Don_Bosco_con_Dio_it.docx

Presentazione.

Premessa.

Introduzione.

CAPO I. - In famiglia.

CAPO III. - Nel seminario.

CAPO IV. - Nei principi della sua missione.

CAPO V. - Nella seconda tappa della sua missione.

CAPO VI. - Nella sede stabile della sua missione.

CAPO VII. - Nel periodo delle grandi fondazioni.

CAPO VIII. - Nelle tribolazioni della vita.

CAPO IX. - In contrattempi di vario genere.

CAPO X. - Confessore.

CAPO XI. - Predicatore.

CAPO XII. - Scrittore.

CAPO XIII. - Educatore.

CAPO XIV. - Uomo di fede.

CAPO XV. - Apostolo di carità.

CAPO XVI. - Il dono del consiglio.

CAPO XVII. - Sogni, visioni, estasi.

CAPO XVIII. - Dono di orazione.

CAPO XIX. - Nel placido tramonto.

CAPO XX. - Gemma sacerdotum.




Presentazione.

....... Don Giorgio Gozzelino sdb. Torino, giugno 1988.


Tra i classici della tradizione salesiana.

A partire dalla morte di don Bosco, la preoccupazione dominante dei suoi figli, e di tutti coloro che in qualche modo si sentono chiamati a prolungarne nel tempo lo spirito, è stata quella di custodire e sviluppare fedelmente, senza deformazioni ma anche senza arresti, il suo carisma. Questo prezioso compito ha dato origine ad una massa di scritti a dir poco imponente: si parla di oltre mille biografie del santo, con più di trentamila pubblicazioni divise tra opere di documentazione, studi e lavori di divulgazione.

Di questo abbondantissimo materiale, non tutto merita di essere ricordato. Ma oramai la tradizione salesiana possiede i propri classici: i libri che si impongono per rigore scientifico, o per finezza di intendimento; i libri che non invecchiano, perché sanno illuminare e scuotere le coscienze oggi quanto lo fecero al loro tempo. Il Don Bosco con Dio di don Eugenio Ceria ne rappresenta uno tra i migliori.

Passato attraverso due edizioni, una piuttosto breve, e l'altra, definitiva - arricchita di cinque nuovi capitoli e ritoccata nei dettagli - che risale al 1946, questo eccellente libretto ha cominciato a prendere forma nella mente dell'autore in seguito alla constatazione, molto significativa e tuttora attuale, della scarsa attenzione prestata alla vita interiore del santo prima e dopo la sua morte. «Rapiti dalla vista dei prodigi della sua multiforme attività», scrive seccamente don Ceria, «i contemporanei ne ammirarono i trionfi senza quasi por mente che omnis gloria eius ab intus. Anche la generazione venuta su dopo la sua morte ha guardato di preferenza alle opere di don Bosco, studiandone le forme e gli sviluppi, senza darsi guari pensiero di scrutarne a fondo il principio animatore, quello che ha costituito sempre il gran segreto dei Santi: lo spirito di preghiera e di unione con Dio».

Già allora, come adesso, bisognava mutare registro, passando dai frutti visibili di un albero generalmente ammirato, ma troppo poco scrutato, alle radici nascoste di tanta fecondità. Occorreva «sollevare un lembo» del velo «di una vita che in apparenza si svolgeva come altre consimili, ma che in realtà nascondeva tesori di grazie e di doni soprannaturali».

 

Risorse di un autore.

Don Ceria lo ha fatto con grande determinazione ed intelligenza, giocando su cinque diversi fattori di composizione.

Innanzitutto, si è avvalso della competenza acquisita dalla relazione dei volumi delle Memorie Biografiche che portano la sua firma. In secondo luogo, si è applicato ad un paziente lavoro di rivisitazione delle fonti, orali e scritte, a sua disposizione, per «riandare con affetto di figlio esempi ed insegnamenti del Padre», e fissarsi «su ogni particolare che sembrasse degno di menzione circa la sua vita di unione con Dio».

Nel far questo - e siamo al terzo fattore - ha messo a frutto le possibilità che gli venivano dal trovarsi in un ambiente che ancora viveva dei ricordi diretti di importanti collaboratori di don Bosco. E vi ha aggiunto il filtro di discernimento e la chiave di lettura assicurati da una buona conoscenza dei principi fondamentali della teologia spirituale, nella prospettiva, per fare qualche nome, di un san Tommaso d'Aquino o del gesuita A. Poulain.

Infine, si è largamente servito dei suggerimenti che gli erano ispirati dalla propria finezza di intendimento spirituale.

 

Un piccolo saggio di teologia spirituale.

Ne è risultato un lavoro che si mostra esemplare, pur nella modestia degli intenti, non solo dal punto di vista della edificazione propriamente intesa, e cioè della capacità mistagogica di illuminare la mente e muovere la volontà dei lettori, ma anche da quello specificatamente scientifico della teologia spirituale, rigorosamente compresa come teologia della esperienza cristiana.

Uno sguardo all'indice ci aiuta a provarlo. Ma si impone una premessa. Grazie al proprio carattere di studio critico della appropriazione soggettiva personale del messaggio oggettivo della fede (di pertinenza della teologia dogmatica e morale), la teologia spirituale coniuga il metodo induttivo storico, rivolto alla concreta vicenda di un soggetto spirituale, con il metodo deduttivo sistematico, richiesto dalla presenza di una forma autentica di vita cristiana. Fondandosi sulla storia, essa suppone una biografia. Interpretandola in chiave di fede, essa esige un accostamento teologico.

In tale prospettiva, non mancano autori - ad esempio H.U. von Balthasar - che identificano la teologia spirituale con l'agiografia teologica. Ebbene, i venti capitoli del saggio di don Ceria si muovono interamente su questa linea, includendo, e componendo in unità, tanto la biografia quanto la riflessione sistematica di indole teologica.

Il dato biografico si fa palese già nella titolazione dei primi sette capitoli, dedicati alla vita di don Bosco fanciullo, in famiglia ed a scuola; poi giovane, in seminario; e poi prete, nel principio della sua missione, nella sua seconda tappa, nella sede stabile, e nel periodo delle grandi fondazioni. E si allarga al capitolo diciannovesimo, che ne considera il «placido tramonto». Il dato sistematico, invece, si fa luce specialmente a partire dal capitolo ottavo, con una sequenza di ritratti tesi ad illustrare dapprima la forza del santo nelle prove della vita, e poi le sue caratteristiche di confessore, predicatore, scrittore, uomo di fede, ed apostolo della carità, ricco di doni ordinari e straordinari; sino alla sottolineatura della connotazione profondamente sacerdotale della sua santità.

 

Fisionomia di un santo.

Dall'intreccio delle due componenti, condotto non soltanto nella partizione segnalata, ma anche al suo interno, entro la nervatura che attraversa la totalità del saggio, scaturisce una identità spirituale stabilita con chiarezza sui tre assi portanti del rapporto con Dio, del rapporto con il prossimo e del rapporto con se stesso.

Il punto cardine del volto spirituale di don Bosco è ravvisato, senza esitazioni, nella verità di una intensissima incessante unione con Dio, alla quale tutto fa capo. Tanto basta a giustificare il titolo generale dell'opera.

Da questo fondamento deriva la ferma preminenza concessa alla fede, sia sul versante del consenso esistenziale che su quello dell'assenso intellettuale. Perfettamente consapevole della assolutezza salvifica di Dio, don Bosco si rivela uomo che vive di fiducia nel Signore e di affidamento alla sua iniziativa; che esprime questa sua opzione in una forte devozione mariana; e che non lascia occasione di incrementarla, in sé e negli altri, anche dal punto di vista dottrinale. Animato dalla convinzione che Dio fa tutto facendo fare tutto, egli si colloca agli antipodi della concezione riduttiva di stampo protestante che ritiene sottratto a Dio quello che viene concesso all'uomo, e traduce la completezza della sua concezione nella simultanea richiesta di una sentita schietta umiltà e di un crocifiggente vincolo di incessante lavoro: la prima come conseguenza del sapere che tutto dipende e proviene da Dio, ed il secondo come accettazione del progetto di Dio di coinvolgere pienamente l'uomo nella sua azione di salvezza.

Il piano del rapporto con Dio, rimanda, pertanto, al piano del rapporto con gli uomini. La fede collaborante di don Bosco diventa impegno incondizionato per la salvezza delle anime. Impegno che don Ceria coglie soprattutto in tre ambiti: quello della opposizione instancabile al potere del peccato, unica disgrazia radicale dell'uomo perché male rivolto contro la sua verità più intima; quello della coltivazione della amorevolezza, e cioè di un amore del prossimo non solo reale ma anche percepibile ed attraente; e quello della alimentazione, nei preti, di una vita pienamente sacerdotale, fatta di apprezzamento della propria vocazione, di stima della dignità degli altri preti, di sollecitudine nei loro confronti, e di crescita del senso della Chiesa e del papa.

Condizione, ma assieme conseguenza, della retta impostazione del rapporto fondamentale con Dio e di quello derivato col prossimo viene ad essere il giusto inquadramento del rapporto con se stessi. Per questo aspetto della vita concreta di don Bosco, don Ceria dà risalto alla compresenza pasquale della morte (pazienza e mortificazione) e della risurrezione (gioia interiore ed allegria esteriore), rilevando l'eccezionale livello raggiunto dal santo in entrambe.

 

Il segreto di don Bosco: lo spirito di preghiera.

Rintracciate le linee portanti del ritratto spirituale di don Bosco disegnato da don Ceria in queste pagine, ci pare utile soffermarci un tantino più in dettaglio, per facilitarne la lettura, sulla sequenza di idee che le danno sostanza.

Il punto di partenza si trova, come già sappiamo, nell'instancabile spirito di preghiera di don Bosco. Don Ceria documenta sia la sua realtà che la sua centralità.

A prova della sua realtà, egli adduce l'atteggiamento del santo, abitualmente impregnato di Dio, la sua «facilità a parlare di Dio con sentimento verace», la forza eccezionale da lui dimostrata nei travagli della vita, il solido spirito di pietà presente nei suoi discepoli, e la costante proiezione della sua azione educativa sulla promozione della vita spirituale. Come risulta dalla testimonianza dei contemporanei, scrive, «l'amore divino gli traspariva dal volto, da tutta la persona e da tutte le parole che gli sgorgavano dal cuore». Era sua massima «che il sacerdote non dovrebbe mai trattare con alcuno senza lasciargli un buon pensiero». Sopportava ostacoli, inciampi e disgrazie con tale forza che «quando appariva più gaio e più contento del solito, i suoi collaboratori, edotti dall'esperienza, si sussurravano con pena all'orecchio: oggi don Bosco deve essere in qualche imbarazzo ben serio, giacché si mostra più lieto dell'ordinario». Abituò i suoi aiutanti a pregare devotissimamente, a tal punto da sembrare «che non sapessero dire quattro parole in pubblico o in privato senza farci entrare in qualche modo la preghiera». Riteneva che senza l'elemento religioso «l'educazione non solo era senza efficacia, ma non aveva nemmeno significato».

Per la conferma della centralità attribuita alla preghiera, don Ceria cita le soluzioni conferite dal santo ai rapporti preghiera ed azione e preghiera e studio, e ricorda il suo grande apprezzamento per le pratiche di pietà.

Sul primo versante, constata che don Bosco non separò preghiera ed azione, ma neppure mai leconfuse. Tramite la preghiera di ogni momento (giaculatorie, aspirazioni interiori, eccetera) trasformò ogni attività in orazione; senza cadere nell'illusione di «supporre che il prodigarsi a vantaggio del prossimo dispensi dall'obbligo di trattare assiduamente ed interiormente con Dio».

Sul secondo versante, riferisce che don Bosco si regolò sul principio che «per ecclesiastici lo studio è mezzo, non fine a sé, e mezzo di second'ordine per fare del bene alle anime, dovendosi mandare innanzi a tutto la santità della vita»; per cui «fu lungi mille miglia dal subordinare all'amore del sapere lo spirito di preghiera».

E rispetto alle pratiche di pietà, rammenta che egli «si scrisse e prescrisse un regolamento di vita chiericale in sette articoli», dei quali «il sesto era così concepito: oltre alle pratiche ordinarie di pietà, non ometterò mai di fare ogni giorno un poco di meditazione ed un poco di lettura spirituale».

 

Il rapporto con Dio.

Dall'incessante unione di don Bosco con Dio, don Ceria fa derivare prima di tutto la sua grande fede, il si della volontà a Dio, che genera la fiducia incrollabile e la stabile convinzione della paternità onnipotente del Signore. Nessuna difficoltà o strettezza gli toglieva la pace, dice, perché egli ragionava così: «di queste opere io sono soltanto l'umile strumento, l'artefice è Dio. Spetta all'artefice, e non allo strumento, provvedere i mezzi per proseguirle e condurle a buon fine. Egli lo farà quando e come giudicherà meglio; a me tocca solo di mostrarmi docile e pieghevole nelle sue mani».

Tuttavia «era sua massima che anche la Provvidenza vuol essere aiutata dai nostri sforzi; onde, nel cominciamento delle sue opere, prevedeva già sempre di doversi dare attorno. Non bisogna aspettare l'aiuto della divina Provvidenza stando neghittosi, soleva dire. Il Signore si muove in soccorso quando vede i nostri sforzi generosi per amore suo».

Prova particolarmente evidente di questa concezione squisitamente cattolica del rapporto dell'uomo con Dio, nella quale il Deus solus diventa numquam solus perché l'azione di Dio si incarna perennemente nella mediazione umana, fu l'intensa devozione nutrita da don Bosco nei confronti della Madonna venerata col titolo di Ausiliatrice. Nella preghiera di don Bosco, santo di una orazione che si trasforma immediatamente in azione, sta sempre in primo piano la coscienza della potenza operativa di Maria. «Don Bosco non è nulla, ripeterà egli fino all'ultimo respiro: chi ha fatto tutto è la Madonna». Nella sua mente, il ruolo della beata Vergine, lungi dal ridursi ad una funzione di sola esemplarità, include anche la dimensione del sostegno operativo della vita dei credenti: mai confuso con quello di Dio, o peggio messo in alternativa con esso, e però fermamente riconosciuto, quale riflesso della comunione della creatura col Creatore. Per lui l'Ausiliatrice fu la rivelazione del potere di Dio di suscitare una vera capacità di salvezza nelle sue creature.

Le conseguenze di una simile lettura di fede si fanno particolarmente visibili nell'impulso dato dal santo alla pratica congiunta dell'umiltà e del lavoro. È un fatto, spiega don Ceria, che don Bosco morì letteralmente di lavoro. «La sua salda costituzione fisica gli avrebbe permesso di vivere anche fin oltre i novant'anni; invece si consumò in un improbo lavoro diurno e notturno». E volle che il medesimo spirito di laboriosità si perpetuasse nella congregazione salesiana; perché vi riconobbe la maniera richiesta da Dio di riprodurre l'obbedienza di Gesù sino alla morte, e perché lo vide come prima e fondamentale attuazione della ascesi cristiana e come risposta efficace da dare alle contestazioni rivolte contro la vita religiosa. Egli però «temeva, temeva assai, che l'efficacia ed il merito del lavoro andassero in fumo per l'infiltrarsi della volontà propria» e della ricerca di sé. Perciò, pur raccomandando di dire sempre ai salesiani che lavorassero con ardore, subito aggiungeva, come ad evitare equivoci, che bisognava «adoperarsi indefessamente a salvare anime».

 

Il rapporto con gli uomini.

Così, l'amore di Dio si legava con naturalezza all'amore del prossimo, ed in esso si verificava: il secondo grande esito dell'intensa pratica di preghiera compiuta da don Bosco consiste precisamente nell'amore dei fratelli, messo in evidenza dallo zelo per la salvezza delle anime.

«Giovanni Bosco» scrive don Ceria «nutriva dentro di sé una pietà fatta come il bene, del quale si dice che è per natura diffusivum sui. Vedere una persona, e pensare subito a renderla buona o migliore nel senso più strettamente cristiano della parola» era per lui un tutt'uno. Questo perché l'ardente unione con Dio lo portava logicamente a condividere l'amore di Dio per gli uomini: dei quali don Bosco amò veramente tutto, il corpo e l'anima, la mente ed il cuore, i valori naturali ed i doni di grazia, pur privilegiando sempre, grazie alla lucidità che gli veniva dalla fede, ciò che è più importante, e cioè la santità.

È il motivo per cui il santo non cessò di interpretare il peccato come la massima disgrazia dell'uomo, e di opporsi con ogni sforzo alla sua diffusione. «Contro il peccato», afferma don Ceria, «don Bosco impegnò per tutta quanta la vita una guerra a fondo». Nei suoi confronti ebbe reazioni fortissime, giudicate esagerate dallo spirito del mondo, ma giustificate dal fatto che egli «ardeva del divino amore, ed in ogni peccato sentiva l'offesa fatta a Dio»; giacché, quando si amava veramente, nessuna offesa fatta all'amato pare piccola, e nessun sacrificio compiuto per rimuoverla sembra eccessivo.

Don Bosco sapeva bene, peraltro, di essere chiamato da Dio ad amare soprattutto i giovani; i quali «hanno bisogno, nel periodo della loro formazione, di sperimentare i benefici effetti della dolcezza sacerdotale». Questo lo indusse a non perdere mai di vista «tre massime ispirategli dal suo cuore sacerdotale, e ricordate incessantemente ai suoi, per cattivarsi l'affetto e la confidenza dei giovani: amare quello che essi amano, e così ottenere che amino loro pure quello che amiamo noi per loro bene; amarli in modo che conoscano di essere amati; porre ogni studio affinché mai nessuno di essi parta da noi malcontento». Così, scelse per metodo educativo «la bontà sapientemente e soavemente adattata all'età giovanile», ed elevò «la paternità spirituale al più alto grado».

Tutto ciò senza cadere in preclusioni o riduzionismi di alcun genere. La sua predilezione per i giovani, aggiunge don Ceria, non escluse ma anzi rese ancor più vivi altri interessi paralleli. Tra i quali si fa luce quello mostrato nei confronti dei sacerdoti, a cui don Bosco diede soddisfazione con uno straordinario programma di promozione delle vocazioni ecclesiastiche, e con un intenso - quanto poco conosciuto - impegno di sostentamento dei sacerdoti bisognosi materialmente e spiritualmente, o comunque in difficoltà.

La sua sensibilità per quanto toccava la Chiesa, del resto, era ben nota. Don Bosco non volle mai essere altro che un prete: e del prete ebbe, fortissimo, il senso della Chiesa, la comprensione del ministero del papa, e, per l'appunto, la stima della missione sacerdotale.

 

Il rapporto con se stesso.

Parlando delle tre massime adottate da don Bosco per l'educazione dei giovani, don Ceria commenta: «Si fa presto ad enunciare simili aforismi, più presto ancora ad applaudirli; attuarli, invece, costa continui e non lievi sacrifici».

Le due dimensioni finora considerate rimandano ad una terza: la vicinanza di don Bosco a Dio, e l'intenso amore del prossimo ad essa conseguente, non si spiegano senza una profonda componente ascetica di sacrificio, di distacco, di dimenticanza di sé, e di pazienza. Per commentarla, don Ceria redige due dei capitoli più suggestivi e commoventi del suo lavoro: il capo ottavo, dedicato alla conside razione delle sofferenze morali e fisiche del santo, ed il capo nono, riservato alla presentazione delle avversità della sua vita.

Il ritratto che ne emerge è tale da scuotere salutarmente qualunque lettore, anche quello più contaminato dai principi della società del benessere. Ben oltre i facili trionfalismi che sovente ne deformano la figura, il santo mostra il suo vero volto di autentico discepolo del Crocifisso, curvo sotto il peso di croci inaudite che toccano il cuore.

La vita di don Bosco, dice don Ceria, «fu tutta quanta seminata di pungenti spine»: incomprensioni, contrasti, persecuzioni, perfino attentati, strettezze economiche; e poi malanni fisici così gravi da far dire al suo medico curante che «dopo il 1880 circa, il suo organismo era quasi ridotto ad un gabinetto patologico ambulante».

Eppure, «non perdeva mai la sua serenità; anzi pareva che appunto nei tempi di tribolazione egli acquistasse maggiore coraggio, giacché lo si vedeva più allegro e faceto del solito». Né chiedeva di essere liberato dai suoi mali. «Per una cosa», riferiscono i contemporanei, «don Bosco non pregò mai: per la guarigione delle infermità che lo travagliavano, pur lasciando che pregassero gli altri, ad esercizio della carità». Il motivo di una condotta così sconcertante, spiega don Ceria, è relativamente semplice: «Le sofferenze fisiche accettate con si perfetta conformità al volere di Dio sono atti di grande amore divino e penitenze volontarie», e «le anime che verso Dio si sentono fortemente trasportate si danno alla mortificazione quasi per irresistibile istinto di amore».

Lo confermano i frutti di tanto travaglio. Nel paradosso cristiano il dolore si trasforma misteriosamente in trascendente fonte di gioia. Ebbene, l'associazione alla morte del Signore realizzata dalle sofferenze di don Bosco si accompagnò costantemente all'evento pasquale di una perenne letizia del cuore. E la gioia fu la méta della sua opera educativa.

 

Attualità del lavoro di don Ceria.

Rivolgendosi ai lettori del suo libro, don Ceria confida di averlo scritto per confutare un grossolano malinteso connesso alla esaltazione di don Bosco come santo moderno. «In questi tempi di operosità febbrile», scrive, «chi parla così ha tutta l'aria di volercelo vantare come il santo dell'azione, quasi che la Chiesa, da san Paolo ad oggi, non abbia avuto sempre santi attivissimi, e come se ai giorni nostri un santo di azione debba o possa fare a meno di essere insieme uomo di orazione», quando invece «non si dà santità senza vita interiore, né si darà mai vita interiore senza spirito di orazione».

Certo, l'azione in don Bosco ci fu, e raggiunse livelli che sanno dell'incredibile. Ma venne dalla sovrabbondanza della vita interiore.

Anche oggi la febbre dell'azione è alta, più che mai. Si parla continuamente della necessità di vivere con i giovani, di entrare nei loro problemi, nelle loro sensibilità, nelle loro esigenze. E bisogna che così avvenga. A che giova, però, mettersi tra i giovani e condividerne la ricerca, se si è poveri, od addirittura vuoti, di risposte veraci? Ed in che cosa possono ultimamente consistere tali risposte, se non nello stare con i giovani alla maniera significativa di don Bosco, ossia con le qualità interiori che don Ceria riaddita in lui?

Scorrendo le pagine del Don Bosco con Dio, si sperimenta al vivo un contrasto di mentalità e di pratica di vita con le sensibilità e gli atteggiamenti odierni che talora mette i brividi. È l'occasione buona per rimettersi in discussione, e lasciarsi indurre salutarmente in crisi dalle istanze di verità che presenta. Per questo viene riproposto. Per questo ancora, domanda di essere ricevuto con la considerazione concessa ad un autentico dono dello Spirito.

Don Giorgio Gozzelino sdb.

Torino, giugno 1988.





Premessa.

Ecco, dissi fra me, ecco un lato di Don Bosco, che, non messo forse finora abbastanza in luce, meriterebbe di venire illustrato con qualche cura nell'anno della sua probabilissima beatificazione.


L'idea di questo lavoro mi venne a Frascati nel 1929, anno della beatificazione di Don Bosco. Mi nacque leggendo l'annuale relazione, che il reverendissimo Don Filippo Rinaldi, terzo successore di Don Bosco, aveva inviata in gennaio ai Cooperatori e alle Cooperatrici dei Salesiani. Chiudeva egli la sua lettera ricordando come, cent'anni innanzi, il nostro buon Padre, non ancora quattordicenne, facendo da umile e laborioso garzone di campagna presso una famiglia di agiati agricoltori, non trascurasse, benché così giovane, l'apostolato fra i coetanei, ma soprattutto attendesse alla preghiera, e che così lavorando e pregando trascorse quasi un biennio.

Mi rammentai allora in buon punto che il benedettino Don Chautard nel suo notissimo libro L'âme de tout apostolat annovera Don Bosco fra quei sacerdoti e religiosi moderni, i quali, dediti a vita intensamente attiva, promossero assai il bene delle anime sol perché furono insieme uomini di profonda vita interiore. Ricordava pure come monsignor Virili, postulatore nella causa del beato Cafasso, testimoniando in quella di Don Bosco, avesse dichiarato di reputare Don Bosco un santo, non solo per le opere fatte, ma anche per il suo spirito di preghiera e di raccoglimento nel Signore.

Ecco, dissi fra me, ecco un lato di Don Bosco, che, non messo forse finora abbastanza in luce, meriterebbe di venire illustrato con qualche cura nell'anno della sua probabilissima beatificazione.

Rapiti dalla vista dei prodigi della sua multiforme attività, i contemporanei ne ammirarono i trionfi senza quasi por mente che era omnis gloria eius ab intus. Anche la generazione venuta su dopo la sua morte ha guardato di preferenza alle opere di Don Bosco, studiandone le forme e gli sviluppi senza darsi guari pensiero di scrutarne a fondo il principio animatore, quello che ha costituito sempre il gran segreto dei Santi: lo spirito di preghiera e di unione con Dio.

No, non s'illuda di comprendere Don Bosco chiunque non sappia quanto egli fosse uomo di orazione; frutto ben scarso ritrarrebbe dalla sua mirabile vita, chi corresse troppo dietro ai fatti biografici, senza penetrarne a dovere i movimenti intimi e abituali.

Sollevare un lembo di questo velo mi parve allora cosa di somma edificazione e fors'anche il miglior contributo alla glorificazione del novello Beato; il velo intendo di una vita, che in apparenza si svolgeva come altre consimili, ma che in realtà nascondeva tesori di grazie e di doni soprannaturali. Si può ripetere di Don Bosco il già detto di altri, ch'egli somigliava all'Ostia santa: fuori apparenza di pane, e dentro, Gesù Cristo.

Nota: Il Papa Pio XI nel discorso per il decreto sull'eroicità delle virtù di Don Bosco diceva d'aver ammirato personalmente in lui «l'immensa umiltà», notando com'egli «il suscitatore di tutto» si aggirasse per casa «come l'ultimo venuto, come l'ultimo degli ospiti». Fine nota.

A tali riflessi, mi sarei ben potuto schermire dietro al comodo, per quanto non mendicato pretesto della mia insufficienza; ma volli tentar la prova, tanto più che sapevo di ottemperare, così facendo, al Rettor Maggiore Don Filippo Rinaldi. Nei ritagli dunque di tempo lasciatimi liberi dalle occupazioni mi diedi attorno a riandare con affetto di figlio esempi e insegnamenti del Padre, fissandomi su ogni particolarità che mi sembrasse degna di menzione circa la sua vita di unione con Dio.

Per tal guisa mi si adunò adagio adagio un materiale sufficiente e sicuro per la compilazione di quest'operetta, che con umiltà e gioia deposi ai piedi del nostro caro Beato, non senza far voti che altri con maggior freschezza d'anima, con miglior competenza e perizia della mia, si rifacesse sull'argomento e ci regalasse un capolavoro. Il tema lo merita certamente.

Il libro incontrò qualche favore, giacché se ne fecero due ristampe e alcune traduzioni. Ora per obbedire ad un altro successore di S. Giovanni Bosco l'ho ripreso in mano, introducendovi qua e là aggiunte e modificazioni, in modo però da non alterare la forma primitiva.

Le fonti, a cui ho attinto, sono generalmente le Memorie biografiche largamente note; la Vita scritta da Don Lemoyne in due volumi; gli atti dei processi canonici, e documenti d'archivio. Tanto mi premeva di avvertire, perché i lettori fossero rassicurati intorno all'attendibilità delle cose esposte, senza bisogno di tante citazioni. Ogni volta che mi è avvenuto di ricorrere ad altre fonti, l'ho dichiarato in nota.

Riguardo al titolo, è parso conveniente conservare quello di prima; il che in nulla detrae alla grandezza di Colui, il quale sotto il semplice appellativo di Don Bosco operò tante meraviglie e quelle meraviglie tuttora richiama nell'età prossima alla sua. La pensava pure così Pio XI, che nell'udienza accordata in S. Pietro il 3 aprile a tutti i pellegrinaggi organizzati dai Salesiani per la canonizzazione, dopo aver accennato alle categorie svariatissime di cui si compone la grande famiglia di Don Bosco, si corresse dicendo «di San Giovanni Bosco», ma per soggiungere tosto che il mondo avrebbe continuato a chiamarlo Don Bosco.

«E sarà bene, continuò, perché è come ripetere il suo nome di guerra, di quella guerra benefica, una di quelle guerre che si direbbe la divina Provvidenza voglia concedere di tanto in tanto alla povera umanità, quasi a compenso delle altre guerre non affatto benefiche, ma così dolorose e seminatrici di dolori».

Questa edizione esce con cinque nuovi capi e con ritocchi vari e qualche aggiunta qua e là. È stata anche soppressa la triplice divisione precedente.

Un mattino di agosto del 1887 nel collegio di Lanzo Torinese, lo scrivente, salendo lo scalone, giunto sul pianerottolo del primo piano, si trovò come per incanto a un passo da Don Bosco, fermo là in atto di attendere qualcuno. Lietissimo dell'incontro, gli baciò con affettuoso trasporto la mano. Don Bosco gli chiese il nome. Uditolo, fece un - Oh! di grata sorpresa; indi proseguì: - Sono contento - Ambe le orecchie stavano tese in ansiosa aspettazione; ma non finì la frase, perché sopravvenne il qualcuno e lo rapì. Al termine di questa umile fatica, quanto sarebbe giocondo riudire dal labbro del Padre amato quelle due parolette, ma con senso compiuto! In ogni modo, Egli sa il motivo e il movente del lavoro; Egli sa il buon volere. Benedica Egli allo sforzo e lo renda non del tutto infruttuoso.

 

Sac. Eugenio Ceria.

Torino, 31 gennaio festa di S. Giov. Bosco, 1946.





Introduzione.

Non sono più io che vivo, ma vive in me Cristo.


Per le anime semplici il Santo è l'uomo delle visioni, delle profezie e dei miracoli; questi invece sono doni carismatici, non essenziali alla santità, ma voluti da Dio nella sua Chiesa fin dalle origini a perenne testimonianza della divina virtù di lei, e quali mezzi straordinari a destare o a ridestare o a mantener desto nelle menti degli uomini il pensiero delle cose celesti.

Il Santo è un uomo tutto di Dio; un uomo che, secondo l’espressione di san Paolo, vive interamente a Dio; un uomo dunque che in Dio ricerca il principio e ripone il fine di tutti i suoi pensieri, di tutti i suoi affetti, di tutte le sue azioni

Di questa vita superiore alla naturale tutti i rigenerati dal battesimo hanno ricevuto in sé gli elementi nella grazia largita loro dalla bontà infinita di Dio; ma in pratica non sono moltissimi i cristiani che, corrispondendo perfettamente ai lumi e agl'impulsi divini, raggiungano tal grado di vita spirituale da potersi applicare in tutta l'estensione dei temini il detto del medesimo Apostolo: Non sono più io che vivo, ma vive in me Cristo.

Ora il Santo ci si presenta appunto come colui che vive a pieno la vita soprannaturale, nella misura, s'intende, concessa a creatura umana; cosicché abitualmente la sua conversatio in caelis est: egli dimora sulla terra, ma da cittadino del cielo, tenendo sempre fisso il cuore là, dove sa essere per lui ogni ragione di vero bene. In questo consiste lo spirito di preghiera, intesa questa precipuamente nel senso di ascensione, elevazione, slancio affettuoso dell'anima verso Dio, senza che nulla al mondo la distolga da quell'oggetto supremo del suo amore: tirocinio quaggiù della vita celeste, che di Dio sarà la diretta, l'amorosa, l'eterna visione.

Ciò posto, bisogna aver il coraggio di confessare che non sempre le Storie dei Santi, quali oggi vedono la luce un po' dappertutto, contengono realmente le Vite dei Santi. Senza dubbio i Santi spiegano altresì un'azione, che va collocata entro la cornice degli avvenimenti a loro contemporanei; nella parte da essi presa a certi ordini di fatti o a certe correnti d'idee 0 credente scorgerà, se si vuole, la mano della Provvidenza, che invia a tempo e luogo gli eroi capaci di sostenere nell'umanità missioni di alta importanza religiosa e civile.

Sotto questo rispetto l'agiografia moderna, non lo negheremo, ha sgombrato il terreno da pregiudizi inveterati, che facevano riguardare i Santi come esseri cascati dal mondo delle stelle, estranei alla vita, se non addirittura affetti da monomanie, che si amava tanto di gabellare per misticismo, nomignolo coniato da ignoranza della mistica e attribuito con intenzioni canzonatorie anche a fenomeni di natura altissima.

Sì, è giusto render merito ai seguaci del metodo storico, se in certi ambienti le figure dei Santi possono affacciarsi oggi senza più sollevare in certuni le antipatie d'una volta. Ma è pure innegabile che così la loro individualità vera rischia di venir menomata, perché scoronata dall'aureola che li fece essere e ce li deve mostrare quali realmente furono.

Conviene saper distinguere i due aspetti senza isolarli. Nello studio dei Santi come mai prescindere dalla santità? E chi dice santità, dice una realtà, su cui sorvoli pure leggermente la scienza positiva, sia essa storica o psicologica, ma non mai chi abbia occhi esercitati nell'indagine di fatti appartenenti a un ordine superiore, dove l'umano s'incontra col divino e intimamente vi si unisce.

Ecco perché falsano il concetto di Santo quegli Scrittori, i quali stimano che non valga la pena o che sia cosa indifferente il considerarlo come l'uomo dell'unione con Dio. Così abbiamo avuto vite di Santi, diremo così, laicizzate o quasi.

E qui torna molto a proposito aggiungere un'altra osservazione. Abbiamo udito più volte e letto, che Don Bosco è un Santo moderno. Ci sembra trattarsi qui di un'asserzione che vada fatta con prudenza e che si debba intendere cum grano salis; altrimenti s'ingenera il dubbio, che, al pari di tante e tante cose umane, anche la santità con l'andare del tempo abbia bisogno di ammodernarsi.

Lungi da noi l'idea, che esistano due specie di santità, la prima buona per i tempi d'una volta e l'altra fatta apposta per i tempi nostri! L'azione della grazia divina che forma i Santi, non si muta per mutare di secoli, a guisa delle molteplici attività umane, che sono sempre in via di modificazione per adattarsi alla variabilità dei tempi e delle circostanze; né la cooperazione dell'uomo all'azione santificatrice della grazia di Dio si diversifica oggi da quella che fu ieri, cambiando stile a seconda dei gusti.

Il perfetto amor di Dio, elemento essenziale della santità, s'assomiglia per questo al sole, che dal primo giorno della creazione vivifica la terra, inondandola sempre a un modo di luce e di calore. Non si pretende con ciò, che l'accennata sentenza non possa ammettere un'interpretazione ragionevole, a patto però di farle dire unicamente questo, che anche il Santo è uomo del suo tempo e che quindi, attuando una missione di bene in un dato periodo storico, piglia atteggiamenti accidentali che in altre epoche sarebbero stati anacronistici.

Ciò nonostante, posta l'identità del principio ispiratore, dell'energia informatrice e del fine supremo d'ogni santa impresa, il metodo stesso dei procedimenti non riveste mai caratteri di si spiccata novità, da giustificare quasi un assioma come questo: tante età, tante santità.

C'è particolarmente un grossolano malinteso da scansare, quando si proclama Don Bosco il Santo moderno. In questi tempi di operosità febbrile chi parla così ha tutta l'aria di volercelo vantare come il Santo dell'azione, quasiché la Chiesa, da san Paolo, a oggi non abbia avuto sempre Santi attivissimi e come se ai giorni nostri un Santo di azione debba o possa far a meno di essere insieme uomo d'orazione.

Non si dà santità senza vita interiore, né si darà mai vita interiore senza spirito di orazione. Tale la genuina spiritualità, ieri, oggi, sempre: azione e orazione, fuse, compenetrate, indivisibili, come nel di della Pentecoste.

Un profondo conoscitore d san Paolo, cogliendolo quasi dal vero nell'esercizio dell'apostolato, ce ne abbozza questo ritratto, del quale ci sembra proprio di riscontrare in Don Bosco una copia fedele: «Con una facilità incomparabile l'Apostolo associa la mistica più sublime con l’ascetismo più pratico; mentre il suo occhio penetra i cieli, il suo piede non perde mai il contatto con la terra. Nulla è sopra né sotto di lui.

Nel momento in cui si dichiara crocifisso al mondo e vivente della stessa vita di Cristo, sa trovare per i suoi figliuoli parole che rapiscono per la giocondità e la grazia, e discende alle prescrizioni più minuziose sul velo delle donne, sul buon ordine delle assemblee, sul dovere del lavoro manuale, su la cura di uno stomaco debole. Perciò la sua spiritualità offre ai cuori più umili un alimento sempre saporitole alle anime più elette una miniera inesauribile di profonde meditazioni».

E dalle origini del Cristianesimo balzando in pieno medioevo, ci troviamo di fronte un san Bonaventura, intorno al quale un autorevole biografo ci presenta questa osservazione, che sembra anch'essa scritta per Don Bosco: «Le epoche di lotte chiedono uomini di alta bontà, che sopra i contrasti di parti riescano a pacificare gli animi: uomini dalla visione chiara, i quali sappiano ciò che vogliono e vadano dritti al loro scopo; uomini di preghiera per assicurarsi la pace nel loro interno e ottenere luce e forza dall'alto».

Ecco dunque che la spiritualità dei Santi, sempre antica e sempre nuova, non subisce metamorfosi per volgere di secoli né per mutare di costumi.

Può accadere che uomini apostolici e cristiani versati nelle scienze sacre, sospinti spesso a ragionare di cose spirituali, con tutta facilità s'illudano di essere quello che dicono; ma altro è dire, altro è fare: si può discorrere benissimo di vita spirituale senza vivere spiritualmente.

Nelle pagine che seguono, i sacerdoti dediti in special modo ai sacri ministeri troveranno, a Dio piacendo, e per merito di Don Bosco, qualche lume e qualche stimolo a mandare di conserto il facere e il docere, sicché la pratica preceda, accompagni e segua l'insegnamento. Serbatoi, non semplici canali ci vuole san Bernardo.

I laici poi, che fra le brighe materiali non perdano di vista gl'interessi dello spirito, leggeranno con non lieve profitto gli esempi di un si indefesso lavoratore, che nel maremagno delle cure possedeva l'arte di trasformare in preghiera le opere delle sue mani, attuando con naturalezza incomparabile il semper orare et non deficere. Non diciamo niente delle persone religiose, perché queste, avendo l'intelligenza delle cose spirituali, dal pochissimo che noi sapremo metter loro dinanzi, intuiranno il molto più che il nostro occhio non discopre.

Lo spirito di preghiera è l'atmosfera del cristiano. Spanderò, dice il Signore, sopra la casa di David e sopra gli abitatori di Gerusalemme lo spirito di grazia e di orazione, e volgeranno lo sguardo a me. La diffusione di questo spirito, cominciata nella grande Pentecoste, è durata e dura e durerà perenne in seno alla Chiesa, formandovi come l'aria che vi si deve respirare dai fedeli. I Santi l'hanno respirata pura, senza interruzione, a pieni polmoni.

Da tale flusso vivificati e virtute corroborati in interiorem hominem, son venuti eliminando da sé le opere della carne, enumerate dall'Apostolo nella lettera ai Cristiani di Galazia, e accogliendo invece i frutti dello Spirito, cioè, al dire del medesimo Apostolo, carità, gaudio, pace, pazienza, benignità, bontà longanimità, mansuetudine, fedeltà, modestia, continenza, castità. Questo è ciò ch'egli chiama vivere di Spirito e camminare in Spirito; questo ciò ch'egli intende, quando dice esser ripieni di tutta la pienezza di Dio, Bellissime cose! Potessimo anche noi comprenderle bene cum omnibus sanctis, ma qui con Don Bosco e alla sua scuola!

Quanto all'ordine della trattazione, ecco. La via dei giusti è paragonata dallo Spirito Santo qllaluce che comincia a risplendere, poi s'avanza e cresce fino al giorno perfetto. Veri figliuoli della luce, i Santi sono luminaria in mundo, progredendo di virtù in virtù fino alla perfezione, e arrivando con le loro ascensioni lassù, dove fulgebunt sicut sol in conspectu Dei.

Terremo dunque dietro con tutta semplicità alla vita di Don Bosco dall'aurora al meriggio e al tramonto, o meglio al passaggio dal firmamento della Chiesa militante ai caeli caelorum, agli altissimi cieli della Chiesa trionfante. Toccheremo per ultimo dei doni soprannaturali gratuiti, che rifulsero in lui e che, se non sono mezzi necessari per giungere all'unione con Dio, servono almeno, quando siano reali, a rivelarne sempre più il grado.

Il nostro cuore intanto trabocca dell'allegrezza, pensando che dalla gloria dei Beati il nostro caro Padre non ci rischiarerà più solamente le vie dell'esilio con la luce de' suoi insegnamenti ed esempi, ma ci si porgerà valido intercessore presso Dio, affinché a noi pure sia dato di raggiungere felicemente la patria celeste.



Cap I. - IN FAMIGLIA.


Nella vita spirituale trasvolano momenti di grazia, in cui l'anima ha intuizioni improvvise, rapide e salutari. Improvvise diciamo quanto all'atto in se stesso della facoltà conoscitiva; ma, sebbene lo Spirito spiri dove vuole, tuttavia, ordinariamente parlando, in cose di tal genere quel percepire immediato e sicuro suole presupporre preparazioni interiori più o meno lunghe, più o meno avvertite, consistenti soprattutto nella fedele corrispondenza ai doni soprannaturali.

Fanciullo undicenne, Giovannino Bosco ebbe uno di questi lampi rivelatori. Per arcane inclinazioni del cuore affezionatosi a un degno sacerdote e messosi con filiale confidenza nelle sue mani, da quella scuola di corta durata riportò un durevole insegnamento: capì essere buono per l'anima «fare ogni giorno una breve meditazione». Due frutti colse da questa chiara visione: «gustare che cosa sia vita spirituale» e non agire più come prima, cioè «piuttosto materialmente e come macchina, che fa una cosa senza saperne la ragione».

Così scrisse egli stesso in certe sue "Memorie" stese per ordine di Pio IX a vantaggio de' suoi figli. Ma nel luogo qui citato non dobbiamo sorvolare su due parolette assai significative, sfuggitegli dalla penna. Una è là dove dice che cominciò non a conoscere od a sperimentare, ma addirittura a «gustare che cosa sia vita spirituale».

Ecco lo squisito dono della sapienza, che san Bernardo chiama «saporosa cognizione» delle cose divine. Questo dono dello Spirito Santo è veramente un gusto soprannaturale che fa assaporare le cose divine «per una specie di arcana connaturalità o simpatia». L'altra paroletta rivelatrice è in quell'agire di prima «piuttosto materialmente». É ben notevole il «piuttosto», che attenua l'avverbio vicino.

Dunque c'era già nel piccolo l'idea della spiritualità, vaga e indeterminata quanto si voglia, ma pur distinta da ciò che è materialità nell'operare. La cosa poi che maggiormente ci colpisce si è il vedere in età si tenera la nozione precoce della forma di pietà che dovrà essere la sua e de' suoi: armonico accordo di ora et labora, ossia l'orazione anima dell'azione.

Prima d'allora aveva appreso dalla madre l'amore alla preghiera. Nella famiglia rurale piemontese del buon tempo antico il costume cristiano, serbandosi inviolato attraverso infiltrazioni forestiere, si perpetuava pacificamente di generazione in generazione intorno al vecchio focolare, testimonio come di gioie intime e semplici e feconde, così delle comuni preci quotidiane, con cui genti laboriose e oneste chiudevano le loro giornate, recitando il rosario dinanzi all'immagine della Vergine Consolatrice.

La casa meritava davvero il nome di santuario domestico. In ambiente così sano una donna d'alti sensi, quale ci consta essere stata la madre di Giovanni, era maestra insuperabile di religiosità vissuta, massime quando, come nel caso nostro, alla forza educativa dell'esempio poteva unire la comunicativa efficacia della parola.

Sappiamo infatti che con la spontaneità propria del linguaggio materno essa gli venne instillando fin da piccino il sentimento vivo della presenza di Dio, la candida ammirazione delle opere sue nel creato, la gratitudine per i suoi benefici, la conformità a' suoi voleri, il timore di offenderlo. Mai forse scuola di madre incontrò natura più docile di figlio a riceverne gli ammaestramenti.

Così allorché dall'umile casolare nativo il fanciullo cominciò ad ascendere alla Casa santa del Signore, anche le ascensioni infantili del cuore presero slanci nuovi verso le cose celesti. Il seguito della sua vita mirabile ci fa arditi di applicare a lui le parole dell’Ecclesiastico: Ancora giovinetto, prima d'inciampare in errore, io cercai la sapienza con l'orazione. Io la domandava dinanzi al tempio, ed ella fiorì in me di buon'ora, come l'uva primaticcia.

Nei di festivi i divini uffici, a cui andava sempre con gioia e assisteva con divozione, lo infervoravano talmente, che l'impressione soave gli vibrava nell'anima per tutta la settimana. Abbondano infatti le testimonianze di persone che lo conobbero fanciullo e che deposero come durante le sue occupazioncelle campestri, a cui fu avviato per tempo, egli prorompesse sovente in preghiere e della sua voce argentina facesse echeggiare il colle solitario col canto di laudi sacre. Allestiva pure altarini, come sogliono i piccoli, ornandovi di fiori e frondi l'immagine della Madonna, ma, come non sogliono altri della sua età, chiamandovi quanti più poteva compagni a pregare, a cantare, a imitare divotamente le cerimonie vedute nella chiesa.

Lo attraeva la parola di Dio. A catechismi e a prediche non perdeva sillaba. Poi ogni occasione era buona per radunar gente e montare sopra una panca e nell'umile vestire del contadinello, ma con fedeltà di memoria e con piena padronanza di sé rifare i sermoni domenicali del pievano o narrare fatti edificanti appresi e tenuti in serbo a tale intento. Né tralasciava d'intercalarvi preghiere e, se ne fosse l'ora, faceva anche dire alla piccola turba di villici le orazioni della sera.

Tanto zelo di bene veniva nel fanciullo suscitato e avvivato dal suo filiale affetto a Dio. Questo affetto già in si tenera età ne moveva il cuore non solo ad amare Dio, tenendolo a Dio unito con dolce e sempre più stretto vincolo d'amore, ma anche a desiderare di vederlo amato e di contribuire a farlo amare.

Mezzo efficacissimo per promuovere tale unione si considera dai maestri della vita spirituale la mortificazione cristiana, che è il morire a se stesso per vivere della vita di Gesù Cristo in Dio. Ora le anime, che verso Dio si sentono più fortemente trasportate, si danno alla mortificazione quasi per irresistibile istinto d'amore.

Al vedere i Santi gioire fra volontarie privazioni e sofferenze, il mondo ignaro si chiede trasognato: - Ut quid perditio haec? a che pro tanto sprezzo di beni e agi materiali? - La risposta è antica quanto la domanda; la diede da gran tempo san Paolo: Quei che sono di Cristo, hanno crocifisso la loro carne. I risorti con Cristo alla vita dello Spirito sacrificano volentieri la carne per vivere secondo lo Spirito. L'esperienza poi insegna che di li sviluppasi lo spirito di preghiera, come di li procede buona fecondità di azione.

Ed ecco che il piccolo Giovanni aveva già spontaneamente compreso questo gran segreto della perfezione cristiana prima ancora d'imbattersi nel sacerdote che gl'insegnò a meditare; infatti scrive nelle prelodate "Memorie": «Fra le altre cose, mi proibì tosto una penitenza che io era solito fare, non adattata alla mia età e condizione». Lo incoraggiò invece a frequentare i sacramenti della penitenza e dell'eucaristia.

L'anno innanzi al felice incontro, egli aveva fatto la prima Comunione. La fece dunque a dieci anni. Ci volle uno strappo bell'e buono alla rigida consuetudine di non ammettervi nessuno prima dei dodici o quattordici anni; ma stavolta il comunicandosi presentava alla sacra mensa così ben preparato, che il parroco chiuse un occhio. Giovannino vi si preparò confessandosi tre volte e poi in tutto quel giorno benedetto non si occupò di alcun lavoro materiale, ma solo in leggere libri divoti. Scriverà poi nelle citate "Memorie": «Mi pare che da quel giorno vi sia stato qualche miglioramento nella mia vita».

Purtroppo però la santa e fruttuosa familiarità col degno ministro di Dio, che lo istradava bel bello alla pietà e al sapere, gli fu bruscamente troncata dalla morte. Dure prove attendevano il caro figliuolo di Margherita. Fino allora tutto casa e chiesa, dovette andarsene dal tetto materno e ridursi sotto un padrone a servire quale garzoncello di campagna. Ricco d'ingegno e straricco di memoria, si vide costretto a logorare si promettenti energie nei grossolani lavori della terra. Dio voleva così, perché innalzasse un edificio di sode virtù sulla sicura base dell'umiltà. Confesserà più tardi che ne sentiva il bisogno.

La preghiera gli era alimento e conforto. La preghiera, e qualcos'altro. Ogni sabato chiedeva rispettosamente licenza ai suoi padroni di recarsi la mattina dopo a una borgata distante un'ora di strada per ascoltarvi la prima messa, che vi si celebrava per tempissimo. Perché tanta premura, se più tardi interveniva sempre alla messa parrocchiale e alle altre funzioni? Andava là di buon mattino per confessarsi e fare là santa comunione. Perseverò così tutte le domeniche e feste per due anni interi. Gran cosa per un fanciullo sbalestrato lungi dai suoi e in quelle condizioni di vita e non certo animato a tanto da esempi o suggerimenti altrui.

Si grande amore per Gesù Sacramentato è segno manifesto di non comune avanzamento nello spirito di preghiera. Le interne disposizioni indotte nell'animo da tale spirito si rivelano poi di leggieri nella condotta, negli atteggiamenti e nelle parole di un giovane. Le prove fornite nei processi dai superstiti della famiglia, presso cui il caro garzoncello prestava servizio, non lasciano luogo a dubbio di sorta sul suo conto per questo riguardo.

Essi non avevano mai non pure avuto, ma neanche immaginato un servitore così obbediente, laborioso ed esemplare. In casa si adempivano i doveri del buon cristiano con la regolarità delle inveterate consuetudini domestiche, tenaci sempre nelle famiglie campagnuole, tenacissime a quei tempi di vita sanamente paesana; il servitorello però d'ordinario pregava in ginocchio, pregava più spesso degli altri, pregava a lungo.

Fuori di casa, mentre guardava le mucche al pascolo, fu trovato ora raccolto in preghiera, ora concentrato nella lettura del catechismo, suo libro di meditazione; una volta fu visto in ginocchio, immote, a capo scopèrto, sotto la sferza del sole, così assorto che, chiamato ripetutamente, non die' segnò cf'intendere, e quando venne scosso e ammonito di non dormire al sole, rispose che non dormiva.

Un giorno il vecchio capo di casa, rientrando stanco dalla campagna, e scorto il giovinetto che inginocchiato diceva tranquillamente l'Angelus, se n'adontò e gliene mosse lamento, quasi che dimenticasse il lavoro per pensare, diceva, al paradiso. Giovanni, finita divotamente la prece, gli rispose con rispetto avvicinandosi: - Sapete bene, se io mi risparmio. Certamente però si guadagna più a pregare che a lavorare. Pregando, si seminano due grani, e nascono quattro spighe; non pregando, quattro grani si seminano, ma due sole spighe si mietono.

Penetrato da tali sentimenti, qual meraviglia se, come ne fecero fede testimoni oculari, osservavasi in lui calma di modi, eguaglianza di umore, senno di osservazioni, riserbo nel tratto, aborrimento da tutto quanto potesse, non che appannare il candore dell'anima, sembrare anche solo disdicevole a giovinetto schiettamente cristiano? Né trascurava colà di adoperarsi a bene dei fanciulli, divertendoli, catechizzandoli, conducendoli a pregare.

Quel tal parroco, da cui andava a confessarsi le domeniche, piangeva di consolazione al vedere come, grazie alle industrie di un povero garzoncello, rifiorisse la pietà nella porzione più eletta del suo gregge. Il fatto sta che, dopo la partenza del piccolo apostolo, l'ottimo pastore non ebbe che da continuare egli stesso quelle adunanze per crearsi un vero oratorio festivo.

Di Domenico Savio dodicenne san Giovanni Bosco scriverà di essere rimasto «non poco stupito considerando i lavori che la grazia divina aveva già operato in così tenera età».6 Il medesimo sentimento sorge in noi nel riandare, su testimonianze giurate di contemporanei e di conterranei, tutta la condotta di Giovannino Bosco.

Giovanni partì di là, perché giorno e notte lo assillava il pensiero degli studi; ma la via crucis fu ancora lunga e dolorosa. Nello scoraggiante avvicendarsi di speranze e di delusioni egli esperimentò, più che mai per l'innanzi, l'efficacia dell'esortazione di san Bernardo: Respice stellam, voca Mariam. Aveva succhiata col latte la divozione a Maria Santissima. In circostanze solenni e in momenti critici la madre gli raccomandava: - Sii divoto di Maria! A mano a mano che approfondiva il conoscimento delle cose divine, gustava sempre meglio la dolcezza di questa divozione, fatta di assoluta confidenza e di filiale amore, tanto predicata e praticata dai Santi, tanto cara alle anime pie.

Una solinga chiesetta dedicata alla Vergine sull'alto del colle che domina Castelnuovo, divenne allora per lui meta di frequenti visite. Si recava lassù o da solo o più spesso in compagnia di giovani amici. Dei quali pellegrinaggi fatti nella sua prima adolescenza al santuarietto mariano egli portò indelebilmente scolpito in mente il ricordo, tanto che sul declinare degli anni, ripensandovi, s'inteneriva.

Prima di addentrarci nel nostro qualsiasi studio, sembra opportuno aprire una breve parentesi per fissare chiaramente il concetto fondamentale di preghiera. Che nella vita cristiana la preghiera sia di suprema necessità, nessuno lo metterà mai ragionevolmente in dubbio; quindi è che san Paolo, scrivendo a Timoteo, gliela raccomanda primum omnium, prima di tutto. La preghiera poi è stato ed è atto. Come stato, essa consiste nell'orazione, continua voluta dal medesimo Apostolo, quando dice: Sine intermissione orate. Non si può certo stare sempre attualmente fissi in Dio, ma si sta sempre nella disposizione della preghiera mercè l'abito della carità; l'anima del giusto, possedendo la grazia santificante, e perciò presentando in sé la condizione richiesta affinché si avverino le parole di Gesù: Verremo da lui e faremo dimora presso di lui, riceve dalle tre Persone della Santissima Trinità con la loro presenza la comunicazione della loro vita, sicché allora si prega veramente senza interruzione.

Della preghiera così intesa, oltre agli stati ordinari e comuni, vi sono stati elevatissimi e di pochi, stati mistici, stati di puro privilegio. Come atto, la preghiera prende quattro forme, come c'insinua il medesimo san Paolo, dove inculca a Timoteo di fare obsecrationes, orationes, postulationes, gratiarum actiones; cioè, suppliche o preghiere di domanda per noi, orazioni o preghiere di adorazione, voti o preghiere di domanda per gli altri, e ringraziamenti per i benefici ricevuti. La teologia della preghiera si riduce sostanzialmente tutta qui. Vedere in qual modo l'abbiano vissuta i Santi, è spettacolo che edifica e rapisce.




Cap II. - ALLE SCUOLE.

L'allegria dunque veniva cercata da lui come buon mezzo per servire il Signore.


La vita di Giovanni Bosco subì una brusca mutazione quand'egli, spiccatosi dai luoghi nativi, si portò a Chieri, di paesanello contadino divenuto in un subito cittadino e studente. Chieri non era Torino; ma tutto è relativo a questo mondo. C'erano pur sempre le insidiose novità di un ambiente più raffinato; c'era l'indipendenza; c'era l'età.

Un giovincello campagnuolo, cresciuto sotto gli occhi de' suoi, più o meno vicino, ma sempre attorno al domestico nido, inesperto di tutto che non sia occupazioni e soddisfazioni rusticane, avvezzo a non intrattenersi se non con le solite gentine primitive, ecco, piomba di botto in un centro così detto civile, fra abiti e abitudini d'un altro mondo, sconosciuto in mezzo a sconosciuti; poniamo che questo giovincello tocchi allora il punto critico dell'adolescenza, che abbia ingegno vivace, che si senta qualche spirito in corpo; immaginiamo ancora che un tale adolescente arrivi dai campi alla città per tuffarsi in una popolazione sbrigliatella di scolari delle classi secondarie: e si dica se non ci sia più di quanto basti, perché si rinnovi il caso di Ercole al bivio. Buon per Giovanni che ai rischi improvvisi si affacciava premunito, oltre ché da scopo santo e da umile povertà, anche da quella pietà illuminata, la quale copre la gioventù d'uno scudo contro cui s'infrangono i dardi ostili.

Tale pietà, che è buona a tutto, perché ci mostra tutte le cose nella luce vera, che è la luce divina, ne guidò tosto i primi passi, che sogliono essere i più pericolosi, conducendolo a fare la sua prima conoscenza e scortandolo ne' suoi primi accostamenti ai compagni.

Apprendiamone da lui stesso il come. «La prima persona che conobbi fu un sacerdote di cara e onorata memoria. Egli mi diede molti buoni avvisi sul modo di tenermi lontano dai pericoli; m'invitava a servirgli la messa, e ciò gli porgeva occasione di darmi sempre qualche buon suggerimento. Egli stesso mi condusse dal prefetto delle scuole... e mi pose in conoscenza con gli altri professori. In mia mente aveva divisi [i compagni] in tre categorie: buoni, indifferenti, cattivi. Questi ultimi evitarli assolutamente e sempre, appena conosciuti; con gl'indifferenti trattenermi per cortesia e per bisogno; coi buoni contrarre amicizia, ma famigliarità solamente con gli ottimi, quando se ne incontrassero che fossero veramente tali. Questa fu la mia ferma risoluzione. Tuttavia ho dovuto lottare non poco con quelli che io non conosceva per bene. Io mi sono liberato da questa caterva di tristi col fuggire rigorosamente la loro compagnia di mano in mano che mi veniva dato di poterli scoprire».

Orientatosi abbastanza nelle relazioni più indispensabili, fu dalla stessa pietà molto bene indirizzato nella ricerca della cosa che maggiormente gli premeva.

«La più fortunata mia avventura, scrive, fu la scelta di un confessore stabile nella persona di un canonico della Collegiata. Egli mi accolse sempre con grande bontà, ogni volta che andava da lui. Anzi m'incoraggiava a confessarmi e comunicarmi con maggior frequenza. Era cosa assai rara in quei tempi trovare chi incoraggiasse alla frequenza dei sacramenti. Chi andava a confessarsi e a comunicarsi più d'una volta al mese, era giudicato dei più virtuosi, e molti confessori non lo permettevano. Io però mi credo debitore a questo mio confessore, se non fui dai compagni trascinato a certi disordini, che gl'inesperti giovanetti hanno purtroppo a lamentare nei grandi collegi». S'intenda qui collegi nel senso di pubbliche scuole, non di convitti, secondo una denominazone locale del tempo.

Non solo i compagni non trascinarono lui a disordini, ma egli ne tirò e tenne un bel numero sulla retta via. Un giovane pio che primeggi nella scuola e non abbia ombra di ostentazione, solo che sia un pò disinvolto, si guadagna i cuori dei condiscepoli con facilità incredibile. Così Giovanni in breve tempo si conciliò tanta stima e benevolenza tra l'elemento giovanile di Chieri, che gli riuscì di fondare un'associazione denominata Società dell'Allegria cui regolamento si componeva di due articoli: evitare ogni discorso, ogni azione che disdicesse a un buon cristiano, e adempiere esattamente i doveri scolastici e religiosi.

Ciascun socio aveva obbligo di cercare libri e introdurre trastulli atti a far stare allegri i compagni: proibito checché causasse malinconia, massime qualunque cosa non conforme alla legge di Dio. Tutte le feste i membri della Società andavano al catechismo nella chiesa dei Gesuiti; lungo la settimana si adunavano in casa or dell'uno or dell'altro, con libero intervento di quanti volessero parteciparvi, e se la passavano ivi in amene ricreazioni, in pie conferenze, in letture religiose, in preghiere, in darsi buoni consigli e in notarsi a vicenda i difetti personali, che taluno avesse osservato direttamente o di cui avesse udito parlare.

Oltre a questi amichevoli trattenimenti, «andavamo, scrive Don Bosco, ad ascoltare le prediche, spesso a confessarci, a fare la santa comunione». L'allegria dunque veniva cercata da lui come buon mezzo per servire il Signore.

È alieno dal nostro compito il prendere un tono di enfasi, avendosi qui per iscopo soprattutto l'edificazione; ma l'ammirazione sorge dai fatti. Di giovani pii se n'incontrano, grazie a Dio, con frequenza consolante; ma giovani d'una pietà così operosa che, non paghi essi di ambulare cum Deo, sentano in sé l'impulso abituale, quasi il bisogno imperioso di portare Dio nelle anime altrui o di avvicinarle maggiormente a Dio, capita rarissime volte d'incontrarne.

Giovanni Bosco nutriva dentro una pietà fatta come il bene, del quale si dice che è per natura diffusivum sui.

Vedere una persona e pensare subito a renderla buona o migliore nel senso più strettamente cristiano della parola, doveva essere un giorno il programma della sua vita sacerdotale; ma era già la tendenza de' suoi verdi anni. L'abbiamo visto all'opera fra coetanei e condiscepoli; a voler tutto esporre ci dovremmo ripetere di soverchio, e poi non si tesse qui una biografia: ci premeva soltanto mettere in evidenza l'annunciarsi lontano di quella che fu nota caratteristica della sua spiritualità.

A questo punto, chi sa? lettori diffidenti, rilevando nel giovane Bosco la propensione innata a mettersi in pubblico e riandando le clamorose sue prodezze di giocoliere e di acrobata, sarebbero forse tentati di esprimere qualche riserva sul movente segreto di tali manifestazioni. Non vi farebbero capolino per caso ambizioncelle di popolarità e gusti teatrali, troppo mal conciliabili con le esigenze della vita interiore e con il rumores fuge e l'ama nesciri dell'ascetica tradizionale? A dissipar simili dubbi basterebbe ponderare fini, modi, circostanze, effetti. Omettiamo ciò: limitiamoci piuttosto a un dato di fatto.

A tu per tu con persone di vario genere è sempre identico in lui lo spirito animatore: l'ardore di un'anima pia, che è sollecita del bene spirituale altrui. Il figlio della padrona di casa, sbarazzino numero uno, è la disperazione di tutti; Giovanni se lo affeziona, lo tira pian piano alle pratiche religiose, finché non ne cava fuori un ragazzo per bene.

Frequentando il duomo, vi fa conoscenza col sagrestano maggiore, già adulto, affatto digiuno di studi, corto d'ingegno e di mezzi, distratto dalle sue occupazioni, eppure bramoso di diventar prete; Giovanni, senza verun compenso, con eroismo di carità si presta a fargli un po' di scuola ogni giorno, e la dura così due anni, finché non l'ha preparato all'esame per la vestizione chiericale. Stringe amicizia con un ebreo, giovane diciottenne, lo invoglia a ricevere il battesimo, lo istruisce, di nascosto, vince opposizioni ostinatissime di parenti e di altri correligionari, finché non lo assiste al sacro Fonte.

È ben precoce tutta la fecondità di apostolato, che abbiamo potuto ammirare fin qui. Essa ci somministra una prova di non meno precoce unione con Dio. Si sa come poco serva il saper agire e parlare, se manchi il previo raccoglimento nella preghiera, che è con l'esempio mezzo indispensabile nelle opere di zelo.

Il significativo proverbio Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei porta buon rincalzo all'argomento, se lo si applica all'amicizia di Giovanni con uno studente santo. Tale la fama, che aveva preceduto l'arrivo di Luigi Comollo a Chieri. Avutane appena notizia, Giovanni ardeva di conoscerlo; conosciutolo, agognava di entrare in relazione con lui; riuscitovi, trovò che la realtà superava l'aspettazione.

Spigoliamo nelle "Memorie": «L'ebbi sempre per intimo amico. Ho messo piena confidenza in lui, egli in me. Mi lasciavo guidare dove e com'egli voleva. Andavamo insieme a confessarci, a comunicarci, a fare la meditazione, la lettura spirituale, la visita al santissimo Sacramento, a servire la santa messa». L'accenno alla meditazione ci assicura, com'egli non ismettesse più di rinnovare quotidianamente e arricchire la sua vita interiore con questo valido esercizio. E il loro conversare? Dalla pienezza del cuore parla la bocca. Conferivano insieme di cose spirituali. «Il trattare e parlare di tali argomenti con lui, scrive Don Bosco, tornavagli di grande consolazione. Ragionava con trasporto dell'immenso amore di Gesù nel darsi a noi in cibo nella santa comunione. Quando discorreva della Beata Vergine, si vedeva tutto compreso di tenerezza, e dopo aver raccontato o udito raccontare qualche grazia concessa a favore del corpo, egli, sul finire, tutto rosseggiava in viso e alle volte rompendo anche in lacrime esclamava: - Se Maria favorisce cotanto questo miserabile corpo, quanti non saranno i favori che sarà per concedere a pro delle anime di chi la invoca? Oh, se tutti gli uomini fossero veramente divoti di Maria, che felicità ci sarebbe in questo mondo!».

Al se stesso d'allora Don Bosco attribuisce la parte di uditore; non avrà fatto l'uditore perpetuamente muto. A ogni modo, effusioni di questa natura non è verosimile che avvengano, e tanto meno che si ripetano così a lungo, se da ambo i lati non siano i cuori capaci d'intenderle e di gustarle.

I quattro anni di ginnasio finirono con esito trionfale. Ottimi risultati negli esami, affettuosa stima di professori, entusiastica ammirazione dai compagni, generali simpatie fra la cittadinanza; nessuno mancò insomma dei segni forieri, per cui dall'alba si prognostica il giorno. Ma quante angustie, quante difficoltà, quanti pericoli, quante privazioni! La costanza non gli cadde spezzata sol perché, mediante la preghiera, trovava rifugiò nel Dio d'ogni consolazione.

La Provvidenza così disponeva, affinché egli un giorno potesse consolare coloro che si trovassero in qualunque strettezza.

Se non che il sereno, mai non turbato «dal vento secco, che vapora la dolorosa povertà», per dirlo con una pittoresca frase di Dante, gli fu nel secondo biennio un po’ offuscato da una nube. Nell'età delle crisi giovanili la si può chiamare crisi di vocazione.

Che fino dalla puerizia aspirasse al sacerdozio, è cosa incontestata; vi si sentiva talmente attratto, che gli sembrava di essere nato per questo. Ma nel penultimo anno di ginnasio, ecco che lo assalgono due timori, i quali, quanto più si avvicina il momento decisivo, tanto più lo spingono per entro a un mare di perplessità e di ansie. Da un lato, ora che comprende meglio la sublimità dello stato sacerdotale, se ne giudica indegno per la mancanza di adeguate virtù; dall'altro, non ignorando gli scogli del mondo, ha paura di andarvi a naufragare, se si fa chierico nel secolo.

Il travaglio spirituale di questa lotta traspare dall'accorato accento, con cui tant'anni dopo escja.. ma nelle sue "Memorie": «Oh, se allora avessi avuto una guida, che si fosse presa cura della mia vocazione, sarebbe stato per me un gran tesoro; ma questo tesoro mi mancava». Infatti il suo ottimo confessore, che badava a far di lui un buon cristiano, in cose di vocazione non si volle mai mischiare.

Ridotto a trovar consiglio da sé, ricorse a libri che trattassero di scelta dello stato. Un raggio di luce parve balenargli allo spirito. «Se io rimango chierico nel secolo, disse fra sé, la mia vocazione corre gran pericolo. Abbraccerò lo stato ecclesiastico, rinuncerò al mondo, andrò in un chiostro, mi darò allo studio, alla meditazione, e così nella solitudine potrò combattere le passioni, specialmente la superbia, che nel mio cuore aveva messo profonde radici». Chiese dunque l'ammissione tra i Francescani, i quali, intuendone l'ingegno e la pietà, lo accettarono di buon grado. Ma egli non aveva il cuore tranquillo.

Vi si aggiunse che persone benevole e serie, a cui aveva aperto l'animo suo, si adoperavano a tutto potere per distorlo dal proposito di farsi frate, esortandolo vivamente a entrare in seminario. Così le ansietà crescevano.

La Provvidenza dispose che si lasciasse indurre a interrogare il beato Giuseppe Cafasso, allora giovane sacerdote, ma già in grande riputazione per il dono del consiglio. Don Cafasso, ascoltandolo attentamente, gli disse di andare avanti negli studi e alla fine di passare nel seminario.

Durante queste ambasce interne la sua vita esteriore si svolgeva come se nulla fosse, fra studi, esercizi divoti, opere di zelo e lavori manuali per guadagnarsi da vivere, sicché nessuno aveva sentore delle sue pene.

Il pensiero di Dio, quando signoreggia un'anima, la rende padrona di sé e quindi abitualmente calma nelle sue manifestazioni esteriori, quand'anche nel proprio segreto si senta conturbata.

L'autorità di Don Cafasso li per li impose silenzio alle dubbiezze; ma in seguito, facendo nuove letture sulla vocazione, fu da capo alle prese con se medesimo. Sarebbe tornato a picchiare dai Francescani, se un caso occorsogli, non sappiamo quale, non avesse accelerato l'epilogo; egli ci dice solo che, stante il moltiplicarsi di ostacoli duraturi, deliberò di esporre tutto al Comollo. Veramente reca un po' di meraviglia il vedere, come, per mettere l'amico a parte del suo dramma interiore, ci fosse voluto tanto tempo e si ponderata deliberazione. Però l'intimità buona non costituisce di per sé un titolo di competenza in materie così delicate; d'altro canto, Giovanni, con tutta la sua ricchezza d'idee e facilità nel comunicarle, era tutt'altro che un giovane loquace.

Allora dunque insieme pregarono, insieme si accostarono ai santi sacramenti, di comune accordo consultarono per iscritto un esimio sacerdote, zio del Comollo. Questi, proprio l'ultimo giorno d'una novena alla Madonna, così rispondeva al nipote: «Considerate attentamente le cose esposte, io consiglierei il tuo compagno di soprassedere dall'entrare in un convento. Vesta egli l'abito chiericale, e mentre farà i suoi studi, conoscerà vie meglio quello che Dio vuole da lui. Non abbia alcun timore di perdere la vocazione, perciocché con la ritiratezza e con le pratiche di pietà egli supererà tutti gli ostacoli». Studio, ritiratezza, pietà: non era stata sempre questa la sua vita di Chieri? Come Don Cafasso, come lo zio del Comollo, così anche il suo parroco opinava per l'ingresso nel seminario, rimandando a età più matura il decidersi o no per la vita religiosa. Tutto questo valse a rasserenare l'orizzonte; quindi «mi sono seriamente applicato, scrive, in cose che potessero giovare a prepararmi alla vestizione chiericale».

Vestirsi chierico non fu per Giovanni Bosco mera cerimonia. Dal raccoglimento e dalla preghiera, in cui si seppe concentrare senza isolarsi - attendeva infatti a una cinquantina di giovinetti che lo amavano e gli obbedivano, ce lo dice egli stesso, come se fosse loro padre - uscì spiritualmente preparato e tutto compreso dell'importanza di quel sacro rito. I pii sentimenti avuti durante la funzione palpitano vivi nella paginetta delle "Memorie" che per buona sorte ce ne ha serbato il ricordo.

«Quando il prevosto mi comandò di levarmi gli abiti secolareschi con quelle parole: Exuat te Dominus veterem hominem cum actibus suis, dissi in cuor mio: - Oh, quanta roba vecchia, c'è da togliere! Mio Dio, distruggete in me tutte le mie cattive abitudini. Quando poi nel darmi il collare aggiunse: Induat te Dominus novum hominem, qui secundum Deum creatus est in iustitia et sanctitate veritatis, mi sentii tutto commosso e aggiunsi tra me: - Sì, o mio Dio, fate che in questo momento io incominci una vita nuova, tutta secondo i divini voleri, e che la giustizia e la santità siano l'oggetto costante dei miei pensieri, delle mie parole e delle mie opere. Così sia. 0 Maria, siate la salvezza mia ».

A coronare l'opera, egli si scrisse e prescrisse un regolamento di vita chiericale in sette articoli; il sesto era così concepito: «Oltre alle pratiche ordinarie di pietà, non ometterò mai di fare ogni giorno un poco di meditazione ed un poco di lettura spirituale». Affinché quindi i buoni propositi non restassero lettera morta, vi si volle astringere con vincolo solenne; perciò, inginocchiatosi davanti a un'immagine della Beata Vergine, vi lesse i singoli articoli e dopo una fervida preghiera fece «formale promessa a quella Celeste Benefattrice di osservarli a costo di qualunque sacrificio».

Si sarà notato qui sopra, che pietà e spirito di preghiera si alternano indifferentemente, quasi fossero una cosa identica. A ben chiarire le idee giovi osservare, come lo spirito di preghiera si esplichi ordinariamente in quel complesso di atti, con cui si onora Dio e che nell'uso corrente vanno sotto la denominazione generale di pietà; cosicché o quello si risolve in questa o, se vi si vuol ravvisare una differenza, diremo spirito di preghiera una pietà profonda, abituale e sentita.

Giacché poi siamo entrati in quest'argomento, aggiungeremo ancora un'osservazione, opportuna per noi. Secondo che nella pietà si attribuisca a un elemento la prevalenza su gli altri, la pietà stessa permetterà di venir contrassegnata con qualificativi specifici. Sotto questo riguardo si è creduto di poterne fare classificazioni per ordini religiosi, chiamando, ad esempio, liturgica la pietà benedettina, affettiva la francescana, dogmatica la domenicana, pietà delle massine eterne quella dei Liguorini.

Conformandoci al medesimo criterio, quale diremo annunciarsi fin d'ora nella pratica di Giovanni Bosco la futura pietà salesiana? Non sembra già scorgere alla lontana le prime linee di una pietà destinata a guadagnarsi il titolo di sacramentale, per la parte sovreminente che vi sarà fatta alla confessione e alla comunione? Mercè appunto questi due sacramenti, ricevuti con frequenza non mai usata per l'addietro, il fondatore dei Salesiani dischiuderà sopra le sue istituzioni le cateratte della grazia.



Cap III. - NEL SEMINARIO.

Così gli fu possibile frequentare a suo piacimento la santa eucaristia, che egli dichiara essere stata il più efficace alimento della sua vocazione.


Il seminario dell'archidiocesi torinese era allora a Chieri; Giovanni Bosco vi entrò il 30 ottobre 1835 in età di vent'anni.

Osservatore pronto e sagace, il giovane chierico in un batter d'occhio si fece un'idea esatta del luogo, delle persone e delle cose. Vi s'informò premurosamente degli esercizi di pietà. Bene per la messa, la meditazione, la terza parte del rosario, quotidiane; bene anche per la confessione, settimanale; meno bene invece per la comunione, che si poteva ricevere soltanto nelle domeniche e in solennità speciali.

Per andarvi qualche altra volta lungo la settimana bisognava commettere una disobbedienza: si doveva cogliere l'ora di colazione e infilare di soppiatto la porta che metteva in una chiesa attigua. Ma poi, appena finito il ringraziamento, non c'era tempo da perdere per raggiungere i compagni, che tornavano allo studio e alla scuola; sicché in tali casi fino a pranzo si restava con lo stomaco digiuno. Questa infrazione di regolamento sarebbe stata a buon diritto proibita; ma nel fatto i superiori vi davano tacito consenso, giacché lo sapevano benissimo e a volte anche vedevano e non dicevano nulla.

Così gli fu possibile frequentare a suo piacimento la santa eucaristia, che egli dichiara essere stata il più efficace alimento della sua vocazione.

Nutrito col pane degli Angeli, lo spirito ecclesiastico del buon:seminarista si veniva formando sotto il soave influsso della sua divozione a Maria Santissima. Portava egli profondamente scolpite nella memoria e nel cuore le ultime parole dettegli dalla madre prima che partisse per il seminario.

Popolana illetterata, essa possedeva però in grado eminente quel sensus Christi, è sapienza infusa dall'alto e attitudine a giudicare veracemente delle cose divine, quale si riscontra in tante anime semplici con meraviglia dei profani, ma senz'ombra di sorpresa per chi sappia che sono i doni dello Spirito Santo.

Giovanni dunque, com'egli racconta nelle Memorie aveva ricevuto dall’amata sua genitrice questo grande ammonimento: Quando dei venuto al mondò ti ho consacrato alla Beata Vergine; quando hai cominciato i tuoi studi, ti ho raccomandato la divozione a questa nostra Madre; ora ti raccomando di essere tutto suo: ama i compagni divoti di Maria; e se diverrai sacerdote, raccomanda e propaga mai sempre la divozione di Maria». Memore del saggio avviso materno, egli ebbe cura di associarsi a compagni «divoti della Vergine, amanti dello studio e della pietà».

Parecchi di quei compagni a lui sopravvissuti deposero chi su gl'irresistibili suoi inviti a seguirlo in chiesa per recitare il vespro della Madonna o altre preghiere in onore della gran Madre di Dio, chi sul suo fervore nel tradurre e illustrare familiarmente inni liturgici indirizzati a Maria, chi sull'amabile piacevolezza, con cui ne celebrava le glorie, raccontando nelle ore di ricreazione esempi edificanti. Ancora studente di filosofia, si stimò ben felice di dover salire la prima volta il pulpito per tenere un discorso sulla Madonna del Rosario, primizia di quella multiforme predicazione mariana, che sarebbe stata sua delizia fino alla vecchiaia.

Ripetute volte dopo d'allora Giovanni Bosco, semplice chierico, montò in pergamo: giacché, vista la sua franchezza, si ricorreva a lui in casi disperati durante le ferie estive, né egli si sgomentava o si faceva molto pregare. Il fatto merita attenzione. Ognuno, dice il vecchio aforismo, è abbastanza buon parlatore nelle cose che sa bene; pectus disertos facit, un altro aforismo non meno antico, quasi completando il primo, la vera facondia cioè viene dal cuore. Nel chierico Bosco entrambi gli elementi concorrevano fin d'allora a formare l'oratore sacro.

Fra i suoi propositi della vestizione aveva messo anche questo: «Siccome nel passato ho servito al mondo con letture profane, così per l'avvenire procurerò di servire a Dio dandomi alle letture di cose religiose». Di cose religiose, si badi bene, non ascetiche o spirituali, non mai intermesse. Orbene, durante il ginnasio egli aveva letto avidamente i classici italiani e latini per arricchire la sua cultura profana o letteraria che si voglia dire, mosso da quegli alti sensi ond'è ispirata un'intelligenza come la sua verso tutto ciò che sia idealmente bello e grande; nel seminario invece faceva usura del tempo per divorare opere anche voluminose di storia ecclesiastica, di catechetica e di apologia.

È poi risaputo che, data la sua memoria tenacissima, per lui «leggere era ritenere»; lo asserisce egli medesimo. Tante letture per altro non gli giovavano solo a procacciarsi un'arida e sterile erudizione, ma soprattutto per «servire a Dio», in quanto che al contatto della sua anima ardente d'amor divino le cose lette gli si convertivano in calore vitale di fede e di zelo. Onde in lui scienza della religione e scienza dei Santi traevano reciproco vantaggio da tali sussidi, procedendo normalmente di conserto; ecco perché, presentandosi occasioni di predicare anche all'improvviso, non gli mancava né materia né ardore, ma pochi istanti di raccoglimento e di preghiera gli bastavano per sentirsi pronto.

Del resto, Giovanni Bosco non predicava continuamente? Se, prescindendo dall'idea solenne risvegliata in noi dal verbo predicare, facciamo astrazione da un pubblico adunato in chiesa attorno alla cattedra di verità, e ci restringiamo all'elemento essenziale del suo significato, che è annunziare la parola di Dio, non sarà predicatore ogni seminatore solerte della buona parola? In tal senso, che abile, che instancabile predicatore non fu il chierico Bosco nel seminario di Chieri! Osserviamolo.

Moltissimi giovinetti della città corrono al giovedì a visitarlo; egli scende, s'intrattiene allegramente con loro come prima, discorre di scuola e di studio, ma anche di sacramenti, e non li licenza se non dopo averli condotti in chiesa per una breve preghiera. Ai condiscepoli, che vedono e che un giorno ricorderanno, suole ripetere: «Bisogna sempre introdurre nelle nostre conversazioni qualche pensiero di cose soprannaturali; è un seme che a suo tempo darà frutto».

Tra siffatti semi egli mescola anche pensieri sulla vocazione allo stato ecclesiastico, secondo che il suo sguardo scrutatore ne scorge l'opportunità. Inoltre, insegnare la dottrina cristiana ai fanciulli si direbbe che sia la sua passione; egli non si lascia mai sfuggire l'occasione di far catechismi! Anzi s'ingegna di farne nascere quante più può di tali occasioni.

Seminatore di parole buone anche entro il recinto sacro. Nelle ricreazioni più lunghe i chierici di miglior condotta tengono circoli scolastici; questa consuetudine gli piace assai, perché, oltre che allo studio, la sperimenta assai giovevole alla pietà. Si stringe così intorno a lui un gruppo di intimi, una specie di santa lega per l'osservanza delle regole e per l'applicazione allo studio, ma insieme per infervorarsi l'un l'altro nella vita spirituale. Tuttavia anche fuori di questi convegni le sue conversazioni finiscono d'ordinario nell'argomento prediletto, quasi sale, cui con grazia asperge ogni discorso.

- Parlava volentieri di cose spirituali, - attesterà uno degli assidui. E poi c'è la vena inesauribile dei racconti, coi quali incanta e incatena. Non mancò mai, nei cinque anni che fui suo condiscepolo, dirà ancora l'incanutito amico, alla risoluzione presa di raccontare ogni giorno un esempio tratto dalla storia ecclesiastica, dalla vita dei Santi e dalle glorie di Maria. La risoluzione qui accennata entrava nel programma di vita chiericale, che già conosciamo. Insomma, bisogna avere il cuore pieno di Dio, per parlare di Dio così, quasi ad ogni aprir di bocca.

Il più costante degli esterni nelle visite al chierico Bosco e il più aspettato di tutti era naturalmente nel primo anno di seminario Luigi Comollo, che frequentava allora l'ultima classe ginnasiale. Degni sempre l'uno dell'altro, non avevano segreti fra loro; entrambi amanti di Dio, si comunicavano i propri disegni per una vita da consacrare interamente alla salute delle anime. È facile perciò immaginare qual buona compagnia si facessero, dopo che si ritrovarono uniti nel seminario. Qui per fortuna le fonti d'informazione non iscarseggiano; possiamo perciò tener dietro un po’ da presso ai due amici e così indagare meglio la vita seminaristica di Giovanni Bosco in quello che c'interessa.

L'uniformità regolamentare fa si che le giornate del seminarista più o meno si rassomiglino, né, generalmente parlando, vi trovano favore le spiccate manifestazioni di tendenze individuali. Per giunta, il chierico Bosco, a detta d'un suo vecchio professore, progrediva bensì notevolmente nello studio e nella pietà, ma «senz'averne le apparenze, a cagione di quella sua bonarietà, che fu poi la caratteristica di tutta la sua vita». Onde nel seminario agli occhi dei più egli passò incompreso, sicché ci vollero gli sviluppi posteriori, perché quei d'allora, richiamando alla mente le cose remote, capissero ciò che non avevano capito prima e dicessero quindi come disse un altro professore di Giovanni: «Io lo ricordo, quand'era mio scolaro; era pio, diligente, esemplarissimo. Certo nessuno a quel tempo avrebbe pronosticato di lui quel che è adesso. Ma debbo dire che il suo dignitoso contegno, l'esattezza con cui adempiva i doveri suoi di scuola e di religione, erano cosa esemplare».

Peccato che di così preziosi testimoni il tempo inesorabile abbia troppo presto assottigliato il numero o indebolita la memoria! A buon conto, profittiamo di quanto ci è pervenuto attraverso le notizie sicure che si possiedono circa i suoi amichevoli rapporti col chierico Comollo.

Studio e pietà, scuola e religione: ecco dove anzitutto i due bravi chierici andavano pienamente d'accordo. Nei giovani di bell'ingegno l'amore allo studio minaccia da tre lati la pietà. Primieramente, l'attività mentale, dominando lo spirito, lo popola d'idee, la cui associazione distrae non poco durante i pii esercizi. Poi, i buoni risultati sollecitano la vanità giovanile, che a poco a poco, in chi vi cede, fa svanire la soave unzione della grazia. Infine gli studiosi appassionati cadono facilmente nella tentazione di accorciare la durata della preghiera o di mendicare pretesti per esimersene al possibile, proclivi come sono a stimar perduto il tempo che non impieghino al tavolino.

Nelle Congregazioni religiose i chierici passano agli studi dopo un periodo di apposita preparazione spirituale, che insegna loro a mettere la pietà in capo a tutto; ma i seminaristi, indossato l'abito chiericale, ripigliano il giorno dopo la vita di studenti, sicché, se si affezionano sul serio ai libri e ai maestri, non hanno quasi più testa per la chiesa e le pratiche di pietà, o almeno stentano grandemente a prendervi gusto.

Il chierico Bosco la vinceva sull'amico in vigore di mente; ma nell'ardore per lo studio e per la pietà se la intendevano fra loro a meraviglia. Riguardando lo studio come un dovere e ben sapendo che anche nei doveri c'è una graduatoria, assegnavano le prime parti ai doveri verso Dio. Convinti inoltre che per ecclesiastici lo studio è mezzo, non fine a sé, e mezzo di second'ordine per far bene alle anime, dovendosi mandare innanzi a tutto il resto la santità della vita, erano lungi mille miglia dal subordinare all'amor del sapere lo spirito di preghiera; onde il mutuo aiutarsi a progredire nella vita interiore. «Finché Dio conservò in vita questo incomparabile compagno, scrive Don Bosco, gli fui sempre in intima relazione. Io vedevo in lui un santo giovanetto; lo amava per le sue rare virtù; e quando ero con lui, mi sforzava di imitarlo in qualche cosa, ed egli poi amava me, perché lo aiutava negli studi».

In una sola cosa accidentalissima, ma rivelatrice, Giovanni Bosco manteneva il suo modo di vedere. Luigi Comollo, divoto com'era di Gesù Sacramentato, accostandosi con il massimo raccoglimento alla sacra mensa, dava in sussulti di commozione; indi, tornato al suo posto, sembrava che fosse fuori di sé, pregando fra singhiozzi, gemiti e lacrime, né riavendosi da quei trasporti di pietà se non al termine della messa. Giovanni avrebbe voluto che egli si frenasse per non dar nell'occhio; l'altro invece rispondeva che, se non avesse dato sfogo alla piena degli affetti, gli sarebbe parso di soffocare. Ne rispettò l'ardente divozione, ma per conto suo si sentiva avverso a quanto avesse aria di singolarità o destasse ammirazione.

La pietà non meno accesa aveva differente aspetto. Nell'andare e tornare dalla comunione, nulla di eccezionale; dopo, nel fare il ringraziamento, restavasene immobile, con la persona dritta, il capo leggermente chino, gli occhi chiusi e le mani giunte dinanzi al petto. Non un segno di emozione, non un sospiro; solo di quando in quando un tremar delle labbra, che proferivano qualche muta giaculatoria. La fede però ne illuminava tutto il sembiante.

Fuori del seminario, nei mesi di vacanza, i due amici s'indirizzavano frequenti lettere e si scambiavano visite, in cui le cose spirituali solevano formare l'argomento favorito. Uno dei documenti più notevoli intorno alle loro sante relazioni è la biografia del Comollo, morto in fresca età durante il secondo anno di teologia; Don Bosco, scrivendola, vi celò se stesso sotto l'appellativo impersonale di «intimo amico».

La storia naturalmente deve fare le sue riserve sull'abitudine dell'autore a rappresentare quest'«in-timo amico» sempre e solo a mezz'ombra e il Comollo in piena luce: non mancano altrove notizie per appurar il vero; ma una conclusione intanto ne balza fuori certissima, ed è che essi erano proprio due anime in un nocciolo: segno evidente che li affratellava intima conformità di spirito. Pares cum paribus.

Abbiamo fatto menzione delle vacanze. «Un gran pericolo pei chierici, scrive Don Bosco, sogliono essere le vacanze, tanto più in quel tempo che duravano quattro mesi e mezzo». Egli si prefiggeva ogni volta di santificarle, conservando integro il fervore del seminario. Tolto il primo anno, in cui lo trascorse presso i Gesuiti a Montaldo, facendovi da ripetitore di greco in una classe di convittori e da assistente in una camerata, negli anni successivi il suo tenor di vita durante le ferie, quale ci risulta da testimoni e documenti autorevoli, si riassumeva in due parole: fuggire l'ozio e attendere a pratiche divote.

Per non vivere in ozio divideva il tempo fra lo studio, i lavori manuali, consigliatigli anche da bisogni di salute, e le ripetizioni scolastiche. Da paesi vicini si recavano presso di lui a gruppi o separatamente e in ore diverse del giorno studenti, che desideravano esercitarsi un po’ più nelle materie studiate o prepararsi bene ai loro nuovi corsi. Egli vi si prestava di buon grado; ma ecco la testimonianza di un professore che era stato del bel numero: «La prima lezione era quella dell'amor di Dio e dell'obbedienza ai suoi comandamenti, e non finiva mai la scuola senza esortarli alla preghiera, al timor del Signore ed a fuggire il peccato e le occasioni di peccare».

Quanto alle pratiche divote, nulla di straordinario, secondo il suo costume, ma fedele osservanza di quelle proprie della vita chiericale: meditazione, letture spirituali, rosario, visita al Santissimo Sacramento, assistenza quotidiana alla santa messa, frequente confessione, frequentissima comunione. Si prestava poi volenteroso a servire in qualsiasi funzione sacra. Tutte le domeniche faceva con zelo ed efficacia il catechismo ai giovanetti in parrocchia. Ogni volta che udisse la campana dare i tocchi del santo Viatico, s'avviava prontamente alla chiesa, distante tre chilometri, si metteva la cotta, prendeva l'ombrello e accompagnava il Santissimo. Né si dispensava dall'assistere alle predicazioni parrocchiali. Conscio infine dell'importanza inerente al buon esempio, serbava dovunque e con chicchessia un contegno composto e inappuntabile, talché i suoi conterrazzani l'avevano in altissimo concetto.

L'assodarsi in lui dello spirito ecclesiastico, che è interiore ed esteriore santità di vita, emerge ancora da caratteristici episodi che ne infiorano la biografia, ma che sarebbe fuor di luogo riferire qui anche per sommi capi. Fa invece direttamente al nostro scopo prendere conoscenza delle disposizioni spirituali, con cui andò ricevendo gli Ordini sacri.

Pressoché al termine della sua carriera mortale, parlando di quel punto decisivo che nella vita di un ecclesiastico è il suddiaconato, egli ci palesa l'animo suo con espressioni, in cui non sapremmo che cosa maggiormente ammirare, o la sua estrema delicatezza di coscienza o la stima profondissima che aveva dello stato sacerdotale, frutto l'una e l'altra del suo vedere costantemente le cose in Dio «Ora che conosco le virtù, scrive, che si richiedono per quell'importantissimo passo, resto convinto che io non ero abbastanza preparato; ma non avendo chi si prendesse cura diretta della mia vocazione, mi sono consigliato con Don Cafasso, che mi disse di andare avanti e riposare sulla sua parola.

Nei dieci giorni di spirituali esercizi tenuti nella Casa della Missione in Torino ho fatto la confessione generale, affinché il confessore potesse avere un'idea chiara della mia coscienza e darmi l'opportuno consiglio. Desiderava di compiere i miei studi, ma tremava al pensiero di legarmi per tutta la vita; perciò non volli prendere definitiva risoluzione, se non dopo aver avuto il pieno consentimento del confessore. D'allora in poi mi sono dato il massimo impegno di mettere in pratica il consiglio del teologo Borel: - con la ritiratezza e la frequente comunione si conserva e si perfeziona la vocazione -». Il buon sacerdote torinese aveva risposto così a una domanda del chierico durante un corso di esercizi spirituali da lui predicati nel seminario.

Concordano con queste espressioni anche le notizie di cui andiamo debitori a un suo carissimo condiscepolo e intimo amico, divenuto più tardi suo confessore fino al letto di morte. Deponendo su gli esercizi spirituali fatti dal diacono Bosco in preparazione al presbiterato, egli ne parla in questi termini: «Li fece in modo edificante. Era compreso, in modo straordinario, delle parole del Signore, che udiva nelle prediche, e specialmente in quelle espressioni che indicavano la grande dignità che avrebbe fra poco conseguita».

A ricordo perenne di quel sacro ritiro si fissò in carta nove propositi, il penultimo dei quali diceva così: «Ogni giorno darò qualche tempo alla meditazione e alla lettura spirituale. Nel corso della giornata farò breve visita, o almeno una preghiera al Santissimo Sacramento. Farò almeno un quarto d'ora di preparazione e altro quarto d'ora di ringraziamento alla santa messa».

Questo secondo programma di vita non apporta nulla di sostanzialmente nuovo dopo l'altro già noto, ma solo v'introduce modificazioni accidentali richieste dalle circostanze. Gli è che Don Bosco non si mosse mai a tentoni, come chi cammini al buio, neanche nei primi albori della ragione. Se fosse lecita una piccola facezia, di quelle che piacevano tanto a Don Bosco, diremmo che in lui non tardò come in tanti altri a spuntare il dente del giudizio. Infatti, dacché l'età gli accese nell'anima il primo barlume di ragione, tosto egli scoprì quale fosse per lui la strada giusta e vi entrò difilato, tirando avanti nei modi e con i mezzi, che di mano in mano il suo buon discernimento naturale, avvalorato dalla divina grazia, gl'indicava migliori. Entrambi perciò i programmi poggiano, per dir così, sopra i quattro capisaldi, sui quali la santità di Don Bosco si verrà erigendo: lavoro e preghiera, mortificazione interna ed esterna, e poi, com'egli amerà pudicamente esprimersi in seguito, la bella virtù.

Nel programma nuovo si delinea meglio la parte dell'azione. Da sacerdote Don Bosco, stando a queste risoluzioni, non farà mai passeggiate, se non per grave necessità, per visite a malati e simili; occuperà rigorosamente bene il tempo: «patire, fare, umiliarsi in tutto e sempre, quando trattasi di salvare anime»; non darà al corpo più di cinque ore di sonno ogni notte; lungo il giorno, specialmente dopo il pranzo, non si concederà alcun riposo, tranne in caso di malattia. Ma l'azione non sarà mai scompagnata dall'orazione; come nel passato, così sempre la meditazione avrà il suo posto nell'attività d'ogni giorno. Sì, nella meditazione quotidiana, incontro d'ogni di con se stesso, il sacerdote assediato dalle occupazioni attingerà lo spirito di raccoglimento e di preghiera, di cui avrà stretto bisogno per mantenere in sé viva la fede, per tenersi abitualmente unito al Sacerdote Sommo Gesù Cristo, del quale è ministro, e per riceverne copiose grazie nell'esercizio del sacro ministero.

Non mai dunque Marta senza Maria nella vita sacerdotale di Don Bosco. Sarà ora Marta orante, ora Maria operante: Marta in orazione finché durerà per lui il periodo dell'attività più intensa, e Maria nell'azione, verso il tramonto dei suoi giorni, quando quell'attività sarà ridotta ai minimi termini; ma nell'un tempo e nell'altro, non fu mai dimenticato da lui il sine intermissione orate.





Cap IV. - NEI PRINCIPI DELLA SUA MISSIONE.



I fisici, per istabilire quale sia la costituzione sostanziale di un astro, usano un mirabile procedimento. Fanno passare attraverso un prisma la luce che irraggia dall'astro; il fascio dei raggi luminosi, attraverso il prisma, si scompone, producendo una traccia allungata e variamente colorata, che va a cadere su d'uno schermo bianco e si chiama spettro. L'analisi delle tinte componenti lo spettro permette allo scienziato di cogliere nel segno; a tanta immensità di lontananza non c'è fino ad oggi altro mezzo per venirne a capo.

In Don Bosco, anima piena di Dio, lo spirito di preghiera non aveva manifestazioni tali che dessero la percezione immediata della sua natura e intensità; per conoscere il carattere e misurarne il grado è dunque necessario sottoporre a diligente esame gli atti della sua vita ordinaria.

Pochi uomini furono così straordinari sotto così ordinarie apparenze. Nelle cose grandi come nelle piccole, sempre la medesima naturalezza, che di primo tratto non rivelava in lui nulla più d'un buon prete.

Nei primordi, solo chi per consuetudine di vita poteva aver agio d'osservarne l'abituale presenza a se stesso in qualsiasi momento o incontro o accidente o intrapresa e aveva insieme occhio acuto per discernere l'efficacia del suo operare ovvero chi possedeva il difficile intuito che distingue prontamente uomo da uomo, come fu del Papa Pio XI, concepiva di Don Bosco tutta quanta l'ammirazione ch'ei si meritava. Qual meraviglia perciò, se alcuni non lo compresero tosto e se altri perfino lo fraintesero o lo intesero a rovescio? Pochi invero questi ultimi, e sempre più rari con l'andar del tempo; ma vi furono in realtà dei cotali.

Per restringerci al nostro assunto, diremo che negli anni della sua massima attività non tutti s'avvidero che uomo d'orazione fosse Don Bosco; anzi, oseremmo aggiungere che non sempre neppur coloro che scrissero delle cose sue, penetrarono a fondo il suo intimo spirito di preghiera, solleciti di narrarne i fatti grandiosi. Per altro, il materiale biografico a noi trasmesso si presta egregiamente alle indagini di chi si accinga a scrutarne la vita interiore. È il tentativo, nel quale modestamente insisteremo con queste pagine.

Spontanea espansione soprannaturale dell'anima di Don Bosco appena fatto sacerdote fu l'oratorio festivo. Non creò di sana pianta la cosa, non coniò di primo getto il vocabolo. C'erano i catechismi domenicali ai giovani delle singole parrocchie; esistevano oratori di san Filippo Neri e di san Carlo Borromeo.

Don Bosco, quando per le condizioni dei tempi tanti giovani non conoscevano più parrocchie, organizzò oratori interparrocchiali, dove raccogliere le pecore randagie; Don Bosco ai catechismi coordinò tutta una serie di pratiche, le quali riempissero l'intero giorno del Signore. Dal suo grande amor di Dio veniva a Don Bosco un sentimento vivissimo dell'evangelico sinite parvulos, più che allora vedeva prepararsi alla gioventù insidie da molte parti e in molti modi; «la mia delizia, die'egli descrivendo i primordi del suo sacerdozio, era fare il catechismo ai fanciulli, trattenermi con loro, parlare con loro». Sembrerebbe perfino che i fanciulli medesimi sentissero istintivamente il fascino di quella dilezione salvatrice; poiché, stabilito che ci fu a Torino, «subito, scrive, mi trovai una schiera di giovanetti che mi seguivano per i viali e per le piazze». Sicché l'adunarne in gran numero gli costò fatica assai minore che non l'avere dove raccoglierli.

Il suo zelo mira a un fine solo: unirli tutti a Dio mediante l'obbedienza ai divini comandamenti e alle leggi della Chiesa. Onde procurava anzitutto di ottenere che osservassero il precetto di ascoltare la messa nei giorni festivi; che imparassero poi e dicessero le orazioni del mattino e della sera; che per ultimo fossero preparati a confessarsi e comunicarsi bene. Frattanto avviava bel bello l'istruzione religiosa per mezzo di catechismi e predicazioni che si confacessero alla capacità loro.

Contemporaneamente inventava tutta una varietà di trastulli, che agissero da calamite per aumentare il numero e assicurare la frequenza; sebbene la calamita più attraente fosse egli stesso con la sua inesauribile bontà. Così il giorno festivo poteva dirsi in tutto il senso della parola dies sanctificatus. ottimamente si attagliava a questi convegni festivi il nome di oratori prescelto fra diversi altri da Don Bosco, perché appieno rispondente al suo ideale.

Il termine, divenuto popolarissimo in Italia, aspetta ancora dai dizionari della lingua la significazione nuova accanto alla vecchia di piccolo edifizio! L'oratorio di Don Bosco è domus spiritualis, su de viventibus saxis, sono centinaia di fanciulli, di giovinetti, di adolescenti, affollantisi dovunque vi sia chi se li chiami attorno nei giorni del Signore ad adorar Dio e ad imparare ad adorarlo per tutta la vita.

E come la pietà di Don Bosco si effondeva nel fare il suo Oratorio! Cominciò l'8 dicembre del 1841 con un giovane solo. Ebbene, avanti d'impartirgli la prima lezioncina di catechismo, si pose in ginocchio e disse un'Ave Maria Madonna, perché lo aiutasse a salvare quell'anima. Commovente e feconda preghiera! L'8 dicembre dell'85, tenendo conferenza ai Cooperatori e paragonando il già fatto con lo stato delle cose di quarantaquattro anni addietro, dichiarerà essere tutto opera di Maria Ausiliatrice in grazia proprio di quell'Ave Maria «detta con fervore e con retta intenzione». E realmente i primi effetti non si fecero aspettare a lungo.

La domenica dopo, quell'uno tornò, e non più solo, ma con un gruppetto di compagni, poveri ragazzi di strada come lui, da Don Bosco accolti e intrattenuti con la sua amabilità piena d'incanto. Da una settimana all'altra il numero di catechizzandi cresceva, e col numero la docilità e l'allegria non venivano meno.

Nella solennità del Natale parecchi già fecero la santa comunione; poi, in due feste di Maria Santissima, la Purificazione e l'Annunziata, bei cori di voci giovanili, da lui abilmente addestrate, eseguirono canti in lode dell'Augusta Madre di Dio, e bei drappelli dei più istruiti si accostarono ai santi sacramenti. Don Bosco toccava proprio il cielo col dito.

Queste prime rumorose adunanze si tenevano in luogo di silenzio, se non claustrale, almeno solo rotto a tempo debito e con moderazione, nel Convitto Ecclesiastico di Torino, ove si dava l'ultima mano alla formazione ecclesiastica di novelli sacerdoti piemontesi, mediante lo studio approfondito della teologia orale e pastorale e l'esercizio del sacro ministero, sotto la scorta di espertissime guide, fra cui primeggiò il beato Giuseppe Cafasso.

Lo zelante apostolo della gioventù non poteva trovar di meglio per allenarsi alla sua missione. I tre anni ivi trascorsi contribuirono potentemente a formare lo spirito in maniera definitiva. La grazia, che la Provvidenza gli fece col metterlo vicino a quel santo plasmatore di anime sacerdotali, non restò infruttifera.

Alla scuola del Beato egli succhiò avidamente quella pietà, che per soprannaturale intuito egli aveva già pregustata a dispetto dell'andazzo dei tempi, pietà fatta di «confidenza illimitata nella bontà e amorevolezza di Dio verso noi»; dalle sue conferenze teologiche e dalla sua direzione spirituale apprese la maniera di ascoltare le confessioni «con pietà, scienza e prudenza»; nelle sue lezioni di eloquenza sacra si sentì ribadire, che in pulpito non si va a dar prova di bravura, ma che «paradiso vuol essere, osservanza dei divini comandamenti, preghiera, divozione alla Madonna, frequenza dei santi sacramenti, fuga dell'ozio, dei cattivi compagni, delle occasioni pericolose, carità col prossimo, pazienza nelle afflizioni, e non terminare alcuna predica senza un cenno sulle massime eterne».

Condivise al suo fianco l'assistenza religiosa dei carcerati e partecipò con lui a corsi d'esercizi spirituali, infervorandosi alla vista della sua pietà ardente fra le opere di zelo. Anche nelle quotidiane conversazioni ne beveva i saggi ammaestramenti sulla «maniera di vivere in società, di trattare col mondo senza farsi schiavo del mondo, e diventar veri sacerdoti fomiti delle necessarie virtù, ministri capaci di dare a Cesare quello che è di Cesare, a Dio quello che è di Dio».

Ma a Dio non si sottrae solo per dare indebitamente a Cesare. L'essere sempre in moto per far bene può, a lungo andare, purtroppo illudere, lasciando supporre che il prodigarsi a vantaggio del prossimo dispensi dall'obbligo di trattare assiduamente e interiormente con Dio.

È di questo tempo un codicillo, chiamiamolo così, aggiunto da Don Bosco al suo noto programma di vita sacerdotale e dettatogli molto probabilmente da quella maestra di assennatezza che è, per chi la sa intendere, l'esperienza. Lo riferiamo tale quale si legge in un suo libretto; eccolo: «Breviario e confessione. ò di recitare divotamente il Breviario e recitarlo preferibilmente in chiesa, affinché serva come di visita al Santissimo Sacramento. Mi accosterò al sacramento della penitenza ogni otto giorni e procurerò di praticare i proponimenti che ciascuna volta farò in confessione. Quando sarò richiesto di ascoltare le confessioni dei fedeli, se vi è premura, interromperò il santo ufficio e farò anche più breve la preparazione ed il ringraziamento della messa, a fine di prestarmi ad esercitare questo sacro ministero».

Lo spirito di orazione, quando sia passato in consuetudine, dà alla persona un'impronta di serena compostezza e un vigile senso della giusta misura, che saltano facilmente agli occhi di osservatori non troppo superficiali. Era il caso di Don Bosco.

Al Convitto si recavano periodicamente dal beato Cafasso per la loro direzione spirituale uomini d'affari, pezzi grossi della politica e della nobiltà torinese, personaggi del gran mondo insomma. Orbene da parte di quella gente navigata Don Bosco richiamò sopra di sé l'attenzione a tal segno, che lo riguardavano fin d'allora come «un uomo tutto del Signore» e l'avevano «in grande venerazione», secondo che lo storico di lui potè raccogliere direttamente dalle labbra d'alcuni di quei signori.




Cap V. - NELLA SECONDA TAPPA DELLA MISSIONE.

«Era meraviglia il modo, col quale si lasciava comandare una moltitudine poco prima a me sconosciuta, della quale in gran parte poteva dirsi con verità che era sicut equus et mulus, quibus non est intelectus...»


In seminario Don Bosco aveva fatto una conoscenza, che gli doveva riuscire preziosa: un teologo Borel di Torino, venuto ivi a dettare gli esercizi spirituali. «Egli apparve in sacrestia, scrive Don Bosco, con aria ilare, con parole celianti, ma sempre condite con pensieri morali». Dicono che la prima impressione sia la vera; può darsi che non sia sempre così, tanto di soggettivo suol entrare in un'impressione; ma quella fu ottima e verissima. Infatti si ebbe la riprova. Il prete si rivela prete in iis, quae sunt ad Deum; li discerne, se il prete è uomo di pietà o povero abitudinario.

Il chierico Bosco, avendone osservato «la preparazione e il ringraziamento della messa, il contegno, il fervore nella celebrazione», si accorse «subito» che era «degno ministro di Dio». Notevole quel «subito», che ci fa pensare all’intelligenti pauca. cose di pietà, il chierico Bosco era buon intenditore e capiva a volo. Quando poi lo udì predicare, lo giudicò senza più «un santo»; volle quindi «conferire con lui sulle cose dell'anima». Volle, dunque vi s'indusse di sua spontanea volontà: e che cosa volle?

Volle non solo confessarsi, com'è uso, ma conferire, che è avere colloqui intimi e importanti; e questi versarono su cose dell'anima, vale a dire intorno ai bisogni della vita spirituale.

Il ricordo di quegli esercizi rimase profondamente scolpito nell'animo di Don Bosco; onde nei tre anni del Convitto si stimava felice ogni volta che avesse occasione di scambiare qualche parola con l'esemplare sacerdote, il quale dal canto suo, conoscendolo bene, lo invitava volentieri a servire nelle sacre funzioni, a confessare, a predicare insieme con lui: inviti non infrequenti, data la proverbiale attività del suo zelo, gli metteva l'argento vivo addosso, tanto da farlo chiamare presso i colleghi «il bersagliere di santa Chiesa». Erano proprio due spiriti nati fatti per intendersi.

Don Bosco dunque aveva già familiarità e con la persona del teologo e con il luogo della sua dimora, quando si ventilò la proposta ch'egli passasse a prendere stanza presso di lui. Questo fu allo spirare del triennale soggiorno nel Convitto ecclesiastico. L'idea o meglio l'ispirazione venne a quell'altra anima santa del Cafasso, risoluto d'impedire che Don Bosco andasse via da Torino.

Il teologo abitava al così detto Rifugio, sotto il qual nome i Torinesi designavano sommariamente tutto un complesso di benefici istituti fondati dalla regale generosità d'una munifica dama, la Marchesa di Barolo; colà egli faceva da rettore e da direttore spirituale.

Con pia docilità di figlio verso il padre dell'anima sua, Don Bosco, ravvisando nel consiglio di Don Cafasso la pura e semplice manifestazione del divino volere, gettate dietro le spalle altre considerazioni che gli si affacciavano alla mente, trasferì al Rifugio il quartier generale dell'Oratorio che s'incamminava a diventare un'istituzione.

Quartiere generale sembrerà parola un po' grossa, se la si applica all'angusto quartierino assegnatogli per sua abitazione; non così se si pensi che ivi resiedette per tre anni il comando supremo di un bell'esercito giovanile. A compimento dell'immaginazione marziale diremo ancora che il suo stato maggiore era costituito dalla carità, cui facevano corona le virtù poste al suo seguito da san Paolo nel celebre capo tredicesimo della prima lettera ai Cristiani di Corinto.

Continue soprattutto gli spuntavano fra i piedi le occasioni di rammentare a se stesso, che caritas patiens est. suoi da trecento a quattrocento monelli urtarono i nervi alla Matrona del Rifugio, che un bel giorno, stanca di sopportare, lo costrinse a metterli alla porta, e da ultimo si rassegnò con rammarico a privarsi definitivamente dell'utilissima opera sua, vedendolo sempre fermo in non voler abbandonare l'impresa; urtarono l'amore del quieto vivere o le pretensioni esorbitanti di cittadini domiciliati nei pressi delle località, dove successivamente egli diede convegno alla sua turba domenicale; urtarono le ombrose suscettibilità di autorità civili e politiche, le quali, tenendo bordone a privati, lo sfrattavano ora da un luogo ora dall'altro o lo invigilavano quasi fosse persona pericolosa all'ordine sociale; urtarono secolari consuetudini parrocchiali, destando preoccupazioni sulle conseguenze che sarebbero potute nascere da tali non mai viste novità; urtarono infine il maltalento di gente che aveva interessi più o meno confessabili a gettargli bastoni fra le ruote, massime allorché, respinto da ogni parte, si ridusse a tenere le sue adunanze in un gran prato, che era a un bel tiro fuor dell'abitato.

Impensierito ma non abbattuto, afflitto ma irremovibile, opponeva a sempre rinascenti ostilità quell'eroica fortezza d'animo che è dono dello Spirito Santo. Una fortezza di si eccelsa origine fa che l'uomo sia pronto a tutto, intrepido contro tutti e scevro di ogni ostentazione, come si vedeva per l'appunto in Don Bosco. Oh, non era certo una delizia, umanamente parlando, trascorrere le domeniche intere fra tanti ragazzi rozzi, chiassosi, rissosi, talora sconoscenti e villani; non era una delizia nemmeno istruire, com'egli faceva, giovinastri ottusi o caparbi o svogliati. Oggi anche ragazzi d'infima condizione nei di festivi ti compaiono davanti lindi e puliti, che paiono signorini; ma allora quanta ragazzaglia analfabeta e scapigliata scorazzava per vie e piazze nei sobborghi della capitale piemontese! Si sarebbe dovuto ammirare e favorire Don Bosco, o almeno lasciarlo in pace fra i suoi birichini, di cui amava proclamarsi il capo; ma le opere di Dio sorgono e crescono bersagliate da nemici e da amici. Egli soffriva calmo, levando gli occhi al cielo, donde aspettava aiuto e conforto; già allora, quanto s'incontrasse di più arduo e ripugnante alla natura, sembrava in lui facile e soave.

La fortezza dei Santi è d'altra tempra che quella stoica, dura e inflessibile: i Santi, fidenti nel condorso soprannaturale della grazia, pregano, pazientano e vincono. La fortezza filosofica si esaurisce nell'egoistica soddisfazione dell'amor proprio, da cui piglia ispirazione e norma; la cristiana aguzza l'ingegno a escogitare sempre nuove vie, umili talora e umilianti, pur di raggiungere la meta vagheggiata, senz'altra ambizione che di promuovere gl'interessi della gloria divina e procurare il bene del prossimo.

Oratoriani della prima ora, che non si staccarono più da Don Bosco, ma vissero sempre o con lui o non lungi da lui, accanto al ricordo di quegli anni eroici serbarono viva in cuore la sua immagine veramente paterna, cioè cara e buona, cara perché buona, ma buona di quella bontà che il giovane del Vangelo lesse in volto a Gesù, quando gli chiese: Maestro buono, che cosa farò io per acquistare la vita eterna? un uomo così complesso e completo come Don Bosco la bontà non aveva nulla di certa sensibilità che degenera facilmente in debolezza; la bontà di Don Bosco, illuminata da intelligenza e da fede e infiammata nell'abituale contatto con Dio, si traduceva in soprannaturale benevolenza, uguale con tutti, e per tutti elevante.

Ecco perché in mezzo alle fortunose vicende, di cui quei primi allora intravidero appena e solo più tardi compresero la ripercussione dolorosa sull'animo suo, lo scorgevano costantemente tranquillo e sereno farsi tutto a tutti nell'espansione di un affetto operativo e spiritualissimo. Così egli rubava i cuori dei giovani, che, dovunque si recasse a confessare, non volevano più sapere d'alcun altro, facendogli ressa intorno ilari e confidenti. Ecco perché, contesogli un palmo di suolo entro le mura e spinto a trasferire l'Oratorio in aperta campagna, vedeva i giovinetti, anche durante gl'inverni torinesi, seguirlo con tanta fedeltà, che, portando seco il mangiare, stavano con lui fino al tramonto. Quei primi, fatti adulti, rivedendolo nel pensiero quale l'avevano visto allora nella realtà, esclamavano: - Era in mezzo a noi un angelo!  


Questo giudizio ci richiama al protomartire santo Stefano, del quale, tempestato di accuse, narrano gli Atti nel tribunale gli astanti vedevano il suo volto come volto d'angelo, era la calma dignitosa che vi traspariva, essendo il suo spirito pieno di grazia e di fortezza.

La prodigiosa condotta di Don Bosco in mezzo a tante traversie non aveva altra origine. Lo sanno i Santuari suburbani della Vergine, dov'egli guidava in pellegrinaggio le nomadi schiere a impetrare con la preghiera e i sacramenti le benedizioni celesti; lo sa il Santuario della Consolata, la cui taumaturga immagine ascoltò le tante volte lui e i suoi figli, irradiandolo di superni incoraggiamenti; lo sapevano il teologo Borel e altri degni ecclesiastici, testimoni del religioso fervore trasfuso dallo zelante apostolo nelle mobili anime giovanili; lo seppero anche certi giovinetti più inclini a pietà e perciò da lui tratti in disparte e uniti più strettamente a sé nella preghiera e guidati per la via di una maggiore perfezione.  


Sono fatti che bisogna rievocare, se si vogliono intendere a pieno queste parole delle sue "Memorie": «Era meraviglia il modo, col quale si lasciava comandare una moltitudine poco prima a me sconosciuta, della quale in gran parte poteva dirsi con verità che era sicut equus et mulus, quibus non est intelectus.

Devesi aggiungere che in mezzo a quella grande ignoranza ammirai sempre un gran rispetto per le cose di Chiesa, pei sacri ministri, ed un gran trasporto per imparare i dogmi e i precetti della religione». Per cavallini matti e per muletti bizzarri non c'era male davvero! Ma il domatore o dominatore loro possedeva per tutti in copia quel dono dell'intelletto, che prima ad essi mancava e che poi in essi veniva penetrando. Ora ci spieghiamo più facilmente come il beato Cafasso ribattendo le recriminazioni che si portavano dinanzi a lui contro Don Bosco, finisse invariabilmente col ritornello: - Lasciatelo fare! Lasciatelo fare!

Ma la domenica era un giorno solo della settimana; e gli altri sei? Non si creda che il vero Oratorio festivo importi occupazioni soltanto domenicali; l'Oratorio, quale Don Bosco l'ha concepito, è sede di un'autorità paterna, che, cattivandosi l'animo dei fanciulli, dappertutto li segue e direttamente interviene presso parenti, padroni, maestri, dovunque sia possibile esercitare un salutevole influsso sulla loro condotta. Poi per Don Bosco c'erano istituti religiosi, collegi, scuole pubbliche e private, carceri, ospedali, scuole serali, prediche, studi, pubblicazioni, oltre il Rifugio: un campo di lavoro quotidiano che non aveva confini.

Tanta attività lo metteva naturalmente in rapporto con ogni ceto di persone, molte delle quali, bisognose dell'opera sua o della sua parola, gli davano quasi la caccia, dov'egli si recava a celebrare il divin sacrificio. Prova ne sia anche un proponimento scritto da lui appunto nel 45; lo riferiamo qui, non per usurparne il compito ai biografi, ma perché giova al nostro scopo. Dice: «Siccome giunto in sacrestia per lo più mi si fanno tosto richieste di parlare per aver consiglio o di ascoltare in confessione, così prima d'uscire di camera procurerò che sia fatta una breve preparazione alla santa messa».

Notizia preziosa e significativa, la quale, mentre con quel «breve» esclude qualsiasi scrupolo di coscienza, col resto ci rivela come Don Bosco, anziché rifugiarsi dietro il comodo paravento del lasciar il Signore per il Signore, piamente anticipare la debita preparazione.

Appartengono pure a questo tempo certi cartoncini, usati da lui per quarant'anni come segnacoli del breviario, autografi parlanti dei pensieri che voleva a sé familiari. Undici sentenze bibliche gli richiamavano alla mente la Provvidenza divina, la fiducia in Dio, la fuga delle occasioni, il distacco dai beni della terra, l'allegrezza della buona coscienza, la liberalità del Signore coi generosi, il riflettere prima di parlare, il divin tribunale, l'amore dei poveri, l'onore dovuto ai superiori, l'oblio delle offese.

Cinque massime patristiche gli ricordavano il frequente esame della coscienza, l'adesione umile e intera agl'insegnamenti della Chiesa, la gelosa custodia dei segreti, l'efficacia del buon esempio, lo zelo per le anime altrui e per la propria. Tre citazioni dantesche, tratte dalla fine delle singole cantiche, lo sollevavano alle «stelle», ossia alla considerazione del paradiso. Venivano ultimi quattro versi di Silvio Pellico, meritevoli di essere riferiti, non perché siano peregrini, ma perché ci sembra che stessero li ad ammonire, quale politica dovesse avere per sua l'uomo di Dio in un periodo di si roventi passioni pubbliche: la politica cioè dell'Italia una nella fede, speranza e carità:

Ad ogni alta virtù l'Italo creda, Ogni grazia da Dio lo Stato speri, E credendo e sperando ami e proceda Alla conquista degli eterni veri.

Il Pellico e Don Bosco si conoscevano molto bene. Per Don Bosco il poeta aveva composta la notissima lode che comincia: Angioletto del mio Dio, nutriva per lui sincera stima. Essendo segretario della Marchesa di Barolo, gli toccò certamente di minutare la lettera, con cui la nobile signora comunicava al rettore del Rifugio le sue decisioni sul conto di Don Bosco, ripetendo in termini diplomatici il brusco aut aut à intimato a lui stesso senza mezzi termini oralmente: o lasciare l'Oratorio o lasciare il Rifugio.

La lunga lettera, recante la firma dell'aristocratica gentildonna, ma redatta nell'amabile stile del segretario, ci è carissima per via di questo periodetto, che ne costituisce il punto più luminoso: « [Don Bosco] piacque anche a me dal primo momento e gli trovai quell'aria di raccoglimento e di semplicità propria delle anime sante». Lo scrittore vestì di forma eletta l'altrui giudizio, che rispondeva sicuramente anche al suo.