European_2014_11_29_it.doc

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Formazione iniziale interculturale in Europa”

Incontro degli ispettori di Europa, Pisana, 28-30 novembre 2014


Ivo Coelho, SDB

Consigliere generale per la formazione


Il mio tema è la dimensione interculturale della formazione iniziale in Europa. Avevo già pronto una lista dei punti concreti da condividere con voi. Ma qualcuno ha detto che niente è più pratico di una bella teoria. Lasciatemi allora di offrirvi alcuni pensieri suggeriti da due esperienze che sto vivendo in questi giorni. Uno è più personale, se si vuole: stavo leggendo una tesi dottorale sulla nozione empirica di cultura in Lonergan, in preparazione della difesa che si terrà il 5 dicembre, un impegno che avevo preso prima di una chiamata improvvisa a Roma.1 L’altro è il Congresso Storico Internazionale che abbiamo appena concluso qui alla Pisana.


Essere educato significa avere una certa conoscenza di almeno un’altra cultura


La prima riflessione è sull’educazione e cultura. Nel suo libro The Crisis of Western Education, lo storico Christopher Dawson dice:


Fino a quando un uomo non acquista una certa conoscenza di un'altra cultura, non si può dire di essere educato, dal momento che tutta la sua mentalità è talmente condizionata dal suo ambiente sociale che non si rende conto dei limiti di questo ambiente.2


Quali sono le conseguenze di tale affermazione per la formazione salesiana, soprattutto dove si da una situazione piuttosto monoculturale? ‘Interculturalità’ ormai fa parte del bagaglio linguistico salesiano; ma che cosa intendiamo per essa? Cos'è che rende una casa di formazione interculturale? che cosa rende un processo di formazione interculturale? È sufficiente che ci siano studenti provenienti da diverse nazioni e culture? È sufficiente avere un’equipe multiculturale?


Non ‘Cultura’ ma ‘culture’


Dawson è una delle influenze fondamentali sul pensiero del teologo canadese Bernard Lonergan: grazie a Dawson, Lonergan ha fatto il passaggio da una nozione classicista a una nozione empirica della cultura. La nozione classicista della cultura è una concezione normativa e universale della cultura. C’è un’unica cultura per tutti i tempi. È cultura con la C maiuscola. È una questione di buon gusto, formazione superiore, carattere fine, conoscenza del latino e del greco, etc. La nozione empirica della cultura, invece, riconosce che ogni popolo, ogni nazione, ogni gruppo ha la propria cultura, con luci e tenebre.


Fino a poco tempo fa, la nozione classicista della cultura reggeva negli ambienti ecclesiastici. Una delle implicazioni di una tale nozione è che tutti gli altri popoli e culture erano considerati selvaggi. Questa nozione ha dominato anche il mondo salesiano? Probabilmente. Per uno che cresce in India, non si parla normalmente di cultura ma delle culture. Nei nostri documenti salesiani, invece, si parla facilmente di educazione e cultura, intendendo più o meno la stessa cosa. Certo, esiste anche la bellissima lettera di don Chavez sull’inculturazione del carisma salesiano (ACG 411), ma quella è forse un’eccezione, e di recente data (2011).


La congregazione è inevitabilmente coinvolta nei processi di inculturazione


Durante il Congresso Storico, la questione del nazionalismo è emerso diverse volte e in diversi interventi. Per me è stato piacevole costatare che i relatori sono riusciti parlare di questo fenomeno, nella storia salesiana, con grande schiettezza e franchezza. Sono abbastanza consapevole che i relatori erano tutti italiani, mentre io non lo sono. Credo comunque che il tema sia importante e d’interesse per il discorso dell’inculturazione e interculturalità. La domanda riguarda l’intreccio tra salesianità e italianità: si deve essere italiano per essere salesiano? Fino a che punto? La domanda, anche se non in forma esplicita, ha giocato un ruolo di non poco spessore nella storia della congregazione. Ecco due esempi:


Prof. Mario Belardinelli: La supposta ‘moderazione’ del fascismo a paragone dello statalismo esasperato del comunismo e poi del nazismo hanno consentito ad una corrente di studi di considerarlo un ‘totalitarismo imperfetto’, capace di organizzare le masse popolari italiane (e soprattutto i giovani), sottraendole al ribellismo e orientandole alla collaborazione nazionale. Ciò può conciliarsi con una versione del boschiano “educare a divenire buoni cittadini”, e convince molti salesiani a marciare in sintonia con il regime, sia accentuando l’autoritarismo nelle strutture di formazione sia favorendo nelle missioni estere l’insegnamento della cultura italiana “faro di civiltà”.3


Prof. Giorgio Rossi, SDB: Il fenomeno del ‘nazionalismo’ ha coinvolto anche i salesiani: non solo strumenti, ma anche attori, alle volte consapevolmente e alle volte inconsapevolmente. I salesiani si sono difesi sia dall’accusa di scarsa ‘italianità’ sia dall’accusa di essere ‘agenti’ della madrepatria.4


Non si tratta di dare colpa ai nostri predecessori. Non è neanche una questione di gettare via, nel nome di universalità e interculturalità, tutto ciò che è italiano. Solo che una congregazione internazionale e una chiesa universale non può non affrontare la questione dell’inculturazione della fede o di un carisma.


Interculturalità e formazione


Già dall'inizio, è importante notare che ci troviamo d'accordo sull'obiettivo. Inculturazione e interculturalità sono importanti per la congregazione di oggi. A Strasburgo Papa Francesco ha detto che l’unità non significa uniformità, e che ogni autentica unità vive della ricchezza dei suoi componenti. Ha parlato di Europa come una famiglia di popoli con responsabilità per gli altri popoli del mondo.


Il motto dell'Unione Europea è Unità nella diversità, ma l'unità non significa uniformità politica, economica, culturale, o di pensiero. In realtà ogni autentica unità vive della ricchezza delle diversità che la compongono: come una famiglia, che è tanto più unita quanto più ciascuno dei suoi componenti può essere fino in fondo sé stesso senza timore. In tal senso, ritengo che l'Europa sia una famiglia di popoli, i quali potranno sentire vicine le istituzioni dell'Unione se esse sapranno sapientemente coniugare l'ideale dell'unità cui si anela, alla diversità propria di ciascuno, valorizzando le singole tradizioni; prendendo coscienza della sua storia e delle sue radici; liberandosi dalle tante manipolazioni e dalle tante fobie. Mettere al centro la persona umana significa anzitutto lasciare che essa esprima liberamente il proprio volto e la propria creatività, sia a livello di singolo che di popolo.


Nel secondo luogo, dobbiamo ammettere che l'interculturalità è un argomento che deve essere approfondito. Permettetemi di offrire qui solo alcune indicazioni per mezzo di un inizio.


  1. È importante per i formatori di veramente essere educati, che, se vogliamo andare da Dawson, significa trovare un modo per acquisire la conoscenza di un'altra cultura, sia per l'esposizione sostenuta e la riflessione, o per studio. Siamo in grado di ricordare ancora una volta le parole di Dawson: "Fino a quando un uomo non acquista una certa conoscenza di un'altra cultura, non si può dire di essere educato, dal momento che tutta la sua mentalità è talmente condizionata dal suo ambiente sociale che non si rende conto dei limiti di questo ambiente." potremmo pensare qui la differenza tra un formatore che è educato in questo senso, e uno che non lo è.

  2. È importante come una congregazione, come continente, come regioni, per riflettere sul tema dell’inculturazione e interculturalità e sulle sue implicazioni pratiche per i processi di formazione.

  3. E 'importante che i formatori siano in grado di guardare costantemente a se stessi, piuttosto che solo ed esclusivamente sui formandi. "Come si può prendere cura della famiglia di Dio, se non si può prendere cura del proprio nucleo familiare?"


Formazione dei formatori, formazione del cuore


Mi fermo un po’ sul terzo punto.


Il formatore salesiano avrà una grande capacità di ascolto – ascolto non solo di quello che viene detto ma anche quello che non è detto, ai pensieri ma anche ai sentimenti. Sarà uno che si sforza di capire prima di giudicare; e di giudicare, quando necessario, con compassione.


Il formatore non sarà un illetterato nell’area dei sentimenti (emotionally illiterate). Avrà una conoscenza delle dinamiche dei sentimenti (feeling dynamics), e non solo perché abbia studiato le teorie, ma perché conosce i propri sentimenti, e ha fatto il proprio lavoro di auto-appropriazione dei sentimenti.


Il formatore avrà la capacità di coinvolgere i formandi nel proprio lavoro di formazione. Resisterà la tentazione di imporre o anche di suggerire linee di azione. Crederà nel metodo di partecipazione e sarà un uomo di dialogo, come dicono le nostre Costituzioni.5


Tutto questo è profondamente legato a nostro sistema di educazione, il Sistema Preventivo. Alla conclusione del Congresso Storico Internazionale, il prof. Giorgio Chiosso ha sottolineato il fatto che il Sistema Preventivo è “una pedagogia della libertà personale, affidata alla forza della relazione interpersonale, e garantita dalla valorizzazione della componente affettiva”; questo tipo di sistema è superiore “rispetto a una pedagogia dell’autorità e della separazione del ruolo magistrale da quello discepolare e affidata più a regole impersonali che al rapporto vivo.” Forse questo non è niente di nuovo, ma mi è piaciuto molto il commento che segue, dove il professore fa un contrasto tra un ‘educatore di razza’ e l’educatore normale: dove il primo “riesce a trasferire in modo originale nella realtà quotidiana” le enunciazioni di principio, il secondo “è tentato di superare la propria insicurezza mediante il ricorso a regole, norme, comportamenti più o meno standard.”6


A me sembra che si può tradurre il nostro trinomio ragione, religione, amorevolezza in termini di dialogo.


A questo punto qualcuno chiederà: perché tutta questa attenzione alla formazione dei formatori? Abbiamo sempre trovato formatori bravi tra i nostri confratelli, e sono stati confratelli senza una grande preparazione. E questo è vero: alcuni sono formatori nati. Ma penso che anche questi hanno bisogno di supervisione, dei propri accompagnatori. Spesso, problemi irrisolti dal passato emergono in età media. E poi, secondo i nostri documenti, e secondo i documenti della chiesa, anche recenti, i formatori vanno formati, non basta affidarsi ai formatori nati, a confratelli buoni e capaci.7 Secondo me, è venuto il momento nella congregazione di stabilire politiche su questo punto, politiche e tradizione di preparazione e formazione dei formatori. Questa formazione non dev’essere solo teorica, ma deve comprendere un buon Prakticum, deve puntare sulla formazione del cuore. In questo senso, si può leggere nel Progetto del Rettor Maggiore e del suo Consiglio 2014-20 al # 3.1.1.3: “Insistere con gli Ispettori che si formino i formatori prima di inviarli ad una comunità formatrice, mediante un anno o due di counselling e accompagnamento spirituale, insieme alla teoria e pratica del Sistema Preventivo.”


Processi di formazione interculturali devono essere costruite. Essi probabilmente emergeranno attraverso processi dialogici e partecipativi. Essi sicuramente richiederanno anche un buon dosaggio di studio e confronto. Ma sono sicuro che saranno grandemente aiutati da qualsiasi lavoro che il formatore fa su se stesso.


In conclusione: inculturazione e interculturalità ci chiedono:

  • Un passaggio da una nozione classicista della cultura ad una nozione empirica

  • Uno sforzo di educazione e formazione all’interculturalità, attraverso un confronto con almeno un’altra cultura

  • Un approfondimento del significato di ‘interculturalità’

  • Una formazione dei formatori, una formazione al rispetto, al dialogo, alla reciprocità.


Grazie.




1 Maria Arul Anthuvan Tharsis, “Lonergan’s Genetic and Dialectical View of Culture,” doctoral dissertation in the Faculty of Philosophy, UPS, Rome; to be defended 5 December 2014.

2 Dawson, The Crisis of Western Education (New York: Sheed and Ward, 1961) 113.

3 Mario Belardinelli, “I cambiamenti politici, sociali, culturali, economici, religiosi che hanno inciso sulla situazione dei giovani dalla fine dell’ottocento al secondo dopo guerra,” Congresso Storico Internazionale: Bicentenario della nascita di don Bosco, sul tema “Sviluppo del carismo di Don Bosco fino alla metà del secolo XX,” Roma, Salesianum, 19-23 novembre 2014, [46].

4 Giorgio Rossi, “La politica ‘culturale’ italiana all’estero e il modus operandi della Congregazione Salesiana nell’area medio-orientale,” [84].

5 C 104: “Sono scelti per tale compito uomini di fede in grado di comunicare vitalmente l’ideale salesiano, capaci di dialogo e con sufficiente esperienza pastorale.” C 112: “Abbia un grande senso dei contatti umani e capacità di dialogo.”

6 Giorgio Chiosso, “Problemi aperti e prospettive del Congresso.”


7 FSDB #262, vedi #284.