio padre”. Il Signore gli disse: “Io sarò con te e tu sconfiggerai i Madianiti come se fossero un uomo solo” (Gdc 6, 11-16).


È chiaro che Gedeone ha fede; è convinto dell’intervento salvifico di Dio in favore del Suo popolo… nel passato; quello che manca è la speranza, credere che Dio non li ha abbandonati, ma continua ad essere il “Dio-con-noi”, e vuol aiutarci a vedere con fiducia il futuro. E, come conseguenza, Gedeone viene invitato a collaborare con Dio, non soltanto a lamentarsi della Sua apparente “assenza” o abbandono.


Ugualmente, possiamo sentirci come il Popolo d’Israele nell’esilio, ricordando le meraviglie divine del passato (e forse dimenticando troppo in fretta, come fece il popolo d’Israele, la propria responsabilità):


O Dio, con i nostri orecchi abbiamo udito, i nostri padri ci hanno raccontato l’opera che hai compiuto ai loro giorni, nei tempi antichi (…) Ma ora ci hai respinti e coperti di vergogna, e più non esci con le nostre schiere (…) Tutto questo ci è accaduto e non ti avevamo dimenticato, non avevamo tradito la tua alleanza. Non si era volto indietro il nostro cuore, i nostri passi non avevano lasciato il tuo sentiero (Salmo 44, 2. 10. 18-19).



2.- La Speranza di fronte alla “Postmodernita’”


La situazione attuale, a livello mondiale, e soprattutto nella “cultura giovanile” non facilita, indubbiamente, la speranza.


Dal punto di vista fenomenologico, possiamo sottolineare, tra gli altri, tre tratti fondamentali della speranza, come atteggiamento umano:


* tende sempre verso il futuro, mostrando così il dinamismo proprio dell’essere umano, sempre proteso in avanti: “finché c’è vita, c’è speranza”; senza dimenticare il mito “del vaso di Pandora”, possiamo dire, con Aristotele, che la speranza è “il sogno dell’uomo sveglio”;


* si vive sempre di fronte a un orizzonte positivo: non tutto quello che verrà è “degno di speranza”: può essere, invece, oggetto di paura o di angoscia;

* include un elemento di “passività” (aspettare), ma anche un atteggiamento di chi vive questa attesa (sperare) 1.


Dobbiamo riconoscere che, insieme a questa dinamica di futuro, insita nel più profondo dell’essere umano, c’è anche un pericolo: non vivere, nel senso più positivo, il momento presente. A questo proposito, dice Pascal:


Non ci atteniamo mai al presente; noi anticipiamo il futuro come se esso fosse troppo lento ad arrivare, come se volessimo accelerarne il corso; ricordiamo il passato per trattenerlo come se fosse troppo veloce a scomparire; siamo così stolti che vaghiamo in tempi che non sono nostri e trascuriamo l’unico che ci appartiene, e siamo così fatui che pensiamo a quelli che non sono nulla e lasciamo passare senza porvi mente l’unico che esiste… Non pensiamo quasi mai al presente, e se lo facciamo è soltanto per ricavarne una luce per poter disporre del futuro. Il presente non è mai il nostro scopo; passato e presente sono i nostri mezzi, ma soltanto il futuro è il nostro scopo. Perciò non viviamo mai, ma speriamo di vivere, ed è quindi inevitabile che, preparandoci sempre a essere felici, non lo siamo mai” (Pensieri, n. 172) 2.


Purtroppo, nella postmodernità l’esperienza umana della temporalità è diventata particolarmente problematica.


Il Rettor Maggiore, nella sua conferenza ai Superiori Generali, faceva quest’analisi:


L’essere umano, pur vivendo sempre al presente (è una verità lapalissiana), è un "essere di futuro" (E. Bloch, W. Pannenberg): per natura propria, è collocato di fronte all’utopico, a quello che ancora non "ha luogo" nel nostro mondo e nella storia. Questo si può dire, a fortiori, delle generazioni giovani, che portano questo orientamento verso il futuro dalla loro stessa identità psicosomatica, iscritta fino alla cellula più “umile”.


Per ciò, constatiamo nella situazione postmoderna una tragedia: la minaccia di futuro che incombe sull'umanità colloca, soprattutto questa generazione giovane, davanti ad una contraddizione esistenziale: da un lato, con un'esigenza irresistibile di un orizzonte di futuro, e dall’altro, con la carenza di questo orizzonte. Se a questo aggiungiamo il rifiuto del passato da parte della cultura giovanile attuale, possiamo capire la sua sensazione di essere “rinchiusa” nel minimo spazio che gli permette il presente, senz’altra soluzione che tentare di "vivere l'istante che fugge" (l'attimo fuggente).


Questa minaccia si manifesta doppiamente: da un lato, in quello che J. Moltmann ha chiamato “la perdita dell'innocenza atomica" da Hiroshima in poi: sappiamo –e le notizie più recenti ce lo ricordano ancora- che da alcuni decenni, e per la prima volta nella storia del mondo e dell’uomo in esso (da quel che sappiamo), esiste la possibilità reale (che dipende, in concreto, dalla decisione di alcune persone) che sparisca l’umanità intera, come conseguenza di una conflagrazione nucleare. Il fatto che i capi delle nazioni giungano ad eventuali accordi a questo riguardo non elimina il pericolo: come dice lo stesso Moltmann, non recupereremo mai l'innocenza perduta. "L'epoca in cui viviamo è, anche se dovesse durare all’infinito, l'ultima epoca dell'umanità... Viviamo nel tempo della fine, e cioè di quella epoca in cui ogni giorno possiamo provocare la sua fine".


D'altra parte – e non totalmente slegata dalla precedente - troviamo questa minaccia nel degrado ecologico, universale e irreversibile: pensiamo all'inquinamento dell'aria, alla diminuzione dell'acqua dolce, alla distruzione dei boschi, al vertiginoso sfruttamento di energetici non rinnovabili. Come dice lo stesso Moltmann, "tutti siamo uguali... di fronte al buco dell’ozono."


Questa "soppressione dal di fuori" dell'orizzonte di futuro è un fattore tipico del nostro tempo, ed è fondamentale per comprendere l’ossessivo attaccamento al presente, ed il bisogno di “soddisfazioni” immediate che caratterizza l'era postmoderna: poiché non è la stessa cosa "voler vivere l'oggi” nella prospettiva del domani, che dover ancorarsi nell'oggi, perché forse non esisterà il domani... Qualche giorno fa un giornale, a proposito di una recensione di un libro del Premio Nobel della Letteratura, lo scrittore ungherese Imre Kertész, utilizzava questa espressione: “È possibile avere figli dopo Auschwitz?”, evocazione della celebre frase: “È possibile credere in Dio dopo Auschwitz?”. È la domanda che oggi si pongono tanti giovani di fronte al matrimonio e alla famiglia: non con un’illusione d’altri tempi, bensì con l'angoscia di fronte al futuro nel quale toccherà loro vivere; vale dunque la pena portare nuovi esseri al mondo?


È indubbio che questa "privazione di futuro", in un senso molto diverso, colpisce anche la vita consacrata, in particolare le nuove generazioni” (Per una vita consacrata fedele. Sfide antropologiche alla formazione, USG maggio 2006, 21-23).


La “modernità”, a questo riguardo, può essere descritta come l’atteggiamento di chi, rifiutando il passato, si proietta verso il futuro, e mette tutte le sue aspettative nel futuro; la postmodernità, invece, sarebbe come una reazione di fronte all’ingenuo ottimismo moderno: come un ubicarsi, il più serenamente possibile, nel presente, e vivere il “carpe diem”. Uno dei testi biblici più “attuali”, secondo me, è la testimonianza del anziano Eleàzaro, durante la guerra maccabea:


“Non è affatto degno della nostra età fingere con il pericolo che molti giovani, pensando che a novant’anni Eleàzaro sia pasato agli usi stranieri, a loro volta, per colpa della mia finzione, durante pochi e brevissimi giorni di vita, si perdano per causa mia e io procuri così disonore e macchia alla mia vecchiaia (…) Perciò, abbandonando ora da forte questa vita, mi mostrerò degno della mia età e lascerò ai giovani nobile esempio, perché sappiano affrontare la morte prontamente e generosamente per le sante e venerande leggi”. Dette queste parole, si avviò prontamente al supplizio (…) In tal modo egli morì, lasciando non solo ai giovani ma alla grande maggioranza del popolo la sua morte come esempio di generosità e ricordo di fortezza” (2 Mac 6, 24-25. 27-28. 31).



3.- La Speranza nella Rivelazione Biblica


A differenza di altre concezioni della vita e della storia, l’esperienza di Israele plasmata nella Bibbia presenta Dio come un “Dio di esodi”, che fa uscire sempre dalla sicurezza del presente verso un futuro, promettente, certo (nel senso più pieno della parola: in quanto oggetto della promessa), ma sempre insicuro: se non c’è la fede, non ha senso neanche questo dinamismo di futuro e di esodo. “Se avessero pensato a quella (patria) da cui sono usciti, avrebbero avuto possibilità di ritornarvi; ora invece aspirano a una migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non disdegna di chiamarsi loro Dio: ha preparato infatti per loro una città” (Eb 11, 15-16).


Tutta la storia di Israele può vedersi, dalla fede in Dio, come una tensione costante verso il futuro, con una configurazione chiara: fiducia nel compimento delle promesse del Dio fedele (fides – fidelitas – fiducia – spes), centrata nell’Alleanza.


La mancanza di fede si traduce, simmetricamente, nella disperanza e nella disperazione, le due facce opposte della stessa moneta e, in conseguenza, nel voler ritornare verso il passato: “Fossimo morti per mano del Signore nel paese d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatti uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine” (Es 16, 3 et passim).


L’intera storia del Popolo di Israele si vede “attraversata” dalla promessa di Dio. Malgrado l’infedeltà e l’ingratitudine degli israeliti, i profeti pre-esilici, soprattutto Geremia, che minacciano il castigo di Dio e la distruzione dell’Alleanza per causa di questa infedeltà (cfr. Ger 13; 19), annunciano sempre una Nuova Alleanza (Ger 31, 31ss.; Ez 36, 24ss; Deuteroisaia…).


Nella straordinaria visione di Ez 37, le ossa inaridite sono il simbolo più espressivo: “Figlio dell’uomo, queste ossa sono tutta la gente d’Israele. Ecco, essi vanno dicendo: Le nostra ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti. Perciò profetizza e annunzia loro: Dice il Signore Dio: Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nel paese d’Israele” (Ez 37, 11-12).


Nel Nuovo Testamento, più che cercare una citazione puntuale, l’avvenimento Cristo è, in se stesso, il compimento definitivo (“escatologico”) della promessa di Dio. Purtroppo, la morte di Gesù ci mostra, drammaticamente, come i pensieri di Dio non sono i pensieri umani (cfr. Is 55, 8ss.).


Invece, per chi crede nel “Dio di Gesù Cristo”, “la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito (…) Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rom 5, 5-6). Per questo, “Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo; nella sua grande misericordia egli ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi, che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, per la vostra salvezza, prossima a rivelarsi negli ultimi tempi” (1 Pt 1, 3-5).


Troviamo, significativamente, i tre tempi: il passato della fede, il futuro della speranza, e il presente della fedeltà di Dio, e del nostro impegno cristiano nell’amore (cfr. i seguenti versetti, 1 Pt 1, 6-9).


Invece, dice Benedetto XVI, “Paolo ricorda agli Efesini come, prima del loro incontro con Cristo, fossero ‘senza speranza e senza Dio nel mondo’” (Ef 2, 12) (Spe Salvi, 2). Questo è, forse, il testo biblico più citato nell’Enciclica: si trova anche nei numeri 3, 23, 27, 44, evidentemente, in contesti diversi.


Uno dei libri del NT che più chiaramente sviluppa il rapporto tra le tre virtù teologali è la Lettera ai Romani; sulla speranza, in concreto, abbiamo alcuni testi fondamentali:


* In primo luogo, ci presenta la figura di Abramo sotto questa prospettiva: “Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli” (Rom 4, 18).


* Il secondo testo presenta una concatenazione, in certo senso “dal rovescio”, di diverse virtù tipiche del cristiano: “La tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rom. 5, 3b-5).


* Nel capitolo 8, ci ricorda che la speranza guarda verso il futuro: “Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza” (Rom 8, 24-25).


* Verso la fine, ci sono due testi nel capitolo 15 molto belli a questo riguardo: “Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché in virtù della perseveranza e della consolazione che ci vengono dalle Scritture teniamo viva la nostra speranza” (Rom 15, 4). E finalmente: “Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo” (Rom 15, 13).


Un altro libro del Nuovo Testamento assai ricco riguardo alla speranza, è la lettera agli Ebrei. Anche qui il Papa approfondisce nell’Enciclica, soprattutto due testi: 10, 34 e 11,1, dedicando a quest’ultimo una ampia e polemica esegesi (Spe Salvi, nn. 7-9).


Vorrei finire questa piccolissima riflessione biblica con una espressione molto bella di san Paolo: “La carità è paziente (…) tutto spera” (1 Cor 13, 4. 7). In fondo, ci ricorda che l’amore va più in là della speranza, proprio perché… è l’unico atteggiamento che può sperare tutto e sempre. In questo senso, possiamo dire, parafrasando Hans Urs von Balthasar, che “soltanto l’amore è degno di speranza”.



4.- Don Bosco, uomo di speranza


È molto significativo costatare che, nella nostra Regola di Vita, troviamo un’inclusione linguistica a questo riguardo, che abbraccia le nostre Costituzioni nel loro insieme. L’articolo 1 ci indica come certezza di fede che la nostra Missione non è soltanto opera umana, ma anzitutto Volontà di Dio, e costituisce “il sostegno della nostra speranza” (Cost. 1). E l’ultimo articolo non parla dell’iniziativa di Dio, ma della nostra collaborazione con Lui, nella realizzazione della Missione a noi affidata: la nostra fedeltà diventa “pegno di SPERANZA per i piccoli e i poveri” (Cost. 196).


Anche se non viene esplicitamente menzionata, la speranza è molto presente nella sezione che delinea l’identità e lo spirito salesiano, soprattutto negli articoli 17-19. Nel contesto dei consigli evangelici, si conclude la loro presentazione globale con una frase che include, allo stesso tempo, la visione di fede e l’impegno presente: il salesiano è “un educatore che annuncia ai giovani ‘cieli nuovi e terra nuova’, stimolando in loro gli impegni e la gioia della speranza” (Cost. 63).


In tutto questo si manifesta la nostra “figliolanza” rispetto al nostro Padre Don Bosco, un uomo di una straordinaria “capacità di speranza”; o meglio, un uomo che ha saputo integrare alla perfezione le tre dimensioni dell’atteggiamento teologale del cristiano: fede – speranza - carità.


Per non rimanere in affermazioni generiche, sottolineeremo, in maniera molto breve e quasi schematica, tre aspetti della maniera in cui visse il nostro Padre la speranza: “temperamentale” - educativa - teologale.


- Cercando, come sempre, l’unione tra la natura e la grazia (cfr. Cost. 21), senza dimenticare che tutte e due sono doni di Dio, possiamo riscontrare in lui di una tendenza temperamentale verso la speranza: lui dimostra una capacità straordinaria di trasformare le difficoltà in sfide che lo stimolano e spingono per andare avanti; si trova in lui, fino all’ultimo momento della sua vita, l’entusiasmo e l’illusione che derivano dal suo amore appassionato e apostolico verso i giovani. Non sono stati tempi facili quelli in cui egli è vissuto (in nessun senso); nonostante ciò, mai si è lamentato di essi, né ha ricordato con nostalgia il tempo passato (cfr. Cost. 17).


- In Don Bosco la speranza è una virtù educativa: chi lavora con ragazzi e giovani ha bisogno, forse più di tutti, della speranza, anche avendo, anche noi, l’esperienza menzionata nel salmo 126:


Nell’andare, se ne va e piange, portando la semente da gettare;

ma nel tornare, viene con giubilo, portando i suoi covoni (v. 6).


Soltanto che, nell’educazione, questo “tornare” accade soltanto non dopo alcuni giorni, o mesi, ma, nel migliore dei casi, dopo molti anni… Perciò, è indispensabile, nel lavoro educativo, l’attesa e la speranza.


In questo campo, troviamo di nuovo il rapporto tra la speranza e l’amore: soltanto chi ama può sperare (nel suo senso più profondo) nella persona amata: risuona l’eco della frase paolina: “l’amore tutto spera” (1 Cor 13, 7). Mi piacerebbe approfondirlo, almeno soltanto con una frase, che non è un semplice gioco di parole, ma che esprime una meravigliosa realtà: soltanto chi ci ama può crederci migliori di quel che siamo, ed è capace di “sperare” in noi; ma possiamo essere migliori di quel che siamo, soltanto se qualcuno ci ama… E questo lo fece realtà, in maniera straordinaria, Don Bosco.


- Finalmente, e non poteva essere altrimenti in un santo come lui, troviamo nel più profondo un atteggiamento di speranza che non si limita a questo mondo e a questa vita. Questa speranza, nonostante tutto, non gli impediva di vivere intensamente il presente: con lo sguardo fisso verso il cielo, ma con i piedi ben messi sulla terra. Sembrano ispirate all’esempio del nostro Padre le parole del Servo di Dio Giovanni Paolo II nell’Esortazione Apostolica Vita Consecrata: “Occorre confidare in Dio come se tutto dipendesse da Lui e, al tempo stesso, impegnarsi generosamente come se tutto dipendesse da noi” (VC, n. 73).


Nel suo Testamento spirituale troviamo parole commoventi: “Addio, o cari figliuoli, addio. Io vi attendo al cielo (…) Io vi lascio qui in terra, ma solo per un po’ di tempo. Spero che la infinita misericordia di Dio farà che ci possiamo tutti trovare un dì nella beata eternità. Colà io vi attendo” (Costituzioni, Appendice, pp. 257-8). Anche qui troviamo la dimensione comunitaria della vita eterna, nella quale insiste tanto il Santo Padre: “La nostra speranza è sempre essenzialmente anche speranza per gli altri; solo così essa è veramente speranza anche per me” (Spe Salvi, n. 48).


5.- Conclusione


Ho trovato un racconto molto semplice, ma simpatico e significativo. Una signora anziana si trovava ormai di fronte alla morte, conservando tutta la sua lucidità. La sua più grande amica, sempre accanto a lei, gli ha domandato: ‘Vuoi qualche cosa di speciale, da conservare con te dopo la morte?’ Lei rispose: ‘Vorrei che mi seppellissero avendo tra le mani una forchetta’. ‘Una forchetta?’ - domandò con stupore l’amica. ‘Sì, una forchetta. Quando sono andata, qualche volta, a una festa, nel banchetto sempre conservavo, dopo i primi piatti, la forchetta, perché sapevo: manca ancora il meglio… Così, a tutti quelli che verranno a pregare e vedere la mia salma, quando domanderanno, come te: perché la forchetta?, potrai rispondere, in mio nome: Perché lei sapeva che il meglio… stava ancora per arrivare!


In fondo, è questa anche la motivazione ultima e più profonda della nostra vita e del nostro lavoro (quello che Don Bosco chiamava, con incantevole semplicità, il “pezzo di paradiso” nel giardino salesiano): “Per il salesiano, la morte è illuminata dalla speranza di entrare nella gioia del suo Signore” (Cost. 54).


L’inno spagnolo dell’Ufficio delle Letture, nella memoria dei salesiani defunti, esprime questo in maniera commovente, semplice e, allo stesso tempo, profonda:


¡Piensa lo que será!Pensa quel che sará!

Saltar a tierra, ¡y ver que es cielo ya!Scendere, e vedere che è ormai il cielo!

Pasar de la borrasca de la vidaPassare, dalla tempesta della vita

¡a la paz sin medida...!alla pace senza limiti!

De un brazo asirte y ver, al irle en pos, Prendere un braccio e, seguendolo,

¡que es el brazo de Dios!vedere che é il braccio di Dio!

Beber a pulmón pleno un aire fino…Aspirare in pienezza l’aria fresca…

¡y es el aire divino!ed é l’aria divina!

Ebrios de dicha, oír a un querubín:Ebbri di gioia, sentire un cherubino

¡”Es la dicha sin fin!”dire: “É la felicità senza fine!”

Abrir los ojos, inquirir qué pasa,Aprire gli occhi, domandar cosa capita,

Y oír decir a Dios: “¡Ya estás en casa!”E ascoltare Dio, che dice: Sei ormai a casa!


¡Oh, el inmenso placerO, immenso piacere

De abismarse en tu mar!di immergersi nel tuo mare!

Cerrar los ojos, y empezar a ver;Chiudere gli occhi, e cominciare a vedere;

Pararse el corazón, ¡y echarse a amar!preparare il cuore, e buttarsi nell’amore!

1 Praticamente tutte le lingue occidentali conservano questa dualità dell’attesa-speranza: wait-hope, espera-esperanza, warten-hoffen, attendre-espérer…

2 Citato da: JÜRGEN MOLTMANN, Teologia della Speranza, Brescia, Queriniana, 1977, p. 20.

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