PRESENTAZIONE


PRESENTAZIONE

ALBERTO CAVIGLIA

CONFERENZE

SULLO

SPIRITO SALESIANO

CENTRO MARIANO SALESIANO - TORINO ISTITUTO INTERNAZIONALE DON BOSCO – TORINO (1985)

L'Edizione è stata curata da DON ALDO GIRAUDO

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CENTRO MARIANO SALESIANO

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Don ALBERTO CAVIGLIA nacque a Torino il 10 gennaio 1868. All'età di tredici anni venne accolto a Valdocco e vi frequentò il cor­so ginnasiale (1881-1884). Furono — come egli stesso affermerà ripe­tutamente in seguito — gli anni più belli della sua vita. Dotato di splen­dida voce da soprano partecipò alla scuola di canto della Basilica di Ma­ria Ausiliatrice, diretta dal Maestro Dogliani, e si esibì più volte come solista. Ma i ricordi più cari sono quelli legati all'amicizia con Don Bo­sco, che in quegli anni fu suo confessore. In lui trovò un robusto appoggio ed una guida illuminata per superare le difficoltà, che gli pro­venivano dal suo carattere vivacissimo, e per un corretto sviluppo delle notevoli qualità di ingegno ed arguzia di cui era dotato.

Affascinato dalla personalità del Santo e dal clima di serenità e di entusiasmo che regnava a Valdocco, decise di donare tutta la sua vita alla missione salesiana.

Seguendolo nei suoi spostamenti, con l'aiuto dell'Elenco generale della Società di San Francesco di Sales, lo troviamo a S. Benigno Canavese, dapprima come novizio (1884-1885) e poi studente dì filosofia (1885-1888). Dal 1888 al 1895 visse nel Collegio S. Filippo Neri di Lanzo Torinese, dove studiò teologia svolgendo, contemporaneamente, l'at­tività di assistente e di insegnante. Fu ordinato sacerdote il 17 dicembre 1892 per mano di mons. Riccardi, a Torino, nella cappella privata del­l'Arcivescovado. Due anni dopo venne trasferito come insegnante nel Collegio Manf redini di Este (1895-1896) e successivamente, in qualità di consigliere scolastico, lavorò prima a Parma (1896-1900) poi a Bor­go S. Martino (1900-1903). A Bronte (Catania) ebbe l'incarico di cate­chista (1903-1905). Infine si stabilì a Torino, nella comunità del S. Gio­vanni Evangelista, alla quale apparterrà fino alla morte (1943).

Nei primi vent'anni di attività salesiana e di impegno culturale e di­dattico l'ambito al quale egli dedicò speciale cura fu quello degli studi di letteratura italiana, latina e greca. Frutto di tale lavoro sono gli Ap­punti di prosodia e metrica latina e un Trattato di metrica greca.

Con la venuta a Torino nel 1905, Don Caviglia, trentasettenne, potè finalmente iscriversi all'Università e così completare, sul versante del me­todo scientifico, quella formazione culturale acquisita in lunghi anni di sudati studi personali che lo abiliterà a produzioni di notevole e riconosciuto valore nel settore storico. Nel 1906, in occasione di una seconda edizione dei suoi Appunti di prosodia e metrica latina, ebbe la ventura di sentire ampiamente lodato il suo lavoro da un docente universitario, ignaro di avere in classe, come allievo, il citato autore. Tra i maestri ricorderà sempre, con particolare riconoscenza per l'indirizzo metodo­logico e scientifico ricevuto, il Prof. Pietro Fedele, divenuto poi Ministro della Pubblica Istruzione.

La sua tesi di laurea su Claudio di Seyssel (vescovo di Torino dal 1517 al 1520), ampiamente arricchita e pubblicata, è tuttora ritenuta dagli specialisti opera definitiva e punto di riferimento obbligato. Questo lavoro, seguito dagli studi su Emanuele Filiberto di Savoia (editi nel 1928), gli aprì le porte della Deputazione di Storia Patria, che lo volle suo membro.

Talento e versatilità, uniti ad uno studio metodico e paziente e alla capacità di utilizzare sapientemente ogni momento di tempo disponibile, gli permisero di affiancare all'analisi dei problemi storici l'approfondi­mento appassionato dell'Archeologia Cristiana e dell'Arte Sacra. In que­ste discipline raggiunse tale competenza da vedersi assegnate cattedre all'Accademia Albertina, al Seminario Torinese e al Pontificio Ateneo Salesiano.

La preparazione scientifica e una capacità di indagine seria e meto­dica, unite al sincero amore per colui che lo aveva affascinato nella gio­vinezza, gli permisero di affrontare con entusiasmo ed esiti lusinghieri l'edizione critica degli Scritti editi ed inediti di Don Bosco. Tra il 1929 e il 1943 videro la luce le edizioni della Storia Sacra, della Storia ec­clesiastica, delle Vite dei papi, della Storia d'Italia e della Vita di Savio Domenico, accompagnate da poderosi ed eruditissimi studi dai quali emerge tutta la sua statura di studioso. Il voluminoso complesso di mano­scritti, di appunti ordinati e minuziosi, lasciati alla morte, permetterà di completare l'opera con l'aggiunta postuma delle edizioni critiche del Comollo, del Michele Magone e del Besucco Francesco.

All'impegno di studioso e di docente D. Alberto Caviglia affiancò l'attività di oratore, conferenziere e predicatore. «Chi ha avuto la sorte di udirlo — commenta il suo Direttore nel Necrologio — non dimenti­cherà facilmente la profondità e la genialità di quelle conferenze sem­pre intese a riprodurre il genuino pensiero di Don Bosco e il puro spi­rito salesiano” (G. Zandonella). È appunto in quest'ambito che si col­locano le presenti Conferenze sullo Spirito salesiano.

Come sacerdote si impegnò sul versante, tipicamente salesiano, del­l'educazione morale e culturale dei giovani (nonostante i molteplici in­carichi continuerà ad insegnare nel ginnasio S. Giovanni Evangelista), mantenne profondi legami spirituali con l'ambiente degli artisti e degli studiosi e dedicò parte delle sue giornate al ministero delle confessioni nella chiesa di S. Giovanni. Chi gli visse accanto per lunghi anni testimonia come la vasta cultura ascetica che traspare dai suoi studi andava ben oltre l'ambito accademico e si rivelava, attraverso la direzione spiri­tuale e la predicazione, profonda vita interiore, «che egli assimilava con un lavoro tanto metodico, quanto nascosto, di meditazione e di pre­ghiera (...). Sotto le apparenze di quel carattere chiassoso, perennemente pronto all'arguzia, alla spiritualità, a mille forme di originale gaiezza, si celava uno spirito che alla scuola di Don Bosco aveva appreso la scienza difficile della vita interiore (...)• Quello che invece non riusciva a celare era la sua fisionomia spiccatamente e tipicamente salesiana. Lavoratore ignaro di tregua o di vacanza, cuore aperto alla generosità, alla genti­lezza con tutti, visione ottimistica della vita, animo pronto e aperto a qualunque sacrificio, coscienza delle proprie responsabilità, alto con­cetto della missione educatrice salesiana (...). Delicatezza, riserbo, rigi­dezza nella pratica della povertà religiosa, attaccamento alle Regole, semplicità ammirabile nelle sue confidenze; il caro Don Caviglia viveva veramente quella salesianità che agli esercizi soleva predicare con tanta efficacia e competenza” (G. Zandonella).

Mentre si trovava a Bagnolo Piemonte (dove professori e studenti del Pontificio Ateneo Salesiano erano sfollati nel periodo bellico) per tenere un corso accelerato di Archeologia Cristiana, la sera del 25 ottobre 1943, venne colto da ictus cerebrale e perse l'uso della parola. La crisi si pro­trasse per alcuni giorni, ma sopravvenute complicazioni bronchiali gli impedirono di superarla. Si spense all'alba del 3 novembre. Aveva set­tantacinque anni.

Le CONFERENZE SULLO SPIRITO SALESIANO sono un fram­mento molto modesto, che ci presenta efficacemente, accanto all'opera dello studioso e dell'erudito, il versante non secondario, ma diffìcilmente documentabile dell'attività di un Don Caviglia predicatore.

Si tratta di una serie di conferenze dettate durante gli Esercizi Spi­rituali dei confratelli salesiani. Furono trascritte stenograficamente da qual­cuno degli uditori e mai riviste dall'Autore. Conservano quindi la vi­vacità e la spontaneità tutta bonaria del suo stile oratorio immediato, condito di espressioni argute e frasi dialettali.

Le prime dodici conferenze furono tenute ai giovani salesiani dello Studentato teologico di Chieri durante un corso di esercizi spirituali (25 giugno - 2 luglio 1938) che terminò con le professioni religiose e l'or­dinazione di ventuno sacerdoti e ventiquattro suddiaconi. Secondo lo schema del tempo i predicatori furono due: Don Caviglia per le istru­zioni e Don Casale per le meditazioni. In questo contesto comprendiamo anche il motivo delle tematiche scelte e il tono dell'esposizione (le istru­zioni avevano in genere un carattere più discorsivo e sereno rispetto alle meditazioni).

Dagli argomenti e dalla successione delle idee espresse nelle altre sette conferenze deduciamo che gli appunti e lo schema di riferimento uti­lizzati da Don Caviglia furono gli stessi. Tuttavia l'emergere di una serie di spunti originali determinò i curatori della prima edizione a ri­portarle per disteso. Le conferenze XIII-XVI sono tratte dalle istruzioni tenute agli esercizi di Gualdo Tadino (agosto 1937), mentre le ultime tre furono predicate durante gli esercizi di Roma (marzo 1938).

Ci troviamo di fronte ad un documento di indubbio valore e note­vole interesse che riporta, in tutta la sua freschezza, lo spirito vivace e profondo di un testimone della prima generazione salesiana. È, inoltre, la testimonianza di chi all'esperienza delle origini e alla conoscenza personale di Don Bosco affiancò lunghi anni di studio appassionato e competente sulla figura e le opere del Santo.

Le Conferenze di Don Caviglia, dattiloscritte e litografate negli Studentati teologici della Crocetta (la ed. 1949; 2a ed. 1953) e di Bollengo (1949), alimentarono la riflessione e la meditazione di tanti giovani salesiani, che ne fecero un punto di riferimento per la loro identità spi­rituale. La presenza in tali Studentati di un numero considerevole di con­fratelli provenienti da varie nazioni favorì una diffusione internazionale delle Conferenze, specialmente nelle case di formazione. Possiamo quindi supporre che esse abbiano avuto un ruolo non trascurabile nel conso­lidamento del senso di appartenenza e nella diffusione e focalizzazione di valori fisionomici comuni nella Congregazione salesiana.

La consapevolezza di trovarsi di fronte ad uno dei primi e più sin­golari tentativi di sistemazione degli elementi caratterizzanti dello Spi­rito salesiano e la difficoltà a reperire le antiche edizioni litografate ha determinato il Centro Mariano Salesiano di Valdocco e l'Istituto Inter­nazionale Don Bosco - Crocetta a curare questa nuova edizione e stampa. Il documento è rispettato nella sua originalità con la semplice aggiunta, dove lo si è ritenuto necessario, della traduzione di citazioni latine.

Ci auguriamo che una più ampia diffusione delle Conferenze favo­risca, presso le nuove generazioni salesiane, un maggior interesse per i valori irrinunciabili del nostro spirito, un crescente entusiasmo opera­tivo e una sempre fresca creatività al servizio della missione educa­tiva e pastorale, sulla scia di Don Bosco e dei suoi migliori discepoli.

Torino, 24 maggio 1985.

ALDO GIRAUDO

Bibliografia

  • Bollettino Salesiano 67 (1943) 11, p. 182.

  • Salesianum 6 (1944) 1-2, pp. 5-6.

  • E. Valentini, Caviglia sac. Alberto, scrittore, in Dizionario biografico dei sale­siani, Torino, Ufficio Stampa Salesiano, 1969, pp. 76-78.

  • G. Zandonella, Sac. Alberto Caviglia. Necrologio, Torino, Collegio S. Giovanni Evangelista, 10 novembre 1943.

1 PARTE PRIMA

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CONFERENZE I-XII

(Chieri, 25 giugno - 2 luglio 1938)


1.1 I. SPIRITO SALESIANO

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Quapropter magis satagite, ut per bona opera certam vestram vocationem et electionem faciatis. (Quindi, fra­telli, cercate di rendere sempre più sicura la vostra voca­zione e la vostra elezione con le buone opere. 2 Pt 1,10).

È il testo citato da Don Bosco come fondamento alle sue istruzioni tenute ai chierici ordinandi ed ordinati negli Esercizi di Trofarello del 1868 e ripetute ancora altra volta a Trofarello nel settembre dell'anno successivo; un'altra volta ancora nella sua circolare latina dell'8-XI 1-1880; e questa medesima idea completava con un altro testo: «Maneamus in vocatione in qua vocati sumus» (Restiamo saldi nella vocazione nella quale siamo stati chiamati), che è un adattamento del testo preso dalla prima lettera ai Corinzi 7,20: «Unusquisque in qua vocatione vocatus est, in ea permaneat» (Ciascuno rimanga nella situazione in cui era quan­do è stato chiamato).

Testo scritturistico quindi caro a Don Bosco e da lui più volte cita­to... Io, che sono un povero salesiano e che parlo da salesiano, rivolgo a voi queste parole perché costituiscono la direttiva spirituale che vi deve guidare come salesiani e come chierici studenti aspiranti al Sacer­dozio. La materia che tratterò sarà adattata per voi e studiata solo per voi, studiata per i chierici religiosi, salesiani, prossimi al Sacerdozio, assommando ogni cosa nel concetto unico della salesianità.

Noi dobbiamo vedere tutte le cose secondo Don Bosco. Nella mia lunga vita di salesiano e nei miei studi personali mi sono convinto che per noi salesiani non deve esserci altra direzione nel lavoro spirituale, altro testo sul quale fondarci per dirigere le nostre idee, se non la figura, le parole, le tradizioni di Don Bosco. Don Bosco non è solo un esempio da citare, ma il nostro modello, il nostro maestro, il nostro tipo; dev'es­sere il nostro testo, non perché semplicemente, essendo salesiani, abbia­mo come Fondatore S. Giovanni Bosco, ma perché la Chiesa, canoniz­zando Don Bosco, ha inteso canonizzare lo spirito con il quale si è fat­to santo: questa forma di vita è precisamente quella che ci ha lasciato come esempio e tradizione e che forma la nostra eredità, la nostra di­rettiva. Noi non dobbiamo andare a cercare nelle biblioteche nessun al­tro tipo: la nostra serie di volumi ha un solo nome: Don Bosco! Questo non è feticismo, ma dovere; c'è la parola infallibile della Chiesa; l'au­tore dell'«Ami du Clergé» dice che quando si fanno beati, si può discu­tere se entra la infallibilità, ma quando si tratta di canonizzazione, più cattedra di quella di S. Pietro non c'è; è una infallibilità categorica, c'è di mezzo l'infallibilità della Chiesa stessa che dice Don Bosco santo, il nostro santo, perché è vissuto così, e noi dobbiamo vivere come è vissuto lui, vivere la sua tradizione, la sua vita stessa, facendo come egli ci ha insegnato. Secondo questo testo viviamo la nostra vocazione e saremo sicuri di farci santi.

Ho detto questo perché tutto il mio parlare avrà una specie di mono­tonia facendo sempre capo ad uno stesso nome; tutto il nostro lavoro deve essere in noi la costruzione, il perfezionamento o finitura della salesianità, che consiste in questa semplice teoria: Don Bosco ha voluto così, ha fatto così, ha insegnato così, è vissuto così; ed io per essere salesiano di Don Bosco, devo essere così; e tutte le nostre considera­zioni termineranno con altrettanti «così», i miei discorsi devono essere 12 «così» di Don Bosco ed ultimo sarà: «eja, eja... così!».

«Quapropter magis satagite, ut per bona opera certam vestram vocationem et electionem faciatis» (Quindi cercate di rendere sempre più sicura la vostra vocazione e la vostra elezione con le buone opere). Se Don Bosco fosse qui al mio posto, si toglierebbe la berretta, se la rimet­terebbe e comincerebbe così: «Quindi...» perché questo è il pensiero suo per i chierici ordinandi, perché l'idea di Don Bosco è che la direzio­ne del lavoro spirituale dev'essere rivolto ad assicurare la nostra voca­zione e la nostra elezione mediante le buone opere, mediante un giusto e santo tenore di vita. Ecco il concetto di Don Bosco: «Noi salesiani abbiamo una vocazione ed una elezione»; ossia, tutti diciamo di avere una vocazione, e noi salesiani, chiamati alla vita chiericale, abbiamo una vocazione speciale, oltre quella comune a tutti, quindi il testo scritturistico può essere compreso in quanto si allude alla nostra vocazione generica e specifica che è vocazione superiore ed una scelta; siamo dei salesiani scelti, abbiamo una distinzione; il lavoro d'imboscamento che intendo fare durante questi esercizi s'incomincia quindi anche a sentire nell'uso dei testi. Le nostre non sono due vocazioni, ma una nell'altra, una è appoggio dell'altra: essere sacerdoti è culmine della salesianità, essere salesiani è mezzo pratico per essere buoni sacerdoti. Non si può essere buoni salesiani e cattivi preti, né buoni preti e cattivi salesiani. Non si può, perché la nostra vita non è una qualunque vita, ma è vita del buon salesiano; il nostro destino è stato ordinato al destino dei sacerdoti. Don Bosco è uno solo, tutto d'un pezzo: è un santo salesiano e sacerdote, è un sacerdote e salesiano.

È indispensabile essere buoni salesiani quali ci pensò e volle Don Bosco per essere e riuscire buoni sacerdoti come fu Don Bosco e come ci avrebbe voluto, come d'altronde nel mondo un sacerdote non può di­spensarsi di essere un galantuomo ed un buon cristiano.

Il decalogo salesiano

Come Don Bosco voleva i suoi salesiani? Ecco:

Chi non vuol lavorare, non è salesiano.

Chi non è temperante, non è salesiano.

Chi non è povero in pratica, non è salesiano.

Chi non ha cuore, non è salesiano.

Chi non ha purezza, non è salesiano.

Chi è indocile e libertino, non è salesiano.

Chi non è mortificato, non è salesiano.

Chi non ha retta intenzione, non è salesiano.

Chi non ha un'anima eucaristica, non è salesiano.

Chi non ha divozione mariana, non è salesiano.

Voltate la formula al positivo e voi avrete il Decalogo del salesiano.

Il buono spirito salesiano

Chi è il salesiano di buono spirito? La parola: «buono spirito» ser­ve per distinguere i veri religiosi dai mestieranti di convento e della vita religiosa. Il vero religioso ha buono spirito, il mestierante di dozzina è quello contro cui combattono il Gasquet ed il Maurin, benedettino. Il buono spirito distingue il buon religioso che penetra a fondo lo spirito e la tradizione del proprio istituto e non guarda solamente al meccanismo esteriore del mestierante, che non ti sbaglia una regola ma ti lascia bruciare la casa!

Il buono spirito è dato dalla tradizione del proprio istituto: spirito nel senso di tradizione è vivere le opere secondo lo spirito e la tradizione.

Come si mostra nella nostra pratica di poveri salesiani? Si mostra nel­l'affezione, nell'interesse alle cose della Congregazione, interesse anche per le cose esteriori e materiali. Ci s'interessa delle cose della casa, ci si sente tutti salesiani in questo spirito di solidarietà così prezioso per cui Don Bosco scrive la sua lettera inedita del 1885. Si mostra con la dirit­tura dell'intenzione, che ricerca il bene per il bene e non per egoismo e per sete di onore. Cerca unicamente la gloria di Dio (questo costituisce il primo punto di quella famosa circolare).

Dimostra disinteresse e sacrificio personale, che è contro al “quaerunt quae sua sunt” (Cercano il proprio interesse). Non si mette in vista né cerca di piacere, non lavora per la carriera, non cerca di tenersi indietro o scusarsi per non far niente, ma lavora con zelo. Il Papa dice: spirito di nobile precisione, impegno nel lavoro, spirito di lavoro, cura del lavoro, ricerca del lavoro. Non rifiuta nulla, non si lagna continuamente: il giovane professore che dopo due ore di scuola si mostra vittima del lavoro, non ha buono spirito. Il lamentarsi troppo non è spirito salesiano, mentre invece è buono spirito l'osservanza semplice, cordiale e non pau­rosa, sincera e volonterosa del Regolamento. È buono spirito di sempli­cità dei costumi, la pratica della povertà nel tenore di vita, il contentarsi di tutto, specie negli apprestamenti di tavola. È bontà e tolleranza; è l'“obsecro vos ut digne ambuletis vocationem, in qua vocati estis, cum omni humilitate et mansuetudine, cum patientia, supportantes invicem in cantate, solliciti servare unitatem spiritus in v'inculo pacis” (Vi esorto a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amo­re, cercando di conservare l'unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace Ef 4,1-3).

Spirito di bontà, di tolleranza ed unione, come scrive Don Bosco nel­la seconda parte della sua lettera. D. Cagherò insisteva sempre su que­sto tasto; docilità che è contraria alla mormorazione, che è ubbidienza, mortificazione, temperanza, è il saper vivere senza tante cose. Tutto il contrario è la mancanza del buono spirito: regno dell'ozio, della gola, della mormorazione, dell'egoismo personale, dell'apatia, del disfattismo, che vede male ovunque; dell'inosservanza, della discordia, della mon­danità, della perdita di tempo; soprattutto del bisogno di eccezioni; quando un salesiano ha continuamente bisogno di eccezioni (e si potrebbe chiamare il «signor Ma Lui…») non ha buono spirito. Il Card. Cagherò aveva questa formula: «Il buon salesiano esce di rado, vive ritirato, mangia poco, lavora molto, s'alza presto, osserva la regola, vuole bene a tutti, prega spesso, è sincero». Il profilo salesiano presentato mediante antitesi, è tale che nessun ordine religioso lo può attribuire a se stesso. “Il salesiano è austero ed allegro; è divoto e disinvolto; è esatto e libero di spirito; laborioso e disinteressato; modesto e intraprendente; casto e sa trattare; prudente e schietto; umile e coraggioso; bonario e sa essere eroico; povero e fa la carità; amorevole con tutti e dignitoso; temperante e discreto; docile e zelante; schietto e rispettoso; studioso e versatile”. 15 antinomie che fanno del salesiano un tipo tutto caratteristico e invi­diato dagli altri. Il salesiano è la negazione di ciò che è posa, doppiezza, ricercatezza, egoismo, bene stare, comodità, gola, accidia. Don Bosco è nato con 4 cose in testa che gli ripugnavano: l'aveva con l'ozio, l'intem­peranza, l'immodestia, la mormorazione. Tre per natura e una gli si era aggiunta per esperienza. Molto caratteristico è un motto del card. Ca­gherò: “Poltroni, mangioni, testoni e sornioni non fanno per Don Bosco e Don Bosco non li vuole”.

Ho trattato così l'argomento, perché il chierico studente rischia di dimenticare la vita essenziale, pratica e di vivere solo per i suoi studi e la disciplina, trasportando tutto nel mondo dei suoi libri e dimenticando il resto, in modo che quando dovrà tornare al lavoro, bisognerà che si rifaccia da capo: allora, rifacciamoci subito!

Ut per bona opera certam vestram vocationem ed electìonem faciatis” (Cercate di rendere sempre più sicura la vostra vocazione e la vostra elezione con le opere buone). Per essere sacerdoti come Don Bo­sco, studiamo di essere buoni salesiani come Don Bosco ci ha voluti, ed allora faremo certa la nostra vocazione e ci renderemo degni di elezione.

1.2 II. DON BOSCO CHIERICO

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Emitte lucem tuam et veritatem tuam, ipsa me deduxerunt et adduxerunt in tabernacula tua. Et introibo ad altare Dei, ad Deum qui laetificat iuventutem meam. (Manda la tua verità e la tua luce; siano esse a guidar­mi, mi portino al tuo monte santo e alle tue dimore. Verrò all'altare di Dio, al Dio che rallegra la mia giovi­nezza. Sai 42,3-4).

È questa la preghiera pel giovane chiamato al monte santo del sa­cerdozio. La sua giovinezza s'illumina di questa visione radiosa, di que­sta aspirazione e protezione dello spirito: accostarsi al monte santo, al Dio che letifica la sua giovinezza.

Per noi anziani è caparra di giovinezza nello spirito, ove non si deve mai invecchiare; per voi giovani quest'idea è meravigliosamente adattata e deve illuminare tutta la vostra gioventù; specialmente nel gior­no del dubbio e della tristezza dite: “Emitte lucem tuam...” (Manda la tua luce...).

Il giovane salesiano che da vicino o da lontano si prepara a divenire sacerdote, non può stare incerto sulla via da seguire. Questa luce, questa fedeltà ci è già assegnata perché siamo salesiani ed abbiamo per mo­dello un santo, il santo destinato proprio per lui dalla divina Provvidenza come guida e modello. Se per tutti i salesiani Don Bosco è guida, mo­dello, Maestro nella vita dello spirito, tanto più è a dirsi per questo gio­vane e per questo periodo della vita.

Qui a Chieri si deve avere la sensazione della vita di Don Bosco, perché egli è vissuto in questo clima, ha percorso queste vie, e noi dob­biamo vedere il chierico Bosco coi capelli ricciuti che cammina coi suoi amici: Comollo, Garigliano, Giacomelli. Ogni giovane salesiano non può essere incerto sulla sua vita, avendo avanti Don Bosco. Noi dobbiamo avere un'unica aspirazione: divenire preti come era prete Don Bosco, quindi essere chierici come era chierico Don Bosco.

Don Bosco prete non è un sacerdote dell'ultima ora, che si dà al sacerdozio dopo aver avuto un'altra vita, come avvenne per tanti altri; Don Bosco ancora giovinetto sentì ed espresse la sua vocazione chiara­mente: divenire sacerdote per darsi cura della gioventù: “Voglio studiare per farmi prete e mettermi a far del bene a questi miei compagni, che non sono cattivi, ma stanno per diventarlo, perché nessuno ha cura di loro” (MB, I). Prepararsi per essere buon sacerdote è dovere di qualun­que chierico; essere sacerdoti come Don Bosco è dovere dei chierici salesiani.

Tutta la gioventù di Don Bosco è una preparazione assidua, consa­pevole, voluta al sacerdozio. Questo ragazzo ha sentito dai primi mo­menti l'aspirazione ad essere sacerdote ed ha ordinato tutta la sua siste­mazione morale all'idea di divenire prete e di dedicarsi alla gioventù. A 9 anni ha un sogno dove è implicitamente inclusa l'idea che ha biso­gno di un ministero per far del bene a quei giovani, per quanto non sia ancora adombrata l'idea del sacerdozio.

Da quando si diede allo studio del latino, per tutto il tempo di gin­nasio, ove fece gli studi pubblici regolari, dal 3 novembre 1835, in cui entrò nel seminario, sino al 25 maggio 1841, quando partì per Torino per fare gli Esercizi spirituali ed essere consacrato sacerdote il 6 giugno, fino a questo momento ha sempre vissuto l'idea concentrata in un unico punto: prepararsi per essere sacerdote, per essere un vero e buon sa­cerdote. La vita del chierico che deve essere vita di santità, può e deve prendere come modello colui il quale ha pensato ad essere un sacerdote, ma il sacerdote salesiano che ha già in germe la salesianità integrale della sua vita.

La santità di Don Bosco nel periodo del suo chiericato fu quella del chierico santo con alcuni sintomi della sua futura vocazione, perché fin d'allora si vedeva che inclinava verso la gioventù e passava per chierico santo. Alla fine dei 6 anni di seminario (fu dispensato dal 7° per l'età), nello scrutinio finale ove si registrano le qualità dei singoli e il cui ver­detto è scritto nel registro che esiste ancora, è detto: Chierico zelante e di buona riuscita. La santità non è materia da registro, quindi non c'è di più. Parleranno di lui chierico santo i compagni ed i superiori.

Nel voi. I (pagg. 516-517) su undici testimonianze, quattro parlano del­la santità e della perfezione di Don Bosco. A pag. 504 sono riportate le parole del Padre Felice Giordano, che scrisse la vita del chierico Burzio, e parlando del piissimo sacerdote Bosco Giovanni, che gli aveva scritto una lettera sul chierico Burzio, dice: “Sembra che descriva se stesso”.

Don Bosco riconosceva il bene che aveva ricevuto in seminario; ed egli insisteva che il senso della riconoscenza e gratitudine è il sintomo migliore per conoscere l'anima dei giovani; ed egli, vissuto 6 anni in seminario, quando esce, dice: “Io mi separai con dolore da quel luo­go... dolorosa quella separazione da un luogo ove ebbi la educazione alle scienze, allo spirito ecclesiastico, ove ebbi tutte le prove di bontà e di affetto che si possono desiderare; per questo quella separazione mi fu dolorosissima” (MB. I, 68-69).

Quindi riconosceva che la vita di seminario gli aveva dato qualche cosa: l'educazione del prete alle scienze, o quel qualche cosa che si chiama spirito ecclesiastico. Ora l'averlo riconosciuto vuol dire che egli lo ha posseduto. Tengo per certo che tutti coloro che mi ascoltano non la­sceranno passare l'anno senza fare assidua lettura sul chiericato di Don Bosco (pagg. 359-363). Leggete ogni mese e ritenete quello che vi dice un umile salesiano: quella lettura vi servirà di più che tutti gli esercizi spirituali; imparerete che cosa era il chierico Bosco.

Il programma del chierico salesiano studente è di divenire un Don Bosco prete, preparandosi con l'essere un Don Bosco chierico. Ora sen­tite che cosa fece Don Bosco.

Il giorno della vestizione, fatta al paese, mamma Margherita, che non sapeva leggere, chiama il suo figliuolo e gli dà due ammonimenti: 1°: Non è l'abito che onora il tuo stato, ma la virtù. Guarda di non di­sonorarlo: piuttosto lascialo stare. 2°: Abbi sempre divozione alla Ma­donna, sii tutto della Madonna!.

Quando mette la veste formula due propositi: Abbandonare ogni di­vertimento e dissipazione. Fuga e aborrimento di tutto ciò che può essere pericoloso per la castità.

Entra in seminario, trova il Direttore spirituale, canonico Ternavasio, e gli domanda: “Come mi debbo regolare?” — Una cosa sola: l'esatto adempimento dei vostri doveri —. E Don Bosco se lo scrive e ricorda ancora dopo 50 anni.

Don Bosco aveva un altro modello: l'imitazione di Don Cafasso, che aveva preso messa un anno prima (MB. I, 374-5).

Di Don Cafasso ha detto: “Suo contrassegno era questo: le doti ordi­narie trafficate in grado eroico”. E il 28 giugno 1860 nel panegirico del Cafasso, che poi pubblicò, disse: “Virtù straordinaria del Cafasso fu il praticare costantemente e con fedeltà meravigliosa le virtù ordi­narie”.

Questo è il programma di tutta l'ascetica di S. Francesco di Sales e dei grandi asceti. Questo è ciò che il Papa, il 9-VI-1933, disse parlando delle virtù di Savio Domenico: Vivere la vita cristiana con spirito di nobile precisione. Questo non è altro che il tema spirituale di Don Bo­sco nell'imitare il Cafasso.

Nella vita pratica di seminarista fa una scelta nelle amicizie; si co­stituisce una quadruplice di santa politica di virtù fra Garigliano, Gia­comelli, Comollo e Bosco. Parlando sempre della Madonna e di Dio e gareggiando nell'essere i migliori nello zelo, nello studio, nell'economia del tempo. Don Bosco è conosciuto per l'economia del tempo (ritenete bene a mente che il sapere di Don Bosco è tutto sapere rubato, acqui­stato a tempo perso. Il sapere salesiano è tutto sapere rubato. Anche Don Bosco aveva la sua scuola regolare, eppure quanto ha studiato! Tutti si meravigliano che Don Bosco avesse facilità nel raccontare fatti e aned­doti, ma Don Bosco s'era letti i 30 volumi del Bercastel e la storia del Cristianesimo).


Programma della quadruplice era: socievolezza, allegria, bonarietà, essere compiacenti con tutti! E Don Bosco cuciva le scarpe, attaccava bottoni, faceva la barba... e tutti lo cercavano per questo.

Nello studio non aspettava tutto dalla scuola e non era passivo (chi dice — basta — non capisce: Don Bosco andava a fondo e cercava di assimilare le cose).

Nota caratteristica della quadruplice era il bisogno della Comunione. Lotta allora sostenuta nei seminari secondo l'uso gesuitico; al capo 32° del Regolamento di S. Ignazio, si dice che gli scolastici devono andare una volta sola alla settimana alla Comunione per non perdere tempo negli studi.

Altra caratteristica era l'amore ai giovani: nelle processioni Giovanni Bosco era guardato dalla gente come il “chierico ricciuto” che voleva bene ai loro ragazzi.

Tra il Comollo e il Bosco, vissuti tre anni insieme, vi era una gara di virtù. Don Bosco ha detto di Comollo che gareggiavano nella morti­ficazione, ma dice che pure egli non osava seguirlo. Numerose sono le massime che Don Bosco ha imparato dal Comollo e che sono passate nell'uso della vita salesiana: “Fa molto chi fa poco, ma fa quel che deve fare” — “O parlare bene della gente o tacere affatto”.

Compostezza esterna: Comollo più grave insegnava a Don Bosco come comportarsi; ed egli il 3-XII-1860 faceva ai chierici una conferenza sul modo di diportarsi esternamente per mostrare la dignità della propria vocazione. L'origine prima di questo insegnamento è l'amicizia con Co­mollo.

Il sentimento della Comunione era eccitato insieme correndo: il Co­mollo era più agitato e faceva tremare il banco per la commozione; Don Bosco stava composto, equilibrato, meditando in se stesso; fra loro si aiutavano nel lavoro di autocorrezione e di reciproca correzione con l'in­dicarsi i difetti. Don Bosco aveva il sangue che bolliva. Io ho conosciuto Don Bosco vecchio e santo, eppure ricordo che nel 1886, mentre teneva un discorso per la professione religiosa a San Benigno, ebbe uno scatto tale che se in via ordinaria si mostrava calmo, era perché aveva della virtù. Fu il Comollo che gli insegnò a frenare l'ira.

Nella Congregazione sono proibite le amicizie particolari, ma i supe­riori permetteranno l'unione di due anime solo intese a progredire nel bene.

Tra gli altri compagni di Don Bosco vi era il Giacomelli, più tardi suo confessore. Era entrato in seminario un anno dopo Don Bosco. Gli si avvicinò, gli chiese come comportarsi: il nome di Gesù e della Madon­na salva tutto. Tra loro si forma il gruppo che parla di Dio e di Maria.

Così Don Bosco finisce gli anni di filosofia e di teologia; durante le vacanze va a casa, frequenta la parrocchia del paese; e di quel tempo il Teologo Cinzano, suo parroco, scrive: “In questo chierico vedevo qualcosa di straordinario”. Notò la diligenza nelle funzioni, nella pietà, e quello che S. Tommaso nella IIa-IIae, 166, VII chiama studiositas, ossia il bisogno di studiare, la insaziabilità di imparare pensando al fu­turo.

; Don Bosco ha coltivato anche la cultura profana: conosceva tutti i classici latini e italiani. Dopo il 2° anno di filosofia legge l'Imitazione di Cristo e capisce la bellezza degli scrittori ecclesiastici.

Entra in teologia, che va dal 1837 al 1841, maturo di mente, carattere arrotondato, affronta gli studi teologici con profondo desiderio di assimi­larli. Ai teologi della Crocetta il 6 giugno 1929 il Papa diceva: “Nien­te teologia senza ascetica, niente ascetica senza teologia”. Don Bosco era ripugnante al letteralismo.

In questo periodo Don Bosco impara da Comollo il segreto di pregare senza distrazione: “Come fai?” — “Colui che prega è come chi va dal re” —. Don Bosco se lo scrive in un segnacolo nel Breviario e lo man­tiene per tutta la vita.

Durante lo studentato avviene una rivoluzione interna: nel 1839 pre­dica a Pasqua il Teologo Borei. Elettrizza i chierici; Don Bosco gli par­la: “Come fare per conservare lo spirito della vocazione?”. Il Teologo risponde: “Con la ritiratezza e la frequente Comunione si perfeziona e si conserva la vocazione e si forma un vero ecclesiastico”. Perfetto programma per chi deve ricevere gli ordini.

Muore il Comollo nelle braccia di Don Bosco. E rimane a Don Bosco il terrore del giudizio, tanto che è preso da una crisi di spavento e per 15 volte lo devono sostenere e confortare. Dopo, una visione della Ma­donna, lo rassicura: “Sta' tranquillo, hai lavorato per il mio onore e sarai salvo”. Ancora nell'ultimo testamento a Don Bosco si presenta l'idea del giudizio di Dio.

Nell'ultimo anno domanda di essere dispensato dal 4° col permesso di dare gli esami; durante le vacanze studia e si prepara, ed è sempre pronto a sostituire chiunque nella predicazione: ed era ancora suddia­cono!

Tornato in seminario lo fanno prefetto. Qui incontra il chierico Burzio, che s'era posto per programma la pratica del dovere. Era definito da Don Bosco “il perfetto modello chiericale”.

Ogni cosa era fatta con prontezza, con grazia, con ilarità, proprio come dice il Papa: “Spirito di nobile precisione”. E Don Bosco dice che faceva tutto bene, perché operava per coscienza non per costumanza, ma tutto con costanza e desiderio, contento di andare in chiesa. Due oggetti della sua pietà: Gesù Sacramentato e Maria Santissima.

1.3 III. SPIRITUALITÀ SALESIANA

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Huius rei gratia flecto genua mea ad Patrem Domini Nostri Iesu Christi, ex quo omnis paternitas in caelis et in terra nominatur, ut det vobis secundum divitias gloriae suae, virtute corroborari per spiritum eius in interiorem hominem; Christum habitare per fidem in cordibus vestris, in caritate radicati et fundati. (Per questo io piego le ginocchia davanti al Padre del Signore no­stro Gesù Cristo, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome, perché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, di essere potentemente raf­forzati dal suo Spirito nell'uomo interiore. Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così siate radicati e fondati nella carità. Ef 3,14-17).

Tratto che si può dire preambolo di ogni studio di mistica; tratto il più meraviglioso del Nuovo Testamento per le anime che aspirano a trovare la sopraeminente scienza della carità di Cristo, come si legge nella Messa di s. Francesco di Sales.

Riprendiamo il pensiero di ieri sera, affinché tutto sia collegato e perché abbiamo sempre Don Bosco presente, perché, come diceva la B. Mazzarello: «Possiamo vivere alla presenza di Dio e di Don Bo­sco».

Don Bosco, scrivendo la lettera per la vita del chierico Burzio, scris­se che in questo chierico non si sarebbe potuto desiderare di più. Pro­gramma ottimo per qualunque chierico. Questo giovane, dal quale non si poteva desiderare di più si esprime con Don Bosco così: “Desidero mol­tissimo di farmi sacerdote, ma l'imbroglio sta che prima di essere prete bisogna che io diventi santo, diventi santo, santo, santo!”. Ecco il vo­stro programma, il vostro stemma, l'ideale della vostra preparazione; la vita che conducete adesso è vita di preparazione intellettuale, scientifica, preparazione morale di volontà, di virtù, di allenamento dello spirito, perché arriviate al sacerdozio preparati. Essere sacerdoti, sì, ma come? Diventando santi.

Lasciatemi giocare su questo termine: preparazione è il tema del discorso che Pio XI il 17-6-1932 teneva ai suoi seminaristi di Roma in­segnando loro che “la vita dev'essere preparazione: d'intelligenza, di sapere, di cognizione, di preparazione morale e spirituale, di volontà e di santità”. Perché cito questo nel discorrere della preparazione? Perche in quel discorso, per mostrare ai suoi giovani chierici in che modo dovevan prepararsi alla vita chiericale, per essere un giorno dei sacer­doti ed apostoli d'azione, il Papa non ha voluto altro esempio da por­tare che il nostro Don Bosco. I due terzi del suo discorso sono dedicati a mostrare in che modo Don Bosco ha operato in sé la preparazione intellettuale, scientifica, la preparazione dell'intelligenza e del sapere, e soprattutto la preparazione della volontà e dello spirito. Ed allora ha pronunciato delle parole classiche, epigrafiche, che vanno incise nel bronzo e non mai dimenticate. Il Papa ha mostrato ai chierici suoi che per riuscire buoni sacerdoti bisogna imparare da Don Bosco la vita inte­riore, bisogna copiare da Don Bosco quello che fu più stupendo e me­raviglioso nell'anima sua, l'abito d'interiore e continua unione con Dio, l'assidua preghiera, l'essere continuamente con Dio anche in mezzo al turbinio degli affari.

Il Santo Padre aveva potuto vedere Don Bosco da vicino, e vedere tutto quello che non tutti avevano il piacere di vedere, anche tra i suoi figli (già allora molti salesiani non capivano D. Bosco, ed era ancora vivo!). Aveva visto la sua preparazione di santità, di virtù, di pietà, la sua vita di tutti i momenti che era una immolazione continua di carità, un continuo raccoglimento in preghiera. Ma ciò che si impresse più vivamente in lui era il vedere un uomo che era attento a tutto quel­lo che accadeva attorno a lui: c'era gente che veniva da tutte le parti d'Europa, della Cina, dell'India, ed egli in piedi, su due piedi, come fosse cosa d'un momento, sentiva tutti, afferrava tutto, rispondeva a tutti e sempre in alto raccoglimento; si sarebbe detto che non attendeva a niente di quello che gli stava attorno, si sarebbe detto che il suo pen­siero era altrove: era con Dio, nello spirito d'unione; ma poi, eccolo rispondere a tutti: cosa che dapprima sorprendeva e poi meravigliava, era questa vita di raccoglimento che il santo menava nelle ore notturne e diurne.

Avete sentito la parola del Papa su Don Bosco, quale lo ha capito lui. Don Bosco aveva lo spirito altrove; è questa la meraviglia più grande che hanno avuto coloro che studiarono Don Bosco per il processo di ca­nonizzazione. Ciò che fece meravigliare di più, fu la scoperta dell'in­credibile lavoro di costruzione dell'uomo interiore. Il Card. Salotti, il 20-VI-1914, riferendosi agli studi che andava facendo, diceva al S. Padre che “nello studiare i voluminosi processi di Torino, più che la grandezza esteriore dell'opera sua colossale, lo ha colpito la vita interiore dello spirito, da cui nacque e si alimentò tutto il prodigioso apostolato del Ven. Don Bosco”. Molti conoscono soltanto l'opera esterna che sembra così rumorosa, ma ignorano in gran parte quell'edificio sapiente, sublime di perfezione cristiana che egli aveva eretto pazientemente nell'anima sua coll'esercitarsi ogni giorno, ogni ora nella virtù propria del suo stato.

Ci occupiamo di spiritualità, di vita interiore: ora il lavorio esterno esiste solo perché entro si lavora. Vi dico altre parole del Papa che se noi riuscissimo a metterle in pratica saremmo dei buoni cristiani, sale­siani e dei buoni preti: “La spiritualità, la visione ideale della vita nella continua unione con Dio, apparve come il momento segreto di tutta la prodigiosa operosità di apostolato operato da Don Bosco”. Dal primo all'ultimo discorso, Pio XI sempre ha insistito su questa sovrana carat­teristica della sua santità. Sono le parole del Papa: “Il segreto di tutto quel meraviglioso lavoro, della straordinaria esplosione, del grandioso successo che è nell'opera sua, si contiene appunto in quella continua unio­ne con Dio, non mai cessata, che faceva della vita sua una continua preghiera” (13-XI-1933).

Il 20-11-1927 tenne il primo discorso rivelatore che ha allargato il cuore a noi salesiani che sapevamo esserci molta gente che non ci voleva bene. In quel discorso diceva Don Bosco aver avuto lo spirito sempre altrove, sempre in alto, ove era il sereno, l'imperturbabilità, la calma sem­pre dominatrice, sempre sovrana, cosicché si avverava veramente in lui il grande principio della vita cristiana: “qui laborat orat” (Chi lavora prega). Per questa specie di coesistenza di due anime, il 17-VI-1932 il Papa pronuncia le parole che vi sono citate e nello stesso tempo nel 1935, quan­do sanzionò i miracoli, dopo aver tratteggiato tutta la grandiosità del­l'opera e mostrato in sintesi oggettiva il grandioso successo e il lavoro straordinario, passò a cercare le cause: “donde tutto questo?”, e ri­sponde: “La chiave di questo magnifico mistero sta in quell'incessante aspirazione a Dio, in quella continua preghiera, perché egli identificò a pieno il lavoro e la preghiera”.

Noi non dobbiamo pensare che Don Bosco attraversando il cortile recitasse dei Pater e dei Rosari: io l'ho visto, gli ho baciato più volte la mano, ho avuto più volte la sua mano sul capo, ho passeggiato con lui in cortile, e non diceva sempre il Rosario con quel centinaio di ra­gazzi attorno! Eppure la sua anima era lassù. Io l'ho conosciuto in que­gli anni in cui l'ha visto anche don Achille Ratti, eppure vedete cosa dice il Papa: “L'unione con Dio non è bigotteria né colletto tirato in su; era invece incessante aspirazione a Dio, era la continua preghiera, perché egli identificava la preghiera con il lavoro. Tutto il segreto, tutto il perché dell'azione, la caratteristica della santità di Don Bosco, sta nella sua vita interiore, nella sua spiritualità”. Noi pure impariamo questo COSÌ, e l'averlo il Papa proposto a modello dei suoi seminaristi, dimostra che questo è il requisito, l'elementare fattore indispensabile per ogni sacerdote; per essere buoni sacerdoti bisogna avere questa vita in­teriore. Per noi poi ha un doppio valore: come sacerdoti e come sale­siani, perché noi dobbiamo dare alla nostra vita il tono e la forma di Don Bosco.

Senza vera spiritualità di buona lega, senza vera vita interiore, non saremmo mai quello che vogliamo essere né come salesiani né come sacerdoti. Purtroppo forse molti si fanno la persuasione che la vita reli­giosa consista in una superficialità o in una praticona come di una macchina automatica, che produce da sola gli effetti esterni. Il superiore deve vigilare scrupolosamente che si faccia l'esterno: la visita, l'esame di coscienza, il Rosario... La maggior parte di noi pensa che è suffi­ciente questo meccanismo. Questo è la condotta del soldato sempre sul­l'attenti; è un'idea troppo pericolosa e superficiale della vita religiosa; invece S. Paolo dice: “Flecto genua mea… (piego le mie ginocchia...). Convinciamoci che non può esservi nessun vero apostolato, nessun uomo d'azione senza ricercare Gesù. Lacordaire cento anni fa considerando che il clero francese faceva tanto e combinava poco, diceva: “Il nostro clero manca piuttosto di risorse interiori che non di sapere di dottrina teologica e sociale, e per questo non combina niente”. Lo Chautard dice di peggio. Il Papa vi ha sempre insistito nei suoi discorsi del 9-VII-1933 e del 18-11-1934. Don Bosco che combina col pensiero del Papa e degli asceti, dice nella sua umiltà: “Per essere utili alle anime dobbiamo prima di tutto lavorar per farci santi noi”. Altrimenti non può esistere la vita del religioso sia pure laico. Ti sei fatto religioso per salvare l'anima tua: ora come lavori? Sei tu che devi lavorare dentro, vivere con Dio. Scopo della nostra vita deve essere appunto questa vita interiore. Ora la causa di insuccesso di tanti religiosi, come si vede dalla loro grossolanità, sia di spirito che d'azione, sia dall'assenza dello spirito del sacrifìcio, dal disamore di tutto, dall'istinto di ribellione e di vendetta, dal poco frutto di tante pratiche religiose, tutto è qui: mancan­za di vita interiore.

Che cosa è vita interiore

Quale autore dà la definizione della vita interiore? Nessuno. Tutti la suppongono. Noi possiamo dire che sia la vita di fede riflessa nella coscienza. Oppure, con una definizione più facile, vivere ed agire consa­pevolmente per motivo di fede, vivere perché l'anima vive con Dio, sentire Dio nell'anima, continuamente avere il pensiero e la sensazione della presenza di Dio.

La vita interiore è possibile e necessaria a tutti

Qualcuno potrebbe esclamare: ma questa è roba da monaci! Il giorno prima di venire a dettare gli esercizi ho chiuso la busta in cui avevo terminato una parte del mio lavoro ch'è la ricostruzione della vita spiri­tuale del pastorello di Argenterà: Besucco Francesco, venuto da Don Bosco a soli tredici anni e mezzo.

Questo povero fanciullo, guidato da un buon prete, ha delle mani­festazioni di vita interiore altissima: “Io prego sempre, perché quando prego vedo il Signore... Quando faccio la Comunione, dico: Parla TU”l Quindi la interiorità è possibile a tutti. È il santo dono entro di noi; che ci anima tutti, che ci fa vivere per il Signore, ci fa sentire la sua presenza continuamente, come in Don Bosco: “Vedeva tutto, faceva tutto, ma il suo spirito era altrove”. Ecco il segreto dello sdoppiamento dell'anima di Don Bosco! Se riuscirai a praticare questo, riuscirai santo anche tu. Non è mistica, ma vita che S, Paolo dà per tutti i cristiani, che non vivono secondo la carne (2 Cor 2,12-15).

Mezzi pratici

Portiamo il generico al positivo. Due sono i grandi santi nel corso della storia e che raccomando di leggere sempre: S. Paolo e S. Bene­detto. Paolo vuole dimostrare che dobbiamo santificare tutte le azioni della vita: “Omne quodcumque factiis in verbo, aut in opere, omnia in nomine Domini Iesu Christi, gratias agentes Deo et Patri per ipsum” (Tutto quello che fate in parole ed opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre Col 3,17). E Don Bosco nella circolare inedita del 1885 dice: “L'unione tra di noi dev'essere l'unione degli spiriti, come deve essere anche unione meccanica dell'amministrazione. Cerchiamo in tutto la gloria di Dio... anche le cose comandate si facciano non perché comandate, ma sempre per il principio della gloria di Dio. So benissimo che tutte queste cose sono raccomandate dal Regolamento ma se non ci sforziamo ed accet­tiamo di farle per un motivo soprannaturale, tutte queste cose vanno perdute”.

Il Faber nel Progresso dell'anima (Torino, SEI, 1926; p. 24) ci dice che la vita spirituale non consiste nel radunare un certo numero di di­vozioni, ma consiste nell'elevare all'ordine soprannaturale ciò che ci toc­ca fare nella vita comune. La lode che Don Bosco fa del Cafasso coin­cide appunto con questo passo.

Come Don Bosco concepì la vita interiore

Don Bosco concepì la vita interiore in modo semplice: lavorare, fare tutto per il Signore... pensare a salvare l'anima propria... Pensa che sei salesiano per salvare l'anima tua (a d. Tomatis). Non è per lui una vita isolata, vita fatta tutta all'ombra, non è vita scontrosa, non falsa pietà e bigotteria: “Poltroni, mangioni, testoni e sornioni Don Bosco non li vuole”.

La vita spirituale non è un egoismo che vuole pensare solo a se stesso non lavorando. La spiritualità salesiana non è quella che il Gasquet e il Faber dicono l'errore più fatale della vita interiore: volere una vita tutta interiore. No, la vita è un dovere esterno e perciò la spiritualità non consiste in certe divozioni, ma nell'elevare all'ordine soprannaturale la vita comune. Quindi non tanto fare le cose, ma nel modo di farle.

I nemici della vita interiore

Opposta alla vita interiore è la dissipazione spirituale, la profanità mondana, il modo di parlare, di concepire, di diportarsi che sono laici. Gente che ragiona con la mentalità del giornale; il punto di onore il ri­sentimento... la profanità mondana è diametralmente opposta alla spi­ritualità. Di più Don Bosco vede un nemico anche nell'ozio e nella per­dita di tempo, che egli combatte perché portano la dissipazione del pen­siero, allontanano dalla presenza di Dio. Certi preti dissipati, gaudenti, prepotenti, egoisti, mangioni, criticoni, petulanti non hanno spirito in­teriore, per non dir peggio.

Vi sono delle tentazioni specificatamente salesiane, derivanti dalla nostra stessa vita di azione. Dobbiamo difenderci da 4 preconcetti con­trastanti tra loro e con la spiritualità della nostra vita.

  1. La falsa libertà di spirito, la falsa disinvoltura che trascura le pic­cole azioni non badando all'intenzione, e vivendo senza baciare a Dio; ha come motto: “Ma noi andiamo alla buona!”.

  2. Il conventualismo della falsa vita regolamentare abitudinaria pro­pria dei frati mestieranti, degli ordini stanchi; il frate è regolare e l'uomo non vale niente. Quante volte si confessa il frate e non l'uomo! Costoro hanno per formula: “La regola e basta!”. Sono figura di quelli che hanno avuto un talento e lo hanno restituito.

  3. Il faccendarismo. Faccendarismo che mira alla riuscita. Costoro hanno per motto: “Basta che vada, basta che si faccia!”. Basta aver dei ragazzi, basta che siano promossi, basta che vadano alla Comunione. Lo Chautard ha come causa della mancaza della formazione cristiana il fatto che nei preti e negli educatori manca la retta intenzione, la vita interiore, quindi non potranno generare che delle forme di pietà superfi­ciali senza potenti ideali, senza forti convinzioni. All'esame non devi ren­der conto solo degli esami dei ragazzi, ma anche del tuo.

  4. Il laicismo, l'attivismo, l'americanismo, la ricerca delle virtù ester­ne, l'essere correttissimi esternamente e poi trascurare le virtù passive dell'umiltà, della mortificazione, dell'ubbidienza. È vivere il commercialismo dell'azione cristiana.

Conclusione

Ciò che disgusta di più S. Francesco e Don Bosco è il pietismo, l'abitudinarismo, il ritualismo nella pratica delle virtù della religione. Don Bosco controlla la pietà con l'azione; domanda se si accontentano degli apprestamenti di tavola. Gli insinuanti, i maligni, i ghiottoni non li vuole.

Postulato della vita interiore è la preghiera. Il lavoro-preghiera. La preghiera è un bisogno, sia preghiera mentale o orale, secondo le occa­sioni. È il cuore che vibra continuamente in preghiera. Sono le vibrazioni molecolari del cuore che manifestano il bisogno dell'anima. Quando c'è vita interiore, si sente il bisogno del raccoglimento, si parla di Dio. Quan­te volte si parla ai ragazzi di sport e non di Dio, perché non c'è nel cuore.

Don Bosco è un gran santo, immenso nel suo apostolato, ma il suo segreto sta nell'assidua unione con Dio, perché accomunava il lavoro e la preghiera. Questo agire di Don Bosco è quello che darà il senso alla nostra vita di sacerdoti salesiani.

1.4 IV. AUSTERITÀ

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Nos autem... sed in doctrina spiritus spiritualibus spiritualia comparantes. (Di queste cose noi parliamo... con un linguaggio insegnato dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali. 1 Cor 2,13).

Introduzione

Abbiamo parlato a lungo della spiritualità e della necessità di essere spirituali, della nostra volontà di vivere spiritualmente coltivando la vita interiore. In noi, tutto dev'essere condotto dallo spirito di fede; dobbiamo vivere in modo che chi ci vede e vede le nostre opere deve riconoscere lo stampo di Cristo. Facendo diversamente saremo degli uomi­ni animali che non percepiscono le cose celesti. È chiaro che l'uomo spi­rituale non può essere con il mondo. Non dobbiamo nella nostra auto­educazione formarci e conformarci con il mondo. Papini ha chiamato Cristo il capovolgitore, quando annunciò le 8 Beatitudini. Tutta la no­stra vita è una rinuncia al mondo e alle cose che sono nel mondo, poiché, dice S. Giovanni, tutto il mondo è appoggiato sul maligno, è concupi­scenza degli occhi, è concupiscenza della carne e superbia della vita. Noi non dobbiamo amare il mondo, vi abbiamo rinunziato radicalmente nel Battesimo. Quante cose bisogna togliere e distruggere di ciò che si ha nel mondo! Il Faber ad una signora disse: “Bisogna fare di voi come di una macchina: smontarla pezzo a pezzo e poi rimontarla di nuovo”. Oltre alla rinunzia radicale del S. Battesimo, abbiamo fatto la rinunzia giuridicamente riconosciuta dei santi Voti; quindi non appar­teniamo più al mondo. La parola “mondo” si trova 40 volte nel Nuovo Testamento; è una creazione di Cristo, ed è sempre intesa come un siste­ma di idee, di passioni, di giudizi che sono fuori di Dio, senza Dio, contro Dio, e servono a contentare la carnalità.

Ascetica salesiana

Il nostro tema è un tema forte, il tema dell'austerità. L'ascetica ha per suo soggetto la rinuncia al mondo, la antimondanità, e strumento di questa antimondanità è la mortificazione.

Non si può separarsi dal mondo senza fare un gesto che lo respinga, e questo è appunto la mortificazione. Quindi la mortificazione è la ra­gione, lo strumento dell'ascetica.

Ma noi siamo salesiani! Abbiamo da lavorare, abbiamo gli oratori festivi, abbiamo da lavorare in mezzo ai ragazzi, assistere, studiare per conto nostro e quindi, quindi non veniteci a parlare di ascetica. — Hai fatto i tre voti e quindi è impossibile non parlare di ascetica. Ma noi siamo gente alla buona, Don Bosco non ha scritto nessun libro di asce­tica, non ha tenuto nessun discorso di questo genere —. No, Don Bosco aveva un'ascetica; altrimenti non saremmo religiosi. Solo che la ascetica sua è speciale per la vita religiosa del salesiano. Gli altri religiosi vedendo il nostro modo di vivere, hanno sempre detto che non si sentirebbero di vivere la nostra vita nonostante tutti i nostri sorrisi. In molti con­venti si sta meglio. Don Bosco è realista, semplificatore dell'ascetica: “Poche cose elementari, fatti sostanziosi e fatti sostanziali”. Volete sen­tire una sentenza ascetica che nessuno ha mai conosciuto e in cui si contiene tutta l'ascetica di Don Bosco? Nel capo settimo della vita di Magone scrive: “Teniamoci alle cose facili, ma si facciano con per­severanza”. Fate la prova: mettete un sassolino nella scarpa; è cosa da poco, ma portatela sempre e voi ve ne accorgerete.

Ascetica alfcnsiana

Bisogna che facciamo una parentesi indispensabile per voi teologi che presto dovrete dirigere gli altri. Don Bosco in tutte queste cose di ascetica austera è discepolo di S. Alfonso. Non esce d'un dito dalla linea da lui tracciata nella sua Prassi dei confessori. Cercate il paragrafo ter­zo della direzione spirituale e nei numeri 145-147 che trattano della mor­tificazione, troverete alla lettera le parole ed i concetti che Don Bosco ha pronunciato e seguito. Così pure lo Scavini nella parte Ì/II ove tratta dei peccati in specie (ed. 1847) e vi troverete la pagina che corrisponde alla lettera a ciò che Don Bosco ha detto e fatto. Ora lo Scavini ha ap­punto scritto la Teologia Universale secondo la mente di S. Alfonso.

L'ascetica Alfonsiana è appoggiata su tre punti fondamentali, ricono­sciuti come sua scoperta.

  1. La teoria del distacco: non mortificazione, ma distacco; di questo mondo servirsene come se non se ne usasse.

  2. Temperanza. Nel senso più largo della parola; non comodità, mo­derazione, limitazione dei desideri, moderazione dei nostri sentimenti.

  3. Pietà attiva. Ossia vita interiore, autocorrezione, presenza ed unione con Dio nel lavoro e nell'esecuzione dei doveri del proprio stato.

L'ascetica Alfonsiana è dunque l'ascetica Boschiana o, meglio, l'asce­tica salesiana nel senso di Don Bosco.



Origine dell'ascetica salesiana

L'idea del prete e del religioso, quale lo vuole Don Bosco, è primie­ramente un'idea di austerità e di mortificazione; idea di riservatezza, di ritiratezza, di temperanza, di lavoro e di pazienza. Ora questa idea Don Bosco l'ha appresa ancora ragazzo alla vista del Cafasso. L'ha perfezio­nata nel seminario accomunando le idee con Luigi Comollo, solo che Don Bosco vi gettò dentro l'elemento suo personale, vi inserì la letizia e la bontà verso i giovanetti.

Bisogna levarsi dalla mente che Don Bosco sia facilone, un uomo andante che lascia correre, che si contenta del più grosso, che si eviti il peccato mortale, che per lui generalmente si riduce al peccato di im­purità. Don Bosco è buono, indulgente, caritativo, ma è austero, altrimenti non sarebbe stato un fondatore. Vi sono 12.800 pagine delle Memorie Biografiche che lo provano.

Mortificazione salesiana

Il principio della mortificazione in Don Bosco ha di mira due fini: 1°, la difesa e la conservazione della castità. A questo si riducono tutti i mezzi negativi che propone e che sono tutti mezzi di mortificazione. 2°, ha di mira l'austerità nel tenor di vita, la mortificazione di fatto nella temperanza, astinenza, sobrietà, la povertà individuale e collettiva, la antimondanità.

Tutta la vita del salesiano deve essere vita di mortificazione. Nel 1847 Don Bosco ha un sogno in cui vede una torma di ragazzi da educare ed egli è separato da essi da un campo di rose, fa la prova di passare senza scarpe ma non vi riesce; deve subito calzarsi perché ci sono le spi­ne, ossia i pericoli delle affezioni sensibili, simpatie, antipatie, tutte cose che distolgono l'educatore dai suoi fini.

Il pensiero di Don Bosco

Nell'agosto del 1846, durante la convalescenza, discute col Teologo Cinzano su alcuni passi del Vangelo. Il teologo dice: “Qui vult venire post me abneget... tollat crucem suam et sequatur me” (Chi vuole venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua). — In­vece Don Bosco insiste: “Tollat crucem suam quotidie et sequatur me (Prenda la sua croce “ogni giorno” e mi segua Le 9,23). — Vanno a vedere ed il Teologo deve dar ragione a Don Bosco. Si tratta di mortifi­cazione quotidiana e permanente.

Agli esercizi di Trofarello 1868 tiene una conferenza sulla mortificazione ai suoi chierici ordinandi e ripete le parole dello Scavini. Negli esercizi di Lanzo del 1875 viene fuori con 5 fughe, necessarie per os­servare la castità. Nella novena di Natale nella conferenza ai chierici per la difesa della vocazione, parla di mezzi di mortificazione e tira fuori il famoso detto del Foresti: “Subtrahe ligna foco, si vis extinguere flammam” (Togli la legna dal fuoco se vuoi spegnere la fiamma). E nei celebri esercizi di Lanzo del 1876 tiene la conferenza sulle vacanze in famiglia e altrettanto fa il 30-X. Le vacanze sono per lui un terrore, l'of­ficina di ogni male.

Negli esercizi di Lanzo del 1876 insiste perché si conservi il tenore di vita tradizionale: Nulla si cambi! Qual era questa tradizione? Il Conte Cays stava in una soffitta e mentre fuori c'era la neve, egli si scaldava con una coperta da letto. Don Bosco era solito insistere: Quel giorno in cui fra noi saranno entrate le comodità, le agiatezze, la Con­gregazione avrà compiuto il suo corso. Ed ecco cosa erano queste como­dità e agiatezze:

Don Bosco va a S. Benigno e vede alle finestre delle tendine: “È un lusso”. — Ma non sono necessarie per il dovuto decoro della casa? — “Il decoro del salesiano è la povertà!”.

Don Rua era ancora più rigoroso. Quando vedo certi preti i quali vengono professori novelli ed hanno bisogno di chi scopi loro la stanza e faccia loro il letto, che non sono mai contenti di nulla, né della mo­bilia né della tavola, penso che se la Congregazione fosse formata solo da costoro, certo avrebbe già finito il suo corso.

Saper star senza

In tutto quanto ci rimane dei discorsi di Don Bosco, si vede che il suo pensiero dominante era la mortificazione, esattamente come in S. Al­fonso. Non prescrive mai né ai giovani né ai confratelli delle mortifica­zioni attive o passive, afflittive o penitenziali; invece dappertutto essen­zialmente inculca la mortificazione estensiva, passiva, negativa; non met­tersi nell'occasione, darsi dei pugni, ma insegna a saper stare senza. Mortificazione dei sensi, pazienza, temperanza, sopportarsi a vicenda, po­vertà. Nel volume IV delle M.B. dice che domandato di poter fare delle penitenze, rispose: “Vede, dei mezzi non le mancano: il caldo, il fred­do, le malattie, le persone, le cose, gli avvenimenti... ce ne sono dei mezzi per vivere mortificati!”.

Ai giovani non permette penitenza positiva; solo a Savio, Magone, Besucco permette alcune volte di stare senza pietanza, merenda, di limi­tarsi nella colazione e solo in certe circostanze.

Ai suoi figli non comanda penitenze disciplinari, ma lavoro, lavoro, lavoro: ecco la mortificazione salesiana!


Mortificazione e temperanza

La temperanza o questione della gola è il punto fondamentale. Il nostro stemma è: “Lavoro e temperanza fanno fiorire la Congregazione”. È questa un'idiosincrasia di Don Bosco, l'odio contro l'immortificazione della gola. Non parla né scrive mai sulla vita salesiana, sulla sorte fu­tura della Congregazione, sulla questione della castità, senza insistere sulla gola. Le citazioni sarebbero infinite. Nel 1868 scrive: “Quando sento di alcuno che cerca di fare merenduole, che si esalta al pensiero di una buona bottiglia, ecco che io mastico subito e prevedo grave rovina per quell'anima”. Don Barberis il 3-IV-1877 lasciò scritto: “Tutte le volte che Don Bosco parla di questo argomento si mette sopra pensiero e dice: Stai attento, quando uno si lascia dominare da questo vizio, non c'è risoluzione o proponimento che tenga, è troppo difficile emendarsi e con questo verranno delle miserie. S. Girolamo dice chiaro: “Vino e castità non stanno insieme”. Da Don Cafasso e da Don Guala ho im­parato che di quelli che si lasciano dominare dal vino, facessero anche miracoli, non dobbiamo sperare alcun bene”.

A questo si collega tutta la questione della castità. Discutendo sul Regolamento Don Bosco fa grande insistenza sul mangiar carne e ber vino. Ed insiste: “Una delle prime cose, cosa più essenziale, è accontentarsi degli apprestamenti di tavola”. Così scrive del chierico Burzio, di Comollo, di Savio, di Magone, di Besucco. E nel voi. I, 381, leggiamo: “Don Bosco in seminario era notato per questa stessa virtù”.

Mortificazione dei sensi

Bisogna leggere il Giovane Provveduto per vedere quanto Don Bo­sco scrive sulla curiosità, sulla riserva nel guardare, combatte la morti­ficazione dei sentimenti, la comodità nel vivere, il piccolo lusso, la ricer­ca del bene stare, il far bella figura nella capigliatura... questa è agia­tezza, comodità, lusso e Don Bosco è feroce. Nella Circolare inedita ha una sentenza terribile: “Una veste, un tozzo di pane devono bastare ad un religioso, il resto è agiatezza; quando entreranno le agiatezze nella Congregazione, questa avrà finito il suo corso”.

Nel sogno del 1876 vede il carro dei quattro chiodi che uccideranno lo spirito della Congregazione. Il 14-VIII dello stesso anno parla in con­versazione di tre cose che gettano giù la Congregazione: l'ozio, il la­vorare poco; la ricercatezza ed abbondanza dei cibi, l'egoismo o la mor­morazione, che per lui erano la stessa cosa. A questo proposito conviene ricordare una sentenza del Faber ne il Progresso dell'anima: “Un'ultima debolezza che abbandona chi si dà alla vita spirituale è la non mortifi­cazione nel piacere del mangiare e di bere. Quattro sorte di persone sono dedite alla ghiottoneria: i capitalisti perché hanno soldi; i medici per influsso; i letterati per distrazione; i devoti ed i bigotti per com­penso”.

S. Teresina nella sua semplicità santa dice che solo il cuoco può distinguere i santi veri dai santi falsi. E S. Gregorio M. nei suoi Morali II, 27: “Il diavolo insorge più violentemente quando conosce che i custodi della disciplina servono al ventre”.

Il segno della croce salesiana

Vi voglio far un regalo: un nuovo segno di croce. Fate così: lavoro (porta la mano alla fronte), temperanza (al petto), povertà, bontà, sa­cramenti e Maria. È un segreto che nessuno conosce e che nessuno vi darà mai e che io non vi potrò più dare perché un altro anno non ci sarò più.

L'esempio dei primi salesiani

Il capo che va da pagina 205-219 del volume IV delle M.B. è il capo della mortificazione. È una cosa che sbalordisce quando là si legge: Mor­tificazione nel vitto, nella camera, nel vestire, fame, sete; caldo, fred­do; modo di ingegnarsi per non farsi aiutare. Vorrei avere il tempo per commentare la quantità e la incredibilità delle mortificazioni, dei sacri­fici nascosti che si praticano da tanti buoni salesiani, da buoni coadiutori, che sanno dissimulare abitualmente le loro mortificazioni. Morto Don Fascie, gli trovarono un cilicio di ferro, una bella fascia di maglie di acciaio cromato alta 16 centimetri, ove ad ogni punto di maglia corri­spondeva una puntina ben aguzza e sporgente e lo aveva portato per due mesi consecutivi.

Ho ragione quando vorrei commentare le mortificazioni che ognuno sa fare. Per me non concepisco la vita di un chierico che non ha la sua mortificazione; ogni buon salesiano deve avere la sua mortificazione, il suo libro, la sua devozione, altrimenti non potrà riuscire nel perfezio­namento dell'anima sua. Se nella Congregazione si conserva lo spirito di Don Bosco, se la vediamo progredire meravigliosamente, si deve dire che l'ascetica di Don Bosco è in pieno fiore. E di questo andiamone fieri.

1.5 V. L'OSSERVANZA

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Il piano delle conferenze

Questi due giorni sono dedicati allo studio diretto della salesianità pratica, della nostra vita di salesiani come religiosi. Nei primi due giorni abbiamo visto la preparazione spirituale, negli ultimi due studieremo ciò che ci riguarda nel meccanismo della nostra vita.

La regola - sua origine

«Regula dicitur ad hoc quod oboedientium dirigit mores» (È detta «regola» per il motivo che dirige i costumi di coloro che obbediscono). Questo è il motto scritto da S. Benedetto sotto la intestazione delle sue Regole. Egli che ha creato la vita religiosa occidentale ed ha dato il concetto della vita comune, ha creato il significato di questa parola. Re­gola presso i latini vuol dire Riga; e il corpo delle sue norme le ha chia­mate Regole appunto perché devono essere come la riga che dirige i co­stumi di quelli che vi obbediscono.

Questa conferenza dev'essere chiamata dell'osservanza, appunto per­ché si parlerà in modo speciale della regola. Parlo da salesiano a con­fratelli provetti e non da canonista. Lascio quindi la catechesi solita a farsi sull'indole dei voti, sul valore della Regola, perché tutti sapete ciò che ad ogni momento vi sentite ripetere.

Don Bosco ha insegnato ad essere uomini di cose, e noi lasciamo la catechesi per trattare subito ciò che a noi importa: l'aspetto spirituale, la volontà di praticare ciò che dice la Regola.

Ciò che realmente importa quindi è l'osservanza. Non crediate che questa sia una parola presa dai libri dei frati; no, è Don Bosco che la usa nei suoi discorsi e nei suoi scritti. Nel 1879 chiudendo gli esercizi: “Non voglio dirvi tante cose, ma una sola: finché la Congregazione si terrà nell'osservanza delle Regole, essa fiorirà: decadrà quando inco­mincerà a indebolirsi l'osservanza”.

Utile digressione

Perdonate se insisto su Don Bosco, ma è perché anche a voi accadrà che quando predicherete vi dimenticherete di essere salesiani, cercherete tutti i libri di questo mondo e dimenticherete Don Bosco.

Nella musica si dà un tema, si svolge, vengono fuori i soggetti, i di­vertimenti, la stretta finale, ma tutto nella tonalità nonostante le modula­zioni e le gradazioni. Se un passo è perfetto e fatto a dovere finisce con perorazione finale e colla cadenza propria di questo tono. Or tutta la nostra predicazione, tutte le nostre considerazioni girano tutte su un tema: Don Bosco. Questa è la nostra tonalità: il pensiero e la pratica di Don Bosco. Le modulazioni e divertimenti sono le cose che si dicono, ma anche queste, come la stretta finale, si risolvono sempre nella stes­sa tonalità.

Le nostre prime regole

Don Bosco non aveva dato molte regole. Io ed i primi salesiani ab­biamo professato una regola molto più semplice e più corta; se vedeste i suoi abbozzi, quelli dettati per presentare a Roma nel 1864 e 1868, sono una cosa molto semplice; ma Don Bosco caldeggia sempre con raccoman­dazioni vivissime ed anche con sogni l'osservanza delle Regole. Per virtù propria e per volontà di mortificazione praticò egli stesso la povertà e la volle praticata dai suoi; così Don Bosco volle un'obbedienza cordiale, volonterosa, senza imperi dispotici, assolutismi prepotenti... Vuole l'ob­bedienza come frutto d'una convinzione, di persuasione, frutto di buona volontà. Leggete a questo proposito i suoi ricordi confidenziali ai diret­tori ed il discorso di presentazione delle Regole; tutto ha un'unica im­pronta: disciplina familiare. Le Regole stampate contengono sempre ap­pena il pensiero necessario, ma la materia non la si può codificare tutta, quindi le Regole danno solo un'idea sommaria; l'applicazione, il com­mento, le ingiunzioni del superiore sorpassano la lettera delle Regole, per cui accanto alla materialità delle Regole dobbiamo stare anche alla tradizione.

Bisogna levarsi dalla mente un pensiero troppo benigno e pericoloso; che cioè al tempo di Don Bosco non essendovi ancora tutto codificato, non essendovi tutto questo sistema di ispettorie di gerarchie, tutti quei 501 e 502 del Codice ci fosse una disciplina dalla manica larga, di molta disinvoltura, come se le cose andassero alla buona. No: Don Bo­sco è bonario, è santo, dolce, amabile, ma la sua bontà e bonarietà, costituita una volta la Congregazione con l'approvazione del 1869, di­ventano severe nell'esigere, rigide nella teoria; è documentato. Don Bo­sco è poco conosciuto in questo campo, nonostante i 18 volumi che ce ne parlano.

Il 4.VI. 1879 un chierico gli scrive per chiedergli dei consigli e Don Bosco gli risponde: “Io non so come con un'obbedienza di questo ge­nere, tenendo alcune Lire in tasca, si possa fare la Comunione”. È que­sta la storia!


L'idea di Don Bosco

Su questo punto Don Bosco ha le idee chiare di teologo e canonista. Nel 1869 tiene gli Esercizi ai chierici e a pochi confratelli ed aspiranti in Trofarello. Siccome ai primi di marzo era uscito il decreto di appro­vazione della Congregazione, ci tiene a dimostrare l'obbligo grave che riguarda i voti: spiega chi può comandare in virtù del voto di obbedien­za, chi non può; e le sue parole coincidono perfettamente con quelle dell'odierno canone 501, 502. In fine aggiunge che le Regole non obbli­gano sub gravi: “Se qualcuno, dice, non facesse la meditazione, la let­tura spirituale, l'esame di coscienza, non recitasse il Rosario, non facesse la visita, non osservasse il digiuno del venerdì... ne sarebbe privato del merito, ma non commetterebbe peccato grave”. Eppure nonostante que­sto lo sentiamo ripetere con insistenza, quindi fulminare contro l'inos­servanza delle Regole e dei Regolamenti, perché l'obbedienza per lui era una cosa sola, tutto per lui entrava nel IV comandamento.

Dovere sacrosanto

Non dobbiamo pensare che Don Bosco confonda la teologia e l'asce­tica, o parli per necessità opportunistiche; no, Don Bosco aveva un'idea chiara, ma se insiste e fulmina nelle conferenze morali, è per la respon­sabilità di tutto un edificio educativo. La cagione dello scandalo, del di­sordine, della disorganizzazione, dell'indisciplina comune è tutta qui: nell'inosservanza. Anche se in casi particolari non si riesce a vedere un'entità superiore al peccato veniale, non dobbiamo credere che per questo non debba insistere.

Può un santo fondatore autorizzare un regime di peccato veniale? Dell'inosservanza della Regola che porta alla rovina la Congregazione? Don Bosco deve insistere e insistere per dovere di coscienza. E quindi quando vedete che il vostro direttore vi piglia in disparte e vi dice parole sensibili per una mancanza, quando i superiori vi richiamano all'ordine, non dovete mai credere che abbiano qualche cosa contro di voi o che siano rigoristi, no; ma si fanno scrupolo teologico di fare tutto il loro dovere, tanto che dopo non hanno più niente contro di voi e sono buoni come prima. Voi mi insegnate col Tanquerey alla mano e con tutti i teologi, dagli antichi sino a S. Alfonso, che un superiore trascurerebbe il proprio dovere se mancasse di fare osservare le Regole, di reprimere le trasgressioni leggere, quando tentano di diventare frequenti; e cito le parole dello Schram, citato a sua volta dal Lugo: «È comune sentenza dei teologi che il prelato pecca gravemente trascurando di correggere i trasgressori del Regolamento quando per questo difetto l'osservanza regolare si rilassasse».

Don Bosco quindi per sua coscienza doveva insistere, fulminare, col­pire l'inosservanza in quanto poteva diventare seme di disordine e rovina.


Documenti eloquenti

Nelle conferenze dell'I 1-III-1869, il giorno dopo il decreto dell'ap­provazione della Congregazione, radunò i confratelli dell'Oratorio e dis­se: “Adesso siamo approvati; tocca a noi essere buoni religiosi; dopo l'approvazione delle Regole è necessaria la regolarità della vita comune”. Pochi giorni dopo tiene un'altra conferenza sull'umiltà dei fini e sull'os­servanza regolare.

Mentre nel 1874 si prepara a Roma l'approvazione delle Regole, Don Bosco già fin dal 4-VI e dal 15-XI-1873 e febbraio 1874 promulga tre circolari per preparare i confratelli. Nella prima circolare spiega le Re­gole in quanto hanno valore spirituale e religioso. Nella seconda, minuzio­samente pratica, parla della disciplina e del modo di vivere conforme alle Regole e costumanze dell'istituto. Disciplina che non deve essere sostenuta presso di noi mediante castighi, ma insiste sul concetto che le Regole devono essere osservate da tutti tanto dai superiori come dagli inferiori senza privilegiati; l'osservanza di questo precetto è tale che da esso dipende il profitto morale e scientifico degli allievi o la loro rovina.

Non osservanza della Regola per la Regola, ma per lo scopo, perché la sola Regola fa il frate e non il religioso; ciò che fa il salesiano è il lavoro. Nella terza parte parla del modo pratico di osservare le Regole e di conservare la bella virtù. Nel 1876, ai direttori riuniti in capitolo, il 3 febbraio dice: “Per corrispondere bene alla Provvidenza bisogna eseguire bene le Regole, tenerci fissi al codice che ci ha dato la Chiesa; non andare più alla patriarcale. Se vogliamo diffondere il nostro spirito nel mondo teniamoci ben fissi alle Regole». Orestano dice appunto che il più grande fenomeno spirituale del secolo è la permeazione della salesianità nel mondo, e Don Bosco lo aveva detto nel 1876. Il nostro Padre conclude appunto la sua conferenza coll'asserire che l'osservanza delle Regole è l'unico mezzo perché possa perdurare la Congregazione.

Nel 1884 emanava un'altra circolare sull'osservanza e raccomandava di mirare in tutto lo scopo per il quale siamo religiosi: il bene della gioventù. Quando poi sentirà fare dei ragionamenti puramente clau­strali esclamerà: “I salesiani sono religiosi destinati al lavoro; il lavoro farà i salesiani”. E conclude: “Recedendo dalla osservanza dei nostri Regolamenti noi facciamo un furto al Signore, perché profaniamo, cal­pestiamo ciò che abbiamo messo nelle sue mani. Ma costa fatica! Sì, costa fatica se si fa malvolentieri, ma noi ci siamo fatti religiosi per godere o per patire e farci dei meriti? Non certo per comandare, ma per obbedire, non per affezione delle persone, ma per esercitare la carità; non per vivere agiatamente, ma per praticare la povertà di N.S.G.C.”. Don Bosco parla chiaro.


Ostacolo: la mormorazione

Ora interessa a noi il controsoggetto; pur mantenendo il pedale co­stante su Don Bosco, dobbiamo considerare il lato negativo, l'ostacolo da combattere. Don Bosco vede nell'inosservanza, nello spirito di indipen­denza, nella indisciplina, nello spirito di insubordinazione la causa prin­cipale della rovina della Congregazione. Di tutto questo egli trova origine in quella che chiama spirito di riforma, ossia nella mormorazione, che s'identifica coll'egoismo personale.

Quando dice mormorazione non intende le piccole lamentele o mal­dicenze ma la critica alle disposizioni dei superiori, il disprezzo all'auto­rità, il criticare continuamente ciò che i superiori fanno. Questa è mor­morazione, lo spirito di riforma che Don Bosco flagella e vede come uno spauracchio per la vita della Congregazione.

In una conversazione del 14-VIII-1876, riferisce Don Vespignani, Don Bosco dice che tre cose gettano giù la Congregazione: l'ozio, la ricercatezza ed abbondanza dei cibi e lo spirito di riforma o egoismo indi­viduale o mormorazione.

Il sogno del carro

Negli Esercizi di Lanzo del 1873 ebbe il famoso sogno del carro che durò quattro notti diviso in quattro parti. Don Bosco vide un carrettone condotto da bestie bruttissime che hanno scritto sui denti: Ozio, Gola. Il carro che trasporta robaccia ha infìsso quattro chiodi con altrettanti cartelli recanti delle sentenze: sono i quattro chiodi che affliggono o uc­cidono lo spirito della Congregazione.

1° chiodo: Quorum Deus venter est (Coloro che hanno per Dio il loro stomaco).

2° chiodo: Quaerunt quae sua sunt (Cercano i propri comodi).

3° chiodo: Venenum aspidis (Veleno di vipera): Mormorazione, in­sinuazione maligna.

4° chiodo: Cubiculum otiositatis (Stanza dell'ozio): la stanza del prete che ha tanto da fare per poi far nulla; ha di tutto eccetto che i libri; fa di tutto ma non fa niente perché non fa quel che deve fare.

Nel mezzo del carro in mezzo alla robaccia si trova un 5° cartello: Latet anguis in herba (la serpe si nasconde nell'erba): vera peste della Congregazione è il sornionismo, l'essere eternamente malcontento, metti­male, gente coperta che manda tutto per l'aria.

La maledizione del padre

L'ultima circolare pubblicata dal lui nel 1886 era sulla mormorazione contraria alla carità, odiosa a Dio, dannosa alla Congregazione.

Il 3-X-1886 Don Bosco ammalato e disfatto dalla malattia, aveva voluto venire a S. Benigno per la professione e volle dare lui i ricordi.

10gli ero vicino perché servivo da accolito e ricordo ancora oggi
quell'ora angosciosa, terribile. Don Bosco scatta, ha un incubo, è la
quasi maledizione di quel povero ammalato che si leva a stento a sedere
con uno sforzo della volontà che si protende nella persona e con mano
tremante inveisce contro lo spirito di critica che rovina la Congrega­
zione... Non ha più potuto andare avanti perché il pianto gli ha troncato
la parola ed io ho sentito il vibrare del suo essere e le lacrime che gli
hanno troncato le parole.

Scena che abbiamo visto noi e della quale abbiamo riportato un'im­pressione dolorosa. Mai avremmo potuto credere che il santo, il dolcis­simo Don Bosco, avesse avuto la forza di uno scatto simile.

11sogno della filossera

Solo così noi comprenderemo quel famoso sogno della filossera fatto tra il 1/10-X-1876 durante la terza muta degli Esercizi di Lanzo.

Che cosa è la filossera? È una bestia che portata dal vento dove arriva distrugge ogni cosa. Il vento della mormorazione porta lontano la filossera della disobbedienza. Don Bosco domanda al suo mentore: “Non c'è modo di porvi rimedio?”. La risposta della sua guida è tremen­da: “Le mezze misure non bastano. Quando in una casa si manifesta la filossera della opposizione alle disposizioni dei superiori, della non curanza superba delle Regole, del disprezzo della obbligazione della vita comune, non bisogna temporeggiare. Rigettala senza lasciarti vincere da perniciosa tolleranza. Persone di tale fatta non cambiano, quindi è inutile ogni indulgenza, ogni speranza”. — È un sogno che rispecchia comple­tamente i suoi sentimenti.

Dalla cronaca di Don Barberis

Il 3-IV dell'anno dopo, Don Bosco fa a Don Barberis un ragionamento consimile. La mormorazione una volta che sia entrata nella casa, manda tutto all'aria, manda tutto in rovina né c'è quasi a sperare più in bene. Unico mezzo è di stroncare recisamente, bruscamente il ramo infetto. Bisogna che ci mettiamo a poco a poco a imitare gli altri ordini religiosi allontanando chi ha magagne di questo genere, senza aspettare ulterior­mente che si corregga.

Conforto e monito

Consolatevi che casi da sradicare non ve ne sono. Ve lo garantisco io che ho girato tutta l'Italia in questi ultimi anni. Noi davanti alla Chiesa siamo uno degli ordini più disciplinati e più osservanti. La Chiesa ha dei salesiani questo concetto. E noi vecchi sappiamo che è così. Ci può essere qualche membro da rigettare. Troverete di quei tipacci che quando capitano in una casa, dopo due mesi nulla va più bene; sono essi che hanno lavorato, che hanno messa la discordia in mezzo agli altri insinuando la non curanza superba della Regola, il disprezzo delle obbli­gazioni della vita comune, l'inosservanza e la ribellione alla volontà del superiore.

Mi è accaduto che predicando in questo senso, essendo presente un superiore del Capitolo, questi venne a dirmi: “Bravo, ha toccato pro­prio un punto vitale; in questa casa di filossera ce n'è non solo una ma due, ma la filossera la manderemo a spasso”.

Concludiamo con un respiro più alto. Abbiamo fede nella nostra Con­gregazione, dato che passiamo per una delle Congregazioni più osser­vanti e disciplinate.

Noi abbiamo visto lo sviluppo della Congregazione e possiamo dire che le cose vanno bene, poiché Don Bosco nel 1869 aveva detto: “La nostra Congregazione fiorirà finché regnerà la disciplina, l'osservanza del­le Regole”. Allora erano 3 case. Nel 1876 erano già 10, nel 1886 quasi 100 ed ora 1273. Se andiamo avanti fra 50 anni saremo a 10.000. Al­lora erano 1040 confratelli, ora siamo 12.000. Quindi la disciplina è fiorente, altrimenti l'Istituto sarebbe decaduto. Appellatevi al vostro pro­fessore di storia: i fiorentissimi monasteri sono caduti per terra proprio nelle province attorno al Papa per l'inosservanza delle Regole; ricordate l'apologia di S. Bernardo contro il monastero di Cluny.

Nessuna eccezione

L'osservanza religiosa dev'estendersi a tutte le case. Il Card. Lépicier, dell'Ordine dei Serviti, che è Decano della Congregazione dei Re­golari, il 31-XII-1931, emanava una disposizione con la quale ordinava ai religiosi che i chierici e i preti giovani fossero assegnati alla casa ove vigesse la perfetta osservanza, specie quanto alla vita comune ed alla povertà. Se noi salesiani avessimo di queste case, staremmo freschi! Le Regole vanno osservate tutte e da tutti; non vi siano eccezioni né privilegiati, altrimenti guai. Se il direttore non fa il suo dovere, manca alla regola, non deve meravigliarsi se poi tutti gli altri fanno lo stesso.

Osservanza volonterosa

Don Bosco voleva un motivo soprannaturale nell'osservanza della vita religiosa. Voleva il nostro slancio; noi dobbiamo vivere divina­mente. Via da noi lo spirito farisaico, servile del religioso di mestiere, che osserverebbe una tonnellata di regole per non avere un'oncia di lavoro da fare. Il nostro spirito non è questo.

Guai a chi si volesse solo attenere alla teologia, perché finirebbe per non far nulla. A forza di punti di teologia i Benedettini di Chatenaux con un convento magnifico e un'osservanza esattissima uscivano i frati semplici con tiro da due e l'abate da quattro. Vale la spesa farsi religiosi a questo modo? Togliamo quindi l'idea che basta la regola. La regola va osservata perché strumento di perfezione e quindi non è fine a se stessa. La regola ci fa religiosi, ma non religiosi salesiani; non siamo salesiani per essere religiosi, ma siamo religiosi per essere salesiani e ciò che ci fa salesiani è il lavoro. La regola ci fa frati, ma il lavoro ci fa salesiani. Il Papa non sa concepire i salesiani e le Figlie di M.A. se non lavorano e lavorano molto.

Soprattutto dev'essere lo spirito di carità che ci unisce nel vincolo della perfezione e ci slancia nelle vie dell'apostolato, e noi siamo religiosi appunto per la conquista delle anime.

1.6 VI. POVERTÀ

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«Beati pauperes spiritu...» (Beati i poveri in spirito... Mt 5,3).

Lo spirito di povertà è quello che ci assicura il cielo. Il tema che ci pro­poniamo è quello della nostra povertà, della povertà salesiana. A noi non interessa la catechesi del voto o la infrazione del voto in senso teologico, ma ci interessa la volontà di praticarla; dobbiamo ridestarne lo spirito non solo per evitare il peccato, che non sempre è grave, ma per accendere in noi un desiderio di essere poveri nello stretto senso canonico della parola, secondo lo spirito della nostra Congregazione. Questa povertà si esplica non solo nel non possedere e nel non ammi­nistrare, ma soprattutto nella volontà di essere povero ossia voler vivere e diportarsi da povero. Povero personalmente, accettando, cercando ciò che è effetto di povertà e non amandola in astratto, ma in con­creto.

Don Bosco a pag. 16 dei ricordi confidenziali ai direttori: “Amiamo la povertà ed i compagni della povertà, perché ciò che ci fa più danno sono gli astratti”. Tutti amano la gioventù, ma quando hanno 50 pulci tra i piedi li manderebbero... a chi li ama di più. Il Vangelo non ha insegnato ad amare l'umiltà, ma il prossimo, il singolo, individuo, par­ticolare.

Così ci ha voluti Don Bosco. Poveri personalmente, accettando e ricercando ciò che è effetto della povertà, amando il tenore della vita povera, semplificando tutto quello che ci deve servire. Così deve essere povero chi vuole vivere salesianamente la sua salesianità, ossia come è vissuto Don Bosco.

L'idea classica di Don Bosco

La povertà in se stessa non ha valore intrinseco; il Signore la incul­ca solo in quanto porta con sé un distacco dalla ricchezza. La povertà ha dunque solo valore per il suo contenuto spirituale della mortifica­zione, del distacco. Tutta l'ascetica di Don Bosco sulle tracce di quella Alfonsiana è ascetica del distacco.

Per Don Bosco la povertà è una perfezione spirituale. Egli ha cominciato dal niente, ha continuato tutta la vita nella povertà, è vissuto in maniera esemplare ed eroica nella sua povertà personale. Mamma Mar­gherita (proprio da lei aveva attinto la sua perfezione) prima di morire gli faceva ancora delle raccomandazioni su questo punto: “Guarda di mostrare semplicità e povertà nell'opera tua... nelle cose che farai cerca la gloria di Dio, ma bada che attorno a te vi sono di quelli che vogliono la povertà solo per gli altri e non per se stessi».

Averla nel cuore

C'è una massima di Don Bosco del 1858 che da sola vale un di­scorso: “La povertà bisogna averla nel cuore per praticarla”. Magnifico è il libro che ha scritto quest'anno il sig. Don Ricaldone, ma nonostante tutto quello che dice e proibisce non otterrà nulla, se non l'avremo nel cuore.

Nel 1859 Don Bosco dice ad alcuni confratelli: “Essere pochi e poveri non è un impedimento: anzi grande impresa è la povertà: essa è la nostra fortuna, una benedizione di Dio e noi dobbiamo pregare il Signore a volerci mantenere sempre nella povertà volontaria”. Dopo queste parole, ricorda come molti ordini religiosi decaddero, perché non seppero conservare il primitivo spirito di povertà, mentre quelli che lo mantennero fiorirono meravigliosamente, per es. i Cappuccini. Chi è po­vero pensa a Dio, quasi costretto dalla necessità. Non è bella cosa es­sere obbligati a pensare a Dio?

La raccomandazione di Pio IX

La sera del 19-11-1863, giorno in cui le Congregazioni Romane ap­provarono la nostra Congregazione, Don Bosco si trovò a colloquio con Pio IX. Tra le altre cose il Papa disse: “Badate di non accogliere nel­la vostra Congregazione né ricchi né nobili e tenetevi sempre alla gio­ventù povera e abbandonata, alle classi diseredate”.

Agiatezze

In una conversazione del 14-VIII-1876, già ricordata, Don Bosco ri­corda tre cose che gettano giù lo spirito della Congregazione: l'ozio, la ricercatezza e l'abbondanza dei cibi, l'egoismo e lo spirito di riforma o mormorazione, ed aggiunge: “Ma io vedo già entrare tra di noi una agiatezza che spaventa”. Forse alcuno aveva messo un tappeto sul tavo­lino e due sedie invece di una, uno straccio alla finestra della soffitta, un paio di scarpe nuove un mese prima di gettar via le vecchie... E l'an­no prima aveva detto: “In casa già si tende all'agiatezza e per poco che si trascuri verrà subito qualche grave inconveniente o qualche caso deplorevole”. Santa esagerazione! Eppure tutti i santi fondatori sono stati così.

Nell'inverno del 1880 va a S. Benigno, tiene una conferenza al perso­nale della casa e proibisce di fare i pastrani ai chierici: “Costa troppo, il chierico deve darsi da sé il calore”. Con quel freddo, senza riscal­damento e senza pastrano, eppure si stava bene! Quella volta alcuni gli dissero: “Mettiamo qualche cosa alle finestre” — “Questo è fare il signore”. — “Ma un po' di decoro... !». — “Il decoro dei salesiani è la povertà”, ha risposto secco e quando rispondeva secco era secco real­mente, perché aveva una voce squillante e parlava a denti stretti.

Carità e povertà

Don Bosco in questa materia è quasi feroce, eppure nel suo ultimo ha due pagine meravigliose sul modo di trattare gli indisposti, gli amma­lati, chi ha già lavorato molto. Raccomanda di essere larghi con loro, purché non si faccia la seconda tavola. Invece nel 1885 quando scrive la circolare, ha espressioni come questa: “Una veste, un tozzo di pane devono bastare per un religioso”.

La povertà e la Provvidenza

Don Bosco sempre inculca di lavorare come fanno i poveri, lavorare per renderci degni della Provvidenza, usare bene della carità che il mondo viene facendoci. Questa è per lui un'idea costante, e nel 1885 inculca la povertà con questa sentenza: “Ricordiamoci che da questa osservanza dipende in massima parte il benessere della Congregazione e dell'anima nostra. La Divina Provvidenza ci ha finora aiutati e speriamo che seguiti ancora ad assisterci per intercessione di Maria SS. che fu sempre nostra buona Madre; ma noi dobbiamo avere ogni diligenza per fare buon uso ed economia di tutto quello che non è strettamente necessario”.

La suppellettile

Soprattutto aveva Don Bosco un timore speciale: che alcuno potesse dire: “Questa suppellettile non ha segno di povertà; questa mensa, que­sta abitazione non è da povero”. Nell'ultimo suo testamento del 1886 scrive: “Chi porge motivo ragionevole di fare questi discorsi cagiona un disastro alla Congregazione. Sia sempre la nostra gloria la povertà. Guai a noi se coloro che ci fanno la carità potranno dire che noi teniamo una vita più agiata della loro!». Eppure alcune volte avrebbero ragione se entrassero nella camera di qualche confratello.

Don Rua fu l'incarnazione della povertà salesiana, perché presentava Don Bosco alla lettera. Nella sua circolare del 1885 conforme a quella del 1886 insiste anch'egli sulla mobilia e abitazione che non sono conformi allo spirito di povertà.

Morto Don Bosco, un prete preso dalla giovinezza, si mise a fare il signorino, la sua camera diventò un piccolo salotto. Don Rua avvisato, va a trovarlo, guarda, riguarda, poi tentennando il capo: “Non è mica da povero, è roba da ricchi, la tua camera non è da povero”. Dopo alcuni giorni vede un carretto che trasporta un pianoforte: “Dove lo portate?”. — “Nella camera del tale”. — “Per adesso portatelo là, servirà nelle feste grandi quando si dovrà cantare la romanza”. E cambia casa all'individuo. Passato un certo tempo va a fare visita a quella casa, e appena giunto: “Conducimi nella tua stanza, voglio vederla... Già, già, anche trasportarti non basta; guarda, questa roba non è da povero: metti via questo tavolino...” ed a forza di “no” e di “metti via” gli ha spogliato la stanza.

Il testimonio di Don Bosco

Nel suo testamento l'ultima raccomandazione è: “Amate la povertà se volete far fiorire la Congregazione” (M.B. XVIII, 271). Nella stessa pagina ha ancora un'altra sentenza: “Quando incominceranno tra noi le comodità e le agiatezze la Congregazione avrà finito il suo tempo. Il mondo ci riceverà sempre con piacere finché ci cureremo della salvezza della gioventù più povera e più pericolante. Questa è la vera agiatezza che nessuno verrà mai a rapirci”. È il suo testamento! Possiamo di­menticarlo?

Saper star senza

Grande è la parola detta da Don Bosco nel 1858: “La povertà bi­sogna averla nel cuore per praticarla, bisogna tenerla davanti per com­prenderne tutto il segreto della pratica”.

In pratica abbiamo bisogno di molte cose per l'esercizio della perfe­zione propria del nostro Istituto; non apparteniamo all'Ordine mendi­cante e quindi abbiamo edifizi e attrezzatura differenti. Ciò che è ne­cessario od utile per l'esercizio della nostra perfezione rientra nel ri­guardo della povertà; anzi Don Bosco lo estende anche nel riguardo del­l'età, del lavoro, della malattia; e questo è già compreso nell'Epistola 2a di S. Pietro: “Maxime qui laborat in verbo Domini...” (Specialmente colui che fatica nella parola del Signore...), ma in qualunque posizione noi ci troviamo, per noi rimane sempre il principio che è il segreto della nostra vita: “L'amore alla semplicità, al tenore di vita povera: saper star senza”. Basterebbe questa frase per farci capire in pieno lo spirito della nostra povertà.

Vari aspetti della povertà

Ci sono sei qualità di povertà: tre buone, tre non buone:

  1. La povertà inculcata da N.S.G.C.;

  2. La povertà di consiglio: Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che hai;

  3. La povertà di professione: non è altro che quella di consiglio praticata nello stato religioso.

Ci sono poi tre aspetti non buoni, antireligiosi, rovinosi:

  1. La povertà forzata di chi non è mai contento, piagnucola, si la­menta sempre, non ne ha mai abbastanza; vogliono essere poveri a patto che non manchi loro mai nulla.

  2. La povertà smentita con la immortificazione, colla mondanità, col­la ricerca delle delicatezze, l'abbondanza dei cibi. Povertà, ma con una casa ben distinta e di lusso, tutto nuovo e della migliore qualità.

  3. La povertà schernita, la beffa della povertà; la povertà di coloro che vivono nella Congregazione ed applicano quello che dice S. Paolo: “Unusquisque habet suum” (Ad ognuno il proprio), ossia han soldi in tasca; prendono quello che dà la Congregazione e poi si arrotondano la vita con tutti i conforti; hanno il denaro, lo spendono e poi lo dicono an­cora in faccia: “Questo me lo pago io; questo alla Congregazione non costa niente perché me lo hanno regalato”. Bastano pochi di costoro per rovinare non solo una casa ma tutta la Congregazione: sono schiaffi agli altri e invito a fare altrettanto e purtroppo questi cattivi esempi vengono soprattutto dai preti. Attenzione!

La povertà salesiana

Prima di tutto rifugge dall’epicheia, dalla casistica colla quale rimane la regola e se ne va il resto. Dobbiamo fuggire questo modo di agire, perché altrimenti il coadiutore si ritiene quanto gli danno, il chierico quanto gli viene dai parenti, il prete… Senza virtù non c’è povertà e Don Bosco non distingue tra voto e virtù: la virtù della povertà bisogna averla nel cuore; con un unico colpo comprende tutto. La povertà salesiana è tale che se uno ha bisogno di qualche cosa prende la meno bella, il mobilio della materia più comune… tra due cose sceglie sempre la più povera, quella che costa di meno e che serve lo stesso senza avere aria di signorilità.

La vita del salesiano è una vita di terza classe; non solo sul treno, ma in tutte le manifestazioni della vita. Una volta la terza classe era una stalla ambulante, adesso è assai migliore, così esige la vita di oggi. Non possiamo noi vivere nella uniformità conventuale dei religiosi della vita penitente, ma dobbiamo vivere sempre in terza classe in modo che anche gli altri lo capiscano; quindi via il lusso, via la ricercatezza, mondanità, via la signorilità, la bellezza, l‘apparenza: queste cose vanno bene solo in chiesa o nella camera degli ospiti.

Le eccezioni

Dobbiamo togliere da noi ogni particolarità: vi sono di quelli che non vogliono assoggettarsi ad essere come gli altri. Sono generalmente dei bifolchi arricchiti, dei paesani che vogliono far i signori, i pescecani: è gente che vive di egoismo: quaerunt quae sua sunt (cercano il proprio interesse). Ce n'è almeno uno per casa. Io domando se sia lecito che vi siano dei salesiani poveri e dei poveri salesiani. Alcuni non vogliono essere poveri e così abbiamo dei salesiani di prima, di seconda e di terza classe. No, tutti di terza e non avvenga che dopo un mese dalla messa esploda l'uomo latente, l'uomo vero che non si adatta alla vita comune, ricercato negli abiti e nel vestiario, nel mobilio e nella camera, ed ha bisogno di farsi servire; in una parola vuol passare in seconda classe. Come è brutto! Non lo dico più.


Non tenere danari

A pag. 13-14 dei suoi ricordi confidenziali Don Bosco parla del te­nere danaro presso di sé: «L'osservanza di questo articolo terrà lontano da noi la peste più fatale per la Congregazione». Qui ci sono dei testi­moni: Don Olivazzo che ha vissuto ai miei tempi ed allora non si faceva questione se era lecito o no andare alla Comunione con più che mezza Lira in tasca. Noi fummo creati nel periodo della mezza lira. A quel chierico che richiedeva se poteva tener qualche lira, Don Bosco ri­spose che non sapeva come si potesse andare alla Comunione con una di­subbidienza simile. Don Ubaldi che riceveva 40.000 Lire all'anno non teneva in tasca neppure i soldi per il tram; anche egli era stato fabbricato ai tempi dei 10 soldi. Adesso purtroppo entrano di più i danari e coi danari la mondanità, la ricerca del piacere; l'egoismo, la gelosia, si ri­cerca la roba da mangiare e da bere, nasce la disuguaglianza, entra la venalità: questi ottiene tutti i servizi che vuole perché paga; entra... l'usci­ta di casa; l'andare a divertirsi, speriamo... solo a bere la birra.

Don Bosco l'ha detto ben chiaro: è la rovina della Congregazione.

Conclusione

Il nostro stemma «Lavoro e Temperanza» include la povertà, per­ché il povero necessariamente lavora ed è temperante. Ecco quindi che nel nostro segno di croce abbiamo messo: lavoro, temperanza; povertà, bontà, sacramenti e Maria.

Il nostro principio deve essere quello della semplicità, della antimon­danità; tutto ciò che è ricercato, lussuoso, particolare, deve essere escluso. Nel resto andiamo avanti come insegnano i nostri superiori, come pos­siamo, ricordandoci sempre che quando si viaggia in terza classe si arriva sempre prima che non quelli di seconda e di prima, perché i carrozzoni sono più vicini alla locomotiva, poiché Gesù ha detto: «Beati pauperes spiritu» (Beati i poveri in spirito).

1.7 VII. CASTITÀ

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Conservarci casti e puri al cospetto di Dio (S.G. Cafasso).

«Conservarci casti e puri al cospetto di Dio» sono le parole costante­mente usate dal Santo Cafasso in questa materia, ed ereditate da Don Bosco, che sempre si valse di questa espressione per indicare la direzione dello spirito su questo tema. Tema delicatissimo per la nostra vita interna ed individuale; come per la vita esterna per i nostri rapporti con il prossimo ed in particolare con ciò che deve essere la materia del nostro lavoro, il materiale educativo nei rapporti con la gioventù. Tema delica­tissimo ed arduo e non sempre definibile nei riguardi dell'individuo e della coscienza. Lascio a parte tutta la delicatissima questione dell'ordi­nando di fronte a questa materia e ciò che è disposto per i chierici nelle disposizioni della Santa Sede e delle Curie.

Chiaroveggenza di Don Bosco

Ho detto tema arduo e non sempre definibile, perché nella coscienza umana c'è una parte inconoscibile anche all'individuo stesso. Alcuni poi parlano dell'uomo senza considerare che ha i piedi in terra; altri invece lo trattano come non avesse la testa in cielo.

Interessante sarebbe lo studio della psicofisiologia scientifica, ma noi dobbiamo attenerci all'aspetto salesiano della materia, perché, se guardiamo bene, questo è il tema primordiale della salesianità. Don Bo­sco ha lavorato per tener indietro la gioventù in ciò che riguarda que­sta materia. Questo è il punto centrale della pedagogia pratica di Don Bosco, che ridotta nella formula più semplice consiste nel preservare dal peccato l'anima dei giovanetti e coltivare in essi la grazia di Dio (ecco i Sacramenti). Per i giovanetti Don Bosco non teme quasi altro che il peccato brutto. Il nostro lavoro per impedire il peccato deve essere ridotto quasi ad impedire questo genere di peccati. Benché Don Bosco non sia un manoveggente o un esagerato, tuttavia in questo consiste la quintessenza del suo valore storico ed educativo.

È giusto scientificamente e moralmente pensare così. Infatti la Chie­sa definisce Don Bosco: «Padre degli adolescenti, dedicato all'educa­zione della gioventù». Ora da più di 40 anni la scienza si è volta a studiare per l'adolescenza il tremendo problema psicofisiologico, na­turale, spirituale della pubertà, vale a dire come si svolge, quali effetti produce nei caratteri e nei temperamenti, nell'abitudine, nella volontà, nella psiche del giovane questo fenomeno di rinascita dell'organismo umano. Potrei citarvi più di duemila autori, di studiosi di questo pro­blema, tra cui i cattolici sono molto pochi.

Il classico libro del Mendousse: «L'anima dell'adolescente» riduce tutta la questione della moralità nell'adolescenza a questo problema della pubertà, del fatto e del fattore psicofisiologico.

Don Bosco lo aveva capito 50 anni prima: per lavorare tra gli ado­lescenti bisogna tener presente lo stato in cui si trovano: la pubertà. E siccome la rinascita fisica porta con sé alcuni fatti, ecco che Don Bosco dirige tutto il suo studio e lavoro a preservare l'anima dei giovanetti dal peccato, e per peccato non ritiene altro che questo. Non è esagerazione, perché dopo 50 anni la scienza viene a dargli ragione. Neh, che Don Bosco se si studia incomincia a diventare grande?!

Anche nell'ambiente della vita religiosa salesiana ed educativa cioè uno dei tre perni su cui si aggira tutto il sistema spirituale. È una delle tre idiosincrasie naturali di Don Bosco: ozio, intemperanza, immodestia, a cui per esperienza ne aggiunge una quarta: la mormorazione; proprio come dicono i Proverbi: «Tre cose non tollero ed una non posso sop­portare...» (Pr 30,21-23).

Interpretazione errata

Per l'immodestia Don Bosco ebbe fin da fanciullo, come ho già detto, una ripugnanza naturale, tanto è vero che noi salesianetti suoi divoti se­guaci abbiamo inteso inesattamente e frainteso la sua tradizione; da noi quasi non si considera peccato se non quello, e non solo nei giovanetti dove c'è tanto da discutere sulla responsabilità e gravità, ma anche per noi stessi. Quando si è superata quella faccenda, non si bada più ad altro, non si ha sensibilità morale per la giustizia, l'onestà, la sincerità, la carità, la responsabilità per noi queste sono tutte cosette qualunque. No, ab­biamo frainteso una tradizione e quindi guastato il senso morale; siamo freddi in certa materia, ma amorali in tutto il resto.

Condizione essenziale

Don Bosco sapeva la teologia un po' meglio, e se noi vediamo che egli insiste molto su questo punto è perché è il punto centrale della vita dell'adolescente e per la condizione tutta speciale della vita educativa a cui deve formare i suoi figli, poiché essi non sono per fare il prete ma per lavorare per la gioventù. Dato questo, deve formarli secondo la sua idea centrale, e quindi insiste maggiormente su tale argomento e noi lo rileviamo dal testo delle Regole: «Chi non ha fondata speranza..”, ed altrove: “Chi non ha fondata speranza di potersi moralmente salvare da questi peccati è meglio che non si faccia né prete né chierico”. E Don Bosco nel trattare questa materia non fa questioni teologiche né questioni di coscienza. I teologi discutono fin dove si può giungere senza peccato grave...; povero Cuore di Gesù: appendiamo tanti quadri e poi misuria­mo col millimetro fin dove possiamo arrivare senza ammazzarti!

Terminologia

Don Bosco rifugge totalmente dal rimescolare questa materia, rifugge persino dall'usare i termini usuali, per lui non esistono termini specifici, ma solo i comuni, virtù, modestia, innocenza e virtù per eccellenza; così dice Don Bosco: “Chi può capire capisce, e chi non sa, non capisce e tanto meglio”. Così per il contrario usa i termini: peccato, caduta, di­sgrazia, disonestà, parole tutte che non turbano e fanno capire coloro che hanno bisogno.

Aspetto pratico

Invece di fare questioni di teologia e di coscienza, Don Bosco ne fa sempre una questione di grazia di Dio: avere la grazia di Dio e non offendere Dio, non cadere in peccato. Mentre invece non fa questioni teoriche di pedagogia di costume, di educazione del costume. Il sistema di Don Bosco su questo punto è tutto qui: impedire il peccato; ecco la vera pedagogia del costume! Per questo Don Bosco è definito: «Padre degli adolescenti», e ricordiamolo sempre: centro dell'adolescenza è quello che si chiama pubertà.

La grandezza di Don Bosco

Vediamo come Don Bosco considerava l'individuo e l'ambiente. Per lui il chierico è ancora adolescente, anzi dice che questo stato dura sino ai 30 anni; ora per il fattore oggettivo del salesiano che vive tra i gio­vani, e può avere delle impressioni individuali, soggettive, ed ha delle responsabilità particolari, Don Bosco dà delle norme speciali sul modo di trattare i giovani, di preservarli dal male ossia di educarli al costume. Ecco ciò che non posso sviluppare nelle conferenze di pedagogia sale­siana, perché mi manca ordinariamente un ambiente che capisca.

Questa è la vera grandezza di Don Bosco, la sua concezione di mo­ralità, della pedagogia del costume: noi lavoriamo in mezzo ai giovani per impedire il peccato. Teniamolo bene a mente: sopra e prima, in ordine di idee e di tempo, della «pedagogia della castità» anzi come mezzo supremo di questa pedagogia, Don Bosco mette la «castità della pedagogia», ossia la castità dell'individuo che educa, sia nel linguaggio, sia nei modi, sia nella persona. Inutile parlare di gigli all'altare se tu sei un carciofo. «Nemo dat quod non habet» (Nessuno dà ciò che non ha). Ecco una delle grandezze di Don Bosco!

Tutto quel mondo lubrico di produzioni sulla purezza che è uscito in questi ultimi 30 anni, anche dei cattolici, pretende di insegnare ai gio­vani come devono stare a posto: ma non osservano la regola nostra, han­no un linguaggio tale, che se uno non sa, impara quella volta: si dimen­ticano della “castità della pedagogia”. Questi sono tutti libri sbagliati, e in tutti questi libri... non tutte le verità si possono dire!

Per essere salesiani più vicini a Don Bosco, per essere imboscati com­pletamente, teniamolo ben presente!

Conservarsi - difendersi

Veniamo agli elementi specifici della materia. A un totale traviato, dice Don Bosco nel 1876: “Guardi, lasciamo a parte la teologia, la mo­rale, la mistica, l'ascetica; tutto si riduce a questo: conservarsi puri e san­ti al cospetto di Dio”. Sono precisamente le parole del S. Cafasso e di Don Bosco sulle orme del Maestro; insegna sempre come si fa per conservarsi casti. Conservarsi e conservare la castità è sempre la sua pa­rola, che viene completata dal concetto della difesa: conservarsi e difen­dersi. È classico nel capitolo di Magone in cui mette in fila i sette cara­binieri che si pongono ai piedi della Madonna per difendere e conservare castità. Non è altro che una idea popolare dei sette mezzi per conservarsi casti.

Troverete dei santi che hanno scritto su questa materia molti pen­sieri; i più portano in alto teologicamente e misticamente parlando del­l'amore di Dio: chi ama Dio, non ama le creature, si distacca da esse; ora tutta la purezza è amor di Dio, è non andare dietro alle creature; chi ama Dio non ama se stesso, non ama, non segue le proprie tendenze.

Don Bosco ha molto più pratica; realista, positivo, egli sapeva che pur parlando dell'amor di Dio si poteva rimanere come prima, quindi si limitò ad indicare i mezzi negativi a preferenza dei positivi, per difen­dersi, per conservarsi. Tutti gli altri ragionamenti li conosceva, eppure ai suoi giovani, ai chierici, ai preti ragionava così!

I suoi mezzi

Negli Esercizi del 1868 a Trofarello fa una predica esclusivamente sulla mortificazione ed ha per tema: Il corpo che si corrompe aggrava l'anima, e parla della mortificazione degli occhi e del gusto. L'anno dopo tiene una conferenza per la conservazione della castità e svolge quel: «Subtrahe ligna foco si vis extinguere flammam» (Togli la legna dal fuo­co se vuoi spegnere la fiamma). Ancora negli Esercizi di Trofarello del 1869 trattando dei tre voti delineava i mezzi positivi e negativi per con­servarsi casti. Questa conferenza fu riassunta male, ma l'anno dopo per fortuna, la ripetè tale quale negli Esercizi di Lanzo a cui era presente Don Barberis che prese nota diligentemente di tutto e così sappiamo cosa intendeva Don Bosco quando parlava della difesa della virtù.

Negli Esercizi di Lanzo nel 1870 discorrendo disse questa sentenza che non va dimenticata: «La gioventù è un'arma pericolosissima del demonio contro le persone consacrate al Signore». È il pericolo profes­sionale per noi che lavoriamo in questa materia. Finalmente negli Esercizi di Lanzo del 1875 spiegava i mezzi negativi: «Accipe fugam si vis pa­rare victoriam” (Fuggi se vuoi preparare la vittoria). Ed enumera le 5 fughe che si trovano nello Scavini (I, 1 cap. 2: «Dei peccati in specie»).

Le cinque fughe

  1. Fuga dalle persone dell'altro sesso. — Trattenersi poco con esse, non usare familiarità, facezie. Un ecclesiastico non deve faceziare con loro; non essere orsi, ma neppure permettersi scherzi: col fuoco non si scherza! Uscendo di casa frenare la libertà degli occhi, non guardare per istrada... se le rondini hanno il becco. Già anni prima parlando ai giovani Don Bosco il 5-VII-1867 aveva avvertito che non bisognava trat­tenersi tanto in parlatorio, ma fare in modo che le persone di altro sesso andassero via al più presto, anche se parenti. Ai chierici disse: “Ecco che un chierico a casa trova la cognata, la sorella, la cugina, e il demo­nio che sa fare la logica e sa fare le astrazioni toglie la parola: cognata, sorella, cugina, e lascia solo la parola: donna; toglie la parola: religiosa e lascia zitella, signorina... E che cosa succede?”.

  2. Fuga dalle conversazioni secolaresche, e andare in mezzo alla gen­te del secolo. Adesso c'è la cattolica, cioè i secolari che vengono da noi per essere formati, quindi il problema cambia aspetto, ma rimane.

  3. Fuga dalle visite — Se vengono a trovarvi, sbrigatevi, dice Don Bosco, e siate prudenti e vigilanti, perché le visite in parlatorio sono uno dei maggiori pericoli; non è raro il caso che il parlatorio è diventato an­ticamera del Municipio.

  4. Fuga dalle amicizie — Tra noi e i giovani, tra confratelli; fuggire le amicizie troppo intime e tenere. Non mai grossolanità, familiarità, mettere le mani addosso. Non è raro che possa avvenire tra laici e i chierici, tra chierici e laici, tra chi non è più soltanto chierico e i chierici. Tra chierici giovani e persone anziane. Non c'è da stupirsi che delle volte accade: siamo 15 mila e quindi 15 mila uomini. Può avvenire che tu chierico ti trovi nella tua strada persona già di età, di elevata condizione, che perda la testa attorno a te e tu incominci a perderla con farti la spartita profondamente tale da far scappare la vocazione. Cominci a fare il beccuccio, il ricciolo tira basin; ricordatevi il proverbio: «Omo porsei semper son bei» (uomini sporcaccioni sempre sono belli). Guarda mio caro prete giovane, puoi trovare degli inciampi in chi ti vuol bene come non si deve voler bene tra gli uomini, tra maschi su questa terra. Quan­do ho visto certe conciature, io ho detto: «Vedo che lei farà il farmaci­sta...». Vidi curarsi di più, avvisai ancora; continuarono, e non parlai più perché era troppo tardi.

5) Fuga dai giovani — Prevedo subito la obiezione: ma se dobbiamo stare in mezzo ai giovani? Rispondo: stare in mezzo ai giovani, sì; ma non da solo a solo, non con uno più che con un altro, non a porte chiuse. Don Bosco a questo proposito esce in una sentenza angosciosa: «La ro­vina di certe Congregazioni dedite all'educazione della gioventù deve at­tribuirsi a ciò: a non aver fuggito giovani. Ci sono delle esagerazioni dei cattivi ed anche delle calunnie, ma senza sospetto fondatissimo, e in molti casi successi non avrebbero osato i nemici ad insinuare esagerazioni e calunnie» — ed aggiungeva illustrando questa idea: «Io sono venuto sino all'età (1865) senza conoscere questo pericolo, ma dopo di allora ho dovuto vedere e purtroppo convincermi che questo pericolo gravissi­mo c'è, e non solo c'è, ma c'è instante e tale da metterci bene in guar­dia».

Doveva essere successo qualche scandalo rumoroso e tale da buttar in aria una istituzione e degli accreditati religiosi; da questo Don Bosco capisce il pericolo, lo dice instante e tale da metterci bene in guardia. Don Barberis ha registrato anche la conclusione: «Non mai baci, carez­ze, mani sulla faccia», tanto più adesso che sono vestiti... come nel pa­radiso terrestre. Non amicizie particolari coi giovani, specialmente se av­venenti, perché si fa parlar male e si finisce peggio; non scrivere lettere troppo sdolcinate, non occhi troppo espressivi, non regalucci particolari pericolosissimi, non condurre anche per motivo buono i ragazzi in ca­mera e parlare in confidenza a porte chiuse.

Altri documenti

Sono precetti che Don Bosco ripetè sempre. Nel 1876 parla ai chie­rici dell'Oratorio sulla castità e sul conservare la vocazione raccomanda per loro:

  1. Esatta osservanza dei propri doveri secondo le Regole;

  2. Puntualità nel trovarsi in ricreazione ed avere gli occhi ai mu­soni che stanno nei cantucci, perché ozio in ricreazione è la sorgente di ogni male. Don Bosco insisteva che i salesiani devono essere tutti in cortile; che non pensino a divertire se stessi, ma giochino con i ragazzi, abbiano gli occhi di qua e di là: vigilare tutto. Nel 1868 diceva che «è immenso il bene che può fare un chierico, salendo una scala, guardando un luogo nascosto, facendo una scappata di sorpresa durante la ricrea­zione».

  3. Osservanza dell'orario di sera; non fare conversazioni.

  4. Puntualità nel balzare dal letto... «Sono stato mezz'ora di più a letto e non mi è accaduto niente». — «Di' pure che il Signore ha ope­rato un grande miracolo per tenerti salvo».

  5. Mortificazione: «Hoc genus daemoniorum non eicitur misi per orationem et ieiunium» (Questo genere di demoni non può essere scac­ciato se non con la preghiera e il digiuno), e Don Bosco batte sulla ten­denza dei chierici a fare merenduole, bicchierate, ribotte, ecc.

  6. Addormentarsi subito, pregando.

  7. Sveltezza nel fare le proprie cose quando si è agli adagiamenti per le necessità corporali.

  8. Non trascurare le pratiche di pietà. E conclude: «La castità e la purezza sono virtù così belle che senza di esse un chierico, un sacer­dote è nulla. Se le possiede è tutto».

Incontaminati

Nella relazione fatta al Papa nel 1879 Don Bosco potè dire: «Fi­nora posso attestare che non si è avverato il caso che un salesiano, di­menticando se stesso, abbia dato ragione di scandalo». E dopo?... Ve­ramente già due anni prima, 18-11-1877, ai direttori riuniti aveva detto una sentenza molto grave e poi aveva aggiunto: «Mi vengono dicendo: ma non faccia lavorare tanto i suoi preti!».

Ed egli risponde: «Il prete o muore per il lavoro, o muore per il vizio». Guardate in che stato doveva essere il suo sentimento in quella sera.

Vegliare bene

Don Bosco intravedeva che col moltiplicarsi della Congregazione po­tevano nascere degli inconvenienti, perciò insiste sull'accettazione e dopo quell'anno, in capitolo ancor più insistette. Inculca sette norme per l'ac­cettazione al Noviziato, per l'ammissione ai voti e agli ordini. Non le enumero tutte, ma ne ha parecchie che sono singolari.

Norme per ammettere alla prima prova. «Chi ha precedenti di mo­ralità dubbia o una catena di miserie, non sia ammesso alla prima prova, eccetto fossero cose isolate. I giovani che fanno pasticci al loro paese, fino all'ultimo non si ammettano, perché questi si freneranno al noviziato e poi riprenderanno».

Fissando la norma per l'ammissione ai voti: “Se si tratta di pensieri, letture, parole, fatali inclinazioni, si può sospendere il giudizio; se invece sono atti contrari e fatti per abitudine, ci vuol maggior severità, eccetto che siano cadute di pura fragilità. Se si tratta di mancanze fatte con altri, allora è difficilissimo che uno cambi; la caduta si verifica anche quando l'individuo sia consacrato al Signore”.

In totale egli deve mostrarsi rigoroso per l'ammissione al noviziato e rigorosissimo per l'ammissione ai voti.

Degenerazione

Guardate che fenomeno: il degenerato non si corregge. La sensibi­lità, la fragilità si spiega e si corregge con la volontà, col tempo, con l'aiuto di Dio, ma il degenerato che cerca il suo simile non si corregge; vestitelo come volete, ungetelo anche con l'olio di peperone. Di questi individui ne troverete ovunque; è il peggior pericolo della vita chiusa di collegio, di seminario, di quartiere, di prigione, di bastimento; e questa sorte di peccati è quasi incorreggibile nonostante tutti i pietismi, le la­crime, i misticismi e scuotimenti che si fanno nelle preghiere; anzi è proprio caratteristica dei pietisti, dei mistici, dei bigotti l'aver tendenza a questo genere di cose. Questo è non solo storia dolorosa, ma scienza psicologica.

Dovere dell'esempio

Dovrei trattare del nostro contegno in mezzo ai giovani, ma è tardi. Ricordate solo cosa dice Don Bosco: «Uno sguardo, un sorriso, una pa­rola imprudente possono essere malinterpretate dai giovani i quali furono già vittima delle umane passioni». Noi figli di Don Bosco nel nostro modo di vivere, nel contegno esterno, nel parlare, sorridere, guardare, camminare dobbiamo avere quel non so che di indefinibile che si chia­ma riserbo; insomma avere un contegno che impone ai giovani la peda­gogia della castità. Noi educhiamo i ragazzi soprattutto con il nostro esempio.

È Don Bosco che ce lo ricorda nella Circolare del 5-11-74: «La mo­ralità degli allievi dipende da chi li ammaestra, da chi li dirige. Se per­tanto vogliamo promuovere la morale e la virtù tra loro, dobbiamo pos­sederla noi e farla risplendere nelle nostre opere, discorsi, in tutta la nostra

vita». Ed ancora nella stessa Circolare termina con queste parole che de­vono formare il ricordo dei nostri Esercizi: «Il salesiano deve accop­piare alla povertà del vivere una esemplare osservanza delle Costituzioni e lo splendore della sua purezza».

È tutta un programma di vita: Se avremo la purezza nel cuore, la co­municheremo ai nostri giovani, come Don Bosco istillò a tutti la sua virtù angelica.

1.8 VIII. OBBEDIENZA

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Prima di parlare di obbedienza vi suggerisco di leggere le Regole di S. Benedetto; vi troverete la vera vita e la vera personalità spirituale. Conviene che leggiate non solo perché un buon salesiano deve sapere 14 parole per ogni ramo e poi spenderle bene, ma soprattutto perché l'ul­timo benedettino è Don Bosco, e S. Benedetto è il primo Don Bosco. E prima ancora di imboscarvi in obbedienza, ossia di dirvi come Don Bo­sco ci vuole, premetto tre consolazioni:

  1. In fatto di morale è raro che la mancanza di obbedienza giunga alla gravità del peccato mortale; per questo ci vuole o una disobbedien­za in forma canonica o di categorica infrazione al voto. Tutte le nostre scappatelle sono scappatelle da collegiale, tutte birichinate anche se ab­biamo i capelli bianchi.

  2. S. Anselmo dice chiaramente che non c'è da disperare di un re­ligioso finché non infrange i voti; egli poi ragiona secondo la mentalità benedettina: per cui l'unico voto è quello dell'obbedienza che lega al convento; quindi basta non scappare...

  3. In via di fatto consoliamoci: tra tutte le Congregazioni attive che brillano nella Chiesa per la loro disciplina, la Congregazione salesiana sta alla pari dei Gesuiti, cioè in primo piano. (Mettiamo Gesuiti, per­ché bisogna dir così). L'esperienza che ho della vita mi fa nutrire questi sentimenti: non c'è nessun'altra Congregazione che abbia tanta pazienza, disciplina, soggezione, tanto spirito di obbedienza, quanto la Congrega­zione salesiana. Noi siamo addirittura miracolosi, perché gli altri Ordini hanno un'obbedienza da cui non si scappa, perché hanno insegnato ogni passo ed il superiore non può comandare più di quello che è nel libro. Chi entra deve praticare la Regola, un binario ed uno solo. Noi invece dipendiamo sempre dal superiore locale, cambiare direttore vuol dire cambiare tutto quanto. Eppure noi ci stiamo e sopportiamo.

Don Rua nel processo apostolico di Don Bosco ha potuto deporre che tanto prima quanto dopo la sua morte, mai si erano avverate scissure fra le case, mai ribellioni, mai tentativi di riforma. E questa deposizione è del 1908, ossia di vent'anni dopo la morte di Don Bosco, ossia dopo il decennio nero profetato nel sogno del 1871.

E dite se non siamo quel che siamo. Vedete che sono salesiano a 150%?


Un solo peccato all'anno

Una vera disubbidienza canonica, cioè che al superiore rivestito dal­la potestà del can. 501 si risponda «no», su 12.800 salesiani, non credo che ne capiti uno all'anno in tutta la Congregazione.

Degli autonomi ve ne sono dappertutto, anche tra quelli che hanno i galloni sulle braccia. Momenti cattivi, momenti di nervi ce ne sono, ne abbiamo provato un po' tutti. Vi sono anche sbagli dei superiori, e non è ribellione dire che ci sono dei superiori sbagliati: sono 1200 persone che hanno potestà dominativa in Congregazione, tante case altrettanti direttori, sarebbe divino se non se ne sbagliasse uno...

Anche S. Romana Chiesa sbaglia qualche volta nello scegliere i suoi vescovi, e poi deve ritirarli e sopportarli. Ora nella quasi totalità siamo disciplinatissimi: lasciate che i superiori gridino, che facciano prediche dotte e vi scaraventino addosso tutto S. Tommaso e ascetica, lasciateli dire, devono farlo. La pratica però è questa, che siamo della gran brava gente.

Pericolo della legalità

Vengo alla pratica della nostra vita. Tutti sanno il canone 501 della potestà dominativa e delle persone in cui risiede. Tutti gli altri invece, prefetto, catechista, consigliere, comandano solo rappresentativamente, ma non hanno potestà dominativa. Gli stessi superiori del Capitolo, ec­cetto il Rettor Maggiore, comandano solo collegialmente. (Don Bosco nel 1869 ha spiegato tutto questo ai chierici aspiranti e novizi e quindi credo di poterlo dire ai teologi). Ragionando a forza dei canoni sembra che si debba obbedire solo quando entra la forza del voto ed allora anche facendo il testone, il ribelle, il capriccioso, «come voglio io», si conti­nua a fare la Comunione tutti i giorni perché non si cade in peccato mortale e così si ha lo spettacolo di testoni permanenti che fanno im­perturbabili la loro Comunione quotidiana.

Don Bosco non aveva questa idea. Se qualcuno faceva così lo chia­mava a parte e: «Come vai alla Comunione con questa condotta?». Ed aveva ragione perché il Signore lascia entrare tutti, ma poi guarda se hanno la veste nuziale. Se fossimo andati a punta di canoni o di Costitu­zioni, la Congregazione sarebbe ancora in Via Cottolengo 32, non sarebbe una città nei limiti di Torino, ma sarebbe ancora alla casa Pinardi.

Vado io

Vi sono dei concetti di obbedienza che annullano la spiritualità. Pren­dete il cap. VI, 1, 36 delle Regole di S. Ignazio: «Perinde ac cadaver, ac baculus» (Come un cadavere e un bastone). Questa è obbedienza ri­gida, fredda, che annulla la personalità, non è fatta per noi: noi siamo salesiani e facciamo i voti secondo le Costituzioni della Società di S. Fran­cesco di Sales e non secondo le Regole e le Costituzioni della Compa­gnia di Gesù. Questo principio riportato e magnificato da tutti i libri d'ascetica non è il nostro. Noi non dobbiamo essere delle marionette senz'anima. C'è pure una teoria paralizzante, disfattista, conventualista, che serpeggia e s'inculca senza saperlo e conduce a gravi conseguenze. Stiamo attenti, noi abbiamo un altro spirito che si riassume nel motto salesiano: «Vado io». Non so quanti giorni di indulgenza abbia, ma certo un maggior trionfo per la Congregazione che è cresciuta tutta col «vado io», così, in forza di sacrifici: solo così si spiegano le missioni; perché S. Madre Chiesa arriva poi solo dopo a organizzare, a reggimentare ciò che è frutto dei sacrifici di coloro che hanno detto: «vado io».

L'eresia e la bestemmia salesiana

C'è però anche il contrario della medaglia che è una eresia salesiana espressa nella forma: «la regola e basta». Ce n'è uno per casa di questi batticolpo e posapiano: c'è del lavoro enorme da fare ed essi si scusano sempre: «Nessuno me l'ha detto». Io li prenderei a...!

Simile all'eresia, anzi peggiore ancora è la bestemmia salesiana: “non tocca a me”. Brucia la casa: “Non tocca a me”; un rubinetto perde acqua: “Non tocca a me”... e andate avanti di questo passo. Povera Congregazione, starebbe fresca se avesse un certo numero di questa gente!

Per delineare bene il nostro spirito possiamo definirci così: “Una Congregazione in cui tutte le azioni, attività, iniziative personali sono in­quadrate in una organizzazione disciplinata dall'obbedienza”. È quindi il nostro concetto affatto differente da quello degli altri Ordini.

L'esempio

Permettetemi una parentesi: bisogna che noi abbiamo consapevolezza del nostro stato di preti. Il prete è sempre prete. I coadiutori, i chierici guardano a lui, e quindi in grazia della pretura siamo tenuti a dare buon esempio; alcune volte costa un po' caro, ma pure tocca a noi dirigere la macchina, perché siamo noi la ruota principale del meccanismo che si chiamerà Lanzo, Cuorgnè, Chieri... Per gli altri le disubbidienze sono scappatelle da collegiali, per noi invece sono consapevoli, premeditate; e questo intacca la compattezza della disciplina comune: dobbiamo ricor­darci che abbiamo obbligo sacrosanto di mostrarci agli altri più solleciti nell'obbedire: è un obbligo inerente alla nostra condizione.

La nostra obbedienza

Anche nell'obbedienza bisogna fare delle distinzioni: c'è la questione del principio e quella della forma.

Il principio incrollabile è questo: necessità e dovere di obbedire. La forma invece consiste nello speciale concetto dell'obbedienza nel regime salesiano, ossia nel modo di attuare il principio.

Vediamo quindi questa forma. L'idea di Don Bosco su questo punto è quella di un'obbedienza, di una disciplina di famiglia. Nella celebre let­tera del 10.V.1884 colpisce superiori che vogliono essere considerati come superiori e non più come padri ed amici: sono temuti e non amati. Ma perché sostituire la freddezza rigida di un regolamento al principio della carità, dell'obbedienza amorosa ed amorevole? Amorosa nel principio, amorevole nella forma?

Il regime di comunità interessa solo quando si sente di essere in fa­miglia; solo in simile ambiente tutti sono interessati per il bene comune. Tutti obbediscono al capo e padre, ma il padre deve essere padre ed ami­co. Per gli altri interessi comuni deve tenerci uniti un fine, un motivo su­periore e non quello di guadagnare i soldi, ma il bene, la conquista delle anime, la salvezza della gioventù che abbiamo in casa.

Quindi non solo disciplina legalitaria, che scansa la sanzione cano­nica, ma cooperazione volonterosa di tutti per il lavoro: per questo abbiamo come stemma: Lavoro e Temperanza; per questo Don Bosco volle che ogni casa fosse una famiglia sotto un padre comune, e benché i papà non siano tutti uguali, pure si vuole sempre loro bene.

Insisto su questa idea, perché se entrerà nelle case, i superiori non ne avranno dispiacere e la Congregazione andrà avanti meglio.

Padre e non capo ufficio

Don Bosco volle obbedienza in vista dell'unione, quindi obbedire a uno per essere uniti. Ai direttori riuniti 3.II. 1876 dice: “Se un prete solo ha fatto tante cose con niente, che cosa non faranno 330 persone riu­nite e forti?” (Allora i salesiani erano 330).

Unione sì; ma unione di figli e di fratelli col padre e non unione di impiegati che si uniscono al capo ufficio; quindi il padre sia padre e non il cavaliere, commendatore che comanda a tutti gli impiegati. Se il padre considera i dipendenti come gli impiegati, allora anche i sudditi lo con­siderano come capo e non come padre di famiglia.

Nei ricordi confidenziali ai direttori per ben 16 pagine Don Bosco in­segna ai direttori come si fa a fare il padre.

II colpo d'ala

Nella Circolare inedita nella fine di aprile 1885 in cui ci convince che tutto va fatto per la gloria di Dio, aggiunge: “Dobbiamo obbedire non perché è comandato, ma per una ragione superiore, per la gloria di Dio”. Sul medesimo concetto insiste nelle norme ai direttori del 1884 manoscritte. Unione nell'obbedienza per la gloria di Dio è un motto di Don Bosco. Ecco quindi il principio fondamentale della vita salesiana: “Lavorare tutti con disciplina di famiglia nell'unione per la maggior gloria di Dio e per poter ottenere il fine collettivo che è la salvezza delle anime”. Questo è il concetto di Don Bosco diffuso in tutti i suoi scritti e discorsi: ricordate il grido d'angoscia: “Ma ora i superiori vogliono es­sere superiori e non sono più padri, fratelli, amici; sono temuti e non amati”. E lo scatto che ha: “Ma perché si vuole sostituire la freddezza di un regolamento al principio della carità?”.

Imboschiamoci

Studiamo Don Bosco, altrimenti andiamo canonizzandoci e dimenti­chiamo il principio fondamentale della Congregazione che è la bontà. Questo dev'essere il principio direttivo del sistema preventivo anche nei superiori. Si pubblichino dei libri di lettura spirituale apposta per noi, det­tati per il nostro spirito, come si era prescritto nel Capitolo Generale di 35 anni fa, altrimenti andiamo leggendo altri libri e perdiamo il nostro spirito. Il nostro testo è Don Bosco e non altri... e non la vogliono capire.

La questione di principio

Don Bosco ci si presenta come per l'osservanza e la austerità piutto­sto severo, rigido, direi intransigente. Infatti nel 1885 ai direttori dice cose molto forti: “Finora l'obbedienza da noi fu più personale che re­ligiosa. Evitiamo questo inconveniente. Non obbediamo perché il tale comanda, ma obbediamo per motivo superiore, perché chi comanda è Dio, comandi poi per mezzo di chi vuole”. Nel 1886 il 3-X me presente, in quel famoso giorno in cui saltò su contro la mormorazione, contro lo spirito di critica, proprio in quella circostanza, pronunciò questa sen­tenza: “È un sacrilegio fare il voto di obbedienza e poi regolarsi come fanno taluni che obbediscono solo quando loro piace”. Ed in altra cir­costanza: “Recedendo dai nostri voti facciamo un furto al Signore, per­ché ritogliamo ciò che abbiamo messo nelle sue mani”.

Una volta Don Bosco mandò un ordine ad un tale che era stimato e chiamato santo e che ci teneva a tale appellativo e questi non si piegò. Ne mandò un secondo ed ottenne il medesimo risultato. Mandò per la terza volta lo stesso ordine mediante una persona e l'individuo non si piegò. Allora Don Bosco: “Il tale fa il santo ma non obbedisce nemme­no a Don Bosco... Consultate tutto il Martirologio e vedrete che San Testone non c'è ancora”.


Catena... d'oro

La vita sotto obbedienza la conosco da 54 anni e vi posso dire tanto biograficamente come storicamente per altri che è vita di sacrificio, ma l'atto più meritorio di tutta la vita perché comprende il sacrificio della nostra personalità; è sacrificio della nostra volontà e quindi è più duro di tutti per chi non è abulico e incosciente. È meritoria quando uno deve operare su un binario che va in un punto morto o peggio ancora. È sacrificio quando bisogna stare con uno che comanda senza esserne de­gno, o in modo indegno o con passione personale contro di te; è sacri­ficio quando chi comanda non ha di buono che la veste che ha indosso, ma anche e soprattutto in questi casi tu devi vedere Dio. Troverai persone che sono incapaci, superiori sbagliati ce ne sono, troverai alcuni che il Leopardi dice: “Discepoli di tale di cui mi sarà vergogna essere mae­stro”. Gente che ha raggiunto il posto con mezzi subdoli..., potrai tro­vare le persone più sante messe su da un intrigante che l'ha con te, e non ne imbrocchi una. L'aveva già previsto S. Benedetto al capo set­timo delle Regole parlando dell'umiltà: “Il quarto grado dell'umiltà, egli dice, è il sapersi dirigere in questa posizione”. E ce ne sono di questi. Un salesiano illustre che portava il cilicio (Don Fascie) è stato 5 anni con un superiore di questo genere.

Concludendo

La materia dell'obbedienza per noi figli di Don Bosco non è questione casuistica e di canoni, ma è umiltà nei sentimenti, sacrificio interno della volontà, di giudizio e qualche volta anche sacrificio esterno, è carità verso il superiore.

Con questo spirito che ha fatto trionfare la Congregazione nel mon­do, ricordiamolo bene: i raggi della nostra aureola, i 4 princìpi che ci rendono gloriosi davanti alla Chiesa e alla storia sono: Lavoro, Tempe­ranza, Povertà e Disciplina.

1.9 IX. PIETÀ

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Exerce autem te ipsum ad pietatem. Pietas autem ad omnia utilis est, promissionem habens vitae quae nunc est et futurae. (Esercitati nella pietà, perché l'esercizio fisico è utile a poco, mentre la pietà è utile a tutto, por­tando con sé la promessa della vita presente come quella della vita futura. 1 Tim 4,8).

Habentes speciem quidem pietatis, virtutem autem eius abnegantes. (... con la parvenza della pietà mentre ne hanno rinnegata la forza interiore. 2 Tim 3,5).

La nostra vita d'azione e di apostolato, come sacerdoti ed educatori salesiani poggia su due fondamenti che sono i fattori principali della stessa formazione nostra, l'anima e movente della stessa azione, cioè la preghiera ispirata alla pietà ed il sacrificio personale. Azione, preghiera, sacrificio; siamo perfetti cattolici: ricordiamoci che l'azione è estrinseca­zione esterna, ma i fattori devono essere la preghiera ispirata alla pietà ed il sacrificio personale secondo le parole di Pio XI il 9-VI-1933 nel di­scorso tenuto per la causa di Savio Domenico.

Raccolgo questo concetto per l'autorità di chi lo esprime e per la ve­rità profonda che contiene, lo raccolgo ancora per la singolare espres­sione: preghiera ispirata alla pietà; e la faccio tema di quelle poche pa­role che intendo rivolgervi questa mattina.

Pietà e preghiera

L'atto formale della preghiera suppone degli elementi che lo ispirano: la pietà. In questo senso la pietà è qualcosa di più intimo e profondo della semplice idea della preghiera: ne è l'anima che la permea. Non è atto passeggero, non è un gesto liturgico o extraliturgico, ma è una orga­nica ininterrotta unione con Dio. È la vita stessa che si esplica ed estrin­seca mediante un'azione particolare. Altro è il gesto e altro è la vita senza della quale non si opererebbe. Altro è la preghiera, per quanto ben fatta, altra è la vita che deve permeare tutta la persona e che precede l'atto formale esterno della preghiera.

In questo senso si deve intendere il tema. Noi non guardiamo alle pratiche obbligatorie e particolari, ma badiamo ad essere pii, religiosi, devoti.

Che cosa è questa pietà senza cui la preghiera non ha quell'efficacia impetrativa tale da essere il propulsore dell'apostolato? Meditando sulle cose senza spartirle, guardando l'orologio senza scomporlo, altrimenti non si vede l'ora, possiamo dire che la pietà è quel sentimento che ci porta verso Dio, è la presenza di Dio sentita nell'anima. Se non si sente così la presenza di Dio, tutto è meccanicità esteriore e vale poco.

Preghiera senza pietà

Ricordiamo bene che finché noi preghiamo con tutto l'apparato ester­no a dimostrazione fisica di raccoglimento senza parlare a Dio, noi reci­tiamo delle formule, diciamo delle parole, ma non tutto consiste nel mol­tiplicare le preghiere, se queste ti lasciano poi spiritualmente vuoto. Le preghiere avranno un valore per l'intenzione messa e non altro. S. France­sco di Sales nella seconda parte della Filotea, ove tratta della orazione men­tale e orale, sostiene appunto questa orazione mentale: ossia il senso pio di S. Bernardo. Don Bosco anch'egli nella sua circolare inedita accenna a questo pensiero: “Tutte queste cose sono prescritte dalla Regola. Ma se non si procura di farle per motivo superiore, vanno in disuso e non servono più”. Tante volte quelli che dicono tante preghiere esternamente non sono poi le persone più virtuose, perché mancano di vita interiore. Ce lo dice molto bene il Faber nella parte seconda del Progresso dell'ani­ma. Don Bosco che la sapeva lunga, avendo intorno a sé i seminaristi di Torino, disse loro: “Acquistate lo spirito di preghiera. Per un chierico che deve diventar prete e lavorare per le anime è come per un soldato acquistare la spada”.

La nostra pietà

Vediamo come va intesa la pietà salesiana. Noi abbiamo la nostra for­mula che non è “Lavoro e preghiera”, come adottarono per fare della poesia e come ovunque si è cantato e si è detto. Ma “Lavoro e Tem­peranza”. Don Bosco ce l'ha lasciata in dieci documenti. Ora in questo motto nessuno pensa alla religiosità della formula. Invece il Papa ce l'ha spiegata: “In Don Bosco s'avvera il principio della vita cristiana: Qui laborat, orai (Chi lavora, prega), purché inteso spiritualmente”. Ecco il motto della Società operaia salesiana: lavoro e temperanza, perché sia­mo gli operai del Signore e non dei signorini che stanno a gustarsi i biscotti e i cioccolatini della pietà. Noi siamo dei santi, dalle maniche rimboccate, siamo gli operai di Dio come dice s. Paolo: “Dei enim sumus adiutores” (Siamo infatti collaboratori di Dio, 1 Cor 3,9). Ed allora man­diamo il diploma di cooperatore anche a S. Paolo che dice appunto: “Exerce teipsum ad pietatem... Pietas enim ad omnia utilis est” (Eserci­tati nella pietà... la pietà infatti è utile a tutto). Ossia ciò che veramente serve è la pietà, mentre il solo affaccendarsi conclude ben poco.

Perché il successo di tanto nostro lavoro? Perché fatto in tutto con spirito interiore, in questa vita di santità, di religiosità dell'anima che si rivolge verso Dio. Come si esprimeva il Papa parlando il 13 marzo 1934 ai rappresentanti della stampa cattolica: “Tutta questa azione e stam­pa cattolica non cambierà il mondo se quelli che scrivono non sono santi e pii”. Il lavorare molto senza possedere questo spirito interiore ci cam­bia di categoria; siccome siamo una cooperativa di lavoratori, se non si rende da produttori, si passa da manovali e si tira la carretta; la pietà invece, anzi che manovali ci rende produttori di bene. Ecco la necessità di coltivare questo punto.

La nostra pietà - le preghiere del buon cristiano

Don Bosco come al solito realista e pratico ha insegnata l'ascetica senza scriverla. A differenza di santi fondatori di istituti ecclesiastici ed educativi, egli non ha lasciato formula speciale di pietà, non ha inventato nessuna divozione caratteristica, né Rosari, né Via Crucis, 40 ore, Sa­cro Cuore... ha solo la devozione a Maria Ausiliatrice che non “è altro se non uno di tanti titoli sotto cui si onora la Madonna”, quindi solo un orientamento della pietà e nulla più. Quindi per noi non esistono formule speciali, ma solo le preghiere del buon cristiano, del buon prete. Eppure Don Bosco l'ha voluta la pietà.

Aspetti pratici

La concezione di Don Bosco su questo punto come in tutta la sua ascetica è concezione pratica e realistica. Prima di tutto inculca l'orrore al peccato mortale e persino l'esclusione della mancanza volontaria. Quin­di inculca il retto uso dei sacramenti, come mezzo di autocorrezione, di autoeducazione. Quindi uso non ritualistico, ma spirituale ed operativo. La vita eucaristica e la divozione alla Madonna sono due poli su cui poggia l'asse devozionale salesiano, che comprende le pratiche del buon cristiano, del buon sacerdote e le “virtù vissute”, come disse il Papa il 9-VII-1933, “con spirito di nobile precisione”, ossia nell'esattezza scru­polosa, cosciente ed amorevole dei propri doveri.

Tutta l'ascetica di Don Bosco sta qui: teniamoci alle cose facili, ma si facciano con perseveranza, come dice al capo settimo della vita di Ma­gone. E questo lo ha detto tanto della mortificazione che della pietà e con questa formula ha fatto dei santi. Leggete il capo ventesimo della vita di Savio ed avrete questo concetto sviluppato al primo capoverso.

Tutto questo è la pietà secondo Don Bosco. Infatti per indicare la vita spirituale, l'ascetica, il progresso dell'anima nella perfezione non ha ado­perato altra parola che questa: la pietà. Combina quindi perfettamente con il Papa e con S. Paolo.


Spirito animatore

Le pratiche regolamentari si potranno cambiare, dato che non ci fu Ordine che dopo 100 anni non abbia raddoppiato le pratiche di pietà. Quindi anche le nostre diverranno più lunghe, ma ricordiamolo bene, tut­te le preghiere anche moltiplicate non serviranno a nulla senza pietà, se non si parlerà con Lui con sentimento e con amore. L'essere pio non è in contrasto con la vita operosa richiesta e comandata dalle necessità del­l'istituto e dall'obbedienza; anzi non solo non impedisce ma è un sol­lievo come ben ricorda il Gasquet.

Lavoro - Lavoro - Lavoro

Alcuni fanno consistere la pietà nel pregar molto; invece Don Bosco ci pare proprio al polo opposto; egli ha un'idea quasi strana, eppure è quella di Pio IX e di Pio XI, e quella stessa di S. Paolo. Don Bosco nel 1874 va a Roma e parla con Pio IX sul Noviziato. Pio IX gli rispon­de: “Andate avanti. Il demonio ha più paura delle case in cui si lavora che di quelle in cui si prega”. Già nel 1859 aveva espresso un concetto uguale: “Stimo che sia in condizioni migliori una casa religiosa dove si prega poco e si lavora molto che non un'altra, in cui si fanno molte preghiere e si lavora poco”. Non per niente quindi Don Bosco ci ha la­sciato per motto: “Lavoro e Temperanza”.

La pietra di paragone

Nel 1876 il 2-II raduna il capitolo dei direttori ed esprime i suoi sen­timenti: “Io vedo che i nuovi salesiani vengono ad acquistare uno spi­rito estremamente buono, un amore, anzi un ardore per il lavoro e per il sacrifìcio, che non so se possa da altri superarsi. Io ne sono sbalordito”. Quindi Don Bosco si consola non perché si prega molto ma perché si la­vora molto. E il giorno dopo: “Io vedo realizzata finalmente quell'idea che mi proponevo quando cercavo degli individui che mi aiutassero a lavorare per le anime; vedo i nostri confratelli avere uno spirito tal­mente buono, un tale spirito di abnegazione, di sacrificio e di obbe­dienza che a pensarvi mi commuovo”. Non dice che i confratelli pre­gano ma che il loro lavoro lo commuove; eppure Don Bosco ha sempre detto di pregare.

Nel 1878 Don Bosco così si esprime: “La vera pietà religiosa consta nel compiere tutti i doveri a tempo e luogo e solo per amor di Dio”. Non dice nello star volentieri in chiesa a pregare tutto il giorno, ma dice nel compier tutti i doveri per amor di Dio. Il verbalismo, il for­malismo, il pietismo, l'atteggiamento esteriore non fanno per Don Bosco.

Egli vuole che la pietà sia accompagnata dalla pratica del dovere e buon comportamento. Ecco il criterio per giudicare la vera virtù.

Comunione frequente

Nel 1875 Don Barberis consulta Don Bosco su un chierico dell'Ora­torio che non tiene molto buona condotta, ma si mostra divoto e si ac­costa con frequenza alla Comunione. (Allora non c'era l'usanza della Comunione quotidiana permanente, perché non esisteva nella prassi di Don Bosco; egli non la inculcava, ma la desiderava solo per chi era ca­pace di farla; i chierici erano liberi di andare o di non andare e Don Bosco insisteva anche negli ultimi anni; parlava quindi solo di frequen­za). Ritorniamo al chierico che non teneva buona condotta, ma si acco­stava molto frequentemente alla Comunione più che non lo richiedessero i Regolamenti perché le Regole richiedevano solo nei giorni festivi e possibilmente alcune volte alla settimana che in via ordinaria era il gio­vedì; così erano le Regole d'una volta. Ora Don Bosco disse a Don Barberis: “Guarda, solo la frequenza dei sacramenti non è indizio di bontà; ci sono di quelli che sebbene non facciano sacrilegi vanno con molta tiepidezza e leggerezza, anzi la loro mollezza non lascia che ca­piscano tutta l'importanza del Sacramento che ricevono. Chi va alla Co­munione con il cuore vuoto e non si getta generosamente nelle braccia di Gesù non riceve i frutti che teologicamente sono riconosciuti come effetto della s. Comunione”.

Necessità delle pratiche esterne

Nonostante tutto ciò che fu detto, Don Bosco non escluse le prati­che positive e regolamentari, anzi volle che si praticassero fedelmente e sappiamo come insista sull'osservanza, sull'obbedienza. Insisteva perché queste pratiche si facessero anche da soli, se non era possibile farle in comune; ma ricordava pure di farle in modo che si sentissero necessa­rie per la nostra vita spirituale.

Frequenza ai sacramenti

Praticamente insistette su parecchie pratiche: la frequenza ai sacra­menti era raccomandata ai giovani, ma più ancora ai chierici e ai con­fratelli. Tutte le sue circolari, il suo testamento e tutte le sentenze riguar­danti la vocazione, la conservazione della castità e del costume; proprio ai chierici, agli ecclesiastici ed ai religiosi laici inculcava la frequenza dei Sacramenti.

Oggi non c'è più questa libertà; un povero chierico assistente in un collegio ove i ragazzi vanno quasi quotidianamente alla Comunione ha veramente la libertà morale di sottrarsi dall'andare alla Comunione? C'è una specie di coazione morale dell'ambiente: che cosa direbbero i ragaz­zi? A me è capitato a Lanzo che essendo già diacono, i giovani mi ve­devano andare con una certa frequenza... da buon cristiano; poi venni ordinato sacerdote e celebravo messa dove potevo, non quella della co­munità e i giovani: — Come è diventato cattivo Don Caviglia, non va più neppure alla Comunione! — Don Bosco nel raccomandare i Sacra­menti insisteva sul retto uso: Confessione con proponimento; Comunio­ne frequente, ma ponderata; poi raccomandava l'Esercizio della buona morte e vi assicuro che allora si faceva con attenzione e regolarmente perché sapevamo come stesse a cuore a Don Bosco. Infatti scrive in America: “Fammi sapere se nelle case si fa regolarmente l'Esercizio del­la buona morte”. Inculcava spesso la pietà di fiducia che porta con sé la ferma speranza di ottenere ai piedi di Gesù e di Maria quanto si chiede. Altro aspetto della pietà inculcato da Don Bosco è la pietà impetrativa e caritativa: “Hai da ottenere una grazia? Fa' qualche morti­ficazione; hai alcuni difetti da correggere? Fa' qualche preghiera parti­colare”.

Da ultimo ricordiamo che Don Bosco ha sempre mirato ad una pietà individuale. Don Bosco raccomanda l'uso delle giaculatorie (che voi mi insegnate essere una novità ascetica importata da s. Francesco di Sales: il valore delle giaculatorie leggetelo nella vita di Magone), raccomanda la visita individuale e non in senso regolamentare: visita frequente, ma per­sonale, ossia che tutti abbiamo il desiderio e sappiamo stare almeno un minuto al giorno da soli con Dio. Non lasciar quindi passare un giorno senza entrare in cappella per conto tuo, perché possa dire una parola tua, che sia vera preghiera fatta con pietà. Un minuto solo con Gesù e passano subito tutti i dispiaceri e capricci.

Conclusione

La pietà o preghiera ispirata alla pietà è una conquista personale che viene dalla costruzione della vita interiore. Don Bosco lavora a costruire dentro il suo edificio di vita interiore ogni giorno, ogni ora, ogni momen­to. Per noi che siamo indirizzati al lavoro, la pietà è tutto: “Pietas ad omnia utilis est”, perché contiene la risorsa necessaria al momento. Don Bosco l'ha compreso tanto da dire ai chierici: “Per un chierico l'acqui­stare lo spirito di preghiera è come per il soldato avere la spada”.

La nostra vita che è lavoro e temperanza deve essere intesa come Don Bosco la intese e come la interpretò Pio XI: “La vita di Don Bosco con­siste nell'identificare il lavoro con la preghiera mediante l'unione con Dio, mediante l'attuazione del grande principio di vita cristiana: Qui laborat orat”.

1.10 X. CONFESSIONE

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Benedicam Domino in omni tempore qui tribuit mihi intellectum. (Benedirò il Signore in ogni tempo poiché mi ha dato consiglio. Sai 15,7).

Noi dobbiamo trattare appunto ciò che è la comprensione e la luce della coscienza. Si può parlare di confessione ai teologi? Qualunque per­sona se ne preoccuperebbe; io no perché il mio tema non è soltanto teolo­gico, anzi non lo è affatto, perché è tema pedagogico nel senso spirituale della vita educativa, del lavoro personale della nostra formazione spi­rituale e interiore.

È il tema più salesiano di tutti, considerato in questo senso: sia eti­mologicamente, ossia derivante da S. Francesco di Sales, sia nel senso da noi convenuto di appartenente a Don Bosco. Bisogna che premettiamo una spiegazione: in questo ordine di idee Don Bosco deriva nettamente da S. Francesco di Sales, perché ne trasporta il concetto nel suo campo pedagogico come strumento di autoformazione. Invece nella prassi del ministero, ossia nell'esercizio della Confessione, Don Bosco si tiene stret­tamente alla prassi Alfonsiana.

Possiamo quindi dire che l'idea è presa da S. Francesco di Sales e la prassi da S. Alfonso. Come salesiani, riguardo alla prassi, possiamo avere qualche piccolo cambiamento, dato lo svolgersi della teologia, quanto in­vece al fondamento dell'idea dobbiamo attenerci strettamente al concetto di Don Bosco.

L'idea di S. Francesco di Sales

S. Francesco nella pratica dei Sacramenti ed in specie della Confes­sione è nemico del ritualismo e del praticantismo, ossia dei divoti che considerano il Sacramento come una semplice cerimonia, un distributore automatico della grazia, come un gesto avente valore magico: fatto il gesto è ottenuto l'effetto; come un anestetico dell'anima che opera da sé. No, S. Francesco non ammette questo modo di pensare e considerare la Confessione come un colpo di spugna che cancella via tutto. La sua dot­trina è contenuta nelle lettere ed in parte nella Filotea.

Naturalmente S. Francesco che sa il catechismo meglio di noi, conosce benissimo il valore dei Sacramenti ex opere operato, come causa effi­ciente della grazia e quando ne discorre, fa sentire come ricevendo i Sa­cramenti dei morti senza attacco al peccato, al peccato mortale, si riceve infallibilmente la grazia santificante; ma siccome egli non ha lavorato per formulare una dottrina teologica, ma per dirigere delle anime, ecco che ha fatto dell'ascetica e perciò ha questa idea che i Sacramenti, e par­ticolarmente la Confessione, devono essere movimenti psicologici educa­tivi della volontà, coltivatori della volontà e lavoratori della coscienza, moltiplicatori delle energie personali.

Considera quindi i Sacramenti in quanto agiscono ex opere operantis. L'idea è chiaramente espressa nella Filotea (2,19).

Don Bosco sull'orma di S. Francesco di Sales vede nei Sacramenti una forza di inibizione, di luce, di studio su se stessi, e ne ha fatto il fulcro del suo lavoro pedagogico, tanto nel senso spirituale che educativo, per­ché tutto il segreto della pedagogia di Don Bosco sta nell'efficacia pedago­gica dei due Sacramenti: della Confessione e della Comunione.

Nel capo XIX della vita di Besucco dice espressamente: “È impossi­bile l'educazione di un giovane se non c'è l'uso della Confessione e della Comunione senza i quali non si può nemmeno essere sicuri della mora­lità”.

Come S. Francesco volle la Confessione periodica per educarsi e con­trollarsi, così Don Bosco inculca la frequenza regolare e l'Esercizio del­la buona morte per poter controllare la propria anima.

La prassi alfonsiana

La pratica di Don Bosco in quanto confessore è invece Alfonsiana nel senso stretto della parola, non solo sulla frequenza dei Sacramenti ma anche su tutto il resto; basta leggere: “La prassi dei confessori (cap. VI 71-75): De recidivis in venialibus” (I recidivi nei peccati veniali). E per la Comunione frequente capo IX, 149-155 famosissimo. Così lo Scavini, il Frassinetti, nel suo Compendio di Teologia Alfonsiana; l'Ala­lia e lo Stuardi che Don Bosco studiò nelle vacanze di quell'anno in cui guadagnò un anno di studio. Tutti questi autori e Don Bosco sono lo stesso e quindi per comprendere Don Bosco dobbiamo tener presente questi ordini di idee.

Nel confessarsi e confessare Don Bosco ha due capisaldi: il propo­nimento e la valutazione delle mancanze.

Proponimento

Con Don Bosco non si poteva confessare tre volte una medesima mancanza senza che ci richiamasse all'ordine: “Fai il proponimento? Perché è già parecchie volte che mi dici la stessa cosa”. Egli vuole che colui che si confessa abbia la volontà di emendarsi ed il confessore lo educhi ad avere questa volontà pratica con proponimenti concreti, po­sitivi nei mezzi. Egli non vuole che si vada avanti così alla carlona; infatti nella circolare del 1884 a chi faceva osservare: “Non vede quan­ta frequenza di Sacramenti?” rispondeva: “È vero, c'è grande frequen­za alle Confessioni, ma ciò che manca radicalmente in tanti giovanetti che si confessano è la stabilità nei proponimenti; si confessano eppure sempre le stesse mancanze, le stesse occasioni prossime, le stesse abitu­dini cattive, le stesse disubbidienze, la stessa trascuranza nei doveri; così si va avanti per mesi e mesi ed anche per anni”.

Ad Alassio dice: “Quando uno si confessa ogni settimana delle me­desime piccole cose, c'è poco da fidarsi”. Notate che egli lo disse ai direttori e adagio affinché la cosa si scrivesse. Non è una frase scappata di bocca. Nel 1884 va a confessarsi da Don Bosco un giovane di 5a gin­nasiale che si chiama Alberto Caviglia; Don Bosco dopo averlo ascol­tato disse: “E lo fai il proponimento? È la terza volta che mi dici que­sta cosa”. Io l'ho attaccato qui (indicando l'orecchio).

Nel 1876 dice: “Il tempo che impiegheresti a confessarti due o tre volte alla settimana impiegalo a fare il proponimento e così saresti più sicuro che valga il Sacramento”.

Altrove: “Se uno non è capace mantenere la sua coscienza in tale stato da poter fare la Comunione ogni giorno, non posso permettergli tale frequenza”. E nel 1879: “Quelli i quali si confessano tutte le set­timane e ripetono nell'accusa sempre le stesse cose, sono da tenersi ben d'occhio e non c'è da fidarsi”.

Non è questa la nostra prassi solita? Eppure Don Bosco non lo am­metteva.

Le mancanze leggere

L'altro caposaldo di Don Bosco oltre al proponimento è quello delle mancanze, non solo quelle dei comandamenti e peccati mortali, ma anche le mancanze usuali ai doveri, la maldicenza, la poltroneria, la critica, la ribellione ed anche le mancanze nelle piccole cose; il 30-V-1865 la visione dei fiori portati a Maria e tra questi ci sono le spine ossia le man­canze leggere. A chi gli domanda se è peccato mancare alle Regole del­la casa, gli risponde: “Non dico se è peccato grave o leggero, dico che un bene non è”.

Così per la storia dei soldi in tasca: “Non so come una tale disob­bedienza possa permettere d'accostarsi alla Comunione”. Tutte le in­vettive contro la filossera; tutte le quasi maledizioni contro i mormora­tori sono una conferma di questo principio. Così: “Latet anguis in nerba” (Il serpe si nasconde nell'erba), i famosi 4 chiodi! Dunque Don Bosco era rigoroso? Era un Alfonsiano.

Ora perciò noi possiamo agire diversamente da lui in quanto nella prassi dobbiamo seguire il Decreto del 1905 per il quale è possibile fare la Comunione anche con il peccato veniale, mentre prima si dosava la frequenza alla Comunione secondo il progresso o regresso che si faceva nella virtù.

A che serve

A questo punto ci si presentano tre questioni ed essenziali:

  1. A che cosa serve la Confessione?

  2. Come ce ne serviamo noi?

  3. Come far agire la Confessione per la nostra direzione spirituale?

Quanto al primo quesito possiamo rispondere che la Confessione ser­ve essenzialmente per conoscerci, per correggerci, per educarci.

Serve per conoscerci e studiarci mediante l'esame di coscienza, sia teologico quanto alla gravità maggiore o minore del fallo, sia morale se riguarda la nostra volontà pratica nel seguire il proponimento e se con­sidera il frutto che abbiamo ricavato dalle Confessioni precedenti; sia psicologico circa il nostro carattere e si domanda: perché ho fatto così? S. Francesco di Sales vuole che non soltanto si dicano i peccati ma che si studino i motivi per cui furono commessi.

Serve a correggerci e per questo vale il proponimento concreto, pra­tico, ossia serio e volitivo. Per questo soprattutto è necessario il controllo del confessore; è questo uno dei punti forti di Don Bosco. Infatti egli insiste molto sull'avere un confessore stabile; ed anche negli scritti sotto­linea l'idea del confessore stabile, perché solo questo può controllare il lavoro suo personale della volontà.

Infine la Confessione serve ad educarci all'orrorre del peccato, alla fuga dalle mancanze, rafforza la volontà con la direzione spirituale del confessore.

Come ci confessiamo

Vediamo la seconda questione. Il Faber nelle sue conferenze si pone il quesito: “Perché il confessarci spesso frutta così poco?”. In verità ci confessiamo 52 volte all'anno e come per quasi tutta la gente devota e spirituale non ne ricaviamo quasi nessun frutto; quale la causa? La cau­sa è il ritualismo con cui trattiamo la Confessione quasi fosse un gesto automatico. Una delle cause principalissime è il confessare solo le de­ficienze nelle pratiche devote, i piccoli accidenti esteriori, anziché ba­dare alla pratica morale dell'azione.

Noi religiosi confessiamo il frate e dimentichiamo l'uomo, confessiamo le mancanze della Regola, le deficienze della pietà, gli sbagli e le mancanze della vita comune; farisaicamente perché sono tutte cose che si possono dire anche in foro esterno nei rendiconti, e invece non con­fessiamo l'uomo, non abbiamo delicatezza di coscienza, non confessia­mo il carattere. L'ipocrisia non si confessa mai: è impossibile che un ipocrita confessi di essere, tale, perché dal momento che lo dice non lo è più.

Non si confessa la cattiva volontà; le ingiustizie del non aver prati­cato il dovere tassativo, non si confessa la insincerità di parole e di fatti, l'invidia, l'ambizione; le azioni basse dettate dalla gelosia, certe simpa­tie storte, certe antipatie ed inimicizie che salgono fino all'odio, al mal­trattamento, in una parola all'odio che cerca tutte le occasioni per de­molire gli altri. Vi sono degli individui che lavorano solo per far del male a tutti; dove vanno portano il germe del male. Tutto questo non si con­fessa.

Il falso zelo contro chi ci ostacola, perché non hai buono spirito, che tu abbia rovinato una classe, che tu abbia mandato all'aria tutto il tuo dovere di prefetto, catechista, consigliere per i tuoi puntigli e per i tuoi punti di vista, non si confessano! Tutti questi doveri non esistono quando si tratta di applicarli a te: così non esiste la carità che è il primo pre­cetto, non la giustizia, non le altre virtù; e dopo 52 Confessioni e 350 Comunioni fatte all'anno siamo sempre gli stessi perché non confessiamo il principale. Capitano disastri nei nostri collegi... Eppure quel tale an­dava regolarmente a confessarsi. Una Comunione fa un santo. 350 Co­munioni non muovono di un dito se manca l'adesione dello spirito. Ave­va ben ragione San Francesco ad esigere che si andasse alle fonti.

Per noi c'è il grave pericolo dell'illusione di coscienza. Ci conside­riamo esclusivamente autori di peccati veniali; fuori del sesto comanda­mento tutto è peccato veniale. È sbagliato! Possiamo dire che siano solo peccati veniali le mancanze contro la carità? Don Bosco nel 1861 salen­do le scale col chierico Albera dice: “Caro Paolino, ne vedrai delle belle col tempo; ti toccherà vedere che sono assieme alla stessa balaustra per­la Comunione, vicini di banco nella meditazione, dicono assieme il Rosario, e mettono assieme odio, Sacramenti, preghiere e peccati: tutto una cosa sola!”.

Vi pare che tutto ciò possa essere considerato solo come peccato ve­niale? Quando c'è un lavoro di lunga preparazione contro un individuo, quando c'è un odio che dura da anni dico che è peccato, e peccato grave, perché odio è odio ed è sempre peccato.

Esaminiamo meglio la nostra coscienza. Lascio stare per mancanza del tempo ciò che riguarda il resto... Bisogna fare la Confessione tutti i giorni e intanto bisogna chiudere il collegio!


Confessione e direzione

Ora dobbiamo considerare la Confessione anche come organo di dire­zione spirituale. È vero che c'è il rendiconto e nel periodo chiericale è abbastanza curato, ma nelle case i direttori talora hanno altro per la testa. Quindi qualche volta l'unico vostro rimedio sarà la Confessione; le cir­costanze purtroppo portano così.

Prima di tutto consideriamo la figura del confessore non come di un prete comune che dà l'assoluzione come qualsiasi altro in punto di morte, ma consideriamolo come l'uomo di fiducia a cui rimettiamo tutta la no­stra anima affinché la guidi e la conduca avanti, la educhi.

Se consideriamo il confessore come una lavandaia, non avremo mai una educazione spirituale, eppure nella pratica è così. Ricordiamoci bene che Don Bosco volle il confessore stabile appunto per la direzione. Per­ciò quando dovrai cambiare casa guarda il confessore con questo occhio, fa prima una confessione generale o un discorso a quattro occhi e così troverai la tua guida. Don Bosco ha insistito nella Confessione settimanale e mensile di ricapitolazione appunto per questo controllo.

Non meno essenziale della direzione è la sudditanza, l'ubbidienza al confessore. Sei tu che gli devi dare l'autorità, altrimenti non combini nulla. Benedico i tempi della mia giovinezza in cui il confessore doveva essere il direttore della casa. Santa Chiesa lo ha proibito per motivi pra­ticamente utili, ma sta il fatto che adesso il confessore non ha più da parte dei penitenti salesiani quell'autorità che dovrebbe avere. Sei tu che devi lasciarti guidare e non fare il testone. Solo se fai come egli ti dice, la Confessione diventa illuminata e correttiva, diventa educativa nel sen­so voluto da S. Francesco e rilevato da Don Bosco, facendone il fulcro tutto intero del suo sistema pedagogico. Tutto questo è detto per chi non si sente di aprire interamente la sua coscienza al direttore nel rendiconto. Che se egli si sente di far questo allora può tornare alla pratica integrale del sistema di Don Bosco, avendo un'unica guida che gli è Padre e Mae­stro, anche se per la decisione della Chiesa cessa di essergli giudice nel tribunale di Penitenza.

1.11 XI. SPIRITO ECCLESIASTICO

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Quis ascendit in montem Domini aut quis stabit in loco sancto eius? (Chi salirà il monte del Signore, chi starà sul suo luogo santo? Sai 23,3).

Sollicite cura teipsum probabilem exhibere Deo, operarium inconfusibilem, recte tractantem verbum veritatis: profana autem et vaniloquia devita: multum enim proficiunt ad impietatem. (Sforzati di presentarti di fronte a Dio come un uomo degno di approvazione, un lavora­tore, che non ha di che vergognarsi, uno scrupoloso di­spensatore della parola della verità. Evita le chiacchiere profane, perché esse tendono a far crescere sempre più nell'empietà. 2 Tini 2,15-16).

“Tutte le lettere a Timoteo e a Tito sono un Vade mecum del buon sacerdote”, dice Don Bosco a Don Cagliero; ed egli parlando ai preti ha sempre portato in campo i versetti di San Paolo.

Ora noi pure dobbiamo ispirarci a questi testi per trattare il nostro tema strettamente sacerdotale, dello spirito ecclesiastico, ossia dell'idea del vero sacerdote; la linea di condotta del buon prete. Noi tutti non dobbiamo avere altra missione che quella di Don Bosco: riuscire buoni preti. Per giungere a tanto è necessario a tutti un lungo lavoro, perché al giorno della consacrazione non si fa altro che ritirare i titoli deposi­tati nella Banca di Dio col lavoro della nostra formazione. E il Signore non fa che tagliare i tagliandi.

Tutta la nostra vita dev'essere preparazione al sacerdozio. E guai colui che non avesse di mira di diventare un degno sacerdote. E per que­sto è necessaria una preparazione non solo automatica, che lascia trascor­rere gli anni, ma una preparazione di un uomo pneumatico, ossia spiri­tuale, quindi preparazione cosciente, razionale, sistematica, come dice S. Paolo: “Sollicite cura teipsum... ut perfectus sis homo Dei, ad omne opus bonum instructus” (Sii sollecito di te stesso... perché tu sia uomo di Dio perfetto e ben preparato per ogni opera buona, 2 Tm 2,15-3,17).

Il nostro modello

Il Pontefice nell'Enciclica del 23-XII-1937 “Ad catholici sacerdotii” e nella allocuzione ai seminaristi Romani del 17-VI-1932, presenta a tutti quale modello Don Bosco. Quindi possiamo e dobbiamo noi pure cercare di riprodurre in noi la sua virtù. Sarà questo il miglior mezzo per un salesiano di essere un buon sacerdote e per un sacerdote di essere un buon salesiano.

Necessità dello spirito ecclesiastico

Vi ho già ricordate le parole di Don Bosco riguardo alla sua uscita dal seminario: “Separazione dolorosissima da quel luogo ove ebbi educa­zione alla scienza, allo spirito ecclesiastico e dove ricevetti tutte le prove di bontà e di affetto che si possono desiderare”. Ora queste parole di Don Bosco riportate dalle Memorie Biografiche ci indicano che egli capì d'avere imparato lo spirito del prete ad essere un vero buon prete. Ed io benedico la circostanza che costrinse la Congregazione a tenere i suoi chierici per 4 anni in un regime seminaristico, perché imparino ad essere un po' più preti. Questo spirito cercò Don Bosco di inculcarlo nei suoi primi preti e realmente i primi riuscirono più preti che non i secondi. Purtroppo in un secondo periodo non ci fu formazione, ma fu un pe­riodo di crisi, eppure Don Bosco affinché si facesse qualche cosa per un po' di formazione, voleva almeno un anno passato in un istituto.

Il prete è sempre prete. Dobbiamo ricordarci che la nostra profes­sione non è di essere professori, ingegneri, direttori di laboratorio, capi d'azienda, ma essere preti, e quindi in qualunque ufficio bisogna essere tali. Don Bosco ha fatto un po' di tutto, persino l'industriale, avendo messo una cartiera all'esposizione internazionale del libro, eppure fu sempre prete. E questo fu ben notato dalPOrestano nel suo discor­so: “Don Bosco volle essere un perfetto cristiano, egli ha detto, ed un perfetto sacerdote, null'altro e nulla più”. Ecco la vera idea di Don Bosco e dello spirito ecclesiastico formulato da un uomo che non era prete, ma che aveva letto tutto quanto su Don Bosco era stato scritto. Ed aveva aggiunto: “Per tutta la vita visse in lui una coscienza acuta e mordente di una indefettibile responsabilità sacerdotale”. Cercate tutti i libri e non troverete una definizione simile, eppure corrispondente al­l'idea di Don Bosco: “Un prete è sempre prete e deve manifestarsi tale in ogni sua parola. Essere prete vuol dire avere un obbligo di mirare continuamente ai grandi interessi di Dio, alla salvezza delle anime. Un sacerdote non dovrà permettere che chiunque si avvicini a lui, si parta senza aver sentito un pensiero della sua salvezza eterna”. Espressione che ripete nel 1880 ad un prete fuori strada: nel 1881 ai chierici di S. Sulpizio; nel 1882 a Pinerolo; nel 1885 ad un gruppo di preti ripete: “Un prete non andrà solo in Paradiso o all'Inferno, ma saranno con lui le anime salvate o scandalizzate”.

Il 3-IX-1886 al ministro Ricasoli: “Eccellenza, sappia che Don Bo­sco è prete all'altare, in confessionale, in mezzo ai giovani, è prete a Torino come a Firenze; prete nelle case del povero, prete nelle case del Re e dei Ministri”. Idea quindi totalitaria che abbraccia tutto l'es­sere di Don Bosco: essere prete e un santo prete. Non dimenticate le parole che egli stampò sul chierico Burzio Giuseppe: “Desidero di es­sere prete, ma l'imbroglio è che prima di essere prete bisogna diventare santo, santo, santo”.

Questo è appunto lo spirito ecclesiastico, il concetto totalitario della vita del prete, vita dedicata alla propria responsabilità. Ricordate però che dicendo spirito ecclesiastico non diciamo spirito monastico, con­ventuale da anacoreta. No. Il prete ha un proprio ufficio, una figura morale e giuridica troppo differente. S. Tommaso dice: “Il prete non è fatto per sé, ma per la Chiesa”.

Essere prete in tutto

Essere prete significa vivere, pensare, ragionare da preti, mostrarsi prete dappertutto e sempre, perciò l'idea del prete è molto differente da quella del negoziante e del contadino, mentre purtroppo molti con­fondono.

Anche nelle opere ci si deve mostrare preti, sentirsi ministri di Dio e quindi anche nella vita privata tenere un contegno che rivela la co­scienza di ciò che si è. Noi siamo di Cristo e per Cristo e quindi un po' di dignità. È necessario su questo insistere anche con i salesiani, per­ché sembra che anche tra noi non siano pochi i preti a tempo perso: ottimi professori, prefetti, ma del prete ne hanno ben poco, perché non esercitano il ministero, non hanno fatto mai una predica, non hanno mai dato una assoluzione. Ed allora perché ti sei fatto prete? Quell'olio che ti hanno messo sulle mani è per condire i peperoni?

Fin da principio ho dovuto reagire contro la tendenza di voler fare tutto il resto eccetto il prete. Domani saremo incaricati dalla Chie­sa, e dall'obbedienza anche di molte altre cose, ma ricordiamoci di es­sere sempre preti. S. Callisto, S. Lorenzo erano degli amministratori, il Card. Rampolla era un abile politico, eppure furono santi. Al contra­rio ci sono dei preti grossolani, goffi, che fanno delle scuole da pagani; vi sono di quelli che hanno una cattiva condotta sociale, dei villani che trattano male tutti, della gente senza cuore, preti ismaeliti ribelli con­tro tutti, che hanno il veleno del serpente. Guardiamocene e non imi­tiamoli.

Due prediche di Don Bosco

Terminiamo il ciclo delle nostre conferenze spirituali come le abbia­mo incominciate: Se Don Bosco fosse qui, farebbe questa predica. E noi terminiamo appunto con due sue prediche, solo che a noi manca quel­l'aureola di santità che dove non arriva con la parola, arriva con la sua efficacia. Sull'idea di Don Bosco riguardo alla condotta del prete noi abbiamo appunto due documenti, due discorsi. Il primo tenuto negli Eser­cizi di Trofarello nel settembre 1868 proprio ai chierici ordinandi in cui prese il tema del passo che tutti sanno: 1 Tm 4,16: “Attende Ubi et doctrinae, insta in illis. Hoc enim faciens et teipsum salvum facies et eos qui te audiunt” (Vigila su te stesso e sul tuo insegnamento e sii perse­verante: così facendo salverai te stesso e coloro che ti ascoltano). E su questo svolse la parte morale-dogmatica, ma poi insistette soprattutto sull'esemplarità nella condotta svolgendo 1 Tm 4,12: “Exemplum esto fidelium in verbo, in conversatione, in caritate, in fide, in castitate” (Sii di esempio ai fedeli nelle parole, nel comportamento, nella carità, nella fede, nella purezza). Completava poi questa spiegazione con l'Epi­stola a Tito 2,7 che svolge gli stessi pensieri: “In omnibus teipsum praebe exemplum bonorum operum, in doctrina, in integritate, in gra­vitate” (Offrendo te stesso come esempio in tutto di buona condotta, con purezza di dottrina, integrità e dignità). Ecco come Don Bosco in una sola predica fa passare tutte le virtù di un buon prete.

Meglio ancora nella predica analoga del 1869 annuncia più chiara­mente il suo concetto e lo espone più compiutamente prendendo dalla 2 Cor 6,3-10, che è la più esauriente definizione dello spirito ecclesia­stico, la miglior tipologia del sacerdote: “Nemini dantes ullam offensionem ut non vituperetur ministerium nostrum: sed in omnibus exhibeamus nosmetipsos sicut Dei ministros, in angustiis, in plagis, in carceribus, in ieiuniis, in castitate, in scientia, in longanimitate, in Spiritu Sancto, in caritate non ficta, in verbo veritatis, in virtute Dei, per arma justitiae a dextris et a sinistris per gloriam et ignobilitatem, per infamiam et bonam famam: ut seductores et veraces, sicut qui ignoti et cogniti: quasi morientes et ecce vivimus; ut castigati et non mortificati; quasi tristes semper autem gaudentes; sicut egentes multos autem locupletantes; tamquam nihil habentes et omnia possidentes” (Da parte nostra non diamo motivo di scandalo a nessuno perché non venga biasimato il nostro ministero; ma in ogni cosa presentiamoci come ministri di Dio, con molta fermezza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle pri­gioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni, con purezza, sapienza, pazienza, benevolenza, spirito di santità, amore sincero; con parole di verità, con la potenza di Dio; con le armi della giustizia alla destra e alla sinistra; nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama. Siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri; sconosciuti, eppure siamo notissimi; moribondi ed ecco viviamo; puniti ma non mes­si a morte; afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto).

Questo passo nel testo originale si presenta tale da essere un tratto autobiografico, ma la Volgata cambiando valore grammaticale ad alcune parole, lo ha fatto diventare una esortazione e Don Bosco lo usa secondo il senso datogli dalla Chiesa. Continuando nella sua predica Don Bosco ricorda che il sacerdote è chiamato a cooperare ed imitare Cristo: “Dei enim adiutores sumus” (Infatti siamo cooperatori di Dio, 1 Cor 2,9). E perciò gli è data una grazia speciale che deve tesoreggiare: “Noli negligere gratiam, quae in te est, quae data est tibi per prophetiam cum impositione manuum presbyterii” (Non trascurare il dono spirituale che è in te, che ti è stato conferito, per indicazione dei profeti, con l'imposi­zione delle mani da parte del collegio dei presbiteri, 1 Tm 4,14); e lo invita a corrispondere alla vocazione citando Isaia 49,8: “Ecce mine tempus acceptabile” (Ecco ora il tempo favorevole) e dicendo “ecco adesso è il tempo di farci santi e divenire buoni preti”.

Termina poi ritornando sul concetto e sulla responsabilità dell'esem­pio, necessario al sacerdote per conservare la sua dignità. Ora se noi esa­miniamo passo per passo queste note autobiografiche di S. Paolo vediamo che si adattano meravigliosamente a Don Bosco; solo in carcere non è stato, ma ci mancava poco; ecco quindi il modello di lui presentato ai suoi preti futuri: il tipo di S. Paolo passato attraverso Don Bosco.

È questo il modo migliore per essere salesiani e sacerdoti. Egli ci ha dato l'esempio: “Permane in his quae didicisti et credita sunt tibi: sciens a quo didiceris (Rimani saldo in quello che hai imparato e di cui sei convinto, sapendo da chi l'hai appreso. 2 Tm 3,14); rimanete nella san­tità di Don Bosco.

1.12 XII. LA PEDAGOGIA DI DON BOSCO

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Da mihi animas, coetera tolle... (Dammi le anime, tie­niti tutto il resto...).

Nel 1884 fu messo sotto lo stemma salesiano nella basilica del S. Cuore a Roma. Alcuni avrebbero voluto: “Lavoro e temperanza”; ma Don Bosco non lo volle perché disse: “Da quando sono entrato nel­l'Oratorio sulla mia stanza c'è un cartello: "Da mihi animas, coetera tol­le!" — E questo voglio sia tramandato”.

Se non teniamo presente questo testo non capiremo mai sostanzial­mente l'opera di Don Bosco. Qui è compendiato tutto lo spirito, la ra­gione della sua opera. Il Papa il 3-VI-1929 nel cortile di S. Damaso, par­lando a tutti i salesiani ivi radunati, ai superiori, ai missionari, alle suore, ai giovani ed allievi e cooperatori, facendo sentire la grandezza di Don Bosco disse: “Voi avete una grande responsabilità: la gloria terrena di Don Bosco è nelle vostre mani, ed essa diventerà tanto maggiore, quanto più e quanto meglio saprete intenderne lo spirito, quanto più e quanto meglio saprete continuarne l'opera, così come egli la volle”.

Ora riteniamo bene che egli non ci ha mai pensati come lavoratori qualunque, ma lavoratori di anime tra la gioventù. Ecco perché il suo motto: “Da mihi...” Egli ha vissuto questa idea, egli è vissuto per com­pletarla nelle sue opere; il perché della sua esistenza è questo apostolato delle anime. E Don Bosco come ci ha voluti? Come fu egli stesso: apo­stoli delle anime della gioventù.

La santità di Don Bosco

La santità di Don Bosco fu nettamente stabilita dalla Provvidenza co­me santità educatrice e se ne ha prova nel sogno dei nove anni, poiché quando il Signore pensa di prender un santo e lanciarlo nel mondo, gli si rivela, gli delinea la sua missione e gli concede la santità in rap­porto a quella missione. E la santità di Don Bosco è forgiata come san­tità educatrice. Don Bosco non sta nel bilancio della storia come mis­sionario organizzatore, ma come scopritore del sistema preventivo. Que­sto sistema fu nelle sue mani e deve essere per noi un mezzo insegnato dalla Provvidenza per salvare le anime dei giovani.

Il vero aspetto del sistema preventivo

Trattando del sistema di Don Bosco non si deve ragionare come si fa col pubblico al quale bisogna presentare l'aspetto umano del sistema. Per noi che dobbiamo sapere che cosa è l'opera di Don Bosco, se non comprendiamo che tutta l'opera educativa deve tendere a salvare le anime, non abbiamo capito chi sia Don Bosco. Ciò che non possiamo dire al mondo è veramente il segreto della penetrazione universale, la verità, l'originalità, la santità del suo sistema.

Savio Domenico ha praticato in grado eroico la virtù. La proclama­zione dell'eroicità delle sue virtù fu la sanzione suprema venuta dalla S. Sede della pedagogia di Don Bosco capace di ottenere tali frutti.

In questo senso dobbiamo intendere il nostro sistema come costruttore di anime veramente cristiane, adatto a tutti e capace a formare dei santi.

Ragione di essere

Noi dobbiamo praticare la stessa pedagogia ed è appunto questo che il mondo aspetta da noi. Quando ci chiamano intendono chiamare Don Bosco. Non ci aspettano come professori o come religiosi ma come sale­siani, perché abbiamo uno speciale sistema educativo. Per questo è nata la Congregazione, e noi abbiamo il pericolo di dimenticare il perché esi­stiamo: Don Bosco ha il suo Oratorio: ha bisogno di assistenti che lavo­rino col suo sistema ed ecco sorgere la Congregazione: quindi storica­mente dal sistema viene l'opera e dall'opera la Congregazione. Noi quin­di esistiamo per questo motivo la nostra personalità storica e sociale davanti al mondo sta tutta qui: costoro sono gli educatori di uno speciale sistema educativo provato da Don Bosco e che si chiama sistema pre­ventivo. Tutto il resto del colossale lavoro della Congregazione salesiana non è nostra specialità. Per il resto possono chiamarsi anche altri reli­giosi, perché di predicatori, di missionari ce ne sono molti altri, ma il sistema educativo è cosa nostra, esclusivamente nostra. Sono parole di Don Bosco nella lettera del 10-VIII-1885 a Don Giacomo Costamagna in America: “È cosa tutta di noi, il resto tutto non è nostro”.

Dobbiamo diventare talmente compresi e particolaristi nel senso buo­no delle cose nostre da sentirne ed apprezzarne tutto il valore. Ho speso tutto il mio tempo per studiare queste cose e vengo a constatare che non fu cosa inutile, perché possiamo asserire che tutto Don Bosco è nel ri­cercare, difendere, premunire le anime; egli visse solo per impedire il peccato, per prevenirlo.

Questo è tutto il suo sistema: mettere il fanciullo nell'impossibilità di commettere il peccato. Lo ha detto egli stesso: ll-XI-1869: “Noi la­voriamo tra i giovani per impedire il peccato”. L'esistenza nostra e delle nostre case è solo per questo e non perché vadano bene le file, perché battano il tacco. Se noi comprendiamo questo, noi cambieremo tenore di vita.

La scuola è solo il tamburo del ciarlatano per attirare la gente: que­sto è il segreto della nostra massoneria salesiana. Facciamo la scuola per attirare gli uccelli, e una volta che ci sono dentro, dar loro da man­giare, salvare le loro anime.

Ripeto: i collegi non esistono perché i ragazzi obbediscano a suon di campanello, perché si facciano delle scuole brillanti per mettere 24 pre­sentati, 27 promossi; neppure, e tanto meno per fare molti soldi da man­dare all'ispettore. Le nostre case qualunque indirizzo abbiano, devono esistere esclusivamente per salvare le anime; se dimentichiamo questo non sappiamo chi sia stato Don Bosco.

Le basi del sistema

Nell'idea di Don Bosco, quale esce dai documenti, il sistema ha pra­ticamente tre punti che sono come tre centri di altrettanti circoli inter­ferenti in cui le circonferenze toccano il centro delle altre due: disci­plina, frequenza ai Sacramenti, vita del cortile.

Disciplina

In generale nel concetto di Don Bosco la disciplina è quella che vuo­le per noi salesiani che abbiamo il voto: la disciplina di famiglia, l'ordi­namento familiare e soprattutto l'uso della bontà, della persuasione, il re­spingere i castighi e soprattutto vigilanza, vigilanza. Il 18-VI1-1883 dice a Don Pro vera: “Lavoro e vigilanza, vigilanza e lavoro... la disciplina deve venire da sé, quando si sa farsi amare per farsi obbedire, quando esiste confidenza tra superiori ed allievi, quando tanto nell'educatore che nell'educando regna il senso religioso del dovere”. Ecco il punto nevral­gico della nostra deviazione, della nostra allontanazione da Don Bosco.

Se vi è cosa di cui i superiori mi abbiano fatta espressa raccoman­dazione da qualche anno in qua, è perché insistessi negli Esercizi su queste cose; nel giugno 1933 mi fu detto: “Insista, caro Don Alberto, insista sul sistema preventivo perché certuni per far andar bene il col­legio sacrificano il sistema preventivo e trascurano le tradizioni sale­siane”. È già quello che lamenta Don Bosco nella lettera del 10-V-1884 da Roma: “Ma perché sostituire la freddezza di un regolamento alla fiamma della carità, perché i superiori si allontanano dall'osservanza del­le Regole di educazione che Don Bosco ha dato loro? Perché invece di prevenire con la vigilanza si va sostituendo un sistema meno pesante e più spiccio di bandire leggi che si sostengono coi castighi, accendono l'odio e trascurate che siano instillano il disprezzo verso i superiori?».

Purtroppo a questa maniera si foggiano alcuni collegi: chi non fa così riceva cosà... è un codice penale che Don Bosco non vuole e ciò che vi è di più antisalesiano, e se Don Bosco ci fosse salterebbe in bestia, perché quando era toccato, ritrovava i suoi merli.

In America capitò che chi comandava, Don Costamagna, era un tipo piuttosto rigido e legnoso, era già famoso da chierico, figuratevi dopo. (Fra parentesi: se durante gli Esercizi dovete far silenzio, dite grazie a lui). Egli dunque aveva regolate le case con rigidità; or venne a trovarsi lassù Don Vespignani che era stato conquistato dal nostro si­stema e scrisse a Don Bosco: “Il superiore fa così e così; a Torino vedeva far ben altrimenti”. E Don Bosco risponde con tre lettere: una a Don Cagherò il 5-VIII per dirgli che scrive a Don Costamagna: “Pre­paro una lettera per Don Costamagna e per tua norma, toccherà in par­ticolare lo spirito salesiano, che vogliamo introdurre nelle case di Ame­rica: vi dirò — Carità, dolcezza, pazienza; non mai rimproveri umilianti, non mai castighi; fare del bene a chi si può e del male a nessuno. — E ciò valga per i salesiani tra loro e per gli allievi sia interni che esterni”.

Il 10-VIII scrive la seconda a Don Costamagna: “..., di poi vorrei a tutti fare io stesso una predica se fossi agli Esercizi, o meglio ancora una conferenza sullo spirito salesiano che deve animare le nostre azioni, ogni nostro discorso. Il sistema preventivo sia proprio di noi; non mai castighi umilianti, non mai castighi penali, non rimproveri severi in presenza di altri, ma solo parole di dolcezza, di carità e di pazienza. Non mai parole mordaci, umilianti, non mai schiaffi, gravi o leggeri; ma usa castighi negativi, in modo che chi è avvisato divenga amico più di prima... mai mormorazioni contro le disposizioni dei superiori... ogni salesiano sia amico di tutti; non richiamare mai una cosa già per­donata... dolcezza nelle parole, nel richiamare, nell'avvisare. Questa sa­rebbe una traccia tua e per gli altri nella prossima predicazione”.

Questa lettera fece tale effetto, che Don Costamagna rispose ringra­ziando e, testimonianza dello stesso Don Vespignani al quale Don Bosco aveva scritto la terza lettera il 14.VIII, molti scrissero promettendo di praticare scrupolosamente il sistema preventivo, sentendosene in difetto e sentendo maggior difficoltà ad essere caritativi alcuni vi si obbliga­rono con voto: il quarto voto salesiano.

Sacramenti

La disciplina di famiglia è necessaria, ma tutto il sistema è appog­giato sulla Confessione e Comunione. Tutto il nostro lavoro andrebbe fal­lito, se non avesse la sua base, il suo principio vitale nell'azione interna che è la funzione dei Sacramenti. Senza questi non esiste neppure la moralità. Tutti gli scritti di Don Bosco portano questo concetto: Si lavorano gli animi coi Sacramenti della Confessione e Comunione, ma non inteso in senso di scaraventare i ragazzi ai Sacramenti; questo non è dirigere un'anima.

I Sacramenti operano ex opere operato, se noi non vi mettiamo impe­dimento, ma educativamente e psicologicamente no. Bisogna quindi ri­cordare di prendere le cose con certo buon senso. Tutto quello che ha scritto e detto Don Bosco nelle buone notti, nel dirigere, tutto confluisce qui: essere seri nell'uso dei Sacramenti, nell'averne presente il concetto educativo, quindi il proponimento, la correzione quanto alla Confessione, Comunione frequente, ma libera e ben preparata.

Don Bosco non amava certe Comunioni di parata. Il 19-1-1876, nella novena di S. Francesco dice: “Spero che tutti facciate la vostra Co­munione nel giorno di S. Francesco”. Non dice che tutti devono comu­nicarsi, ma spera che tutti si comunichino e così nella novena di S. Lui­gi e dell'Immacolata.

Col Belasio si compiaceva di aver nell'Oratorio un numero notevole di ragazzi che potevano fare la Comunione quotidiana. Don Bosco fu onnipotente nel trasformare i suoi giovani pur mancando di tutto, di gente, di scuole, pur avendo dei ragazzi messi dalla Questura, gente da coltello, grossolana... eppure ne ha fatto qualche cosa, li ha formati. Ma come li ha educati? Colla bontà, colla gentilezza, coll'amorevolezza: li fabbricava confessandoli ed interessandosi sempre e soprattutto delle loro anime.

Cortile

Veniamo al terzo centro così importante ed indispensabile: la vita del cortile. Termine che ho creato e messo in uso io. Se non intendiamo questa idea, tutto il sistema di Don Bosco cade, tutto il sistema salesiano diventa una chiacchiera, una vanteria.

Prendiamo la lettera del 10-V-1884, non si occupa di altro che della vita dei salesiani nella ricreazione. C'era corruzione nei giovani, disor­dini nei confratelli, tutto dipendeva dalla vita del cortile. Questa vita come è negli Oratori festivi, ove costituisce l'essenza esteriore dell'opera è quella che ha dato in mano di Don Bosco il cuore dei giovani. Tutto è nato dalla vita del cortile, ossia dove il giovane è sciolto dalle restri­zioni regolamentari. Quindi Don Bosco ed i salesiani autentici vanno ve­duti non inquadrati negli angoli, con l'aria del consigliere scolastico, ma coi ragazzi in mezzo al cortile. È questo il gran segreto, perché il ra­gazzo dimenticherà tutto, la scuola, le spiegazioni, ma non dimenticherà quanto ha detto e fatto nel cortile, la bontà, la fratellanza, quel cuore a cuore. Dei professori ce ne sono tanti nel mondo, ma di superiori che stiano in mezzo ai giovani ce ne sono pochi in questo mondo ed i giovani non li dimenticano più.

Don Bosco vuole che noi viviamo coi giovani e non può concepire dei salesiani che mentre i giovani sono in libertà se ne stiano altrove. Tutto il personale, cominciando dal direttore deve trovarsi tra i giovani;

10dice in una annotazione sul sistema preventivo: “Il direttore si trovi
in mezzo ai suoi giovani...”.

Vuole che si viva in cortile coi giovani, ma non come bidelli, come guardie carcerarie, ma come fratelli, usando familiarità, perché solo que­sta porta affetto e confidenza; egli vuole che i giovani non solamente siano amati, ma conoscano che sono veramente amati.

Nel 1875 scrive: “Il nostro occhio sia come quello di certi animali che vedono ovunque: il salesiano non deve giuocare solo per sé; vi sono taluni che nel cortile pensano divertire se stessi e non badano agli altri... Aver occhio dappertutto, ai musoni, ai crocchi”. Vuole che non si abbia da dire guardando una ricreazione: “Dove sono i salesiani?” ed altro­ve: “Il direttore, il catechista, il consigliere, i preti, i maestri, i chierici, dove sono?”. Il superiori ci devono essere tutti in cortile, anche quelli che non hanno gradi: le vesti nere non passeggino da sole in cortile.

Purtroppo che uno ha la cattolica per la testa, un altro ha delle cono­scenze, il professore ha da correggere le pagine... e tutta la ricreazione è affidata a due o tre giovani chierici.

E ancora Don Bosco: “Si sorvegliano così alla lontana avvertendo minacciosamente chi manca; invece Don Bosco vuole che stiano in mezzo ai giovani come padri, fratelli, amici, vuole che superiori non siano con­siderati come superiori. Il maestro in cattedra è maestro e niente più; se viene in ricreazione coi giovani diventa fratello, si guadagna quella confidenza che mette una corrente elettrica tra i giovani ed i superiori”.

Faceva bene quel direttore che quando vedeva due confratelli fermi insieme, li sgridava. Bisogna che cada quella barriera di indifferenza che il demonio ha innalzato tra i giovani ed i confratelli; deve sorgere il giorno della sopportazione e dell'amore per Gesù, il giorno dei cuori aperti alla vera corrispondenza, il giorno in cui tutti i salesiani facciano come Don Bosco che, come ha fatto rilevare il Papa, in mezzo a tutto il suo da fare trovava il tempo per scendere in cortile per novellare, scherzare coi più piccoli e coi più piccoli tra i piccoli.

Termino con una raccomandazione: sarebbe doloroso che mentre tutti vogliono i salesiani per il loro sistema, fossimo proprio noi i primi ad abbandonarlo.

Per i veri salesiani il sistema preventivo deve essere il quarto voto!

11“così” del sistema preventivo si può definire il “così” più vero e
maggiormente di Don Bosco perché è la sua personalità davanti alla
storia e davanti alla Chiesa.


2 PARTE SECONDA

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CONFERENZE XIII-XVI

(Gualdo Tadino, agosto 1937)

CONFERENZE XVII-XIX

(Roma, marzo 1938)


2.1 XIII. BUONO SPIRITO

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Sono solito a presentarmi con un saluto: un tempo per complimento, ora in nome di Don Bosco. Lo conobbi e per tre anni; a S. Benigno Canavese feci Esercizi con lui. Era presente, conosceva tutti, e quella mezza parola che ci diceva, mettendoci la sua mano sul capo, valeva tutti gli Esercizi.

Mi rivolgo specialmente ai sacerdoti ed ai coadiutori: i chierici sono nel purgatorio della vita per passare al paradiso del sacerdozio.

Suor Maria Mazzarello diceva: “Viviamo alla presenza di Dio e di Don Bosco”. Parole di una povera donna che ha imparato a scrivere a 34 anni, ma che aveva compreso lo spirito di Don Bosco. Così noi in questi Esercizi. Sono qui con un programma e per svolgere un program­ma: “Vivere alla presenza di Don Bosco e vedere come Don Bosco vuole la vita salesiana”.

Questo svolgerò in queste conferenze. Gli studi e principalmente gli anni mi hanno convinto che per il salesiano non vi deve essere altro tema di Esercizi, se non la “SALESIANITÀ”, seguire Don Bosco, stu­diare Don Bosco per la nostra vita. Dobbiamo convincerci che il testo della nostra salesianità non può essere che Don Bosco come per ogni cristiano il testo è Gesù Cristo. Domando permesso di spiegare i termini. Di Don Bosco non si può fare l'aggettivo “boschiano”, “boschianità”, “boschianamente”; per questo salesianità, salesianamente, salesiano vuol dire di Don Bosco: lo spirito, l'esempio, la tradizione di Don Bosco.

Quando sentite questi termini fate voi la traslazione.

Vi è una ragione quasi infallibile per seguire la salesianità, perché discende dal magistero della Chiesa. Canonizzando Don Bosco si è ca­nonizzata la sua salesianità, non solo la sua santità personale. Noi siamo sicuri che possiamo farci santi facendo come fece Don Bosco, anzi dob­biamo farci santi così, se la vocazione non fu una appiccicatura. Non è penisero mio, sono parole fondatissime, parole di Pio XI: “Filii sanctorum estis et heredes sanctorum” (Siete figli di santi ed eredi di santi). È una magnifica lode che importa una grande responsabilità.

Disse pure Pio XI: “La gloria più bella di Don Bosco in questa terra è nelle vostre mani, dipende da voi se saprete continuare l'opera sua precisamente come egli la voleva. Non si può immaginare un sale­siano o una Figlia di Maria Ausiliatrice che non lavori” (Giugno 1929, cortile di S. Damaso).

Nel 1927 Pio XI in uno dei 5 grandi discorsi che fece su Don Bosco, disse: “Don Bosco continua ad essere il vero direttore di tutto, non il padre lontano. Don Bosco è qui presente”. È una lode stragrande. Il Papa ci ha detto che Don Bosco continua ad essere nella Congregazione, la quale è ancora nella buona strada, nonostante che un profondo sto­rico francese abbia detto che “nessuna Congregazione dopo 50 anni se­gue ancora in tutto gli indirizzi del fondatore”.

Noi abbiamo il nostro indirizzo; non guardiamo gli altri! Ci sono alcuni che non conoscono Don Bosco. Vorrei che quello storico qui presente, quell'angelo di Don Castano facesse una vita di Don Bosco pro­prio per noi (salesiani). Chi vive da 53 anni in Congregazione, può dire che alcuni non ricordano, non conoscono Don Bosco. Il Santo Padre non vuole che il poema di Don Bosco si restringa alla sola educazione; per questo pose lui il “Communio” della Messa: “Contra, spem in spem credidit ut fieret pater multarum gentium, secundum quod dictum est ei” (Ha creduto, sperando contro ogni speranza, che sarebbe diven­tato padre di molti popoli, secondo quanto gli era stato detto). Pensiero degno e proprio di un Papa!

Da Don Bosco impareremo il suo spirito e la sua tradizione. Le Re­golava interpretata secondo la tradizione, perché una Regola può servire per tutte le Congregazioni, salvo poche parole. Così diceva Leone XIII a Don Bosco e lo invitava a far raccogliere da qualcuno tante cose che non si scrivono o se si scrivono non si intenderebbero come si deve. E Don Bosco tempo dopo diceva ai suoi figli: “Le tradizioni si distin­guono dalle Regole in quanto insegnano a praticare le Regole stesse”. Don Bosco incaricò Don Rua di raccogliere le Tradizioni.

Non consiste la salesianità nella lettera, ma nello spirito della tradi­zione; non nel canonismo delle Regole: l'anima salesiana può mancare, compiendo ciò che impongono le Regole. La frase “per essere salesiano bastano le Regole” deve essere interpretata secondo la tradizione di Don Bosco, altrimenti siamo una macchina, materia... Sono solito portare un esempio ameno. In una casa venne a mancare il pane per la colazione, e delle volte avevano quattro sardine da dividere in cinque, e ciò nono­stante erano allegri, e si rassegnavano dicendo che avrebbero mangiato l'altro giorno... Il salesiano della tradizione quando ce n'è, mangia, se non ce n'è, non mangia: mentre un salesiano della lettera direbbe che non si osservano le Regole. Si può tutto riassumere in questa frase: “Don Bosco vuole così”. Ne dirò dieci di “così”, tanti quante le con­ferenze che faremo.

La salesianità è difficile a definirsi, essendo tradizione, somma di fatti, indirizzi che non sono stati formulati da un filosofo o un pedagogo, ma sono fatti vissuti. Ho conosciuto dei coadiutori e dei preti così fatti che vivevano proprio come Don Bosco insegnò. Don Bosco ne era entu­siasta di questo nucleo di figli ch'aveva educato lui. Il 1° gennaio 1886 in una conversazione esclamava: “I nostri soci vengono acquistando uno spirito straordinariamente buono che io ne sono sbalordito”, e Don Bosco ne aveva visto delle cose grosse! Un mese dopo (febbraio 1876) soggiungeva: “Io vedo in essi uno spirito di disinteresse che mi com­muove”. (Io li ho visti come erano, furono miei maestri e superiori).

E continuava Don Bosco: “Io vedo realizzato l'ideale della gente che io cercavo per la mia opera. Finora abbiamo fatto passi da gigante e più ne faremo se ci terremo al passato. Tra 50 anni se noi andremo avanti così saremo 10.000 e sparsi in tutto il mondo”. Infatti: dopo 50 anni, nel 1932, eravamo 10.123, ed adesso 13.000.

La salesianità che ha permeato il mondo si deve a questo “così”, se andremo avanti “così”. Diceva Orestano (filosofo, accademico d'Ita­lia) nel suo discorso di Cagliari: “Non vi è in tutta l'età moderna un fenomeno spirituale così imponente, quanto è la penetrazione salesiana accettata dal mondo. La società contemporanea è permeata dallo spirito di Don Bosco”. Notate che Orestano è uno studioso e non sciupa le parole. Abbiamo bisogno negli Esercizi di fare dilatare il cuore, giacché i sassolini durante l'anno ci fanno dimenticare. “Non c'è Congregazione così sicura di essere voluta da Dio come la nostra”, così Don Bosco (Ceria, voi. XII, 69 che contiene i maggiori insegnamenti di Don Bosco). Continua Don Bosco: “Le altre Congregazioni hanno avuto qualche fatto all'inizio, mentre tra noi non si è avuta una modificazione senza l'ordine di Dio”. Mons. Costamagna ripeteva che forse nessuna Con­gregazione ha avuto tanta parola di Dio come la nostra (voi. XVII, 305). Sappiano d'essere uno per uno niente, ma tutti insieme qualche cosa nella Chiesa. “Fra 100 o 500 anni, oh se potessi conservare una cin­quantina di salesiani che ho adesso! Noi saremo padroni di tutto il mon­do, se saremo fedeli”.

Nel nostro impero non tramonta il sole.

2.2 XIV. LA VITA INTERIORE

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Il nostro programma si propone di attuare la salesianità secondo gli indirizzi di Don Bosco. Ci siamo proposti di vedere i “così” di Don Bo­sco ed il primo e più importante è la vita interiore.

Il Card. Salotti riferendo nel 1910 a Pio XI i passi della causa di Don Bosco confessava di aver ammirato l'interiorità della vita di Don Bosco che purtroppo il mondo non conosce. Procedendo il processo di di Don Bosco constatarono sempre più che la vita interiore era il segreto, il movente di tutto quello che egli fece. Pio XI in ogni discorso su Don Bosco ne fa risaltare la vita interiore. Il 20-11-1927 aveva detto che lo spirito di Don Bosco era sempre altrove, là dove la calma era sempre so­vrana; così si realizzò la formula salesiana: Chi lavora, ora.

Lo stesso Pio XI nel dicembre del 1932, parlando ai seminaristi Ro­mani diceva: “Si sarebbe detto che Don Bosco fosse altrove”. E ancora lo stesso Santo Padre nel capolavoro che fece su Don Bosco nel discorso del 1933 che prorompe in queste parole: “La causa di questo mistero sta nell'unione con Dio”. Pertanto la causa suprema della santità di Don Bosco è la vita interiore. Dentro di lui, nonostante il lavoro, mediante il lavoro era sempre con Dio. Questo è il primo, il più profondo dei “così”. Queste cose così come le sentite adesso, non ve le hanno dette nel noviziato. I poveri maestri dei novizi hanno un anno appena a loro disposizione, e devono conoscere il carattere, insegnare ed infondere il nostro spirito, in così poco tempo. Quando incominciano a vedere i pri­mi frutti, già glieli tolgono, perché il noviziato è finito.

Senza una vera vita interiore non saremo mai quello che dobbiamo essere né come religiosi né come sacerdoti; saremo al più dei sacristi che sanno qualche cerimonia più degli altri.

Forse ci siamo fatti della vita interiore l'idea più sbagliata, come se fosse qualcosa di meccanico, come prendere una pillola o un'aspirina. Don Bosco non la pensava così. Se vogliamo fare qualcosa per noi e per gli altri non concluderemo niente se non avremo Dio con noi, se non ci convinceremo che chi lavora prega. Ora senza di questo non siamo veri religiosi, ma mestieranti della vita, poltroni conventuali, come può talora accadere in certi Ordini vecchi alla vigilia della soppressione.

La causa vera di tante perdite nei salesiani, il poco frutto di tanti sacramenti, sta nella mancanza o nel difetto di vita interiore. Se noi dopo il noviziato avessimo bene vissuto la vita interiore, in pochi anni avrem­mo fatto enormi progressi; vita interiore, la cui definizione non troverete mai nei libri di ascetica, benché ne parlino sempre. Vita interiore: vivere di fede per motivi superiori. Nella prima ai Corinti 2,12-15 San Paolo scrisse: “Non spiritum huius mundi accepimus, sed spiritum qui ex Deo est... animalis autem homo non percipit ea quae sunt spiritus Dei, spirtualis autem iudicat omnia et ipse a nemine iudicatur” (Non abbiamo ricevuto lo spirito di questo mondo, ma lo Spirito di Dio... L'uomo na­turale però non comprende le cose dello Spirito di Dio... L'uomo spiri­tuale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno. 1 Cor 12-15). Sappiamo vedere le cose nello spirito. L'uomo spirituale mette ogni cosa nella sua casella.

Altrove S. Paolo invita a fare tutto coll'ubbidienza, uniti per il bene comune. Don Bosco conviene mirabilmente con S. Paolo. Spediamo su­bito un diploma di cooperatore salesiano a S. Paolo. Non sono cose alte di mistica, son cose pratiche che hanno meritato a Don Bosco la canonizzazione. Non per ambizione, non per utilità umana lavoro conti­nuo deve renderci migliori e santificare le nostre azioni. La vita inte­riore non consiste in determinate pratiche, ma nell'elevazione delle ope­re ordinarie ad un grado straordinario di amor di Dio. Non c'è bisogno di picchiarsi o mettersi sassolini nelle scarpe, non è necessario fare mi­racoli. L'esterno, il faccendarismo vale fino a un certo punto; ciò che vale è la vita interiore, la precisione. Don Bosco la vita interiore non l'ha mai nominata con questa parola, né ha scritto su questa materia.

Egli loda sempre la devozione, la vera pietà. Comprendiamo una ma­gnifica frase di Pio XI nel discorso su Domenico Savio: “La preghiera ispirata alla pietà”. Con tutto il cumulo delle preghiere, se non c'è la corroborazione della pietà, tutto resta parola. Vera pietà non consiste nel cumulo delle preghiere. Lo spirito di preghiera è lo spirito di pietà; e quando Don Bosco parla di pietà non intende le preghiere meccaniche. Egli ci ha pensati come operai di bene: “ut sint lumbi vestri praecincti et lucernae ardentes in manibus vestris” (Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese nelle vostre mani. Le 12,35), vale a dire: tira su le maniche e tieni il lume nelle mani.

Ciascuno ha la sua parte nella Congregazione, non siamo pezzi di macchina, ma cellule attive e viventi. Lavoro e temperanza pare quasi un motto americano: Don Bosco non ha inventato nessuna divozione, né il Rosario né le 40 ore né la divozione alla Madonna (non fece altro che propagarla sotto un altro nome).

La sua figlia spirituale, che ha tradotto al femminile lo spirito di Don Bosco, dice molto bene che la pietà “consiste nel far bene ciò che si deve fare”. Addio Pater noster e preghiere! Non c'è bisogno di paternostrare come certe vecchie, che poi diventano bisbetiche al primo contrattempo.

Disse Pio IX: “Preferisco una casa religiosa in cui si lavora di più e si prega di meno, ad un'altra in cui solo si prega”. I curiali di Roma non capivano Don Bosco quando non voleva che il noviziato si riducesse ad una poltroneria con la scusa dello spirituale. Don Bosco vuole:

  1. Orrore al peccato;

  2. Distacco dalle venialità;

  3. Retto uso dei Sacramenti;

  4. Retti doveri del cristiano e del religioso.

Don Bosco era furbo che non si lasciava ingannare.

Don Bosco non credeva alla pietà dei “testoni, mangioni e poltroni”.

Don Bosco credeva alla pietà degli obbedienti, dei temperanti e dei lavoratori: non vi può essere in questi casi falsa pietà. Don Bosco misu­rava tutti in questi tre punti: va bene? Allora c'è pietà.

Dice Don Bosco nel capo VI della vita di Michele Magone: “Seguia­mo le cose facili, ma si facciano con perseveranza”. Don Bosco deside­rava che si facessero le cose imposte dalle Regole, ma quello che avrebbe voluto che facessimo sempre, anche lontani e da noi soli, è la medita­zione, la visita al Santissimo Sacramento e la recita del Rosario. Aveva un terrore della falsificazione della pietà. Pare pietà, ne ha le appa­renze, ma la pietà non c'è: proprio come diceva S. Paolo, che è salesiano. Don Bosco voleva:

  1. Frequenza e retto uso dei Sacramenti;

  2. Esercizio di buona morte.

Scriveva nel 1885 in America a Don Tomatis: “Sappimi dire se si osservano le Regole; secondo, come si fa l'Esercizio della buona morte”.

In quanto alla Comunione Don Bosco ammetteva secondo il desiderio che si aveva di farsi migliori. Quello a cui voglio richiamare i miei cari confratelli brevemente, ma nervosamente, è che noi facciamo 363 Co­munioni all'anno e 54 Confessioni: e chi di noi è santo? Perché siamo ancora così? Eppure delle volte ne succedono delle grosse: e fino al gior­no prima si era fatta la Comunione tranquillamente. Succede il formali­smo e la Confessione e la Comunione sono formalità. Generalmente si riducono tutti i comandamenti al sesto: non c'è questo? Tutto va bene.

Sei sicuro che quello non è peccato grave? Quegli odi, quelle ripeti­zioni (ricadute)? Diceva Don Bosco a Don Albera che lo aiutava to­gliersi il pastrano: “Ne vedrai delle grosse: due fanno la meditazione in­sieme, la Comunione insieme e pregano vicini... e non si possono vedere, e si odiano!”.

A Don Barberis faceva notare che la maggior frequenza ai Sacramenti non è indice di maggior bontà. Se Don Bosco vedeva che un tale dopo tanto tempo (dalla la alla 5a ginnasiale) non si correggeva ed era sem­pre lo stesso, affermava che quel tale non si confessava bene, perché davanti a Dio non si trovava bene. Al giovane Alberto Caviglia (della 5a ginnasiale), andatosi a confessare dal sig. Don Bosco questi disse: «E lo fai il proposito?» — “Sì, dico l'atto di dolore...” — “Ma lo fai proprio il proponimento?... Perché è già la terza volta che mi dici la stessa cosa”.

“Così” ci educava Don Bosco. E questa me la sono attaccata qui (accennando l'orecchio destro). La Confessione non deve essere un abito, come il cambiarsi la camicia il sabato.

Don Bosco era severo e sembrerebbe perfino burbero: invece era così buono..., ma austero ed esigente: voleva la santità.

2.3 XV. LA BONTÀ

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Si dice che i Gesuiti, oltre ai voti ordinari fanno la maggior parte un quarto voto: tra questi si sceglie il personale dirigente: gli Ignaziani. Noi salesianetti, più umili, l'abbiamo pure. Ma non per essere superiori. An­zi abbiamo tre quarti voti. Secondo i vari aspetti: la bontà, il lavoro, il sistema preventivo. Ecco il programma che ci rimane. Trattiamo dun­que il primo quarto voto, ossia la bontà.

Vi do due testi: Gal 6,2: “Alter alterius onera portate et sic adimplebitis legem Christi” (Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo).

Ef 4,1-4: “Obsecro itaque vos ut d'igne ambuletis vocatione qua vo­cati estis, cum omni humilitate ed mansuetudine, cum patientia, supportantes invicem in caritate, solliciti servare unitatem spiritus, in vinculo pacis. Unum corpus et unus spiritus, sicut vocati estis in una spe vocationis vestrae” (Vi esorto dunque a comportarvi in maniera degna della vo­cazione che avete ricevuto, con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, cercando di conservare l'unità dello spirito, per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione).

Avete sentito le solenni parole? Questo è il testo più salesiano. Si parla di unità, di carità, di pazienza col fine dell'unione. Voglio sottoli­neare questo passo, perché in questa materia Don Bosco e il suo inter­prete alla mano Mons. Cagherò, non hanno mai usato altre parole. Il co­dice della carità fraterna è questo, insieme col capitolo XII della lette­ra ai Romani.

Veniamo al prezioso argomento indicatoci dal magnifico testo salesia­no di S. Paolo. Il nostro tema della bontà contiene un principio non meno vitale degli altri, che forma il principalissimo lineamento della figura sto­rica e morale di Don Bosco. Don Bosco ha fasciato e permeato il mondo di bontà: egli ha lanciato nel mondo l'educazione fatta colla bontà. La bontà è un tratto caratteristico. La bontà si vedeva, traspariva in Don Bosco, era la prima impressione. Don Bosco è grande nella storia e nella Chiesa, perché fu uomo di fede {Communio della messa), ma Don Bosco è pure grande nella riconoscenza di Dio e degli uomini perché ebbe cuore, ebbe bontà per tutti, specialmente per i poveri. Il processo di canonizzazione di Don Bosco ha tirato fuori dei fatti, dei doni, dei carismi, che hanno fatto sbalordire il mondo.

Ma questo non sarebbe servito a niente se non avesse avuto la bon­tà; ciò dice la rivelazione in S. Paolo: “Si linguis hominum loquar et angelorum, caritatem autem non habuero, factus sum tamquam cymbalus tiniens... nihil sum” (Se parlo le lingue degli uomini e degli angeli, ma non ho la carità, sono un cembalo che tintinna... nulla sono).

Don Bosco ebbe la bontà, ed allora tutto ciò che fece vale qualche cosa. Il mondo nutre simpatia per Don Bosco, perché il nostro stile, il nostro modo di fare dimostra la bontà. Ci chiamano dappertutto perché abbiamo la bontà, benché alle volte le pianelle non siano pulite, i mo­bili siano mal tenuti: i Fratelli delle scuole cristiane ci sorpassano nella presentazione.

Dobbiamo dunque fare questo quarto voto: il salesiano senza bontà non è salesiano, benché osservi le Regole. Il Signore nell'ultimo giudizio dividerà gli uomini in due categorie, non guardando se ci mancano i bot­toni nella veste e se abbiamo le scarpe sporche: uomini di cuore gli eletti; uomini senza cuore i dannati. Si è provato a definire la bontà, ma non ci si è riusciti: la bontà è un sentimento, non un'idea e i sen­timenti sono difficili a definirsi. La bontà si sente quando manca, come sentiamo che c'è l'aria quando ci viene a mancare: è un concreto ne­gativo. L'importante è che sappiamo cosa sia, lasciando la definizione.

Vedete: io faccio uso di bontà e non adopero la parola divina “ca­rità”: e ciò faccio perché si capisce meglio. È che gli uomini usando questo concetto l'hanno storpiato, e carità oggi è un'idea cerebrale scevra di sentimento.

Veniamo alla pratica che ci suggerisce Don Bosco. Don Bosco ha vo­luto intendere la vita nelle sue case su questo fondamento della bontà e dell'amorevolezza. Ogni casa deve formare una famiglia, ed ogni fami­glia procede da un unico ceppo. Don Bosco si affliggeva vedendo dei cuori piccini con dei risentimenti: nel mondo salesiano, non dappertutto c'è la stessa familiarità. Il senso di famiglia non è di “cricca” e di “camorra”. La cosa a cui Don Bosco teneva maggiormente è l'unione: “Unum corpus et unus spiritus” (Un solo corpo, un solo spirito). La nostra preoccupa­zione deve essere questa. Infatti Don Bosco il 27-111-1870 diceva: “Nel­le case preferiscono lavorare di più in pochi che essere in più e non an­dar d'accordo”.

Pio XI insisteva affinché fossimo “uno per tutti e tutti per uno” (M.B. IX, 565). E additava come esempio i Gesuiti. Guai a toccare un ge­suita! Tutti i Gesuiti ci andrebbero contro! Noi Salesiani siamo così? Siamo dei famosi fabbricatori di forbici; nell'esposizione di Parigi pren­deremmo il primo premio.

Don Bosco l'aveva contro i gruppi (5 o 6, sempre loro - M.B. IX, 576). Già nel 1870 deplorava che nell'Oratorio si notavano due partiti, e questo non piaceva a Don Bosco.

Ma purtroppo nelle case grandi vi possono essere dei partiti. È cote­sto il secondo chiodo: “Quaerunt quae sua sunt” (Cercano il proprio interesse), è egoismo. E tanti egoismi non fanno unione, come neppure molte pietre messe insieme non fanno una casa, perché manca la calce. Ciò origina il terzo chiodo: la mormorazione (Veleno di vipera), e il quin­to chiodo, ossia i sornioni (17 serpe si nasconde nell'erba); e intanto un confratello si trova rovinato, un povero prefetto non può più coman­dare. Che cosa è questo? Che cosa è successo? Sono questi i serpenti che rovinano tutto. Don Bosco ricordava sempre il detto di Comollo: “Del prossimo o si parla bene o si tace affatto”. Questo per ottenere l'unione e la carità.

Piantiamoci bene questi chiodi nella mente, non i nostri chiodini. Don Bosco nel testamento ai salesiani insiste sull'intesa reciproca e sul perdono: «responsio mollis frangit iram» (Una risposta amabile smor­za l'ira). “Charitas benigna est...” (La carità è benigna...). Parlatevi, spiegatevi e vi intenderete senza rompere la carità cristiana, a detrimen­to della Congregazione. Non fate il muso troppo lungo, se no vi viene la proboscide. “Non mai tramonti il sole sopra la vostra iracondia” e non ricordate mai le offese perdonate. Diciamo sempre di cuore il “Ri­metti a noi i nostri debiti” con dimenticanza definitiva di tutto ciò che in passato ci ha cagionato qualche oltraggio. E appunto come dice S. Pao­lo, coronava con questa raccomandazione: “Amiamoci di amore fra­terno”. E questo è detto per coloro che hanno qualche autorità. Anche coi giovani, una volta che è passata la mancanza ed è stata riconosciuta, basta e piantatela lì. Non tornarci sopra. In altri tempi, quando ero più impaolinato e non così imboscato come adesso, che voglio imboscare tutti i miei confratelli, allora citavo di più i testi di S. Paolo: “Amore di fratelli” dico, e non “amore di frati”, perché i frati non sempre si vogliono bene, ma si rispettano. Ricordiamoci che Don Bosco citava i passi di S. Paolo per descrivere la confidenza dei confratelli, che deve essere quella dei primi cristiani di San Paolo.

S. Paolo capiva che ci poteva essere anche una carità insincera (Una carità che non sia finzione... un amore senza falsità): non far commedia nel volerci bene. Alle volte bisogna vivere con gente che ti tratta con i guanti e non ti vuole bene. Carità sincera! Lasciatemi insistere su questa prerogativa salesiana: anche tra i bigotti e tra i religiosi si possono tro­vare delle persone che sono povere e che sono obbedienti, perché sono abulici; che sono casti, perché non hanno sangue nelle vene, ma poi sono senza cuore! “Questo, dice il Faber, rende odiosa la devozione: gente impeccabile, ma non amata, perché non ama nessuno”. Sono i gianse­nisti del sentimento.

Vedete che non basta la Regola? Che bisogna interpretarla secondo la tradizione?

C'è anche l'anticarità: due disgregatori della fratellanza e della bontà sono:

  1. Ambizione ed arrivismo (carriera);

  2. Istinto di vendetta.

Sono entrati tra noi pochi anni fa (20 o 30). La voglia di comparire e di figurare ci rendono invidiosi, gelosi, detrattori del male e taciturni del bene altrui.

L'arrivismo: la voglia di avere classi alte e di non essere un prete qualunque, e l'ambizione si sono diffuse tra noi. Già S. Paolo racco­mandava di non farsi del male per ottenere delle piccole cariche. Si cri­tica colui che ci fa ombra, gli si fa la forca: si fa la corte ai superiori coi favori... per quella carica... si ha rancore e poi... si fa la Comunione tranquillamente.

I vecchi salesiani erano più rudi. Potevano turbarsi, ma non avevano rancore, non si vendicavano. Io li ho conosciuti tutti. Le nuove genera­zioni conosco meno la legge del perdono e del condono. Non ci si parla, si danno voti bassi o si bocciano gli scolari di colui a cui non vogliamo bene, si fanno dispetti. Chi è vissuto 40 anni fa fra gli scolari può dirvi qualche cosa. Sant'Alberto ha parole meravigliose: “Alcuni dicono di non odiarsi ma hanno i segni dell'odio nelle azioni e nei sentimenti. Credono di fare una grande cosa desiderando che il loro avversario non vada all'inferno”.

Guardiamo la fotografia bonaria di Don Bosco che trapela bontà: Don Bosco, come S. Paolo, può dire: “Imitatores mei estote sicut et ego Christi” (Siate miei imitatori come io lo sono di Cristo).

2.4 XVI. IL LAVORO

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Sint lumbi vestri praecincti et lucernae ardentes in manibus vestris”. (Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese nelle vostre mani. Le 12,35). “Qui laborat orat” (Chi lavora prega). «Il lavoro e la temperanza faranno fiorire la società salesiana” (Sogno di Don Bosco).

I sogni sono molti ma dicono tutti lo stesso parlando del lavoro sale­siano. Il lavoro non è stato messo nel nostro stemma che fu creato per metterlo nella Basilica del Sacro Cuore a Roma. Non è il motto, ma è lo stesso stemma, l'eredità di Don Bosco. Gli venne insegnato nel sogno del 1876: “Questa è la condizione per la conservazione e propagazione della Congregazione: farai stampare un manuale che lo spieghi (Il lavoro e la temperanza faranno fiorire la Congregazione salesiana). Finché i tuoi figli le osserveranno, avranno seguaci in occidente, in oriente, al sud ed al nord” (M.B. XII, 446).

Lascio stare quello che disse Pio IX: “Preferisco una casa dove si lavora molto, che una casa in cui si prega solo, perché vi può regnare l'ozio” (X, 799; IX, 566).

Ciò che scrisse Don Bosco nel 1879 nella relazione della Società sa­lesiana, che fece a Roma, ci allarga il cuore: e son sicuro che se Don Bosco dovesse scrivere adesso, non cambierebbe una sillaba. “Il lavoro supera le forze e il numero degli individui: ma niuno si sgomenta, e pare che la fatica sia un secondo nutrimento” (XIV. 218). in quella rela­zione Don Bosco con piena coscienza e fedeltà storica, fa il più bell'elo­gio della Congregazione salesiana. Orestano, che è uno di quelli che meglio dissero di Don Bosco, perché non fa della retorica, ma pensa e studia, afferma che “necessità educative e sociali intuite nello spirito dei tempi, gli fecero scoprire lo spirito di educare con il lavoro e per il lavoro; questa è la vera originalità di Don Bosco”.

Don Bosco fin agli ultimi istanti ripete sempre: “L'ardore del lavo­ro”. A quelli che, vicino alla morte, gli andavano a baciar la mano in si­lenzio, come Settimio Severo, l'infaticabile imperatore di Leptis Magna, ripeteva: “Laboremus!” (Lavoriamo!). Noi siamo veri proletari della Chiesa, i lavoratori nel senso nobile della parola: “Chi non sa lavorare non è salesiano” (XIX, 157). Parole citate dal Papa Pio XI il 3 giugno 1929. Nel 1933 diceva ancora: “Non appare bene nelle file salesiane chi non è un lavoratore: il lavoro è il distintivo, la tessera di questo prov­videnziale esercito” (XIX, 235). E già nel 1922 ci aveva concessa la “Porziuncola salesiana”, l'indulgenza del lavoro (La guadagniamo? det­to questo tra parentesi). Ecco lo scandalo di un santo, di un santo, pos­siamo dire, “americano”: dice molte più volte lavoriamo che non pre­ghiamo (Si fa presto a dire: preghiamo quando c'è la tavola pronta, ma è più difficile prepararsela).

Don Bosco raccomanda il lavoro; ma suppone la nostra spiritualità del lavoro, che il lavoro è preghiera! Non faccio una conferenza di acca­demia, quindi bisogna che noi vediamo il lato spirituale del lavoro.

Il lavoro salesiano è lavoro di anima, la nostra anima, è la spiritualità che noi ci mettiamo nel lavoro. Ecco la seconda definizione che vi do: “II salesiano esce dal mondo per associarsi religiosamente ad una collet­tività organizzata sotto una guida per un lavoro profittevole alla società cristiana ed alla gloria di Dio”. Insomma noi siamo santi dalle maniche rimboccate: questo è il tipo del salesiano. Se io dovessi dipingere Don Bosco tra noi salesiani, li farei tutti con le maniche tirate su. Non bisogna più dire nelle lettere mortuarie: “Nonostante il molto lavoro si faceva santo”. Come? Non capiscono niente costoro? Mediante il tuo lavoro tu ti fai santo, non “nonostante” il lavoro...

Quando sentite leggere in refettorio, date un pugno sulla tavola e se si rompe il bicchiere, sarà in onore di Don Bosco, il quale non ha fatto libri di ascetica, ma ha raccomandato il lavoro. Non libri dotti, non collezioni magnifiche; noi nel mondo siamo considerati come lavoratori, gente che produce, non succhioni della società. Il lavoro di colui che vuol essere buon lavoratore di Don Bosco ha qualità proprie: “Alacrità, vo­glia di lavorare”. Il vero salesiano non cerca riposo, sempre dice: da­temi qualche lavoro. La vera vacanza consiste nel cambiare il lavoro. Il vero salesiano ha bisogno di lavorare. Voi non lo vedete mai fermo... Noi dobbiamo essere come i bambini che non sanno mai stare fermi. Spontaneità. È il “vado io”, il contrario del “non tocca a me”. Non farsi dire le cose, ma anche trovarsene del lavoro. Guai a coloro che dicono: io faccio la mia scuola e basta. Tu non sei salesiano, sei un poltrone.

Senza misurare il lavoro, dice il Papa Pio XI (M.B. XIX, 157).

Guardate Don Bosco. È una personalità unica nella storia. Il lavoro se lo cercava lui in tutti i campi. Ed era un genio di attività e di organiz­zazione nell'attività salesiana. Don Bosco faceva notare il bene che può fare un chierico facendo un giro per i corridoi e per i luoghi nascosti. Tra tutti si fa tutto. Aiutare gli altri, lavorare d'accordo. Don Bosco va per una strada, vede un carrettiere che spinge inutilmente il suo car­retto e senza fare tante distinzioni e senza temere di ribassarsi, l'aiuta a spingere insieme. “Coscienza collettiva”, che bisogna lavorare e lavoro che bisogna. Così si fa in molte case. Quando si lavora, dei peccati non se ne fanno, ed il diavolo se ne scappa. Coscienza interna, che ci porta a far bene il nostro lavoro; correggere il compito, e non lasciar scappare i maccheroni. Studiarsi le prediche...

“Il salesiano vero non misura il lavoro”. Che bella parola ha detto Pio XI! Per carità, non ascoltate mai i sonniferi, che ci sono in ogni casa. “Non si stanchi troppo, mangi di più, lavori di meno, ecc.”. Ma piantatela lì, che bisogna lavorare. Non lavorare per far carriera, ma per piacere a Dio. Il salesiano bisogna che si renda atto al lavoro, perché noi formiamo un'azienda cooperativa. La nostra rendita si vende nel cielo ed il guadagno si divide fra noi.

“Con amore”: lavorare con amore è il segreto della nostra riuscita pedagogica e professionale, è la gloria del passato artigianato italiano (os­servate i musei...), far bene il proprio mestiere.

“Coraggio e ardimento”: è una qualità che non dobbiamo dimenti­care. Così si sono formati i vecchi salesiani; la scuola non insegna tutto ciò che bisogna sapere. Se non sai, aggiustati, cerca, ardisci. Ti danno una scuola. Ma io non so... Ardisci, fai quel che puoi, studia. Non fate caso ai disfattisti: ma la salute? Iddio aiuta.

Saper far più di un mestiere: la preziosità di un coadiutore è che non sa fare una sola cosa. Nelle nostre case siamo fortunati, quando ab­biamo dei coadiutori che sanno fare di tutto, e che se non sanno, si danno al lavoro per imparare. Un direttore disse a Don Rua: “C'è Guaschino (un coadiutore) che lavora da mane a sera e non ha tempo di prendere fiato. Ha bisogno di aiuto. Faccia il favore di mandare un altro”. E Don Rua: “Lavora molto? Tenete conto per la biografia”.

Per il sacerdote è dovere di coscienza la scienza: ma già nella vita moderna non basta più quel poco di teologia, ma bisogna formarsi della cultura. Nessuno al mondo conosce la cultura di Don Bosco come me; in un libro in cui non c'è nessuna citazione — “La Storia d'Ita­lia” — ne ho scoperte moltissime provenienti da 80 libri diversi. C'è il Muratori, i Bollandisti, ecc. Questa cultura Don Bosco se l'è rag­granellata poco a poco.

I primi coadiutori di Don Bosco, nei momenti liberi, avevano sem­pre un libro in mano; perfezionarsi nel proprio mestiere... Ci sono state delle rivelazioni, nessuno si sarebbe aspettata tanta scienza da quel salesiano.

(Don Caviglia diventò storico di erudizione; professore d'arte sacra, tanto che meravigliò le autorità ecclesiastiche e per lui fu fondata una cattedra di arte sacra al Politecnico di Torino, l'unica in tutto il Regno! E questo fu il frutto della formazione, procuratasi da se stesso, con lo studio e con la iniziativa personale. In S. Giovanni Evangelista di Torino si ammira l'altare di Don Bosco, se non erro detto un gioiello d'arte, e un grande ed artistico lampadario di puro stile, pure da lui ideato e disegnato; n.d.r. ed. 1949).

Adesso una gloria: “Quando avverrà che un salesiano soccomba e cessi di vivere lavorando per le anime, allora direte che la nostra Con­gregazione ha riportato un grande trionfo e sopra di essa discenderanno copiose le benedizioni del cielo” (M.B. XII, 381-383).

2.5 XVII. IL CARATTERE

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«Donec occurramus omnes in unitatem fidei et agnitionem Filii Dei, in virum perfectum, in mensuram aetatis plenitudinis Christi; ut iam non simus parvuli fluctuantes et circumferentes omni vento doctrinae in nequitia hominum, in astutia ad circumventionem erroris». (Fin­ché arriviamo tutti all'unità della fede e della conoscen­za del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo. Que­sto affinché non siamo più come fanciulli sballottati dal­le onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, secondo l'inganno degli uomini, con quella loro astuzia che tende a trarre nell'errore. Ef 4,13-14).

L'idea di S. Paolo era che il cristiano fosse l'uomo completo, ragio­nato nella volontà e nelle idee.

Il tema è il “carattere”. Non è questo un tema umano? Forse direte che questo non è tema da Esercizi. Dico semplicemente che il tema del carattere è necessario a noi religiosi, come fattore indispensabile per il perfezionamento della nostra vita: è l'indice della nostra formazione; per questo noi ci distinguiamo dai fanciulli, per questo siamo uomini.

Il cristiano è l'uomo completo, perfezionato, è il perfezionamento dell'essere umano; e il religioso è apice dell'essere umano. Il Signore non distrugge la natura, ma perfeziona. Dobbiamo raggiungere la statura dell'essere umano ch'è la statura di Cristo; crescendo dobbiamo diventare misurati, imitatori della statura di Gesù. Ogni parola di S. Paolo è me­ravigliosa; sentiamo la magnificenza morale dell'uomo.

Quando si dice carattere si dice l'attuazione delle virtù umane e na­turali. Non sempre dobbiamo intendere soltanto le virtù della mistica: è una cosa indispensabile anche l'attuazione delle virtù naturali. Il cri­stiano è l'uomo, è l'uomo perfezionato e finito, e il religioso è il per­fezionamento del cristiano: non si può essere buoni religiosi senza il perfezionamento dell'essere umano. Non è pensare da laici. Prendiamo il meno laico dei santi, S. Benedetto, nel Prologo della sua Regola: (vor­rei che ognuno avesse il testo della Regola di S. Benedetto: è il testo più salesiano, perché 1500 anni fa Don Bosco si chiamava S. Benedetto e S. Benedetto nel 1854 si chiamava Don Bosco): «Discat abbas prius amari quam timeri» (Si studi l'abate di farsi amare prima che temere). E nella terza Pericope vuol dimostrare che senza possedere la vita naturale non si va in Paradiso, e recita intero il Salmo 14: «... Domine, quis habitabit in tabernaculo tuo et requievit in monte sancto tuo?» (Signore, chi abiterà nella tua tenda? Chi dimorerà sul tuo santo monte?). Ivi sono enumerate le virtù naturali (la giustizia, il non aver odio, ecc.): con questo si va in Paradiso. E Don Bosco alla vigilia della sua ordina­zione ricorre al Salmo 23, che dice lo stesso: “Hic accipiet misericordiam a Domino...” (Ottiene misericordia dal Signore...). Vedete dunque che non è un discorso laico, ma Scritturale e perciò è parola di Dio.

La stessa Regola di S. Benedetto precisa il concetto di ciò che deve essere il cammino della vita religiosa (e. 4).

Con quali mezzi riusciamo a produrre la vita della nostra perfezione? Capo primo: i dieci Comandamenti che sono dati da Dio e sono la legge naturale. Prendiamo un asceta, il nostro maestro, il nostro titolare. Pro­prio nella pagina prima della Filotea dove vuol dare la descrizione della vera divozione mostra che è inutile parlare di questa quando si manca alle più elementari virtù naturali, e personifica la sua idea in un suo personaggio che si chiama Aurelio, il quale vuol fare il divoto e ne fa da pensare.

Noi quando si parla di perfezionamento non diciamo di far tremare i banchi per la devozione, come facevano certi miei compagni che poi uscivano di Congregazione. È una vita di lavoro morale per l'acquisto delle virtù ordinarie della vita cristiana, un lavoro lento, un lavoro di formazione degli abiti morali. Così pensa S. Francesco di Sales, S. Al­fonso, S. Benedetto, Don Bosco. Lacordaire dice che un vero cristiano deve essere un uomo completo, seguace scrupoloso delle virtù naturali: onestà naturale senza di che la pietà è tutta una maschera destinata a co­prire le più orribili deformità dell'anima. Vedete che non faccio laici­smo. Prima bisogna essere uomini e ragionare da uomini cristiani.

Il carattere è un fattore primordiale della nostra vita pratica quoti­diana. “Probatur a contrariis” (Lo si dimostra dalle contrarietà). L'as­senza di carattere o un carattere sbagliato rovina le più nobili imprese, rende vane le più nobili intenzioni, rovina l'apostolato. Un prete di ca­rattere bizzarro ti rovina la parrocchia, un maestro di carattere impossi­bile rovina i ragazzi. Ho visto dei missionari che avevano buona volontà, ma possedevano un carattere cattivo, e non conclusero nulla. Ciò che rende diffìcile l'obbedienza non è l'ubbidire ma il dover sopportare dei caratteri diffìcili. Un direttore di cattivo carattere è una rovina. Il buon andamento della comunità è adempimento delle virtù ordinarie, così dice un benedettino che poi fu cardinale. Il sistema preventivo non è se non una pratica del dominio di sé e l'esercizio delie virtù naturali. È neces­sario che ci facciamo un carattere, che comprendiamo la nostra struttura morale. La definizione del carattere non la so. Gli scienziati si sono ar­rovellati a dare la definizione vera. Vediamo di costruire la stabilizza­zione, il conseguimento delle abitudini volitive che formano l'anima morale, qualche cosa di opposto al temperamento ossia al carattere empirico che ci trascina in direzione contraria. Il senso di carattere è la costante volontà di bene operare.

Don Bosco non ha dimenticato questo elemento. Questo discorrere non ha niente a che fare con quello che è la pietà esterna, perché que­sto può essere una maschera. E ci può essere un frate puntuale e bigotto e poi è un tipaccio. Il tipo salesiano è un tipo aperto, retto, semplice; le virtù che rendono simpatico un salesiano sono le virtù naturali che ci conciliano la simpatia del mondo. Non nego che bisogna ricorrere a Dio e Maria ed ai benefattori. Come si spiega la permeazione salesiana nel mondo? (Orestano): Sono le virtù salesiane.

I salesiani che hanno fatto più bene sono quelli che hanno avuto un carattere, coloro dei quali la gente diceva: “Fa piacere trattare con costui”.

Vi sono caratteri buoni, caratteri infelici e caratteri perversi. Co­mincio dai cattivi e perversi: ci sono dei caratteri disastrosi ed è disa­stro non aver nessun carattere: la leggerezza, la volubilità, la grossola­nità, la scioperatezza: non bisogna dire perché siamo popolari che dob­biamo essere grossolani: no. Vi sono caratteri bisbetici, intrattabili, zolfanelli che non l'hai toccati e sono già accesi. Vi sono caratteri duri, senza cuore, apatici, testardi, tipi chiusi, scontrosi, non si sa che cosa pensino, non hanno un momento di espansione, non sono capaci di dare una mano a una persona. Vi sono dei caratteri pericolosi (non parlo di vizio), caratteri superbi, ambiziosi, vanitosi, egoistici che vogliono sempre mettere accanto se stessi; vi sono dei caratteri maligni, tipi amo­rali (non moralità nel senso di 6° comandamento, ma colui che non ha amor proprio di esser onesto) che fanno il bene e poi il male con la stessa tranquillità, fanno una cosa senza avere coscienza di far bene o male; coloro che ti vogliono bene e poi sotto sotto ti mandano in rovina. Il Gasquet parla della bassezza di carattere di coloro che sono capaci di strisciare per ottenere i propri intenti: assenza di dignità, di umiltà, caratteri incompatibili, che pensano a godere e niente più.

Può influire in ciò il venire da certi ceti, ma dobbiamo reagire e sup­plire l'assenza di educazione. Il vero carattere è l'onestà, è l'essere galan­tuomini, da frati coi frati e da uomini cogli uomini: i santi prima di tutto furono galantuomini.

Vengo ad un altro aspetto: noi dobbiamo formarci al carattere e cor­reggere i caratteri. Udite una parola da un salesiano che è tale da più di mezzo secolo. Guardate che voi siete destinati ad operare un apostolato alto e penetrativo. Se voi, fatti preti, usciti di qui, non vi sarete formato un carattere, se avrete un carattere storto e non vi sarete corretti, sarete cattivi confratelli, e sarete preti senza seguito, farete un apostolato nullo. È un lavoro di autoeducazione e di volontà, lavoro lento ma costante.

Don Bosco nel 1850 prese con sé i primi chierici del seminario che era stato chiuso: Don Bosco fomenta in essi il carattere ed insisteva che guardassero ed attendessero alle manifestazioni del proprio carattere. Non si può diventare santi in quattro giorni, ma volere, sempre: insisteva su questo punto pure nei bigliettini che dava. In uno diceva: “Semper dico vigila” (Te lo ripeto sempre: sii vigilante!). Non si tratta della bella virtù, ma del carattere; lavoro universale che riguarda tutti. Il Faber, il grande asceta del secolo XIX, definisce questo lavoro come un operar di pazienza su se stessi.

È saper volere. I santi non nascono santi, ma ci si fanno santi: tutti nascono col peccato originale. I santi si fanno con la volontà: senza di questa non si fa niente. Non parlo di Schopenhauer, dei pelagiani e neo-pelagiani. È la volontà che fa, non tanto la vita ritirata; ci vuole eserci­zio; non si deve mai dire che questo è più forte di me e non ci riesco: questa è una eresia psicologica e spirituale.

Don Lemoyne, voi. I, 94-95, afferma: “Giovanni aveva assortito un naturale facilmente accendibile e insieme poco pieghevole e duro...; di carattere piuttosto serio, parlava poco, osservava tutto...; dotato di cuore grande e di vivace ingegno”. E a pag. 365: “Egli, di una attività continua ed intraprendente, era lento e posato nell'operare: di una ricchezza me­ravigliosa di idee e di grande facilità nel comunicarle a tempo opportuno, era parco di parole, specialmente con quelli ch'erano a lui superiori”. Era allegro, brioso, e noi l'abbiamo visto misurato e ponderato: Don Bo­sco ha voluto efficacemente.

Ora prendiamo le cose sotto un altro aspetto. Come conosciamo il nostro carattere? Il 99% non lo conosciamo da noi, ma ce lo dicono gli altri. L'Imitazione di Cristo, I, 3, così ci istruisce: “Guarda ciò che ti irrita di più negli altri e questo l'hai tu”.

Voi così vedete l'importanza capitale del rendiconto per noi religiosi: il quale ci deve svelare i nostri difetti. S. Benedetto ha un capitolo spe­ciale per la confessione davanti all'abbate ed agli altri confratelli: è il rendiconto. Quando c'è la volontà del bene, i mezzi spirituali sono due:

  1. La meditazione pratica: non la formalità, ma lo studio di se stesso che si fa nell'esame di coscienza;

  2. La Confessione usata pedagogicamente per la pedagogia di se stes­so: Don Bosco se n'è servito come di un segreto del suo sistema. L'eser­cizio del proponimento; tutto il segreto del sistema di Don Bosco è la pedagogia della Confessione: il sistema di Don Bosco è tutto qui.

Noi siamo disorientati per quello che riguarda la Confessione e la meditazione. La pietà regolamentare, il meccanismo ci fa credere di es­sere gente buona e invece... non si è concluso nulla. Le cose del carat­tere noi non le confessiamo mai: ecco perché noi siamo disorientati nel­la pedagogia della Confessione. È nostro dovere il correggere il nostro carattere: alla volontà tutto è possibile.

Il più gran birbante del mondo può divenire santo: una cosa sola non si corregge, perché non è carattere, ma malizia congenita: “l'ipo­crisia e finzione”. L'unica cosa che Gesù non ha mai voluto perdonare: questo vizio non si corregge.

Noi, figli di Don Bosco, abbiamo una fisionomia aperta: Don Bosco fu santo perché si formò un carattere perfetto di uomo, di cristiano, di santo.

2.6 XVIII. LO STUDIO

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«Ut perfectus sit homo Dei, ad omne opus bonum instructus». (Affinché l'uomo di Dio sia attrezzato ad ogni

sorta di bene).

«Attende tibi et doctrinae». (Curati di te stesso e della

dottrina).

L'opera a cui attendono i chierici studenti dev'essere secondo il pen­siero del Papa. Pio XI parlando ai suoi seminaristi a questo riguardo diceva: “Questa opera è duplicata: a) Preparazione di intelligenza, b) e preparazione della volontà. Due cose inscindibili e indispensabili sotto pena di nullità di preparazione e di azione” (Oss. Rom., 17-VI-1933).

Don Rua nella circolare delF8-X-1893 cita il detto di S. Francesco di Sales che la scienza sacra è l'ottavo sacramento della gerarchia ecclesia­stica.

Pio XI insisteva sulla necessità essenziale e sulla reciproca interfe­renza dei due fattori: scienza e pietà. “Lo studio senza pietà è una vana e pericolosa, per quanto lodevole attività”. Si sente che il Papa vuole parlare di scienza, ma non vuole far scappare la pietà. La virtù sacerdotale ha bisogno della scienza perché sia virtù cosciente, che sa che cosa deve essere; perché la pietà senza lo studio ben presto si riduce a poca cosa insufficiente a tutto: pietà e studio devono formare una figura sola. S. Gregorio Magno nei “Morali”, libro 1 pag. 32, dice: “Nulla est scientia si utilitatem pietatis non habeat, et valde inutilis est pietas si scientiae discretione careat” (Non è scienza quella che non si avvantag­gia colla pietà, e perfettamente inutile è la pietà se manca del discer­nimento della scienza).

Allora il Papa in quel discorso, dando ai suoi seminaristi una meda­glia di Don Bosco, commentava le sue parole coll'esempio del nostro Santo. Lo presentava come modello di preparazione, di vita e d'attività sacerdotale. Qui dopo solenni sentenze, profonde, che si possono citare intorno alla sua vita interiore, viene a rilevare la vita intellettuale di Don Bosco. “Sfuggì purtroppo a molti quella che fu la preparazione di studio di quest'uomo, e sono moltissimi coloro i quali non hanno l'idea di quello che Don Bosco diede allo studio: continuò per molto tempo a studiare intensamente”. Porto le parole del Papa per dare autorità a ciò che dirò. Potrei riferire mezza Enciclica “Ad catholici sacerdotii”.

Noi ci domandiamo e proponiamo questo quesito:

  1. Quali sono le direzioni di Don Bosco in materia di studio?

  2. Che cosa ha fatto Don Bosco nella materia di studio?

  3. Come regolarci noi?

È un tema fatto proprio per studenti salesiani. Don Bosco amò e col­tivò gli studi e lo studio. Bisogna distinguere perché corre differenza tra studio e studi. Amò lo studio, vuol dire che ebbe piacere di studiare; amò gli studi, invece, significa l'amore per questo o per quell'altro studio.

Egli volle che lo amassero anche i suoi chierici. Se vi è cosa cara che Don Bosco ha raccomandato accanto alla formazione spirituale, è l'amore allo studio. Nel 1849-1850, ricevette e stipò nelle stanze dell'Oratorio un buon numero di chierici del seminario che in quell'anno di rivoluzione era stato chiuso, e li educò come fossero suoi. E li incoraggiava agli studi. Ascanio Savio (voi. Ili, 614-616) dice che Don Bosco raccomandava di mettersi in grado con una santa vita e una buona scienza teologica di salvare le anime più che si può. Ed è lo stesso pensiero di Pio XI.

E non solo pensava alla scienza sacra, ma anche alle altre discipline. Don Bosco voleva che i suoi salesiani per potere essere educatori più completi ed i sacerdoti più buoni sapessero di tutto. Fu Don Bosco il primo che mandò i suoi preti all'Università dello stato, benché i suoi coetanei, che non capivano i tempi, lo criticassero (voi. VI, 346). Il pri­mo che lo imitò fu Mons. Moreno, Vescovo di Ivrea, di modo che i suoi preti coi rispettivi titoli poterono fare scuola ed avere in mano la gio­ventù. Purtroppo per molto tempo fu l'unico imitatore di Don Bosco in questo campo.

Pio XI a questo proposito, tanto in quel discorso quanto nella sua En­ciclica “Ad catholici sacerdotii”, ha una intimazione minacciosa. “Quia tu scientiam repulisti, repellam te ne sacerdozio fungaris mihi” (Poiché tu rifiuti la conoscenza, rifiuterò te come mio sacerdote. Os 4,6). Il Papa faceva tale intimazione ai suoi chierici perché sapessero il valore dello stu­dio per il sacerdote. Vedete la intensità di pensiero di Don Bosco e di Pio XI, che corrisponde a quello di S. Gregorio.

A quelli della Crocetta il 6-VI-1929 il Papa fece un discorso intorno allo studio della teologia e all'indirizzo dello studio salesiano: “Niente teo­logia senza ascetica, e niente ascetica senza teologia” (M.B. XIX, 161). Non devi darti ad una pietà così vaporosa che non abbia fondamento nella teologia.

Che cosa si deve studiare dal prete e dal salesiano? Rispondono tutti e due, il Papa e Don Bosco: “Le scienze sacre e la cultura umana”. Pa­role del Papa nella Enciclica “Ad catholici sacerdotii”: insiste che il prete sia rivestito di quel patrimonio di dottrina che è comune ai dotti del suo tempo. Insiste che i chierici non si contentino di quel lavoro che forse bastava in altri tempi. Il Papa non vuole che il sacerdote faccia la figura di un ignorante. Il sacerdote deve avere un insieme dì cultura generale (quella del liceo può essere sufficiente) che gli permetta di de­dicarsi poi ad un ramo particolare. Il Papa avrebbe voluto che nei se­minari non si desse solo la scolastica, ma anche lo studio scientifico, la cultura del professionista. Questa è l'idea del Papa. La scolastica non serve per andare in treno. E così Pio XI ha voluto elevare agli onori de­gli altari l'enciclopedico del secolo XIII, Alberto Magno. Nelle mie le­zioni di arte ho dimostrato che nel secolo XIII e XIV l'arte fu in corri­spondenza con l'enciclopedia del tempo; ed abbiamo i pregevolissimi bas­sorilievi delle cattedrali di Francia. E Dante nella Comedia riporta tutto lo scibile del suo tempo; neppure possiamo dimenticare Giotto.

Don Bosco è umile e sorridente, ma quando lo guardate bene è un colosso. Quando scrutando i suoi scritti in una sola opera trovate 80 li­bri di bibliografìa e libri grossi, c'è da strabiliare. La Chiesa ha attribuito a lui l'esortazione di San Paolo: “De cetero, fratres, quaecumque sunt vera, quaecumque pudica, quaecumque iusta, quaecumque sancta, quae­cumque amabilia, quaecumque bonae famae, si qua virtus, si qua laus disciplinae, haec cogitate” (In conclusione, fratelli, tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri. FU 4,8).

La Chiesa nella sua liturgia consacra la universalità di Don Bosco. Secondo Don Bosco il salesiano deve sapere ogni ramo. Il nostro lavoro specifico di educatori fa sì che lo studio abbia per noi uno scopo pratico ed utilitario. Nessuno di noi dovrebbe studiare nulla che non serva per qualche scopo. Don Bosco lo vuole, lo raccomanda ai suoi chierici: per salvare anime più che si può. Noi dobbiamo studiare per essere attrez­zati ad ogni sorta di bene.

E Don Bosco come ha fatto? Se dobbiamo autoeducarci al tipo di Don Bosco, prendiamolo come esempio. In questo egli ci ha dato l'esem­pio più luminoso. Potrei portarvi cinque passi di Pio XI per mostrarvi come il Papa ha capito la scienza di Don Bosco. Se c'è una simpatia umana in Pio XI per Don Bosco è per questo: per lo studio. Il Papa, topo di biblioteca, capì che Don Bosco aveva buona stoffa di bibliote­cario. Una gran parte della cultura di Don Bosco è addirittura scono­sciuta. Bisogna esaminare la Storia ecclesiastica, la Storia sacra, la Vita dei Papi, la Storia d'Italia. Don Bosco fu il precursore di quella cultura generale e in qualche ramo specializzata, di cui non tutti i sacerdoti han­no capito la necessità. 15 giorni fa, discutendo amabilmente con uno, e trattandosi di vedere come ordinare nei nostri studentati la Storia sacra e la Bibbia, dissi: leggete il tale volume della vita di Don Bosco, vedrete come egli pensava; non c'era bisogno di decidere: Don Bosco ci aveva già pensato.

Vi dico anche tutti gli studi che ha fatto Don Bosco. La teologia dogmatica la dovette studiare con testi di seminario dove dal 1720 per legge del principe Amedeo II s'imponeva lo studio di S. Tommaso. Il Piemonte era Tomista. La Scrittura la studiò da sé: lesse il Calmet. La Storia sacra l'ha imparata sulla Bibbia, e lesse da sé le Antiquitates Iudaicae di Giuseppe Flavio. Di Patristica in seminario non c'era un corso speciale; egli però fece studi speciali su S. Agostino e su S. Gerolamo. La Agiografia la imparò sul Croiset, e sui Bollandisti, di cui da giovane prete lesse un volume al mese, e così tutti i 45 volumi. L'Apologetica sul Bergier, il miglior apologista d'allora (alcuni passi sono riportati nella Storia d'Italia). Per la storia ecclesiastica ch'è il suo tema preferito, lesse il Fleury che è antiromano e per reazione concepì un maggior attacca­mento a Roma. Solo per la Storia ecclesiastica gli ho scoperte 80 fonti diverse. Così pure per la Storia d'Italia, la quale è un libro popolare...: eppure quell'uomo ha maneggiato 80 volumi! Il Muratori lo percorse tutto.

Tutti si stupiscono al sapere questo e mi domandano: Come ha fatto a scoprire tante cose?... Don Bosco conobbe il latino, il greco, l'ebraico; sapeva Orazio e Virgilio a memoria; conobbe tutti i classici d'Italia in piccoli volumi della collezione Silvestrini di Milano, che prendeva in affitto per pochi soldi. Sapeva a memoria Dante, Petrarca e Tasso. Conosceva la geografia e ne fece un appoggio per la storia. In questo fu innovatore.

Sentiva potentemente la necessità della cultura umana. Ciò che è più sbalorditivo in Don Bosco si è che la massima parte della sua scienza è frutto del suo lavoro personale. La facilità con cui parlava con ogni ceto di persone veniva dalla sua enorme cultura. Don Bosco faceva sem­pre ed in ogni ramo bella figura.

Adesso veniamo a noi. Con quale spirito dobbiamo studiare? Don Bosco dovette studiare da sé per le circostanze dell'epoca e per la sua passione del sapere, per poter poi agire. Questo si concilia con la san­tità. Non dovete lasciare queste cose alla storia, ma dovete farle vostre, dovete imparare da Don Bosco la passione del sapere, l'indirizzo del sapere salesiano. Vorrei che sapeste quante notti ho passato in bianco fino a 35 anni, dimodoché con la mia industria personale ho potuto dare scuola d'arte all'Università. E non mi aveva insegnato nessuno. Così deve essere il salesiano. Ogni salesiano di razza deve moltiplicare le sue cognizioni per moltiplicare il bene che può fare. L'arte mi ha servito per portare la parola di Dio anche nell'Accademia delle Belle Arti. Bi­sogna come Don Bosco occupare il tempo, e come lui ingegnarsi da sé. Non bisogna confidarsi nel manualismo, perché questo è l'etisia della cul­tura, ma dobbiamo consultare le fonti. Bisogna che studiamo da noi, che siamo autodidatti. Bisogna che con S. Tommaso (II.II, 166-167) abbiamo la virtù della “studiositas”, soprattutto lo spirito dello studio che è quello che ci interessa.

Con quale spirito ed intenzione si deve studiare? Prima di tutto con lo spirito della scienza; questa e la pietà vogliono essere unite; e poi con lo spirito utilitario. Ma soprattutto “ut perfectus sit homo Dei” (Affinché l'uomo di Dio sia perfetto), non dilettantismo.

Permettete che richiami il pensiero di Don Bosco per una sua paura e per una sua disillusione.

La paura. — Nel sogno dell'l-XII-1884, quando Don Bosco vide la riunione dei diavoli per distrugger la Congregazione salesiana non fu approvata l'insidia né con l'intemperanza né con le ricchezze, ma con la trovata sottile di un diavoletto che disse: “Persuadiamoli che l'essere dotto è quello che deve formare la loro gloria principale” (M.B. XVII, 387). Studiare per far figura! Quando si vuole essere tutti dotti, addio oratorio festivo, addio scuole basse, istruire giovani poveri; non più le ore passate in confessionale; ma solo la predicazione rara, sfoggio della loro superbia. “Evangelizare pauperibus” (Evangelizzare i poveri) e non le signore e signorine della cattolica, ma coloro che puzzano di cipolle. Ebbene quel diavoletto ebbe il plauso generale.

Don Bosco tremava pensando che un giorno potrebbe darsi che i salesiani facciano consistere il bene della Congregazione nella scienza. Lo dico a voi che frequentate l'Università, affinché a suo tempo e luogo possiate discendere.

Disillusione. — Nel 1885 a Marsiglia Don Bosco diceva ad un suo amico e benefattore che aveva fatto tutto il suo possibile per formare le scuole cristiane e che moriva non abbastanza compreso. Don Bosco vide che i suoi vicini non lo capivano: “Quanto ha fatto Don Bosco per riformar la scuola su basi schiettamente cristiane! Ora vecchio cadente me ne muoio col dolore di non essere stato abbastanza compreso” (M.B. XVII, 442). E non diceva questo ad un salesiano, ma ad un laico.

Noi abbiamo imparato da Don Bosco che dobbiamo studiare di tutto per fare del bene alle anime, per una scienza pratica. Dobbiam essere pronti all'apostolato cristiano, abbracciando tutto ciò che si può abbrac­ciare nella scienza e a cui la Chiesa con le parole dell'Epistola ai Filippesi ci anima.

2.7 XIX. DON BOSCO NELLA L ITURGIA DELLA SUA FESTA

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«Sapientiam eius enarrant gentes et laudem eius annuntiavit Ecclesia». (I popoli parlano della sua sapienza e l'assemblea ne proclamò le lodi. Eccles 39,14).

Tutte le nostre considerazioni che siamo venuti facendo di spiritua­lità salesiana devono avere per norma e modello le parole e gli esempi di Don Bosco. Don Bosco è il santo della santità e della vita a cui ci chiama la nostra vocazione: Don Bosco è il testo.

So che a qualcuno fu chiesto quale indirizzo seguiamo noi, e non seppe rispondere. Io rispondo: Don Bosco è il nostro testo; dobbiamo vedere Don Bosco in tutto. Seguendo Don Bosco noi corrispondiamo agli intenti della Chiesa, perché nella formulazione ufficiale del magistero apostolico della liturgia — che è la preghiera ufficiale della Chiesa — la Chiesa ha canonizzato la nostra salesianità. Noi oggi consideriamo in special modo le parole della Chiesa nella liturgia, come conferma della salesianità.

Voi sapete che la liturgia di Don Bosco, nella ufficiatura, ha la parte comune, quella dei Confessori non Pontefici; ma ha di proprio varie parti.

Quella del secondo notturno nel giorno quarto ed ottava sono prese dall'omelia di Pio XI per la canonizzazione di Don Bosco.

Concetti dominanti nell'ufficio di S. Giovanni Bosco: LA FIGURA DEL SANTO EDUCATORE E LA MISSIONE SUA EDUCATRICE TRA LA GIOVENTÙ POVERA ED ABBANDONATA.

Il Vangelo di S. Matteo (18,1-5) le suggerisce il pensiero che è svolto meravigliosamente dall'omelia LX di S. Giovanni Crisostomo. Il testo differisce in parecchi punti perché Don Ubaldi ne compilò l'edizione critica dal greco. Ciò che ci interessa, la figura del santo educatore e la cura della gioventù povera e abbandonata, è pure espresso nella lezio­ne di S. Giovanni Crisostomo, III notturno della festa: “Ne itaque dixeris: Aerarius est Me, aut calceorum sutor, agricola, insipiens, ut ideo despicias illum” (Non dire: costui è un calderaio, un calzolaio, un con­tadino, uno sciocco e così lo puoi disprezzare). “Qui suscèperit unum parvulum in nomine meo...” (Colui che accoglie un fanciullo in nome mio...), ci indica la sollecitudine di Nostro Signore Gesù Cristo per quelli che S. Giovanni Crisostomo dice “parvula qui repertus est”, per i “chiunque della città”, per i piccoli, i dimenticati. Ecco il concetto del­la lezione VII che mostra come bisogna trattare gli umili. Questa solle­citudine deve essere intesa per salvare le anime dai pericoli ed è preci­samente l'“animas quaerere” (cercare le anime).

Non loquor hic de sensibili periculo: hoc parat diabolus” (Non parlo qui di un pericolo sensibile: questo lo prepara il diavolo). Il trat­tato di S. G. Crisostomo è un vero profilo della sollecitudine che Don Bosco ebbe per la gioventù abbandonata e pericolante. “Quare, obsecro, primo dilucido cum a domo exierimus, hunc unum scopum habeamus et hanc praecipuam sollicitudinem, ut periclitantem eripiamus” (Per questo motivo, vi prego, all'aurora quando usciamo di casa cerchiamo di avere quest'unico scopo e questa speciale sollecitudine di salvare colui che è in pericolo). Qui sentiamo Don Bosco: lo vediamo uscire di mattina per provvedere, cercare, consolare i suoi poveri ragazzi pericolanti. Sen­tite come la Chiesa ha preso questo pensiero per riferirlo a Don Bosco.

La lezione VIII ci espone la pedagogia della redenzione morale dei traviati: “Improbus, inquis, difficile tolleratur. Atque ideo debes amore jungi, ut eum a vitio emoveas, ut convertas et ad virtutem reducas” (Tu mi dirai: un cattivo difficilmente lo si tollera. Anzi, proprio per questo ti devi avvicinare a lui con amore per rimuoverlo dal vizio, per con­vertirlo e ricondurlo alla virtù). I giovani sono cattivi, qualche volta, ma si riducono con la bontà paziente, con l'amore. Questo è il segreto della pedagogia di Don Bosco: quello di aspettare con bontà, quello di maneg­giare la persuasione Don Bosco, nella liturgia, si ricostruisce nella sua completezza morale.

At non obtemperat, inquis, nec consilium admittit. Unde hoc nosti? An exortatus es et emendare studiasti? Hortatus saepe sum, inquies. Quoties? Saepius: semel et iterum. Inde saepius vocas? etiamsi per totam vitam hic fecisses, nec deficere nec desperare oportebat” (Ma non ubbidi­sce, tu dirai, né accetta consiglio. Come lo sai questo? Hai cercato di cor­reggerlo? L'ho esortato spesso, risponderai. Quante volte? Abbastanza spesso: una o due volte. E questo lo chiami abbastanza spesso? Anche se lo avessi fatto per tutta la vita, non bisognava né smettere, né dispe­rare). Sembra un discorso di Don Bosco, e risaliamo ai tempi di S. Gio­vanni Crisostomo: “nec deficere, nec desperare oportebat!” (Non bi­sognava né smettere, né disperare!).

La lezione IX ci porta dinnanzi un altro aspetto di ciò che è il magistero e il ministero di Don Bosco. Egli è il più grande maestro moderno della pedagogia cristiana. S. Giovanni Crisostomo parla della necessità dell'educazione dello spirito per il valore e per la sua abilità.

Contrappone i danni del calcolo, dell'avarizia in detrimento e non­curanza della scienza e della educazione. «Verum omnia pervertit et deiecit pecuniarum amor... idcirco et filiorum et nostram negligimus salutem” (In verità tutto ha pervertito e distrutto l'amore del denaro... per questo trascuriamo la salvezza dei figli e la nostra). Egli allora sorge ed ha quella magnifica espressione che dovrebbe essere insegnata in tutte le scuole normali: «Quid per illi arti, quae dirigendae animae et efformandae juvenis menti et indoli incubit? Qui tali instructus est facultate, plus diligentiae exhibeat oportet, quam quivis pictor aut statuarius” (Che cosa può stare a pari di quell'arte che si dedica a dirigere un'anima e a formare la mente e l'indole del giovane? Chi è ben istruito in questa abilità deve mostrare maggior diligenza di qualsiasi pittore o scultore). Il lavoro di educazione è più nobile dell'ufficio di pittore e di scultore.

Nella lezione VII ed VIII del quarto giorno dell'ottava si parla della carità e maniera con cui dobbiamo essere piccoli ed umili per fare del bene ai fanciulli. “Est quicumque susceperit unum parvulum talem in nomine meo me suscipit. Non solum enim, inquit, si tales fueritis, mercedem magnani recipietis, sed etiam si alios similes propter me onoraveritis, regnum vobis in mercedem tribuo” (Chiunque accoglierà un bambino in nome mio accoglie me. Infatti, non dice solo: se sarete tali riceverete una grande ricompensa, ma anche: se onorerete quelli simili a lui a causa mia, vi darò in premio il regno).

Pio XI, nel II notturno del IV e VIII giorno dell'ottava, con l'omelia della canonizzazione ha fatto il commento morale della figura di Don Bosco.

L'antifona del “Benedictus” ci dimostra la carità di Don Bosco per i fanciulli; ci ricorda le tre virtù che sono il perno sul quale si deve ba­sare il nostro sistema:

  1. MITEZZA: «Beati mites” (Beati i miti);

  2. INDULGENZA: “Beati misericordes” (Beati i misericordiosi);

  3. PURITÀ: “Beati mundo corde” (Beati i puri di cuore).

La MESSA è un vero capolavoro che ci fa comprendere la figura di Don Bosco. La Messa è tutta propria e contiene due concetti: 1) l'esal­tazione della grandezza di Don Bosco; 2) il carattere tipico della missio­ne di Don Bosco.

Mi spiego adducendo i vari testi.

Il preludio annunciatore di questa doppia concezione, voluto dallo stesso Pontefice, è l'esaltazione della Sapienza, della Prudenza, dell'im­mensità di cuore di Don Bosco. So benissimo che la parola “cor” del­la S. Scrittura significa il pensiero, e non il sentimento. Per il senti­mento gli ebrei pensavano ai reni. Ma noi latini prendiamo le parole come sono. “Dedit illi Deus sapientiam et prudentiam multam nimis et latitudinem cordis quasi arenam quae est in litore maris” (Dio gli ha dato prudenza e sapienza grande e un cuore ampio come la sabbia sulla spiaggia del mare).

È un concetto elevatissimo e vastissimo. Allora il nostro pensiero vede naturalmente il campo del suo lavoro: la gioventù. “Laudate pueri Do­minimi, laudate nomen Domini” (Lodate, fanciulli, il Signore; lodate il nome del Signore). Ecco l'accordo con il versetto.

L'epistola è il trattato più salesiano di S. Paolo che c'è nella lettera ai Filippesi (4,8). Se in altri momenti abbiamo altri testi, qui troviamo l'impronta, lo spirito, lo stile del salesiano.

Ci è proposta quella che è la contentezza amabile del dono della vita salesiana. Orestano ha scritto che Don Bosco ha santificato la gioia del vivere e S. Paolo dice: “Gaudete in Domino semper, iterum dico gaudete” (Rallegratevi sempre nel Signore, ve lo ripeto: rallegratevi). È salesiano il testo perché esprime amabilità, che è la fisionomia del sale­siano. È per questo tratto del carattere che il mondo ci ama, ci acco­sta. “Nihil solliciti estis: sed in omni oratione et obsecratione, cum gratiarum actione petitiones vestrae innotescant apud Deum” (Non angu­stiatevi di nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere suppliche e ringraziamenti). Così dev'essere l'abbandono completo nelle mani della Provvidenza.

Don Bosco visse di fiducia in Dio. Non aveva un soldo in tasca ed ha creato un mondo nel mondo. Don Bosco ci ha insegnato a fare non secondo i calcoli dell'economia politica, ma secondo i calcoli della pre­ghiera. Poi si tratta della pace serena che viene dalla fiducia in Dio: “Et pax Dei quae exuperat omnem sensum custodiat corda vestra et intelligentias vestra in corde Iesu” (E la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri nel cuore di Gesù).

Poi un'altra nota dell'attività salesiana è l'universalità, la modernità della comprensione del lavoro, la modernità di tutto ciò che noi dob­biamo abbracciare. Noi non respingiamo nessuna impresa, nessuna ini­ziativa ed in questo noi vogliamo essere all'avanguardia del progresso, come dice Don Bosco al giovane sacerdote Achille Ratti. E S. Paolo ci dice: «de coetero fratres quaecumque sunt vera, quaecumque pudica, quaecumque iusta, quaecumque sancta, quaecumque amabilis, quaecum­que bonae famae, si qua virtus si qua laus disciplinae, haec cogitate” (per il resto, fratelli, tutto ciò che è vero, puro, giusto, santo, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri).

Tutto ciò che c'è di buono, purché non sia cattivo, prendete tutto. Ecco come S. Paolo è salesiano. S. Paolo dice: “Tutto ciò che ho in­culcato, insegnato imitatelo”. Lo stile della salesianità è avere per maestro Don Bosco; fare come insegnò, fare come Don Bosco: dev'es­sere norma della salesianità. Ebbene, S. Paolo ci dice: “Quae didicistis et accepistis et audistis in me, haec agite” (Ciò che avete imparato, ri­cevuto e ascoltato da me, è quello che dovete fare).

Questo tratto è la pagina del Nuovo Testamento che ripete tutt'intero lo spirito della vita salesiana. Don Bosco era così e così dobbiamo essere noi.

La scelta dei passi nel graduale, alleluia e tratto sottolineano l'atti­vità, l'ampliezza della vita salesiana e l'opera di Dio nel suo sviluppo. Illustrano la fioritura salesiana. Le parole del tempo pasquale ci ricor­dano la fiducia in Dio, ricordando che tutto è opera di Dio. Così ripeteva Don Bosco, il quale tutto attendeva da Dio. Il 3 febbraio 1869, ai diret­tori congregati a Torino, diceva che nessuna congregazione ha avuto tanta parola di Dio come la nostra. Non si è fatto un passo senza l'or­dine di Dio. Don Bosco voleva che la storia dei suoi principi venisse sempre inculcata. “Filii qui nascentur et exurgent et narrabunt filiis suis ut ponant in Deo spem suam et non obliviscantur operam Dei et mandata eius exquirant” (I figli die nasceranno e verranno, lo racconteranno ai loro figli, perché ripongano la speranza di Dio e non dimentichino l'ope­ra di Dio e ricerchino le sue leggi).

Il graduale e versetto del tempo fuori di pasqua significano che tutto ciò che è Don Bosco, tutto ciò che egli ha fatto, fu ispirato da Dio. Al­tri ordini religiosi hanno avuto un miracolo, al più due, ma da noi non si è creato nulla che non sia stato ispirato da Dio. Le parole dette da Don Bosco nel primo sogno sono le stesse del graduale: “Intellectum tibi dabo et instruam te in via hac, qua gradieris: firmabo super te oculos meos. Laetamini in Domini et exultate iusti, et gloriamini omnes recti corde” (Ti darò intelligenza e ti istruirò nella via in cui camminerai: fisserò su di te i miei occhi. Rallegriamoci nel Signore, esultate o giusti e glorifichiamolo noi tutti retti di cuore). Davanti ad una rivelazione si­mile sentiamo la bellezza e la grandezza della nostra vita.

Le parole del Tratto del tempo di Settuagesima sono meravigliose. Sono un giochetto scritturale del nome di Don Bosco. Ci ricordano che la santità è come la sintesi, il principio vitale dell'espressione salesiana. È il bosco che fiorisce, che non può avere inverno. Noi ricordiamo il “bosco” nello stemma salesiano. “In lege Domini, fuit voluntas eius, et in lege eius meditabitur die ac nocte. Tamquam lignum quod plantatum est secus decursus aquarum: quod fructum suum dabit in tempore suo. Et folium eius non defluet et omnia quaecumque faciet semper prosperabuntur” (La sua volontà fu la legge del Signore e nei suoi precetti me­diterà giorno e notte. Come un albero piantato lungo un corso d'acqua che darà frutto a suo tempo. E le sue foglie non appassiranno mai ed avrà successo tutto ciò che farà).

Egli innaffia le radici della sua pianta colla giustizia e colla santità.

Don Bosco è fotografato nella liturgia: è tutta un'idea; le stimmate della sua fisionomia, il programma che dobbiamo seguire nella pratica e nello stile dell'azione... È tutto raffigurato. Questa nostra opera deve farsi piccola coi piccoli: sapersi abbassare per fare della carità. Così si è scelto il tratto di S. Matteo, il vangelo della bontà. Gesù dice chiaro:

Nisi conversi fueritis et efficiamini sicut parvuli, non intrabitis in re­gnum Caelorum” (Se non vi convertirete e non diventerete come bam­bini non entrerete nel regno dei cieli). L'impiccolirsi per fare del bene. Passiamo all'umiltà e alla virtù per andare in Cielo. Ma il Regno dei Cieli Gesù prima l'ha fondato in terra. “Quicumque ergo humiliaverit se sicut parvulus iste, hic est maior in regno Coelorum. Et qui susceperit unum parvulum talem in nomine meo me suscipit” (Chiunque si farà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei Cieli. E chi accoglie questo bambino in nome mio, accoglie me. Mt 18,15).

Pensiamo alla pedagogia delle missioni: un concetto che ho svilup­pato nel 1932. Tutto è basato su questo: farsi piccoli coi piccoli. L'esten­dere il regno di Dio è tutto basato sul sacrificio. Lo stile della nostra vita, l'indirizzo dei nostri programmi richiede la completa dedicazione di tutte le nostre facoltà. Il programma nostro è d'insegnare il timor di Dio. Ebbene, l'offertorio ce lo ricorda: “Venite filii, audite me: timorem Domini docebo vos” (Venite, figli, ascoltatemi: vi insegnerò il timore del Signore). Ecco il nostro scopo. Tutta l'opera di Don Bosco si riduce ad insegnare il timore di Dio alla gioventù, ossia come dice Don Bosco, a far dei buoni cristiani. Questo lavoro richiede sacrificio, generosità, disinteresse personale radicale, per ciò che riguarda noi (Col 3,17). Que­sto è lo spirito della secreta: Suscipe, Domine, oblationem, in gloriae tuae laudem vivere mereamur” (Accogli, Signore, l'offerta, affinché me­ritiamo di vivere nella lode della tua gloria). In ogni nostra opera dob­biamo tener presente la gloria di Dio. Questa parola della liturgia, la pre­ghiera della Chiesa, è ripetuta in Cielo dai beati, perché tutto ciò che fa la Chiesa è confermato in Cielo. La permeazione salesiana del mondo, come dice Orestano, che è riuscito a scoprire tanti aspetti della figura di Don Bosco, la filiale filiazione operata da Don Bosco è avvenuta per­ché Don Bosco è un uomo di fede.

Il Papa che ha voluto dare il preludio, volle dare la fine con il Com­munio: Contra spem in spem credidit ut fìeret pater multarum gentium secundum quod dictum est ei” (Credette sperando contro ogni speranza che sarebbe diventato padre di molte genti, secondo quanto gli era stato detto). Lo prende dall'epistola ai Romani, ma ricorda l'altare di Abramo. Credette, ebbe fiducia in Dio e, perché credette nella parola di Dio, è di­venuto padre spirituale di anime infinite.

Rendiamo grazie perciò al Signore per l'efficacia della propagazione di Don Bosco nel mondo; è la preghiera del Postcommunio: Corporis et sanguinis tui, Domine, mysterium satiati, concede quaesumus, ut in­tercedente Beato Ioanne confessore tuo in gratiarum semper actione maneamus” (Saziati col mistero del tuo corpo e del tuo sangue, Signore, concedici, ti preghiamo, per l'intercessione del beato Giovanni tuo testi­mone, rimaniamo sempre in stato di ringraziamento).

Ho lasciato da parte l'Oremus principale, che fu composto per pregare Iddio mediante l'intercessione di Don Bosco. Compendia ed innalza davanti a Dio, colla preghiera rogatoria, il nostro sentimento: ci dice chi è Don Bosco nella vita e nella storia della Chiesa. Chi è Don Bosco davanti a Dio, chi deve essere davanti a noi. Egli, coll'ausilio di Maria, ha creato istituzioni immense, è ricordato come infiammato di carità ed è chiamato “cercatore di anime”.

La preghiera è fatta specialmente per noi: “Ut eodem charitatis igne succensi, animus quaerere tibique soli servire valeamus...” (Affinché, ac­cesi dello stesso fuoco di carità, possiamo cercare le anime e servire solo te). Questa preghiera riporta al concetto da cui siamo partiti... È il pen­siero col quale io ho sempre unicamente parlato e con cui voglio termi­nare, augurando a voi ed alla Congregazione di servirlo in tutto. La Salesianità della vita condotta colPunione con Dio: è la via che conduce al cielo.

Et Deus pacis erit vobiscum” (E il Dio della pace sarà con voi). Desiderio ed augurio che spendiate tutta la vostra vita a seguire i “COSI” di Don Bosco.




2.8 Indice

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