LA DIMENSIONE AGIOGRAFICA SALESIANA


LA DIMENSIONE AGIOGRAFICA SALESIANA

LA DIMENSIONE AGIOGRAFICA SALESIANA

1 NEL CAMMINO FORMATIVO DEGLI EX-ALLIEVI

▲back to top

Figure e Messaggi


( West Haverstraw 31 agosto - 4 settembre 1999)


D. Pasquale Liberatore





2 INDICE

▲back to top


1. * Un approccio di ordine teologico e pedagogico...

* ... ad un panorama preziosamente articolato



2. * Un martire della carità: Salvo D’ACQUISTO

* Cinque martiri della fede: i giovani ex-allievi polacchi



3. * Un arco teso: Alberto MARVELLI


* Tre allievi, a tre livelli diversi



4. * Un leader: Piergiorgio FRASSATI


* Volti senza aureola



5. * Un exallievo dall “appartenenza più stretta”: Attilio GIORDANI


* Riflessioni conclusive












Martedì 31 agosto




Parte I: Un approccio di ordine teologico e pedagogico...


1.A mo’ di premessa, per dare diritto di cittadinanza al tema:

si tratta di una tematica mai giustapposta.

È lo scopo cui tende tutta l’azione educativa.

Ben venga perciò in qualsiasi occasione.


2.Il rapporto riflessione - esperienza:

il riferimento alla vita vissuta, può risultare più incisivo

della luce di un principio.

L’affermazione, valida in modo particolare per l’età giovanile,

resta valida per tutte le età.

Se il nostro bagaglio culturale ci permetterà di incarnare i nostri messaggi

in modelli concreti, li avremo resi più convincenti.

3.Il rapporto teologia - agiografia

È lo stesso rapporto che corre tra grammatica e classici.

Questi in un certo senso precedono quella.

Poche cose possono fecondare e ringiovanire la Teologia (e per mezzo suo

tutta la vita cristiana) come una trasfusione di sangue proveniente

dall’agiografia” (von Balthasar)

Riecheggia convinzioni antiche:

Credo più alla Chiesa che al Vangelo, perché è la Chiesa

che mi consegna e mi interpreta il Vangelo” (S. Agostino)

La vita dei Santi ci fa conoscere cosa dobbiamo capire

nei libri della S. Scrittura” (S. Gregorio Magno)


4.Il rapporto spiritualità salesiana - agiografia salesiana

I nostri santi sono il miglior timbro di autenticità oltre che

fonte privilegiata di pensiero.

Quando D. Bosco ha voluto parlare di spiritualità giovanile non ha scritto dei trattati, ma ha scritto la vita di Domenico Savio, Magone Michele, Besucco Francesco...

È ciò che avviene analogamente per la vocazione. Prima la conoscenza di una

persona, poi la percezione della vocazione: “ ‘Io voglio restare con D. Bosco’

esprime la scelta di un modo di crescere nella vita dello spirito: l’esperienza di

vita cristiana precede la rifllessione sistematica” ( CG23,159 ).


  1. Rifarsi ai nostri santi

è rifarsi alle figure che più hanno inciso nell’età degli ideali dei nostri exallievi

Per un educatore è una motivazione in più

per avvalersidell’area agiografica.







Parte II: ... ad un panorama preziosamente articolato


1.Disponiamo di un patrimonio molto vasto:


1.1 L’insieme: 39 Cause con 137 candidati.

1.2 L’area degli ex-allievi.

Possiamo distinguere quattro categorie:

1. Figure che intendo privilegiare in queste nostre riflessioni:

D’Acquisto, Frassati, Marvelli, Giordani

2. Figure più lontane e più note:

Savio, Namuncurà, Vicuna

3. La nuova categoria dei martiri:

Marquez e i cinque giovani Beati polacchi

4. Figure senza aureola:

Petix, Casella, Maffei, Sean Devereux, Luisi Pedro Leuguas...

1.3 Il significato di tale ricchezza:

più esempi si fanno per spiegare una regola, più la si fa capire


2.Le varie angolazioni dell’area agiografica


2.1 L’ottica geografica:

Italia, Spagna, Portogallo, Francia, Polonia, Rep. Ceca, Nicaragua,

Colombia, Ecuador, Perù, Brasile, Cile, Argentina, Palestina, Siria,

India, Giappone, Cina.

2.2 L’ottica storica:

dalle nostre origini, così agiograficamente ricche (1857)

ai nostri giorni, così vicini a noi (1972)

2.3 L’ottica della specificità del messaggio:

* Exallievi giovani ed adulti

laici e religiosi

confessori e martiri

vergini e sposati

Fondatori, Santi, Beati, Venerabili, SdD

* Distribuiti lungo i singoli filoni della nostra spiritualità:

il quotidiano: feriale e inflazionato di taumaturgico (Palomino)

gioia e ottimismo: D. Cimatti “sorridevano anche i muri”

carità pastorale: Romero (36 Oratori)

lavoro e temperanza: Rua...

* Testimoni convincenti in alcune aree oggi particolarmente sentite:

l’inculturazione (Convertini)

la professionalità (Quadrio)

la creatività (Giordani)


3.È pedagogicamente indovinato valorizzare un tale patrimonio

I Santi non sono semplici “fiori all’occhiello” ma stimolatori autorevoli

del nostro cammino.

Ritormiamo così al punto da cui siamo partiti.




Mercoledì 1 Settembre



Parte I: Un martire della carità: SALVO D’ACQUISTO



1. La trama biografica


- Nasce a Napoli il 17-X-1920

- Agosto 1939, a 18 anni: Carabiniere. Lo sarà fino alla morte, in quel periodo bellico e

postbellico così arduo e difficile per chi doveva garantire l’ordine.

Una scelta in linea con una tradizione familiare.

- Parte volontario nella guerra d’Africa (1940-1942): Cirenaica, Tripolitania, Cirenaica

- Settembre 1942 a Firenze: corso di allievo ufficiale

- 15 dicembre 1942 promosso vicebrigadiere e trasferito a Torrimpietra, sua prima

e ultima tappa.


2. Ex-allievo perché?


- 1924-1926: Scuola materna presso le FMA al Vomero

- 1929-30 frequenta la IV elementare dai salesiani del Vomero

- 1933-34 frequenta la prima ginnasiale ancora dai salesiani


3. Una vita racchiusa in un episodio


Vale la pena narrarlo nei suoi particolari.


1. "La sera del 22 settembre 1943 alcuni soldati tedeschi avvinazzati, appartenenti ad un nucleo delle loro forze di occupazione, precedentemente installatosi nella caserma di Finanza, sita nella Torre di Palidoro, vicino a Torrimpietra, nel rovistare una cassa ingombra di stracci e di cartaccia venivano investiti dallo scoppio di una bomba che provocava l'uccisione di uno di essi ed il ferimento grave di altri due. Tutto lasciava supporre che l'ordigno esplosivo si trovasse lì per dimenticanza e che lo scoppio fosse stato provocato inavvertitamente dagli stessi mili­tari, non sembrando verosimile che in una piccola borgata come Palidoro, presidiata già da oltre duecento militi delle S.S., qualcuno avesse potuto organizzare in precedenza l'attentato. Ma i tedeschi non si rassegnarono all'ineluttabile.

L'accaduto è ritenuto preordinato ai loro danni. La reazione è immediata.

Il mattino successivo - 23 settembre - due militari tedeschi si portarono in motocarrozzet­ta a Torrimpietra nelIa caserma dei carabinieri.

A questo punto bisogna ricordare la partieolare situazione in cui si trovarono i carabinieri, dopo il drammatico armistizio dell'8 settembre 1943, quando i reparti tedeschi ritenevano appunto i carabinieri responsabili non solo dell'ordine pubbli­co ma anche obbligati a "vigilare sulla sicurezza delle loro truppe nelle retrovie". Nei giorni dal nove all' undici settembre i carabinieri si erano opposti con le armi alla reazione dei tedeschi, restando sul suolo nazionale “nella veste di istituto di polizia", riconosciuto per opportunità da tedeschi, come salvaguardia della propria incolumi­tà, fino a che essi non ne sopprimevano la funzione, deportandone i componenti.

Una situazione, perciò, assai tesa, che induce subito i tedeschi a rivolgersi, per prima cosa, alla stazione dei carabinieri di Torrimpietra, che aveva giurisdizione nella zona di Palidoro, dove era accaduto il fatale incidente.

Portatisi dunque nella caserma di Torrimpietra chiedono del maresciallo comandante, che è  assente. Si presenta il vicebrigadiere D'Acquisto, unico sottufficiale in sott'ordine alla stazione e quindi con funzioni di vicecomandante in assenza del maresciallo. I due tedeschi lo invitano a seguirli. Discendono dalla caserma. Sulla piazza lo fanno montare con loro sulla motocarrozzetta e partono alla volta di Palidoro.

Dopo qualche ora giunge a Torrimpietra un autocarro con numerosi militari tedeschi. Costoro ricercano per primo, ma, inutilmente, perchè già allontanati, gli altri carabinieri della stazione e quindi rastrellano a casaccio tra la popolazione terrorizzata 21 persone che fanno salire sull' automezzo e si allontanano. Sono quasi le undici quando il camion con il suo carico giunge pure sulla piazzetta di Palidoro dove sostava, guardato a vista da altri soldati tedeschi, il vicebrigadiere D'Acqui­sto.

Viene imposto al sottufficiale d'identificare tra gli elementi da loro rastrellati il colpevole del presunto attentato alle forze germaniche della sera precedente nella Torre di Palidoro. Impresa quanto mai ardua che impegna a fondo la coscienza di un uomo d' onore. Facile sarebbe stato al giovane vicebrigadiere puntare il dito su uno qualsiasi di quei disgraziati, i cui occhi sgomenti si fissavano pieni d'angoscia su di lui.

Sereno, dignitoso di fronte alle ingiurie ed alle minacce del nemico, egli si sforza di dimostrare che nessuno dei fermati è colpevole. Ma i carnefici non hanno tempo da perdere: viene ancora duramente percosso ed insultato; gli è strappata di dosso la giubba, non potendo subito strappargli i galloni; gli fanno sbalzare dalla testa il berretto.

- Se il colpevole non si trova - sentenziano - moriranno tutti!

Fanno risalire sull'autocarro i ventuno ostaggi, oltre il D'Acquisto ed un altro civile rastrellato in loco ossia il giovane Amodio Angelo, allora diciassetten­ne, che fu poi l'unico testimone oculare della tragica fine del sottufficiale, e s'allontanarono in direzione della Torre di Palidoro.

Giunti a pie' della Torre, i ventitrè ostaggi, vengono fatti discendere e sottoposti ancora, per pura formalità, ad un secondo sommario interroga­torio per ricercare chi sia stato l'autore dell'attenta­to. Alle proteste della loro innocenza ed all'afferma­zione di non saper nulla neanche dell'accaduto mortale della sera precedente, viene senz'altro ordinato, con barbaro cinismo, ai ventitrè fermati, di scavarsi la fossa. La soldataglia ha in precedenza preparato loro vanghe e badili.

Sono immaginabili le costernazioni, i pianti, i contorcimenti dei malcapitati.

Il cuore generoso del D'Acquisto, a detta poi degli stessi suoi compagni di sventura, si stringe d'angoscia a quello spettacolo. Preso dalla pietà, egli tenta di rincuorarli, ma la commozione è troppo forte, sente la vanità delle sue parole che si perdono nel silenzio di quel pomeriggio livido, in cui anche i raggi del sole si svuotano della loro bellezza e sono come un segno premonitore della loro morte imminente. Le vanghe si affondano lente nella terra. Molti non hanno il coraggio di sostenere quella sovrumana fatica. Ogni zolla rovesciata è un gradino che i condannati scendono verso la loro fossa. Il tempo acquista per loro un senso nuovo. La loro vita è fatta ormai di minuti, di attimi e ogni attimo che passa è un respiro di più che ritarda la morte e alimenta l'ultima, tenue, quasi impossibile speranza.

Ancora un attimo, ancora un ultimo sguardo a quei miseri esseri terrorizzati che continuano a scavare con la gola serrata dall'angoscia, e la sua decisione è presa: a mezzo dell'interprete egli fa dire all'ufficiale comandante del reparto tedesco che il colpevole è lui, e chiede libertà per i suoi fratelli innocenti. Il piccolo studente dei Salesiani ed il soldato si sono dati la mano, hanno fuso le loro anime in una sola, e ne è venuto fuori il Martire, il Santo, l'Eroe.

Ai ventuno ostaggi fu aggiunto il diciassettenne Angelo Amodio, ritenuto in un primo momento un carabiniere anche lui: riuscì a dimostrare invece, per una tessera che si trovava ad avere in quel momento, che era un operaio delle ferrovie. Mentre gli altri liberati erano stati allontanati, egli fu costretto a restare sul posto. Fu, così, testimone dell'esecuzione di Salvo D'Acquisto: e ne lascia questa testimonianza:

Uno dei soldati, dopo aver mosso alcuni passi con la sensazione netta di ricevere da un momento all' altro una scarica di mitraglia nella schiena, quasi furente di vedermi fuggire alla morte mi rincorse e, raggiuntomi, mi vibrò ancora un tremendo pugno alla guancia. Pochi minuti dopo sentii una voce secca, quasi metallica: "Viva l'Italia” e contemporaneamente una scarica.

Mi voltai istintivamente temendo che fosse stata sparata contro di me. Feci appena in tempo a vedere l'eroe impallidire e cadere riverso nella fossa che noi avevamo scavata, mentre la sua camicia bianca si tingeva di chiazze rosse di sangue, come le bande rosse dei suoi pantaloni. Un maresciallo tedesco sparò ancora sul povero corpo, poi, tutti insieme, i soldati spinsero col piede un po' di terriccio sul cadavere e s'allontanarono”. [...]

La gente del posto intanto non si dà pace finchè non riesce a dare degna sepoltura, in luogo consacrato, al giovane vicebrigadiere, che si è immolato per loro. Wanda Baglioni, Angelo Amodio, Caterina Nasoni, Clara Pesamosca, Dome­nico Castiglione e Angelo Magaglia, insieme con il parroco del paese don Luigi Brancaccio, diciannove giorni dopo la fucilazione, sfidando la vigilanza nemica, riescono a recarsi di notte sul luogo dove è caduta l'eroica vittima. La salma viene esumata dal Magaglia e dal Castiglione: avvolta in un lenzuolo dalle pie donne, viene composta in una bara costruita dal padre di Wanda Baglioni. Insieme, poi, si recano al piccolo cimitero di Palidoro, dove la salma viene cristianamente tumulata e benedetta dal sacerdote.

La tomba divenne presto oggetto di cura, sempre ricoperta di fiori, per tutto il periodo dell'occupazione tedesca e fino all'8 giugno del 1947, quando la salma fu trasferita a Napoli.

Il comandante tedesco quando seppe dell’offerta di scambio da parte di Salvo, “ebbe uno scatto e passeggiò nervosamente per qualche attimo su e giù con passo agitato e nervoso” probabilmente anche lui turbato e, come sappiamo da testimonianze, ammirato del gesto” (da F. Caruso, L’eroe di Palidoro)


4. Una rilettura pedagogica


4.1 “Ogni volta che ci si accinge a scrivere su D’Acquisto, si teme sempre di fare della retorica, che possa depauperare e non esaltare quel gesto di umana grandezza, ma nessuna aggettivazione è mai abbastanza degna a dare al sacrificio del ventenne eroe la giusta dimensione”

* Non lasciamoci prendere da un ingiustificato pudore davanti all’eroismo.


4.2 Chi avrebbe mai detto che in quel ragazzo si nascondeva un futuro eroe?

La storia a volte dà queste frustrate a noi educatori.

* Intuire le potenzialità nascoste.

Dio guarda non tanto quello che siamo, quanto quello che possiamo essere.


4.3 Non ci sarebbe stato eroismo se non ci fosse stato un retroterra di grande responsabilità.

Una formazione, la sua, all’insegna dello spirito di sacrificio e del senso del dovere

*Il martirio non è mai casuale.

Non tutti chiamati al martirio, ma tutti chiamati ad esservi disposti.


4.4 Brevi identikit:

Un giovane mite, ben educato e sensibile, franco e leale, portato all’interiorità e allo

studio”

La bontà era sua particolare virtù e quando poteva compiere una buona azione,

sapeva anche essere discreto”.

E sempre per il suo carattere buono, improntato a giustizia, riscotueva molta stima

e affetto”.

* Sono i fili del tessuto educativo.


4.5 Significativa la sua visione politica così come risulta dai suoi elaborati.


4.6 L’attualità della sua figura, oggi davanti ai non pochi martiri del proprio dovere.




5. È diventato un caso emblematico


Se sarà beatificato come martire, si aprirà un nuovo capitolo nella storia

della Congregazione delle Cause dei Santi


Parte II: Cinque martiri della fede: i giovani exallievi polacchi


1. Chi sono?


Sono: Edoardo Klinik (23 anni); Francesco Kesi (22 anni); Jarogniew Wojciechowski (20 anni), Czeslaw Jozwiak (22 anni), Edoardo Kazmierski (23 anni).

Presentano dei tratti comuni: i cinque erano oratoriani, tutti e cinque consapevolmente impegnati nella propria crescita umana e cristiana, tutti e cinque coinvolti nell’animazione dei compagni, legati tra di loro da interessi e progetti personali e sociali, presi di mira quasi insieme e imprigionati in sedi diverse ma in un brevissimo periodo di tempo. Ebbero un percorso carcerario insieme e subirono il martirio lo stesso giorno e allo stesso modo. L’amicizia oratoriana rimase viva fino all’ultimo momento”.


Edoardo Klinik era secondogenito di tre figli. Suo padre era un meccanico. Finì il ginnasio alla nostra casa di Oswiecim e successivamente a Poznan superò l’esame di maturità. Durante l’occupazione si diede a lavorare in una ditta di costruzione. Sua sorella, Sr. Maria, professa delle suore Orsoline di Gesù Agonizzante, attesta: “Quando Edward andò all’oratorio la sua vita religiosa si approfondì molto. Iniziò a partecipare alla messa da chierichetto. In questa vita oratoriana coinvolse anche suo fratello minore. Era abbastanza sereno, timido; diventò più vivace dal momento dell’entrata all’oratorio. Era uno studente sistematico, responsabile”.

Nel gruppo dei cinque si distingueva perché era molto impegnato su ogni campo di attività e dava l’impressione di essere il più serio e profondo. Sotto la guida dei maestri salesiani, la sua vita spirituale diventava sempre più soda con al centro il culto eucaristico, una vivissima devozione mariana e l’entusiasmo per gli ideali di San Giovanni Bosco.

Francesco Kesi invece era nato a Berlino dove i suoi genitori si trovavano per motivi di lavoro. Suo padre era carpentiere, ma trasferitosi a Poznan lavorava in una centrale elettrica della città.

Francesco aveva l’intenzione di entrare tra i candidati al noviziato salesiano. Durante l’occupazione, non potendo continuare gli studi, si impiegò in uno stabilimento industriale. Il tempo libero lo passava all’oratorio dove in strettissima amicizia di ideali con gli altri quattro animava le associazioni e attività giovanili. Era il terzo di cinque figli di una famiglia povera.

Di lui si ricorda che era sensibile e fragile e spesso si ammalava; ma allo stesso tempo allegro, tranquillo, simpatico, amava gli animali, ed era sempre disposto ad aiutare gli altri. Di mattina si dirigeva verso la chiesa e quasi ogni giorno riceveva la comunione; la sera recitava il rosario.

Jarogniew Wojciechowski proveniva da Poznan. Il padre gestiva un negozio di cosmetici. La vita di famiglia fu segnata a lungo da situazioni traumatiche a causa dell'alcolismo del padre che finì per abbandonare la famiglia. Jarogniew fu costretto a cambiare scuola e rimase sotto la cura di sua sorella maggiore. In tale situazione trovò appoggio nell’oratorio salesiano, alle cui attività partecipava con entusiasmo.

Di lui le testimonianze ricordano che faceva il chierichetto dai salesiani, partecipava alle gite e alle colonie, suonava canti religiosi al pianoforte, partecipava alla vita religiosa della famiglia, ogni giorno riceveva la comunione e come gli altri compagni del gruppo si distingueva per la fraternità, il buon umore e l’impegno nelle attività, nei doveri e nella testimonianza.

Egli spiccava tragli altri perché appariva piuttosto meditativo, tendeva ad approfondire la visione delle cose, cercava di capire gli avvenimenti, senza però cadere nella malinconia; era un dirigente nel miglior significato di questa parola.

Czeslaw Jozwiak era legato all'oratorio salesiano di Poznan sin dalla fanciullezza. Aveva dieci anni quando vi mise piede per la prima volta. Suo padre lavorava come funzionario della polizia giudiziaria. Egli frequentava il ginnasio "San Giovanni Kanty" e allo stesso tempo svolgeva il compito di animatore di un circolo giovanile all’oratorio. Allo scoppio della guerra, pure lui si mise a lavorare in un negozio di cosmetici per l’impossibilità di continuare la scuola.

Di lui si dice che era collerico di natura, spontaneo e pieno di energia, ma padrone di se stesso, constante, pronto al sacrificio e coerente. Guidato dal direttore don Agostino Piechura, lo si vedeva aspirare consapevolmente alla perfezione cristiana e progredire in essa. Godeva di indiscussa autorità di fronte ai più giovani.

Secondo un suo compagno di carcere: “Era di buon carattere e di buon cuore, aveva l'anima come di cristallo…quando si è aperto di fronte a me ho capito che il suo cuore era libero da ogni macchia di peccato e da ogni cattiveria…mi ha confidato un suo pensiero che lo preoccupava, cioè di non macchiarsi di nessuna impurezza”.

Da ultimo Edward Kazmierski, nato a Poznan, proveniva da una famiglia povera. Suo padre era calzolaio. Appena terminata la scuola elementare, fu costretto a lavorare in un negozio e poi in una azienda meccanica. Si inserì presto nell’oratorio salesiano e in questo ambiente poté sviluppare insolite doti musicali.

Di lui si dice: la viva religiosità che attinse dalla famiglia lo portò ben presto, sotto la guida dei salesiani, alla maturità cristiana. Passava il tempo libero dopo il lavoro nell'ambiente dell’oratorio e cresceva nella devozione eucaristica e mariana. A 15 anni partecipò al pellegrinaggio a Czestokowa facendo a piedi una distanza di oltre 500 Km. Fu presidente del circolo San Giovanni Bosco e si entusiasmò per gli ideali salesiani.

Vivace, costante nelle decisioni, coerente, amava cantare in chiesa, nel coro o da solista. A quindici anni scrisse alcune composizioni musicali. Lo caratterizzavano la sobrietà, la prudenza, la benevolenza. Nella prigionia dimostrò un grande amore verso i compagni. Aiutava volentieri i più anziani e fu totalmente libero da qualsiasi sentimento di odio verso i persecutori”.

Per tutti e cinque il primo agosto 1942 fu pronunziata la sentenza: condanna a morte per tradimento allo stato. Essi ascoltarono in piedi. Ne seguì un lungo silenzio interrotto solo da una esclamazione di uno di loro: "Sia fatta al tua volontà".

Dopo tre settimane furono portati nel cortile, dove era stata preparata una ghigliottina e decapitati. Era il 24 agosto e nelle nostre comunità si celebrava la commemorazione mensile di Maria Ausiliatrice” (ACS. n. 368)


2. Giganti dello spirito


Giovani gogliardici tanto da non perdere l’umorismo neppure nelle tristi prigioni naziste - i compagni di carcere li chiamavano “i cinque allegroni” - e innamorati di Cristo tanto da farne l’irrinunciabile punto di riferimento nella loro non breve passione. Aperti alla vita - hanno sperato fino all’ultimo nella liberazione senza mai cessare di fare progetti sul loro futuro - eppure sempre pronti ad entrare nella Vita Eterna. È di uno di loro questa paradossale dichiarazione - degna del grande martire S. Ignazio di Antiochia - scritta quando fu pronunciata la condanna a morte: “Che felicità è questa: andarsene da questo mondo uniti a Cristo”. E un altro, alludendo alla Comunione appena ricevuta: “Come posso non gioire nell’andare al Signore e alla Sua Madre SS.ma, munito del Corpo di Cristo?” (B.S. giugno 99).


3. Il loro messaggio


Singolarmente e come gruppo, questi giovani fanno emergere la forza plasmatrice della esperienza oratoriana, quando essa può contare su un ambiente, su una comunità giovanile corresponsabile, su una proposta personalizzata, uno o più confratelli capaci di accompagnare i giovani in un camino di fede e di grazia. I cinque giovani provenivano da famiglie cristiane. Su questo fondamento poi la vita e il programma dell’oratorio hanno stimolato la generosità verso il Signore, la maturità umana, la preghiera e l’impegno apostolico.

Il gruppo, come luogo di crescita e di impegno è stata determinante. Vengono nominati sempre come il gruppo dei "cinque". Commuove leggere su ciascuno: “Egli faceva parte dei capigruppo dell’oratorio, essendo strettamente legato da vincoli di amicizia e da aspirazioni ad alti ideali cristiani con gli altri quattro. [...]


L’esperienza oratoriana produsse tra di loro una solidarietà giovanile basata sugli ideali e i progetti, che si è manifestata nella condivisione sincera, nel vicendevole sostegno per affrontare le prove, nella spontaneità e nella gioia.

L’amicizia li portò a continuare gli incontri quando le forze di occupazione requisirono l’oratorio lasciando ai salesiani soltanto due camere e trasformando l'intero edificio e la chiesa in magazzini militari.

In una camera e con un pianoforte che i fratelli del Sacro Cuore misero a disposizione proseguirono le attività corali e gli incontri amichevoli. Più tardi, privati anche di questa possibilità, i luoghi di riunione diventarono i piccoli giardini di città, i prati presso il fiume e i boschi vicini. Niente di strano che la polizia li identificasse o confondesse con coloro che si erano costituiti in associazioni clandestine. L’amicizia divenne sostegno vicendevole durante il passaggio attraverso i vari carceri fino alla morte. [...]


Ai nostri tre giovani: San Domenico Savio, la beata Laura Vicuña e il Venerabile Zeffirino Namuncurá, si aggiungono oggi questi cinque giovani martiri, quasi a completare la tipologia agiografica con il prezioso tassello che ancora mancava: il martirio. A noi cogliere tutto il significato di una tale primizia nell’area giovanile. In loro vogliamo vedere il modello di tanti giovani che soffrono a causa della loro fede cristiana in non poche parti del mondo. Li additiamo come intercessori oltreché come ideali dei valori più ardui” (ivi).












































Giovedì 2 Settembre



Parte I: Un arco teso: Alberto Marvelli


1. Ex allievo di Rimini


Vi frequentò per 15 anni l’Oratorio. Lì scoprì i motivi per dare significato alla sua vita, facendone un dono agli altri. Fece parte del “Circolo D. Bosco” e dell’Azione Cattolica, diresse la sezione Aspiranti, si impegnò nella catechesi. La domenica rendeva viva la Messa dell’Oratorio, proclamava le letture, dirigeva i canti. In cortile era allegro, sereno, sportivo.

L’Oratorio fu la sua fucina: lo frequentò non episodicamente ma lasciandosene plasmare interiormente e divenne un oratoriano apostolicamente impegnato.


2. Alcune tappe della sua biografia


Nacque il 21 marzo 1918 a Ferrara presso la famiglia materna. Il domicilio dei Marvelli fu a Rovigo, dove il padre era direttore di banca; vi rimasero fino ai 1925, e lì nacquero Adolfo, Carlo, Lello, Giorgio, che presto morì, poi un altro Giorgio e infine Geltrude.

Dal 1925 al 1927 abitarono a Mantova, successivamente ad An­cona. Dal 1931 si fermarono definitivamente a Rimini. Alberto eb­be la fortuna di avere non solo i genitori di solida consistenza re­ligiosa, ma tutto il contorno dell'ambiente familiare fu ricco di membri consacrati a Dio. La nonna materna, marchesa Geltrude Granello di Casaleto, aveva tre zii sacerdoti (uno dei quali domeni­cano, commissario del S. Ufficio e vescovo di Seleucia) e due suore clarisse nel convento di Città di Castello (una delle quali morta in fama di santità). Il padre aveva uno zio carmelitano, che fu per parecchi anni Procu­ratore generale del suo Ordine.

L’iter degli studi di Alberto e poi tutto il resto della sua vita si intrecciano con le vicende belliche. Laureatosi in ingegneria aveva appena cominciato ad insegnare quando nel ’42 egli venne chiamato alle armi. Fu a Treviso. Anche da militare restò apostolicamente impegnato: trascorreva tutte le sue ore libere nel portare aiuto alle tante vittime della guerra. Nel settembre 1944 tornò a casa. Riprese a Rimini l'insegnamento alla Scuola Tecnica Industriale. S’immerse nell’apostolato vivificandolo con la preghiera Abi­tava a Marina, piuttosto distante da Rimini; di solito gli toccava far la comunione a mezzogiorno. La chiedeva timidamente al parroco. Poi gli diceva: “ Lei vada a pranzo; io trovo benissimo la porta d'uscita ”. Il parroco dice che si fermava a lungo, da solo, in chiesa. Finito il lavoro del mattino e avendo un’ ora a sua disposizione, era felice di esser lasciato finalmente tranquillo con Gesù.

Gli restava appena un anno di vita. Eppure in così breve arco di tempo si staglia poderosa la sua figura.


4. La fisionomia spirituale


1. Uno sportivo dello spirito.

“Quando ci si stacca dalla biografia e dagli altri scritti chc riguardi­no Alberto Marvelli, egli si configura subito come uno sportivo ec­cezionale ed altamente caratteristico, come un giovane che senz'al­tro fa pensare alla bellissima immagine paolina di coloro “ che cor­rono nello stadio ” (1 Cor 9,24); difatti egli ha corso sempre; tut­ta la sua vita è stata precisamente come l'aveva concepita e voluta, una corsa senza rallentamenti e senza soste verso il traguardo pre­fisso: la santità” (Mondrone C.C. 1977).

“Corsa a cronometro” è il titolo della sua ultima biografia.

L’immagine traduce una vita sempre in movimento e la tensione dello spirito: un giovane di grande vita interiore e pur totalmente immerso nel sociale.

C’è chi ha parlato del “miracolo” della sua operosità.

“Io vedo camminare Alberto Marvelli per le strade della nostra piccola citta' di provincia, ancora studente, con la cartella dei libri come quando veniva al Liceo, e lo vedo correre in bicicletta, o fermo con i compagni, e lo so intensamente occupato all'Associazione di A.C. dei salesiani (della quale fu, per tanto tempo, presidente) o in Federazione di A. C. (di cui fu segretario e vice-presidente). E sempre lo vedo con quel sorriso pensoso, luminoso, incantevole, frutto di una serenità interiore che si appoggia sulla grazia. Nello studio era sempre con la parte migliore del­la classe, pur senza essere assolutamente il primo. Non brillante nelle esposizioni, ma sempre maturo di pensiero e sicuro di quanto diceva e studiava” (Massani).


2. Vita come anelito.

Così egli volutamente la impostò.

Ascoltiamo lui stesso in una pagina del suo diario che risale all’ 8 ottobre 1939:

“La vita è azione, è movimento. Anche la mia vita deve essere azione, movimento continuo, senza soste, movimento e azione tendenti all'unico fine dell'uomo: salvarsi e salvare. Questa vita spirituale motorizzata, direi, questo anelito ardente di Dio, di bene. si armonizza in me con una me­desima tendenza della vita fisica; vita che in me sento sempre più fatta e nata per il movimento. Lo controllo quasi ogni momento e specie quan­do sono costretto a fermarmi per lo studio di giorni interi. Ho bisogno di aria, di spazio, di orizzonti sconfinati, di cieli luminosi e stellati, di mari e oceani immensi. Non è una esagerazione, è un dato di fatto positivo e reale. È un anelito verso nuove visioni, nuovi paesi, nuovi mondi, un desiderio di velocità, di rapidità, di potenza ”.

Per mantenere desto questo anelito pone dei punti fermi che costituiscono il suo cammino ascetico:

“Voglio scrivere un piccolo schema di quello che dovrà essere la mia vita spirituale. 1) Alla mattina orazione, e se è possibile, un po' di medi­tazione. 2) Una visita giornaliera in chiesa e il più possibile frequentare i sacramenti Oh, se mi riuscisse di comunicarmi tutti i giorni! 3) Recitare ogni giorno il santo rosario. 4) Non cercare in nessun modo occasioni di male. 5) Alla sera, orazioni, meditazioni, esame di coscienza. 6) Vincere i difetti piu grossi: la pigrizia, la gola, l'impazienza, la curiosità e tanti altri. 7) Invocare l'aiuto di Gesù in ogni momento difficile. Se non doves­si mantenerlo, infliggermi una qualche pena fisica ”.


3. E si spinge molto in alto, tanto da sentire “brividi di infinito”.

A leggere alcune pagine, si avverte il sapore del mistico. Leggiamo questa elevazione del suo spirito:

“Contemplando il creato, tutto entra nel cuore e parla di Dio [...].Ma soprattutto un cuore puro gusta le gioie dell'anima, dell'unione intima e continua di Dio, della contemplazione delle sue sembianze sotto la forma del SS.mo Sacramento. Che mondo nuovo, formato di impressioni infi­nite per dolcezza e potenza, ma al medesimo tempo così certe della loro origine, mi si è aperto contemplando Gesù sacramentato! Io lo guardo e Gesù mi parla [...]. Lo guardo e tutto sparisce intorno, rimane Gesù, luce radiosa, che entra nell'anima... mi fa scorrere brividi di infinito. Gesù che sale su di un raggio splendente di luce, circondato di luce, mi inonda e mi invita a salire [...].


4. Il regista della ricostruzione postbellica.

Mise a disposizione la sua competenza professionale. Si espropriò di tutto, unicamnete attento ai bisogni altruisia nelle grandi come nelle piccole occasioni.

“A sera, dopo aver recitato forte il rosario nei cameroni del collegio Belluzzi, andava a dormire alla meglio dai conventuali; e al mattino, nella chiesa zeppa di sfollati, serviva la Messa e si comunicava. Poi via di nuovo, per tutte le vie e per andare incontro a tutti i bisogni. Prendeva nota delle necessitù, e quando non poteva arrivare, affidava ad altri il lavoro. C'era da andare qua e la', nelle gallerie da dove la gente non osava uscire [...].

Un giorno, in casa Albertini, si presentarono due soldati italiani che erano fuggiti e cercavano di raggiungere l'Alta Italia. Uno era senza scarpe, per­ché non aveva avuto il coraggio di toglierle ai morti incontrati per via.

Nessuno dei presenti era in grado di darne. Arriva Alberto; gli dicono il caso; guarda le proprie scarpe, i piedi del soldato e dice: “Gli possono andar bene". Detto fatto. E lui si mette un paio di zoccoli ”.


5. La morte


Giunse improvvisa. Così ce ne parla un suo amico:

Era la sera del 5 ottobre 1946, primo sabato del mese, vigilia delle elezioni amministrative. Aveva tenuto un comizio, era passato un momen­to a Santa Croce, a ora di adorazione finita. Gli dissi: "Ingegnere, ho una bella notizia. Monsignor vescovo ha girato a lei questo assegno che S.E. monsignor Montini ha fatto avere per i laureati". “Bene" disse. "Penso di girarlo alla cassiera" e lo mise in tasca. Passammo un momento nella sala, eravamo in tre o quattro. Ci lasciammo per via. Volò a casa per la cena; mangiò in fretta, scherzò con un amico che non era ancora pronto per uscire; disse: "Ti precedo; intanto passo da M. per le istru­zioni sul seggio, per domattina". Salutò in fretta la mamma, sulle scale [...]. A 20 metri da casa un camion alleato, che correva a velocità pazza lo urtò, lo scagliò nel giardino di una villa, e scomparve nella notte. Fu raccolto dal filobus. Fu porta­to nella clinica Contarini. Tutto inutile. La sua fibra lottò per due ore. Morì senza riprendere conoscenza”.


6. Il suo messaggio condensato in un trinomio


Un giovane sereno di mente, ardente di cuore, forte di volontà”

Lucido, innamorato, volitivo.

Tre gradini, tre fasi, tre mete tipicamente giovanili.


Parte II: Tre alunni, a tre livelli diversi.

Rappresentanti degli ultimi tre gradini nell’iter di una Causa.


1. La particolare collocazione degli allievi a fianco agli exallievi


Non hanno potuto avere uno sguardo retrospettivo perché colti dalla morte nel loro cammino educativo.

Ma testimoni essi pure dell’educazione ricevuta, fatta fruttificare fino alla santità.


2. Modelli vicinissimi alle origini.


Rimandano a D. Bosco stesso o ai suoi primi figli.

C’è in loro un “di più” di pregnanza carismatica.

I più lontani da noi nel tempo ( e perciò bisognosi di traduzione) e i più vicini alla sorgente che, grazie alla sua freschezza, può evitare la tiepidezza dei nostri criteri di oggi.

Essi ci spingono a valorizzare al massimo “l’età degli ideali”.


3. La loro eco attraverso cento anni di storia.







Venerdì 3 Settembre



Parte I: Un leader: Piergiorgio FRASSATI


1. Cenni biografici


Nasce a Torino-Crocetta il 6 aprile 1901. Il padre era senatore del Regno, Fondatore e proprietario del quotidiano “La Stampa”, ambasciatore d’Italia a Berlino.

Dalla famiglia avrebbe potuto avere tutto: denaro, comodità, sicurezza materiale, onori, stima.

Ma egli scelse i veri valori, tutti sintetizzati nella generosa dedizione agli altri, specialmente i poveri.

In famiglia dovette soffrire perché tra il padre e la madre esistettero forti difficoltà che crearono un clima familiare di disagio per i figli e la loro educazione. Questo elemento rende più luminosa la testimonianza cristiana e filiale di Pier Giorgio.

Una puntualizzazione importante, oggi!

Gli anni compresi tra la fine della prima guerra mondiale e il 1924-25, furono gravati da forti tensioni sociali (nascita di nuovi partiti, scioperi, il biennio rosso) che condussero all’affermazione del fascismo ed alla perdita delle principali libertà civili. Alle asprezze della lotta politica, Frassati oppose una fede che, nella sua intenzione di essere “segno” anche in campo sociale, diventava ogni giorno più salda e tenace. Il suo desiderio di una legislazione sociale capace di superare ogni discriminazione ed ingiustizia alla luce del vangelo lo portò ad impegnarsi attivamente nel Partito Popolare.

Quando nell’Aprile 1923, si tenne a Torino il Congresso nazionale del Partito Popolare, seganto dall’intenzione di D. Sturzo di arrivare ad un chiarimento nei confronti del partito fascista, Pier Giorgio appoggiò energicamente la tesi antifascista.

Quando nell’ ottobre dello stesso anno Mussolini compì una visita a Torino, Pier Giorgio rimosse la bandiera che era stata esposta al balcone del Circolo Fuci “Cesare Balbo” e quindi presentò al Presidente le proprie dimissioni: “Sono veramente indignato perché hai esposto la bandiera al balcone per rendere omaggio a colui che disfà le Opere pie e lascia uccidere i Ministri di Dio come D. Minzoni...”.

Merita un cenno anche l’attenzione che Pier Giorgio riservò alla stampa cattolica, strumento di affermazione e diffusione della propria visione di vita.

Era laureando in ingegneria, quando il 4 luglio 1925, colpito da una poliomelite fulminante, morì all’età di 24 anni.

Ai suoi funerali, la presenza, il comportamento e le testimonianze rese dai poveri furono una vera canonizzazione.

Un giornale socialista, così scrisse con ammirazione: “Ciò che si legge di lui è così nuovo ed insolito, che riempie di riverente stupore anche chi non condivide la sua fede. Giovane e ricco, aveva scelto per sé il lavoro e la bontà. Credente in Dio, professav la sua fede con aperta manifestazione di culto, concependola come una milizia, come una divisa che si indossa in faccia al mondo, senza mutarla mai con l’abito consueto, per comodità, per opportunismo, per rispetto umano”.


2. Rapportato a due fonti salesiane: un docente (D. Cojazzi) e un confessore (D. Cane).


Tutti conosciamo la forte personalità di D. Cojazzi “per decenni il salesiano più conosciuto d’Italia”. Il ruolo da lui svolto vrso Pier Giorgio fu un ruolo privato, discreto, profondo.

Egli aveva conosciuto Pier Giorgio e la sua famiglia quan­do, nel 1910, venne chiamato per più di due anni ad impartire le­zioni di latino al ragazzo ed alla sorella Luciana. “Lo conobbi de­cenne e lo seguii per quasi tutto il ginnasio e parte del liceo”. Don Cojazzi narra i suoi incontri con Pier Giorgio e la gioia che il ragazzo provava nel sentir parlare di Gesù. E' facile immaginare che egli, esperto conoscitore di giovani, dovette comprendere su­bito le risorse spirituali del suo allievo e che, non meno abile edu­catore, dovette incidere nella sua formazione. Non fu mai diretto­re spirituale e confessore di Pier Giorgio (lo fu invece per vario tempo il salesiano don Felice Cane) ma lasciò una profonda traccia in un animo molto disposto a lasciarsi plasmare. Questo tanto più perché don Cojazzi non perse mai il contatto con Pier Giorgio e la sua famiglia.

Sappiamo anche delle visite di don Cojazzi a ca­sa Frassati, delle lezioni di religione che egli tenne alla Fuci fre­quentata da Pier Giorgio, dell'interessamento comune per le Con­ferenze di S. Vincenzo e l'Azione Cattolica, delle visite di Pier Gior­gio a don Cojazzi in momenti delicati, come quello della rinuncia al fidanzamento.

La formazione quindi di Frassati porta il timbro dello stile salesiano e lo si può ben annoverare tra i nostri exallievi.


3. Tre i coefficienti nella ricostruzione fatta dal Coiazzi


1. Una perfezione cristiana raggiungibile nella vita quotidiana

2. La costanza di una pratica di carità verso i poveri e i bisognosi

3. L’integrità insieme morale e fisica quale si rivela nel cimento di pratiche sportive non agonistiche, come le ascensioni in montagna (scalate anche di sesto grado) viste come segno di una più profonda ascesi spirituale.


4. L’attrattiva dei miseri.


“Provava tanta gioia nel fare il bene che essa gli traluceva dagli occhi ogni volta che ritornava dal suo peregrinare tra i miseri”

“Egli faceva per loro letteralmente il servo, fino a portare ingombranti pesi, trascinare un carretto, col fare di chi è persuaso di godere un privilegio”

“I poveri li considerava i suoi superiori, nelle loro sofferenze onorava la passione di Cristo e sempre si poneva, per così dire, ai loro ordini”

“Amava i poveri e gli umili, fra i quali passò beneficando”.

“Li andava a ricercare nei quartieri più lontani della città; saliva le scale strette e oscure; entrava nelle soffitte, dove soltanto abitano la miseria e il dolore; portava il soccorso che sfama e di­ceva la parola che consola”.

“Tutto quello che aveva in tasca era per gli altri, come tutto quello che teneva in cuore. Era nato per dare; non viveva per sé; era un cristiano di fede e un cristiano d'azione”. “L'ultima cosa che scrisse, con la mano già quasi paralizzata, fu una raccomandazione ai suoi amici di fede, perché si ricordassero d'una fialetta ch'egli aveva pronta per le iniezioni a una povera ammalata e d'una ricevuta di pegno che urgeva ritirare”.

Egli aveva scritto un giorno: “intorno al disgraziato, io vedo una luce, una luce particolare, una luce che noi non abbiamo”.


5. Il laeder


“Era inquadrato nella vita fortissimamen­te, come se fosse un uomo già fatto, con la solidità morale e la rettitudine dell'antica tempra piemontese: anima di fanciullo in un carattere di stampo virile. Nei pareri, nei consigli, nei sentimenti, nei giudizi era d'una precisione morale così assoluta, d'una equità così scrupolosa, d'una generosità così ricca e così sincera, che gli amici lo seguivano in qualunque occasione con una confidenza sen­za limiti. Il suo cuore come la sua mente erano diritti, d'una lealtà irreprensibile, incapaci d'un sentimento o d'un pensiero tortuoso o incerto. La sua anima era come il suo aspetto, il suo sguardo, la sua parola, come il suo accennare del capo, il dire o no, senza ambagi, senza insistenze, senza bisogno di distinzioni sottili. Il suo stesso misticismo era d'una tempra individualissima, preciso, sor­retto da un meraviglioso senso pratico, che non lo lasciava tenten­nare mai, né lo teneva esitante fra il bene e il male, fra il giusto e l'ingiusto. Camminava nel giusto con lo stesso passo franco e sicuro, senza ritardi, senza soste, senza mollezza, come lo vedeva­mo andare per la via, o come lo pensavamo su per le strade e pei sentieri delle montagne che tanto amava”.


6. Il fascino che la sua biografia esercitò sui giovani.


Le varie associazioni che assunsero il nome di Pier Giorgio so­no un dato significativo (tra parentesi il numero di ciascuna, ag­giornato al 1940): associazioni giovanili di A.C. (804), Aspiranti di A.C. (185), associazioni studenti medi (61), associazioni uni­versitarie (26), Conferenze di S. Vincenzo (35), Gruppi del Van­gelo (23), associazioni di spiritualità (23), associazioni apostoliche varie (14), gruppi sportivi e ricreativi (45), edifici, sale e aule (46). Possiamo anche ricordare quanti bambini in quegli anni ricevette­ro al fonte battesimale il nome di Pier Giorgio mentre, secondo una ricerca condotta nel 1980, fino a quella data erano comparsi 1700 articoli sulla stampa nazionale e 450 su quella estera riguar­danti Frassati.

Negli anni '60, e nella prima metà degli anni '70, la memoria di Pier Giorgio Frassati si affievolì, e l'oblio sembrò quasi avvol­gere la sua figura. Dopo il 1975, cinquantesimo anniversario della sua morte, si assistette però ad un improvviso risveglio di interes­se per “...l'uomo delle otto beatitudini, che reca con sé la grazia del Vangelo, la gioia della salvezza offertaci da Cristo”, come eb­be a commentare nel '77 l'allora arcivescovo di Cracovia, card. Karol Wojtyla. Divenuto Papa, nella sua prima visita a Torino nell'ottobre del '78, egli tornerà sulla figura del gio­vane studente torinese: “Pier Giorgio Frassati - disse il Papa, par­lando ai giovani torinesi - ci mostra al vivo che cosa veramente signifìchi, per un giovane laico, dare una risposta concreta al "Vieni e seguimi”. Basta dare uno sguardo sia pure rapido alla sua vita, consumatasi nell'arco di appena ventiquattro anni, per capire quale fu la risposta che Pier Giorgio seppe dare a Gesù Cristo: fu quella di un giovane 'moderno' aperto ai problemi della cultura, dello sport - un alpinista tremendo - alle questioni sociali, ai valori veri della vita, ed insieme di un uomo profondamente credente, nutri­to del messaggio evangelico, solidissimo nel carattere, coerente, appassionato nel servire i fratelli e consumato in un ardore di ca­rità che lo portava ad avvicinare, secondo un ordine di preceden­za assoluta, i poveri ed i malati...

Quanti hanno subito il fascino della sua biografia: Dino Zambra, Alberto Marvelli, Giacomo Maffei, Eugenio Biamonti, Pier Luigi Roggia... sino all’attuale Pontefice: “Anch’io nella mia giovinezza, ho sentito il benefico influsso dell’esempio di Pier Giorgio e, da studente, sono stato impressionato dalla forza della sua testimonianza”.


Nota bene:


* L’iter della Causa.


Fu la famiglia (ed in particolare la ma­dre) a muovere i primi passi perché fosse avviata la Causa di bea­tificazione. I Frassati si rivolsero nel 1930 a don Filippo Rinaldi, allora Rettor Maggiore dei Salesiani, pregandolo di assumere l'ufficio della postulazione. Inizialmente vi furono delle perplessità, poiché fino ad allora i Salesiani aveva­no promosso sole le Cause dei propri Servi di Dio.

Quando l'Azione Cattolica, attraverso il suo presidente genera­le assunse l'impegno di “attore” della Causa, don Rinaldi accettò che i Salesiani si occupassero della postulazione. I Salesiani segui­rono la Causa fino alla conclusione del “processo ordinario” mentre i Gesuiti seguirono il “processo apostolico” por­tandolo a felice conclusione con la beatificazione il 20 maggio 1990.





* Il miracolo per la Beatificazione


Invitiamo tutti gli amici di Pier Giorgio e ~pecialniente le seicentotrenta asso­ciazioni che prendono il suo nome, a ringraziare Dio per il felicissimo compi­mento del processo informativo diocesano. 1123 ottobre scorso 5. Em. il card. Fossati, arcivescovo di Torino, presiedette la seduta plenaria del tribunale e con i giudici e gli altri membri appose la firma agli atti. Questi furono recati perso­nalmente a Roma dal notaio teologo Battist per l'inizio di quella seconda fase del processo che si dice apostolico, perché sarà ordinato dall'autorità del Papa e la cui conclusione metterà capo alla venerabilità del Servo di Dio, quando e come disporrà la Provvidenza Divina. Di questo notevole passo in avanti diede notizia L'Osservatore Romano del 6 corrente.

E meraviglioso il fascino che esercita questo giovane per la profonda vita inte­riore che egli nascondeva, ma intensamente nutriva> sotto il gaio aspetto d'un 'e­sistenza che era francescana nella povertà, anche in mezzo a grandi ricchezze. Sia lode a Dio che mette sul candelabro queste figure che nella modernità del vivere conservano e glorificano gli eterni tesori dello spirito cristiano.

In tanto a gloria di Dio, riferiamo un fatto prodigioso, i cui atti ci arrivarono quando il processo diocesano era già chiuso. Inutile dire che qui è impegnata solo la testimonianza umana.

La parola della scienza

Nell'anno 1933, conobbi Sellan Domenico di San Quirino (Udine). L'accom­pagnai in ambulatorio, perché accusava disturbi alla deambulazione e disturbi alle vertebre della regione lombare. Sospettai trattarsi di qualche lesione ossea e per accertamento diagnostico, lo inviai al radiologo dottor Marco Vietti dell'Ospedale civile di Pordenone. Egli mi mandò questo reperto, constatato in se­guito a regolare radioscopia: “Caro Sina, nel Sellan c'è una lesione pottica [morbo di Pottì della prima e seconda lombare, con notevole schiacciamento....

Nonostante le mie raccomandazioni, il Sellan non si mise a letto, se non quan­do vi fu costretto per l'incapacità che avevano gli arti inferiori di reggerlo e per i forti dolori alla regione lombare. Rimase a letto dal 20-9-1933 ai primi di gen­naio 1934. In questo periodo perdette completamente la sensibilità degli arti in­feriori con ripetute manifestazioni di meningismo, frequenti perdite di memoria e lancinanti dolori di testa. Durante questi mesi, con ripetute e regolari visite, constatai l'aggravamento del morbo di Pott, a cui tenne dietro la paralisi com­pleta degli arti inferiori, insensibili alle trafitture e al calore di acqua bollente.

Verso i primi di gennaio 1934, il parroco locale, don Pietro Martin, mi chiese informazioni sul Sellan. Io risposi che si trattava del morbo di Pott, constatato dalla radiografia, in uno stato avanzato, con esclusione di guarigione. Tale con­vincimento ripetei al detto parroco, alle sue ripetute domande che eccitavano la mia meraviglia, per l'insistenza insolita, in detto sacerdote, così rispettoso e deli­cato nei riguardi delle mie cose professionali.

Un giorno, nel cortile della casa del parroco, trovai il Sellan in piedi e ne fui sbalordito, perché egli si dichiarò guarito.

Di fronte a questo fatto che era andato conro tutte le previsioni della mia di­agnosi, confermata dalla radiografia, di cui conservo la lastra, parlandone con don Martin e richiamando le sue interrogazioni al riguardo, mi sentii risponde­re: “Volutamente chiesi il suo parere sul Sellan, senza accennarle che egli attri­buiva la guarigione a un intervento divino, dopo aver invocato l'intercessione di Pier Giorgio Frassati. Così lei, signor dottore, mi ha risposto come mi ha ri­sposto, in base alla sola sua coscienza di medico”.

Approvando la geniale trovata del reverendo parroco don Martin, confermo quanto sopra ho scritto, con il giuramento che mi dichiaro pronto a rinnovare davanti a un eventuale tribunale diocesano.

San Quirino (Udine), 30-10-1935

Dottor DIONISIO SINA

Medico-Chirurgo, Ufficiale Sanitario.



Parte II: Volti senza aureola


1. Quanto è riduttivo il prendere come criterio della santità, l’introduzione della Causa.


Sono tanti i “santi” non canonizzati. Anche vicini a noi.

A noi evidenziarli e valorizzarli

I tanti modi per farlo.


2. Chiamando alcuni per nome:


* Petix, Casella, Maffei

* Sean Devereux, Luisi Pedro Leuguas...








































Sabato 4 Settembre



Parte I: Un exallievo dall’ “appartenenza più stretta”: Attilio GIORDANI


1. Cenni biografici


Attilio Giordani nacque a Milano nel 1913. La mamma, Amalia, era casalinga, con una salute molto precaria. Il papà, Arturo, ferroviere. Passati ad abitare nel nuovo quartiere di S. Agostino, Attilio scoprì l’Oratorio salesiano. Si iscrisse all' Azione Cattolica Aspiranti, il campo faticoso e bellissimo in cui, delegato a 19 anni, Attilio spenderà buona parte della sua vita e dove porterà tutta la sua allegra esuberanza, il gusto delle avventure, delle gare, del teatro, dei canti, del gioco...

Durante il servizio militare, che inizia nel 1934 con fasi alterne ( da Milano al fronte greco-albanese, al confine con la Francia e alla resistenza passiva sui monti del lecchese ) Attilio dimostra ovunque senso apostolico: invita i suoi commilitoni alla preghiera e ai sacramenti; nei tempi di libera uscita diventa l' animatore degli Oratori e delle Parrocchie locali.

Nel frattempo incontra quella che sarà la compagna fedele di tutta la sua vita: Noemi; è la delegata dei fanciulli cattolici, vive nel suo stesso ambiente ed ama evangelicamente i bambini. Essendo tempo di guerra, si vedono poco; ma nelle frequenti lettere di Attilio si leggono in trasparenza anche i sentimenti più intimi, mentre è manifesta la tensione ideale verso ciò che porta a Dio ed è costante la passione educativa.

Il matrimonio fu celebrato il 6 maggio 1944. Nascono Pier Giorgio, Maria Grazia, Paola. Appartengono a loro le testimonianze più belle: "Quando papà entrava in casa, era tutto nostro; non portava in casa le tensioni di fuori; era sereno, disponibile, non chiuso; era qualcosa di nostro”. I,a carità quotidiana si traduceva in attenzione ai vicini, ospitalità ai forestieri; premura con gli anziani. "Non abbiamo mai visto nostro padre accumulare denari; si preoccupava di dare; diceva spesso: - Diamo; noi si va avanti lo stesso; il Signore ci penserà".

Attilio lavora come impiegato nell' industria della Pirelli, dove dimostra il più profondo senso del dovere, anche in momenti di animate contestazioni sociali. Ma ciò che ha distinto il Servo di Dio, fra le tante sue attività evangeliche, è stata una grande passione educativa per tutti i giovani dell’ Oratorio. Senza nulla togliere alla famiglia, l’Oratorio diventò la sua famiglia. Fu un animatore geniale, con semplicità, umiltà ed allegria. Curò la liturgia, la formazione, il gioco, il tempo libero, le ferie dei suoi giovani, il teatro...

Il Card. Giovanni Colombo, nel 40° del Movimento Diocesano degli Aspiranti di A.C. aveva dichiarato Attilio "il miglior Delegato d' Italia", conferendogli il "Premio Carlo Matthey".

Aveva 59 anni quando decise di partire (insieme alla moglie Noemi e alla figlia Paola) per il Brasile dove già si trovavano gli altri suoi due figli impegnati nell’Operazione Mato Grosso. Il 18 dicembre 1972 venne programmato un incontro a Campo Grande. Parlò anche Attilio, con entusiasmo: " E' un dovere dare la vita per gli altri. La nostra fede deve essere vita. La misura del nostro credere si manifesta nel nostro essere...". Furono le sue ultime parole. Sussurrò al figlio che gli era accanto: "Va’ avanti tu." Un infarto - era il secondo - lo stroncò. Morì con la preghiera e l' assoluzione dei sacerdoti presenti, circondato da tanti amici. Il ritorno della salma a Milano fu un trionfo di riconoscenza e di fede.


2. Modello forte della reciprocità tra evangelizzazione ed educazione.


Noi evangelizziamo educando. Consegnamo il messaggio evangelico servendoci dell’area educativa. In questi Attilio Giordani è stato sommo. Il meglio di ciò che diceva o faceva è da rintracciare nel suo ruolo di educatore, nel suo rapporto con i giovani. Per scoprire in lui una virtù, bisogna coglierla mentre egli educa a quella virtù. La sua fede? Osserviamolo come educatore alla fede.

Per la npstra spiritualità, questo taglio è di un’importanza straordinaria.

Nel sistema educativo lasciatoci da D. Bosco, l’”assistenza”, la presenza tra i giovani, il condividere la loro vita, è nello stesso tempo il collaudo e la sorgente di tutte quelle virtù che un formatore deve possedere e infondere.

Ascoltiamo la testimonianza di uno dei giovani che ha osservato Attilio Giordani più da vicino e che, a mio parere, ne fa la ricostruzione più riuscita.

"Considerava l'assistenza ai ragazzi un mezzo efficacissimo di apostolato.

Attilio giocava molto con i ragazzi, era molto bravo all'attacco, era molto in gamba a driblare; ma, mentre tutti giocavano per segnare goal e vincere, lui giocava per aiutare i suoi compagni e far divertire tutti i presenti.

Noi, non riuscivamo a capire il comportamento di Giordani, ma adesso lo abbiamo capito benissimo: fare lui goal, non avrebbe significato nulla; farlo fare al compagno, era la squadra che aveva vinto. Attilio è sempre stato per gli altri, ed alla fine della partita, le gioie per la vittoria non erano sue; lui con una gentile pacca sulla spalla consolava l'avversario che aveva perso; ma era sempre il suo compagno, non poteva avere che amici. Difatti se lo contendevano nella squadra e lui si inseriva dove gli pareva utile il risultato; anche perdere, per far vincere una volta anche l'altra squadra.

Nei giochi coinvolgeva tutti, grandi e piccoli, con vera classe di animatore. Giocare con i piccoli non piace ai grandi perchè dicono: non c'è gusto; ma è invece giocando con i piccoli che il gioco diventa importante e i piccoli diventano grandi senza antagonismo.

Aver giocato con Giordani, per i piccoli, voleva dire: abbiamo giocato da grandi; non "con un grande", ma con uno che si è fatto piccolo e tutti volevano far parte della squadra di Giordani; anche gli avversari erano felici di aver giocato con Giordani, la vittoria veniva sempre dopo, per prima cosa risultavano i meriti di tutti; alla fine ogni ragazzo aveva mostrato le sue capacità e valorizzato i suoi meriti: si sentivano dei grandi".


3. Esperto nei piccoli lineamenti della spiritualità salesiana


Questa santità che si gioca tutta sul ruolo educativo, si fa ancor più luminosa quando la si vede risplendere in quei particolari consacrati dalla tradizione che nel loro insieme formano lo spirito salesiano.

Ne passo in rassegna alcuni.


* Tutti sappiamo cos’era per D. Bosco la parolina all'orecchio.


Ebbene uno dei segreti di Attilio Gioradni fu il rapporto con il singolo, nella concretezza della sua storia personale.

"Era determinante il suo contatto personale, il colloquio anche brevissimo con ciascun ragazzo, con la diffusione del buon umore e con la parolina buona, che a volte era di lode, e altre volte di incoraggiamento e di fiducia"

“Consultando i suoi appunti, arrivava al momento giusto, con la parola su misura:

"La sua agendina colma di indirizzi e note minuziose (scrittura ordinata e chiara) la consultava continuamente; quando la sfogliava, si notava dai suoi occhi che ricostruiva la situazione di quelle persone in nota: alzava le sopracciglie come per dire: ecco questo farebbe al caso...poi un altro nome e il suo viso si faceva serio, sotto c'era senz'altro uno dei suoi cento problemi di persone bisognose di aiuto".


* Lo spirito salesiano prevede anche spirito di inventiva


Attilio Giordani ne ebbe in abbondanza.

"Sapeva escogitare un'iniziativa dopo l'altra, sempre adatta all'ambiente, sempre suscitatrice di interesse; poi sapeva mobilitare un gran numero di persone, farle lavorare insieme, appianando sul nascere i contrasti, rinsaldando il buon volere e iniettando in ciascuno la fiducia nella riuscita di ogni impresa"

Seppe valorizzare molto il teatro in cui era un vero artista. I ragazzi lo ricordano come attore eccellente ma intuivano bene che nell’attore c’era l’apostolo.

"Il teatro era un suo mezzo di educazione apostolica; si assegnava parti di secondo ordine, ma di una efficacia unica. Anche le particine insignificanti da cameriere, le preparava con scrupolo.

Tutti hanno notato la bravura di Giordani nel recitare; vorrei però sottolineare un aspetto che mi ha colpito osservando dietro le quinte del nostro teatrino, dove noi collboravamo a fare i rumori del tuono e della grandine, prima che Attilio entrasse in scena.

Passeggiava lentamente, con aria mesta e seria, il viso rivolti verso l'alto, quasi ripassasse "la parte", che invece spesso improvvisava: per me pregava!".

...Per me pregava!


4. Il suo darsi senza misura


Fu così prima di sposarsi: e ciò può non recare grande meraviglia. Ma l'ebbe anche da sposato: e ciò è fonte di grande meraviglia! Pur avendo una famiglia, pur non togliendo nulla alla famiglia, fece dell'Oratorio un vero prolungamento della sua famiglia. E vi si consacrò totalmente. C'è chi ha pensato che sia un caso unico nella storia:

"Non so se siano esistiti dei giovani e soprattutto dei padri di famiglia che abbiano saputo totalizzare così tante ore al servizio della formazione cristiana dei figli degli altri"

Fu questo suo donarsi totalmente a creargli tanto ascendente sui giovani.

È stato detto che egli fu "simpatico per gli stessi motivi di D. Bosco".

"Noi ragazzi da tempo avevamo capito che Attilio provava una sincera ammirazione e nutriva una particolare ammirazione per D. Bosco. In fondo, le cose per le quali quel santo ci riusciva simpatico erano suppergiù le stesse che ci rendevano simpatico Attilio. Probabilmente doveva esserci una sorta di affinità, se ambedue erano riusciti ad entrare così soavemente e in profondità nella vita dei ragazzi che avevano avvicinato”.

Forse è difficle poter dire di più!





Parte II: Riflessioni conclusive


1. Se dovessi gerarchizzare gli obiettivi che meritano di essere più memorizzati...


* puntare su un’educazione alla fede più rapportata ai testimoni della fede vissuta.

* Valorizzare e aggiornare il patrimonio del nostro già vasto campionario.

* Non limitandosi naturalmente all’area degli exallievi


2. Due occasioni preziose


* l’Anno Santo

In compagnia dei nostri Santi, espressioni qualificati del mistero di Cristo.

* la Lettera del Rettor Maggiore

Una riflessione allargata e rivolta a tutta la Famiglia salesiana.


3. La scoperta di volti nuovi


* è il più concreto degli orientamenti operativi

* rintracciare modelli locali, traduzioni nuove di una santità inculturata del Fondatore, oggi.

* di qui nasce una visione agiografica teologicamente stimolante.


























IL CALENDARIO AGIOGRAFICO SALESIANO



Il titolo dato a questo breve intervento si riferisce ad un'occasione di ordine cronologico desunta dal nostro calendario agiografico. Un anno fa, il 19 Gennaio, si concludeva a Milano il Processo di Canonizzazione del Cooperatore salesiano Attilio Giordani. Si prende ora occasione da questa ricorrenza per presentare la sua figura. Ma il tema - nel contesto della riflessione di fondo di queste giornate - potrebbe essere così formulato: "Come la spiritualità di un laico della Famiglia Salesiana può tradursi in ansia evangelizzatrice facendo leva sulla mediazione educativa".


Attilio Giordani è un Cooperatore nato a Milano nel 1913 e morto in Brasile nel 1972. Alcuni di voi qui presenti l'avranno conosciuto. Io non l'ho conosciuto. Ma questa mia non conoscenza diretta è servita solo a conferire un di più di sorpresa quando ho potuto ammirare il suo volto così come lo hanno ricostruito i 66 testi del Processo.


Mio intento oggi è consegnare alcuni "punti di vista" - così mi piace chiamarli - da cui guardare un panorama che ritengo quanto mai interessante e anche quanto mai attuale in questo periodo storico di privilegiata attenzione ai laici, all'indomani del CG24 sui laici.



1. Quel "mirabile interscambio tra educazione e santità"

(CG24, n. 205).



E' ormai acquisizione comune che noi salesiani evangelizziamo educando. Per quanto mi riguarda chi me ne ha dato una percezione tanto convicente da causarmi quasi la sensazione di una scoperta inedita, è stata proprio la figura di Attilio Giordani.

Si impone a chi lo studia, una strettissima unione tra le varie espressioni della sua santità e la modalità educativa sempre chiamata in causa, vera chiave musicale di tutto il suo messaggio. Si può parlare di una profonda ansia evangelizzatrice ( che la dice lunga sulla sua robusta vita interiore! ) ma completamente assorbita - direi quasi nascosta - nel ruolo di educatore.


Permettetemi una confidenza personale che racchiude forza probativa nei riguardi di quanto ho appena affermato.

Una "Positio super virtutibus" prevede l'esame delle singole virtù. Chi la elabora deve prima ricorrere ad una specie di schedario in cui raccogliere quanto viene testimoniato su ciascuna virtù. Io nel caso di Giordani mi sono imbattuto in una difficoltà mai avuta precedentemente. Nell'esaminare un qualsiasi aspetto virtuoso - per es. lo spirito di pietà - mi accorgevo che quel discorso non si collocava bene nell'ambito della virtù della pietà ma piuttosto in quello dell'educazione alla pietà. Imbattendomi in una magnifica testimonianza di fede, ero costretto a dire a me stesso: "Ma qui ciò che brilla non è innanzitutto la fede in se stessa quanto l'educatore che educa alla fede". E così via...

Son rimasto più volte pensoso davanti a questo caso strano, di una stranezza stupenda e significativa. Il suo rapporto intimo con Cristo bisogna come estrarlo, portarlo alla luce scavando nel suo rapporto educativo coi giovani talmente questo è preminente, si impone per primo e fa da denominatore comune.

In altre figure di santi ci sono frasi, episodi, eventi che dicono diretto ed esclusivo riferimento al fuoco che brucia dentro. Ma nel caso di Attilio Giordani non c'è un'espressione, un episodio, un evento che non sia collocato in rapporto ai giovani. Anche quando si tratta di una testimonianza muta, come vedremo, arriva a noi come tradotta, filtrata dall'occhio attento dei giovani quasi a dirci che è proprio quell'occhio giovanile a conferire alla testimonianza la sua giusta risonanza e quasi una giustificazione ultima.

Vogliamo parlare del suo servizio disinteressato, del suo distacco interiore? Osserviamolo in mezzo ai giovani: nel cortile, nel gioco.

Ascoltiamo la testimonianza di uno dei giovani che lo ha osservato più da vicino e che, a mio parere, fa di Attilio Giordani la ricostruzione più riuscita.

"Considerava l'assistenza ai ragazzi un mezzo efficacissimo di apostolato.

Attilio giocava molto con i ragazzi, era molto bravo all'attacco, era molto in gamba a driblare; ma, mentre tutti giocavano per segnare goal e vincere, lui giocava per aiutare i suoi compagni e far divertire tutti i presenti.

Noi, non riuscivamo a capire il comportamento di Giordani, ma adesso lo abbiamo capito benissimo: fare lui goal, non avrebbe significato nulla; farlo fare al compagno, era la squadra che aveva vinto. Attilio è sempre stato per gli altri, ed alla fine della partita, le gioie per la vittoria non erano sue; lui con una gentile pacca sulla spalla consolava l'avversario che aveva perso; ma era sempre il suo compagno, non poteva avere che amici. Difatti se lo contendevano nella squadra e lui si inseriva dove gli pareva utile il risultato; anche perdere, per far vincere una volta anche l'altra squadra.

Nei giochi coinvolgeva tutti, grandi e piccoli, con vera classe di animatore. Giocare con i piccoli non piace ai grandi perchè dicono: non c'è gusto; ma è invece giocando con i piccoli che il gioco diventa importante e i piccoli diventano grandi senza antagonismo.

Aver giocato con Giordani, per i piccoli, voleva dire: abbiamo giocato da grandi; non "con un grande", ma con uno che si è fatto piccolo e tutti volevano far parte della squadra di Giordani; anche gli avversari erano felici di aver giocato con Giordani, la vittoria veniva sempre dopo, per prima cosa risultavano i meriti di tutti; alla fine ogni ragazzo aveva mostrato le sue capacità e valorizzato i suoi meriti: si sentivano dei grandi".


Vogliamo parlare del suo spirito di sacrificio? Dobbiamo per forza parlare del suo saper educare al sacrificio.

A proposito della diffusione della buona stampa, iniziativa che esigeva non poca generosità, vien detto:


"L'Italia, Alba, Pro famiglia, il Vittorioso: erano i nomi più ricorrenti la domenica mattina dalle 6 alle 8. Era quello l'orario del primo turno della "Buona stampa". Ogni domenica infatti alla porta della chiesa di S. Agostino venivano piazzati: un tavolino, una sedia, un pacco di giornali e, a turno, un giovanotto o un ragazzo. I turni, per la precisione erano tre: dalle 6 alle 8, dalle 8 alle 10, e dalle dieci alle dodici. La gente che andava a Messa aveva in tal modo la comodità di acquistare la stampa cattolica.

D'inverno. soprattutto quando gelava, non c'era la lotta per contendersi il primo turno. Più di una volta lo faceva Attilio e dopo le 8 gli davano il cambio i suoi aspiranti. L'importanza di una stampa cristianamente ispirata, forse allora non era sufficientemente spiegata con il supporto di corrette statistiche e di eloquenti discorsi ma quel patir freddo da parte di Giordani in certe gelide domeniche, forniva a noi ragazzi e a chiunque ne avesse avuto bisogno, la spegazione più convincente. Nè il gelo gli intorpidiva il buon umore anzi glielo alimentava. [...]

Essendo il Delegato aspiranti, Attilio prendeva nota dei ragazzi che facevano il servizio del "bonstampista" e di conseguenza registrava, agli effetti del concorso, i punti meritati dai più volenterosi".


Qui c'è abnegazione, c'è spirito di sacrificio, c'è apostolato... Ma incapsulare l'episodio in una di queste virtù è come farne un'astrazione. E' la figura dell'educatore che qui si impone: un uomo che educa al sacrificio!


C'è un nome che contiene un'intera biografia: è ADSC. Significa "Angelo Di Seconda Categoria". Vale la pena ascoltarne la storia. Sembra un parabola evangelica. Dentro, secondo me, è rintracciabile l'identità stessa di Giordani.


"Dovete sapere che tanti e tanti anni fa, il Padreterno mentre stava modellando gli angeli, - pensate un po', erano miriadi come le stelle del firmamento - gli capitò di farne uno un po' magro e con il naso un po' lungo. L'osservò e, dopo aver constatato che non era conforme ai canoni rigorosi dell'estetica angelica, lo tenne in disparte. Se l'avesse messo in circolazione nel mondo angelico, era chiaro che i colleghi lo avrebbero definito e trattato come un angelo di seconda categoria. Per l'appunto un Adiesseci, un Angelo Di Seconda Categoria. Il poverino ci avrebbe patito e allora Dio pensò di dirottarlo su un altro mondo. Quando vide che nella valle dell'OSA D. Acerbi aveva superato con successo il periodo di rodaggio, e quando, dai rettangolini dei cortili che costeggiavano il Naviglio, udì salire al cielo insieme con i gridi festosi dei passeri anche le voci festose di centinaia di ragazzi, decise d'impiegare all'OSA l'Adiesseci, al quale in definitiva si era anche affezionato. L'OSA non era un posto da buttar via, tutt'altro. Come si è detto, c'erano centinaia di ragazzi e si poteva svolgere un buon lavoro.

L'Adiesseci cominciò dunque a frequentare l'OSA e, pur presentandosi come un ragazzo simile agli altri, aveva conservato la sua primitiva inconfondibile magrezza, il naso lungo e - quel che più conta - l'istinto di Angelo custode. Quell'istinto invincibile che vigila, rasserena e purifica, che invita alla preghiera e alla letizia dei piccoli sacrifici, che sprona al coraggio della coerenza e alla pazienza con i compagni. Quell'istinto invincibile che sospinge all'amore di Dio.

Chi è passato in questi ultimi quarant'anni all'OSA non può non aver visto ed apprezzato l'opera dell'Addiesseci. Egli era ed è tuttora il protagonista e l'animatore dei giorni di festa ed insieme il progettista ed il cospiratore del lunedì, cioè quel tipo di cristiano fatto apposta per seccare il D. Abbondio che c'è in noi. Quel D. Abbondio, per intenderci, che vuol essere lasciato in pace a sonnecchiare, a svagarsi o a centellinare - se è un asceta - i pii ricordi del giorno festivo".


Non sfugga quel riferimento all'istinto dell'Angelo Custode. Angelo custode Giordani lo fu a tutto campo. Ossia sempre e con tutti. Non solo con i giovani ma anche con gli stessi...sacerdoti. Sarebbe interessante approfondire questo risvolto nella vita di Attilio. Mi limito ad una breve testimonianza, resa dopo aver molto parlato dell'influsso che ebbe su di lui, quel bravo educatore che fu D. Acerbi:

"L'influenza dei sacerdoti su Attilio potrebbe essere rivolta anche come influenza efficace di Attilio sui sacerdoti stessi della Parrocchia".

E ancora:

"A proposito di preti non è fuori luogo rammentare che Attilio vedeva tutti con occhio buono, ma, avendo il naso lungo, non gli faceva difetto un certo fiuto da cane pastore del gregge di Cristo".



2. Attento ai piccoli tasselli del grande carisma



Questa santità che si gioca tutta sul campo educativo, si fa ancor più luminosa quando la si vede risplendere in quei particolari consacrati dalla tradizione che nel loro insieme formano lo spirito salesiano.

Ne vorrei chiamare in causa qualcuno.


a) La parolina all'orecchio.


Uno dei suoi segreti fu il rapporto con il singolo, nella concretezza della sua storia personale.

E' stato testimoniato che "era determinante il suo contatto personale, il colloquio anche brevissimo con ciascun ragazzo, con la diffusione del buon umore e con la parolina buona, che a volte era di lode, e altre volte di incoraggiamento e di fiducia"


Eccolo in atteggiamento di chi, consultando i suoi appunti, arriva al momento giusto, con la parola su misura:


"La sua "agendina" colma di indirizzi e note minuziose (scrittura ordinata e chiara) la consultava continuamente; quando la sfogliava, si notava dai suoi occhi che ricostruiva la situazione di quelle persone in nota: alzava le sopracciglie come per dire: ecco questo farebbe al caso...poi un altro nome e il suo viso si faceva serio, sotto c'era senz'altro uno dei suoi cento problemi di persone bisognose di aiuto".

E ancora:

"In oratorio subito si fermava, interrompeva i suoi precedenti problemi, cercava la sua "agendina", ascoltava e partecipava immediatamente ai nostri problemi di ragazzi; per lui i nostri problemi erano importanti e sempre seri e in tutti i modi cercava di capire ed esaudire".


b) L'esercizio della buona morte


Una sola pennellata ma sufficiente per cogliere la preziosa capacità che egli aveva di lasciare ricordi indelebili in chi lo osservava, magari senza pronunziar parola:


"Quando nella terza domenica del mese, c'era per tradizione salesiana "l'esercizio della buona morte", alla famosa frase "preghiamo per quello che tra noi sarà il primo a morire", le teste si chinavano e noi ragazzi, di soppiatto, si cercava "quello". Con le labbra strette e spinte un po' in avanti, in quel minuto di silenzio tutto salesiano, si spiava tra i banchi dei vecchi, là in fondo, quel "primo".

Il Nidasio, il "bociù", ci fissava; Attilio, in lontananza, stava in piedi, con gli occhi chiusi, il viso mostrava una preoccupazione e si vedeva benissimo che pregava in silenzio per quel "primo a morire".

Dopo gli ultimi interminabili, per noi, avvisi, si aspettava con ansia il via libera per l'uscita, in ordine, banco per banco, con genuflessione atletica... Attilio guardava sempre in silenzio, gli occhi seri, ma la bocca rideva con noi... "c'è ancora molto tempo d'attesa per voi".


c) Lo spirito di inventiva


Egli lo ebbe in grado eccellente, come sa bene chi ne ha usufruito.


"Attilio sapeva escogitare un'iniziativa dopo l'altra, sempre adatta all'ambiente, sempre suscitatrice di interesse; poi sapeva mobilitare un gran numero di persone, farle lavorare insieme, appianando sul nascere i contrasti, rinsaldando il buon volere e iniettando in ciascuno la fiducia nella riuscita di ogni impresa"


La finalità di ogni sua iniziativa era sempre squisitamente apostolica. Sentite quanta disinvoltura salesiana e quanta sensibilità educativa si sprigiona da questo aneddoto:

"Una domenica sera, reduci da una gita in montagna, stavamo entrando piuttosto stanchi in una stazione ferroviaria che in quel momento era abbastanza affollata. Un gruppetto di giovani stava cantando una canzone sguaiata. Attilio, fulmineo, gridò con la sua bella voce robusta: "Risotto numero uno!". Subito dopo le prime note avevamo soverchiato gli altri cantanti. Dopo il primo pezzo, l'attenzione dei presenti era tutta rivolta su di noi e su Attilio capocoro. L'altro gruppo zittì in breve tempo"


d) L'ascendente dell'educatore


La catechesi era al primo posto tra le sue occupazioni. Che fosse importante i ragazzi lo capivano anche dalla serietà esterna.


"Il campanello di D. Cantù suonava puntualmente alle ore 15 della domenica e chiamava a raccolta i ragazzi per il catechismo. Quello che ci meravigliava era sempre la classe di Attilio, di solito la IV Elementare: ordinata, in silenzio, si avviava verso le aule del primo piano; e pensare che solo qualche minuto prima quei ragazzi erano scatenati con Giordani nei giochi in cortile!

Ora la cosa era seria e importante e riusciva a compenetrare tutti nella sua missione di catechista: senza troppi "silenzio" che gli altri catechisti continuavano a gridare".


L'ascendente che egli godeva tra i suoi ragazzi era straordinario. Bastava che egli apparisse ed ogni disordine cessava.


"Tenere a bada una ventina o trentina di ragazzi, metà soprani e metà contralti, e insegnar loro la messa in canto del Perosi, quella del Vittadini e cose del genere, non era certo un'impresa di tutta tranquillità e facilità. Mi ricordo che, a causa della diffusa disattenzione e indisciplina di noi ragazzi, il maestro di musica dell'Oratorio si buscava più di un'arrabbiatura. Se però entrava il Giordani nella povera stanzetta della palazzina, in cui facevamo le prove di canto, allora, come per incanto, tutto filava liscio".



3. Al di là di quello che faceva, egli si imponeva per

quel che era.



Come già per D. Bosco, così per questo suo figlio, era sufficiente stare insieme e la sua ricchezza interiore si irraggiava sull'interlocutore, quasi fosse presenza sacramentale. Ecco un altro punto di vista per presentare la spiritualità di Attilio.


"Dopo l'infarto, Giordani era stato trasferito dall'Uff. Trasporti della Bicocca, all'Uff. Amministrativo, grattacielo Pirelli al 29° piano.

Io ero al 27°, nella Direzione Esportazione ed alla fine della giornata di lavoro, ancora teso per le "grane", sentivo la necessità di vederlo.

L'orario di lavoro era terminato, lui si intratteneva ancor un po' per programmare, agendina alla mano, i suoi incontri serali.

Mi salutava con un sorriso, ci si guardava in faccia e subito sentivo un senso di pace e serenità".

...ci si guardava in faccia e subito sentivo un senso di pace e serenità!


Ascoltiamo ancora quest'altra testimonianza che ha per protagonista una bambina e si avvale di tutto il candore della sua semplicità:


"Mia figlia Maria Chiara aveva sette anni, quando la portai ad una passeggiata organizzata dalla parrocchia di S. Agostino. Tutto andò bene e tornammo a casa contenti. Quando Maria Chiara fu a letto, le chiesi incuriosito: "Cosa ti è piaciuto di più: la gita sul battello (era la prima volta che la faceva) oppure il pranzo al ristorante (era la prima volta che ci andava) o il giardino di Villa Taranto (era la prima volta che lo vedeva)". Mi rispose sparata: "Il Sig. Giordani!" (era la prima volta che lo incontrava)."


Da dove tanto ascendente? I giovani andavano al di là del visibile e scoprivano la fonte interiore; scoprivano un insospettato retroterra di spiritualità. Il passaggio a quei due terzi di iceberg sommerso, avveniva sempre con tanto stupore. Bastava a volte un semplice dettaglio! Noi sappiamo quanto i giovani siano veri specialisti nel cogliere i particolari e nell'intuire lo spessore del loro significato.


"Il teatro era un suo mezzo di educazione apostolica; si assegnava parti di secondo ordine, ma di una efficacia unica. Anche le particine insignificanti da cameriere, le preparava con scrupolo.

Tutti hanno notato la bravura di Giordani nel recitare; vorrei però sottolineare un aspetto che mi ha colpito osservando dietro le quinte del nostro teatrino, dove noi collboravamo a fare i rumori del tuono e della grandine, prima che Attilio entrasse in scena.

Passeggiava lentamente, con aria mesta e seria, il viso rivolti verso l'alto, quasi ripassasse "la parte", che invece spesso improvvisava: per me pregava!".

...Per me pregava!

E ancora:

"Durante un pellegrinaggio a Roma mentre lo precedevo in bicicletta, notai in mezzo alla strada un mattone, perso forse da qualche camion, che poteva costituire un pericolo per chiunque non l'avese scorto in tempo. Io lo evitai e subito gridai a Giordani che mi seguiva di fare attenzione. Avanzai ancor un poco, poi mi volsi convinto che avesse fatto come me ; invece si era fermato, era sceso dalla bici e aveva spostato il mattone lungo il margine della strada poi mi raggiunse dicendomi: "Forse abbiamo evitato una bestemmia".


E' noto un piccolo inconveniente avvenuto nel giorno del suo matrimonio:

"Spuntò l'alba del 6 maggio 1944, giorno fissato per la celebrazione del matrimonio. Lo sposo, si sa, era mattiniero ma anche la sposa era arrivata con un po' di anticipo. In tal modo avevano preso in contropiede il sagrestano: in mezzo alla chiesa, infatti, troneggiavano ancora il catafalco e i candelieri predisposti per il precedente ufficio funebre. Il sagrestano, un po' sgomento, andò da Attilio a scusarsi e provvide a far sparire il mesto armamentario. Nell'attesa, Attilio sussurò a Noemi una versione spiritosa dell'incidente, facendola sorridere".


E' un dettaglio, è vero. Ma lo presenta come sovranamente libero davanti ai contrattempi, nel pieno dominio di sè. E distaccato!

Nel Questionario che si dà ai testi per rispondere in sede processuale, c'è anche questa domanda: "Il SdD era amante degli onori?".

Uno dei testi dice: "Personalmente la domanda mi fa ridere. Manifestamente è una domanda di rito, ma senza alcun fondamento nel nostro caso".

Così distaccato che l'ipotesi contraria...fa ridere!



4. Quella dedizione senza misura



Vorrei accennare ad una quarta angolazione da cui leggere la figura di Attilio: la sua dedizione a tempo pieno ai giovani.

L'ebbe prima di sposarsi: e ciò può non recare grande meraviglia. Ma l'ebbe anche da sposato: e ciò è fonte di grande meraviglia! Pur avendo una famiglia, pur non togliendo nulla alla famiglia, fece dell'Oratorio un vero prolungamento della sua famiglia. E vi si consacrò totalmente. C'è chi ha pensato che sia un caso unico nella storia:

"Non so se sono esistiti dei giovani e soprattutto dei padri di famiglia che abbiano saputo totalizzare così tante ore al servizio della formazione cristiana dei figli degli altri"


Non parliamo dei periodi precedenti al matrimonio. Se non era al lavoro era all'Oratorio. E se era fuori dell'Oratorio, certamente era in cerca di giovani:

"Ogni volta che poteva li aspettava all'uscita dalla scuola e si interessava di tutto pur di essere di aiuto alle loro necessità".


Interessante la seguente reminiscenza che risale al periodo del servizio militare:


"Il 1° Febbraio 1935 Attilio fu chiamato alle armi e destinato al 2° reggimento Artiglieria. Il 23 ottobre 1935 venne trasferito a Ferrara, ove il 5 Settembre 1936 terminò i suoi obblighi di leva.

Quel soggiorno ferrarese venne ricordato da D. Cesare Savazzi nel seguente modo:

"Era una sera di ottobre, quando apparve nella sala della nostra Associazione parrocchiale di Ferrara un soldato. Aveva un aspetto leale e gentile e presentava una lettera di raccomandazione consegnatagli dal suo parroco, l'amato D. Lajolo. Tra le altre cose il Parroco scriveva: "Vedrai in pratica qual tesoro di giovane è Giordani".

Attilio non smentì quelle parole, ma giorno per giorno, le attuò con mirabile e disinvolta autorità. Da quella sera in poi, l'Associazione divenne la sua famiglia, l'oratorio il suo preferibile ritrovo e il suo campo di lavoro nelle sue libere e strategiche uscite di caserma".


Si nutrì di presenza giovanile persino nel periodo della sua luna di miele.

"La settimana trascorsa a Vendrogno in luna di miele, fu, a dir poco, singolare: Attilio e Noemi erano frequentemente in compagnia di ragazzi, a cantare e giocare in santa allegria.Va ribadito con forza che tale continuità e coerenza di comportamento in Attilio, di per sè notevole durante la luna di miele, proseguì irresistibilmente, santamente fino all'ultimo giorno, anzi fino all'ultimo minuto della sua esistenza."



5. Educatore alla gioia



All'oratorio, prima ancora che il suo servizio egli donava se stesso. Faceva dono di sè e, soprattutto, educava al dono di sè. Ossia educava alla gioia.

Amava a tal punto i suoi giovani che il sacrificarsi per loro, non costituiva affatto un sacrificio.


"Quando nel dopoguerra fu conferito all'Adiesseci il premio istituito per onorare il miglior Delegato Aspiranti dell'Azione Cattolica Italiana, furono esaltati i suoi sacrifici e la sua diuturna dedizione; il festeggiato però tenne a precisare che non era affatto convinto di aver compiuto dei sacrifici, poichè fare il delegato Aspiranti era stato per lui una cosa che gli era sempre piaciuto"

A proposito ancora della diffusione della buona stampa da parte dei ragazzi, è detto:

"Se lui chiedeva un favore, non si poteva dire di no... Si rispondeva sempre di sì... Alla fine del faticoso turno domenicale, si era contenti della buona azione e di aver vissuto una domenica molto lunga e copleta.... Spesso spuntava alla prima messa Attilio. Non veniva al banco, ma da lontano ci sorrideva e ci incoraggiava e quando poi in cortile ci incontrava, il "bravo" non lo diceva, ma si capiva, pieno, caloroso che cancellava la nebbia e tutto il gelo del mattino e noi eravamo felici per merito suo"

... eravamo felici per merito suo!



Concludendo: "simpatico per gli stessi motivi di D. Bosco".


"Noi ragazzi da tempo avevamo capito che Attilio provava una sincera ammirazione e nutriva una particolare ammirazione per D. Bosco. In fondo, le cose per le quali quel santo ci riusciva simpatico erano suppergiù le stesse che ci rendevano simpatico Attilio. Probabilmente doveva esserci una sorta di affinità, se ambedue erano riusciti ad entrare così soavemente e in profondità nella vita dei ragazzi che avevano avvicinato. E' indubbio che, messo a confronto con D. Bosco, Attilio ebbe una sfera d'influenza più limitata e modesta, ma è altrettanto indubbio che generosissima fu la sua passione educativa la quale non cessò di espandersi e di fruttificare nel solco della primitiva tradizione salesiana".


Forse è difficile poter dire di più di un Cooperatore salesiano: "le cose per cui D. Bosco ci riusciva simpatico erano suppergiù le stesse cose che ci rendevano simpatico Attilio"!

"L'educazione - dice il CG24 - è il contenuto del carisma".

Conoscere D. Bosco?

Frequentando Attilio, si conosceva D. Bosco.

E stando al tema del Convegno: Conoscere Gesù?

Frequentando Attilio...


"Siamo in tanti che per merito suo abbiamo sorriso, abbiamo riso, abbiamo anche riso a crepapelle in tante svariate occasioni. Il riso che provocava non era mai inquinato dalle volgarità o dai doppi sensi. Quando recitava bastava la sua faccia seria o la sua andatura, il suo abbigliamento trasandato o il suo italiano macheronico a scatenare le risate in platea. Ma quanta misura e discrezione, dimostrava nei momenti in cui trattava cose serie o dolorose!"




MARVELLI

Il padre Luigi Lallemant, un gesuita vissuto dal 1588 al 1635, tra gl'insegnamenti della sua Dottrina spirituale, pone come punto di partenza un'espressione divenuta famosa e ripetuta dai suoi disce­poli come un ritornello di battaglia, come una provocazione all'eroi­smo. Le pas à Iranchir!, che si può tradurre: “ Superare il varco ”, oppure: . “ Fare il primo passo ”, “il passo decisivo ”. Il cardinale Giovanni Colombo commentava così: “ Fare il passo significa la volontà incrollabile, sincera, operosa di non rifiutare nulla a Dio, di star pronti a qualunque esigenza del suo divino servizio. Signifi­ca uno sganciarsi assoluto dalla riva della caducità per entrare in Dio, completamente. Significa un dono totale reale di sé, che me­glio si direbbe un abbandono nelle mani del Signore perché faccia di noi come più gli aggrada ” (9).





I primi martiri fra i nostri giovani.


Sono cinque: Edoardo (23 anni), Francesco (22 anni), Jarogniev (20 anni), Czeslaw (22 anni), Edoardo (20 anni). Tra i giovani, primi destinatari della nostra missione, essi inaugurano la serie dei martiri. Un martirio fiorito sulla formazione salesiana ricevuta all’Oratorio: “A sera nel carcere recitavamo le nostre preghiere salesiane e il rosario”.


Santi nella cornice dell’Anno Santo.


Sei nuovi martiri accomunati dalla freschezza della loro età (5 giovani non più ragazzi e un adulto ancora giovane), accomunati dalla stessa palma del martirio quasi a gridare con la forza del più eroico dei gesti che l’educazione alla fede può spingersi sino all’educazione al martirio.


Un gruppo "giovanile" salesiano.

Nel gruppo di martiri beatificati figurano cinque giovani di Poznan. Essi

La compresenza di questi giovani e don Kosalski in un'unica beatificazione è significativa: giovani da noi evangelizzati, coinvolti nell’apostolato, ci seguono fino al martirio e salgono agli onori degli altari insieme ai loro educatori.

Accomunati nella prigionia e nella morte, ciascuno di essi ha però una biografia singolare che si intreccia con quella degli altri per appartenenza ad un ambiente salesiano.



Prigionia e martirio

Tutti e cinque sono stati presi nel settembre 1940. Eduardo Kazmierski direttamente sul posto di lavoro, senza possibilità di congedarsi dai propri cari. Era domenica. Lunedì 23, la sera, dopo il coprifuoco, quando era appena ornato a casa fu la volta di Francesco. A casa e in generale nel cuore della notte furono pure presi gli altri tre in presenza dei familiari.

Si ritrovarono nella fortezza VII di Poznan. Passati prima al carcere di Neukoln, vicino a Berlino e poi ancora a quello di Zwikau in Sassonnia, subirono interrogatori, torture e poi furono adibiti a lavori pesanti.

Il percorso per i diversi luoghi di prigionia, lo si è potuto seguire grazie ai preziosi biglietti che essi hanno trovato il modo di scrivere. Contengono frasi brevi, ma sufficienti per aprirci uno spiraglio sulle vicende della prigionia e rivelare ai nostri occhi che si tratta di giganti dello spirito. "Dio solo sa quanto soffriamo. La preghiera ci fu unico aiuto nell’abisso delle notti e dei giorni". E su un altro: "Dio ci ha dato la croce, ci sta dando anche la forza di portarla".

Come per don Kowalski così per questi cinque giovani, c’è un commovente risvolto legato alla corona del rosario. Quando furono catturati vennero privati di tutto ciò che avevano addosso. La corona del rosario che essi portavano con sé fu buttata nel cestino. Proprio di lì approfittando di un momento di distrazione dei loro carcerieri, essi coraggiosamente ripresero quella corona che farà loro da preziosa compagnia nei periodi più difficili.

Prima di morire ebbero possibilità di scrivere ai genitori. A leggere i loro ultimi sentimenti, si resta muti come capita davanti alla statura dei grandi: "Non piangete. Noi siamo felici". Oggi sono beati.







E ancora:

“L'anima mia te lo promette, o Gesù, salire, salire sempre nelle vie della perfezione, della purezza, della carità, della santità. E in questa promessa una forza indomita, una volontà adamantina di se­guire la via tracciata, di raggiungere la meta, ad ogni costo. Solo così vi sarà coerenza con la cristiana comprensione del nostro dovere. Solo così potremo in qualche modo alleviare il dolore di Gesù, cooperare alla sal­vezza delle anime [...] ”.

Spende tutta la sua giovinezza nell’opera di ricostruzione di cui egli diventa il regista. Un lavoro massacrante e sempre ossigenato dalla preghiera.



In altre figure di santi ci sono frasi, episodi, eventi che dicono diretto ed esclusivo riferimento al fuoco che brucia dentro. Ma nel caso di Attilio Giordani non c'è un'espressione, un episodio, un evento che non sia collocato in rapporto ai giovani. Anche quando si tratta di una testimonianza muta, arriva a noi come tradotta, filtrata dall'occhio attento dei giovani quasi a dirci che è proprio quell'occhio giovanile a conferire alla testimonianza la sua giusta risonanza e quasi una giustificazione ultima.

Vogliamo parlare del suo servizio disinteressato, del suo distacco interiore? Osserviamolo in mezzo ai giovani: nel cortile, nel gioco.



* L'esercizio della buona morte

Una sola pennellata ma sufficiente per cogliere la preziosa capacità che egli aveva di lasciare ricordi indelebili in chi lo osservava, magari senza pronunziar parola:

"Quando nella terza domenica del mese, c'era per tradizione salesiana "l'esercizio della buona morte", alla famosa frase "preghiamo per quello che tra noi sarà il primo a morire", le teste si chinavano e noi ragazzi, di soppiatto, si cercava "quello". Con le labbra strette e spinte un po' in avanti, in quel minuto di silenzio tutto salesiano, si spiava tra i banchi dei vecchi, là in fondo, quel "primo".




* L'ascendente dell'educatore

La catechesi era al primo posto tra le sue occupazioni. Che fosse importante i ragazzi lo capivano anche dalla serietà esterna.

"Il campanello di D. Cantù suonava puntualmente alle ore 15 della domenica e chiamava a raccolta i ragazzi per il catechismo. Quello che ci meravigliava era sempre la classe di Attilio, di solito la IV Elementare: ordinata, in silenzio, si avviava verso le aule del primo piano; e pensare che solo qualche minuto prima quei ragazzi erano scatenati con Giordani nei giochi in cortile!


4. L’efficacia della sua presenza.


Come già per D. Bosco, così per questo suo figlio, era sufficiente stare insieme e la sua ricchezza interiore si irraggiava sull'interlocutore, quasi fosse presenza sacramentale. Ecco un altro punto di vista per presentare la spiritualità di Attilio.

Da dove tanto ascendente? I giovani andavano al di là del visibile e scoprivano la fonte interiore; scoprivano un insospettato retroterra di spiritualità. Il passaggio a quei due terzi di iceberg sommerso, avveniva sempre con tanto stupore. Bastava a volte un semplice dettaglio! Noi sappiamo quanto i giovani siano veri specialisti nel cogliere i particolari e nell'intuire lo spessore del loro significato.



E' indubbio che, messo a confronto con D. Bosco, Attilio ebbe una sfera d'influenza più limitata e modesta, ma è altrettanto indubbio che generosissima fu la sua passione educativa la quale non cessò di espandersi e di fruttificare nel solco della primitiva tradizione salesiana".