03 Novembre - Il cuore oratoriano di Don Bosco


03 Novembre - Il cuore oratoriano di Don Bosco

7 – “Da mihi animas”: il “cuore oratoriano” di Don Bosco





Ogni anno, l’otto dicembre, la Famiglia salesiana di Torino si raccoglie nella chiesa di san Francesco d’Assisi per recitare, dopo la celebrazione della messa, un’Ave Maria, in ricordo di quella che Don Bosco avrebbe pregato con Bartolomeo Garelli il giorno dell’Immacolata del 1841, prima di iniziare il suo primo catechismo. Ho usato il condizionale perché il nostro Padre, narrando il fatto nelle Memorie dell’Oratorio, non ci dice nulla dell’Ave Maria; racconta invece del segno di croce che Bartolomeo Garelli non sapeva fare e i contenuti di quel primo catechismo (significato del segno della croce; Dio creatore; fine per cui Egli ci ha creati). È don Lemoyne che accenna all’Ave Maria nel secondo volume delle Memorie biografiche, interpolando al testo di Don Bosco vari particolari e arricchendo il dialogo, probabilmente sulla scorta di notizie raccolte dalla viva voce del Santo1.

1 1. Efficacia rappresentativa dell’incontro con Bartolomeo Garelli

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Su questo aneddoto (e non solo sull’Ave Maria) gli storici salesiani discutono: c’è stato veramente un Bartolomeo Garelli? perché Don Bosco nei due resoconti stesi prima delle Memorie dell’Oratorio (1854 e 1861) non ne ha mai parlato? perché i fratelli Buzzetti hanno sempre affermato di essere stati i primi ragazzi accolti dal santo in san Francesco d’Assisi?...

Gli storici si interrogano. Noi li lasciamo fare. Ci preoccupiamo invece di prendere per buono e di dare importanza a quanto Don Bosco ci vuol dire col suo racconto. Infatti questo simpatico indugio narrativo2 è un indicatore lasciato dall’autore per dirci che qui, a suo giudizio, c’è qualcosa di più importante e significativo del fatto contingente; c’è quasi - se così si può dire - un evento “metastorico” che racchiude tutto un orizzonte di senso per noi salesiani, la specificità di una missione, di una spiritualità e di un metodo.

Innanzitutto va preso in considerazione il contesto esperienziale in cui si colloca l’incontro con Bartolomeo Garelli. Siamo al termine del primo mese di permanenza del giovane prete a Torino: le due pagine che precedono il racconto del fatto rivelano l’impatto, per lui sconvolgente con una realtà sociale - dunque pastorale-educativa - mai prima conosciuta, scoperta nei suoi risvolti più drammatici soprattutto nella frequentazione delle carceri accompagnando il suo maestro: «D. Caffasso, che era da sei anni mia guida, fu eziandio mio Direttore spirituale, e se ho fatto qualche cosa di bene lo debbo a questo degno ecclesiastico nelle cui mani riposi ogni mia deliberazione, ogni studio, ogni azione della mia vita. Per prima cosa egli prese a condurmi nelle carceri [interessante e curiosa direzione spirituale!], dove imparai tosto a conoscere quanto sia grande la malizia e la miseria degli uomini. Vedere turbe di giovanetti, sull’età dai 12 ai 18 anni; tutti sani, robusti, d’ingegno svegliato; ma vederli là inoperosi, rosicchiati dagli insetti, stentar di pane spirituale e temporale, fu cosa che mi fece inorridire ... Ma quale fu la mia meraviglia e sorpresa quando mi accorsi che molti di loro uscivano con fermo proposito di vita migliore, e intanto erano in breve ricondotti al luogo di punizione ... Mi accorsi che parecchi erano ricondotti a quel sito perché abbandonati a se stessi. Chi sa - diceva tra me - se questi giovanetti avessero fuori un amico, che si prendesse cura di loro, li assistesse e li istruisse nella religione nei giorni festivi ...

Comunicai questo pensiero a D. Caffasso, e col suo consiglio e co’ suoi lumi mi sono messo a studiar modo di effettuarlo abbandonandone il frutto alla grazia del Signore, senza cui sono vani tutti gli sforzi degli uomini»3.

In secondo luogo don Bosco sottolinea l’importanza del rapporto umano, e la sperimentata efficacia di una presenza comunicativa, cordiale, affettuosa, gioiosa, disponibile tra i ragazzi “vaganti per le vie della città”: «Appena entrato nel Convitto di s. Francesco, subito mi trovai una schiera di giovanetti che mi seguivano pei viali, per le piazze e nella stessa sacristia della chiesa dell’Istituto. Ma non poteva prendermi diretta cura di loro per mancanza di locale»4.

Dopo le esperienze limitate di quell’inverno egli constatò come il suo modo di agire fosse efficace: «Fu allora che io toccai con mano, che i giovanetti usciti dal luogo di punizione, se trovano una mano benevola, che di loro si prenda cura, li assista nei giorni festivi, studi di collocarli a lavorare presso di qualche onesto padrone, e andandoli qualche volta a visitare lungo la settimana, questi giovanetti si davano ad una vita onorata, dimenticavano il passato, divenivano buoni cristiani ed onesti cittadini»5.

Più in generale il nostro Santo ci riconduce ad una percezione pastorale che rivela un tipo di prete tutto polarizzato sulla missione, totalmente dedicato e consegnato al Signore per la salvezza del prossimo. Lo fa rappresentandoci «i tre modelli che la Divina Provvidenza mi porgeva»: il teologo Luigi Guala, fondatore del Convitto ecclesiastico, don Giuseppe Cafasso suo collaboratore e successore, e il teologo Felice Golzio. Di essi descrive sinteticamente le qualità interiori ed esterne, come il disinteresse, la scienza, la prudenza, il coraggio, una virtù che resiste a tutte le prove, una calma prodigiosa, l’accortezza, la vita modesta, il lavoro indefesso e l’umiltà: «le carceri, gli ospedali, i pulpiti, gli istituti di beneficenza, gli ammalati a domicilio; le città, i paesi e possiamo dire i palazzi dei grandi ed i tuguri dei poveri provarono i salutari effetti dello zelo di questi tre luminari del clero torinese». Ed aggiunge: «dipendeva solo da me seguirne le traccie, la dottrina, le virtù»6.

Non si tratta di un modello nuovo nella Chiesa, ma dell’ideale originario di pastore plasmato sul cuore e sull’esempio del Cristo, che uomini totalmente consegnati rivivono nei diversi momenti della storia con quelle accentuazioni o sfumature richieste dalle situazioni, dalle culture e dai tempi e quelle caratterizzazioni determinate dalle singole personalità e dai carismi specifici.

In particolare, poi, Don Bosco, rimarcando il contrasto tra i metodi rudi del chierico di sacrestia (che in qualche modo rappresenta la pastorale arcigna, autoritaria e statica prevalente) e il suo approccio affettuoso e mite, ci propone il “Sistema preventivo” come via privilegiata e vincente per accedere al cuore delle persone, conquistarlo, plasmarlo e orientarlo al Signore. Dunque un metodo che è pedagogico e pastorale insieme (anche se si potrebbe ritenere prevalentemente pastorale).

Con questo piccolo quadretto di vita don Bosco ci sta rappresentando una realtà molto articolata: il cuore stesso della sua missione e del suo stile, il segreto del suo metodo e del suo successo, un modo di leggere e di interpretare la realtà sociale ed educativa, e, soprattutto, una spiritualità pastorale che investe in primo luogo il rapporto con Dio, la coscienza di sé e della propria identità e, di conseguenza, la percezione della storia e delle persone e le scelte operative.

Tutto ciò ha come conseguenza la modificazione profonda della gestione di se stessi, del proprio tempo, degli interessi, dei rapporti umani, delle risorse e della stessa corporeità; poi dà un’impronta caratteristica alle iniziative e attività, al modo di fare catechesi, di celebrare, di incontrare e trattare le persone...

2 2. Il metodo dell’Oratorio è una tensione dello spirito

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La narrazione di quei primi mesi, nei quali il giovane prete intercala il tempo di studio e di lezione con piccole attività pastorali, mette già in evidenza gli elementi essenziali che costituiscono le caratteristiche di fondo del Don Bosco che conosciamo: «La festa era tutta consacrata ad assistere i miei giovanetti; lungo la settimana andava a visitarli in mezzo ai loro lavori nelle officine, nelle fabbriche. Tale cosa produceva grande consolazione ai giovanetti, che vedevano un amico prendersi cura di loro; faceva piacere ai padroni ... Ogni sabato mi recava nelle carceri colle saccoccie piene ora di tabacco, ora di frutti, ora di pagnottelle sempre all’oggetto di coltivare i giovanetti che avessero la disgrazia di essere colà condotti; assisterli, rendermeli amici, e così eccitarli di venire all’Oratorio quando avessero la buona ventura di uscire dal luogo di punizione»7.

Tuttavia ci sono altri documenti molto importanti, non di mano di Don Bosco, che rivelano come quella degli anni 1846-1850 non fosse soltanto una fase germinale dello sviluppo di uno spirito e di un metodo che troveranno solo più tardi una loro fioritura. Si tratta di frammenti, di testimonianze coeve (quasi cronache in diretta) rimaste allo stato nativo, non filtrate cioè dalla posteriore rilettura affettuosa e idealizzante dei discepoli. Sono impressioni e descrizioni che osservatori attenti e qualificati hanno lasciato sull’opera e sull’uomo, interpretandone lo spirito animatore. Emerge un ritratto fresco e commovente, che ci illustra con efficacia il modello apostolico di riferimento, le motivazioni interiori, le virtù e il metodo pastorale-educativo, le tecniche e le strategie del giovane Don Bosco.

Ne riprendo alcuni tratti salienti perché ci servano di nutrimento e di stimolo sia per una revisione di vita che per una proiezione di dono. Con la loro immediatezza suggestiva possono scuoterci ed aiutarci a vivere più intensamente il carisma salesiano nel presente.

I testimoni sono di varia estrazione. Innanzitutto il teologo Lorenzo Gastaldi che, sulle pagine del Conciliatore torinese del 7 aprile 1849, offre una descrizione seducente, efficace dell’Oratorio di Valdocco in un giorno festivo: «Un alvea­re intorno a cui s'aggiri ronzando uno sciame di api, mentre una gran parte di questo vi sta lavorando tranquillamente il miele, ti presenta una vera immagi­ne di quel sacro recinto ne' dì festivi. Per le vie, che vi conducono, tu in­contri ad ogni passo frotte di giovinetti, i quali cantarellando vi si portano con più allegrezza, che non andrebbero a un festino: dentro per ogni parte tu vedi fanciulli a trastullarsi divisi in piccole brigate, ed altri saltellare, altri giuocare alla palla, altri alle boccie, chi fare all'altalena, chi dei capitomboli, e chi la quercia: mentre nella chiesetta altri imparano il cate­chismo, altri si preparano a' sagramenti, e nelle attigue stanze ad altri s'insegna il leggere e lo scrivere, ad altri l'aritmetica e la calligrafia, ad altri il canto».8

Illustrazione romantica, se si vuole, ma espressiva, che acquista toni più profondi e diventa testimonianza commovente quando egli, domandandosi: «da chi e per qual fine siasi consacrato alle pratiche della religione quel luogo sì modesto», risponde: «un umile prete fornito di nessun’altra ricchezza che d’una immensa carità, già da più anni vi raccoglie ogni dì festivo da cinque a seicento giovinetti per ammaestrarli nelle virtù cristiane, e renderli a un tempo figliuoli di Dio e ottimi cittadini». Così, Lorenzo Gastaldi, che diverrà il duro censore di Don Bosco, delinea un abbozzo luminoso dei caratteri essenziali dell’Oratorio e delle virtù pastorali di colui che senza esitazioni è presentato come il «novello Filippo Neri».

Egli continua: «Consigliatosi col suo zelo, armatosi d'una pazienza a tutte prove, vestitosi di tutta la dolcezza e umiltà, che ben cono­sceva richiedersi all'alta sua impresa, diedesi a girare ne' dì festivi pei dintorni di Torino, e quanti vedesse crocchi di giovani intenti a' trastulli, avvicinarli, pregandoli che l'ammettessero a parte di loro giuochi, poscia do­po essersi affratellato alquanto con essi, invitarli a continuare il giuoco in un luogo che egli teneva ... assai più atto a sollazzarsi ... Egli è facile il pensare con quanti scherni sarà stato assai delle vol­te ricevuto il suo invito, e quante ripulse avrà dovuto soffrire: ma la sua costanza e la sua dolcezza a poco a poco trionfarono in un modo prodigioso: ed i fanciulli più riottosi, i giovanetti più scapestrati, vinti da tanta umiltà e da tanta mitezza di modi, si lasciarono condurre all'umile recinto». Con lui «varii sacerdoti vegliano quella turba composta di sì diversi elementi, agitata da sì disparate inclinazioni, adoperandosi a tutt’uomo per rivolgerne i pensieri, gli affetti, gli atti verso la religione».

Con stupore Gastaldi costata gli esiti prodigiosi di quest’azione pastorale: «la docilità con cui tutti quei giovani, un dì sì male avviati, or obbediscono ...; la gioia che loro sta dipinta sul volto; la divozione con cui assistono ai divini uffizi, si accostano ai Sacramenti, frequentano le istruzioni religiose ... e intervengono a’ spirituali esercizi». Ed esprime la sua immensa «meraviglia nel vedere l’affetto e la riconoscenza tenerissima che quei fanciulli nutrono in cuore verso il loro benefattore, il signor Don Bosco ... La sua parola ha una virtù prodigiosa sul cuore di quelle anime ancora tenere, per ammaestrarle, correggerle, piegarle al bene, educarle alla virtù, innamorarle anche della perfezione». Al punto che molti di loro, «assaporate le dolcezze della pietà, provato l’ineffabile piacere d’un’anima cavata dall’abisso della corruzione e sollevata ..., divennero altrettanti piccoli apostoli presso i loro compagni ...; e così di bocca in bocca divulgatasi la notizia del nuovo oratorio, fra breve vi accorse una turba sterminata di giovani».

Queste espressioni hanno un valore notevole. Precedono di trent’anni circa la ricostruzione che farà Don Bosco stesso nelle Memorie dell’Oratorio, non solo confermandone i dati, ma aggiungendo ciò che il nostro santo non poteva dire di sé e avvalorando quanto, con affetto, i discepoli avrebbero scritto dopo la morte di lui.

Tali suggestive descrizioni, formulate in quel tormentato 1849, sono rafforzate dalla testimonianza di altri osservatori. Qualche giorno prima (il 2 aprile) un anonimo articolista dell’intransigente Armonia lo descriveva come «uno zelante sacerdote ansioso del bene delle anime ... consacrato interamente al pietoso ufficio di strappare al vizio, all’ozio ed all’ignoranza quel gran numero di fanciulli ... [per distribuire] loro quella istruzione che sovra tutte le altre discipline è sola necessaria, l’istruzione religiosa; egli li accostuma a praticare i loro doveri, ad esercitare il vero culto di Dio, a convivere amichevolmente e socievolmente l’uno coll’altro. Accanto all’Oratorio si trovano scuole ..., vi è pure l’accennato recinto in cui i giovanetti ... si sollevano con giuochi innocui e con innumerevoli trastulli ... In mezzo ad essi trovasi ognora D. Bosco, il quale è costantemente ad essi maestro, compagno, esemplare ed amico».9

Lo stesso giornale, il 4 maggio successivo, in un articolo polemico contro i calunniatori del clero, presenta come controprova «l’egregio sacerdote D. Bosco, che animato dalla più perfetta carità dedicò tutto se stesso all’istruzione ed educazione dei poverelli ..., rinunziando ad ogni lusinghiera speranza della vita, tutto sacrificando per dare alla società migliori cittadini».10

Anche il gruppo dei pedagogisti torinesi, riunito attorno all’abate Aporti, si interessava attivamente al metodo dell’Oratorio di S. Francesco di Sales: titolo scelto «non a caso e non invano - come nota nei primi mesi del 1849, sul Giornale d’Istruzione e d’Educazione, il professor Casimiro Danna -. Perché più che il titolo, lo spirito di quell’apostolo ardente, trasfonde nel suo istituto quest’ottimo prete, il quale ha consacrato tutto se stesso ad alleggerire i dolori del popolo misero, nobilitandolo ne’ pensieri». Passa poi a descriverne attività e metodo: «Egli raccoglie ne’ giorni festivi, là in quel solitario recinto da 400 a 500 giovanetti sopra gli otto anni, per allontanarli dai pericoli e divagamenti, e istruirli nelle massime della morale cristiana. E ciò trattenendoli in piacevoli ed oneste ricreazioni, dopo che hanno assistito ai riti ed agli esercizi di religiosa pietà, lui pontefice e ministro, maestro e predicatore, padre e fratello ... L’esca con cui attrae quella numerosissima schiera oltre i premi di qualche pia immagine, oltre le lotterie, e talvolta qualche colazioncella, si è l’aspetto sempre sereno, e sempre vigile nel propagare in quelle anime giovanette la luce della verità e del vicendevole amore ... Quando egli sa o incontra alcuno più dalla squallidezza immiserito, non lo perde più d’occhio, lo conduce a sua casa, lo ristora, lo sveste de’ luridi, gl’indossa nuovi abiti, gli dà vitto mane e sera, finché trovatogli padrone e lavoro sa di procacciargli un onorato sostentamento per l’avvenire, e può accudirne con maggior sicurezza l’educazione della mente e del cuore».11

Infine voglio citare il parere di un funzionario governativo, l’economo generale Ottavio Moreno, il quale, nel dicembre 1849, segnala al ministro di grazia e giustizia «il distintissimo ed attivo zelo con cui il sacerdote Bosco Gioanni già da alcuni anni si adopera nell’istruire e nel raccogliere giovanetti o abbandonati o discoli».12 La stessa persona il 24 settembre 1851, nel presentare le domande di sussidio dei preti degli Oratori («zelantissimi sacerdoti, che con istraordinaria carità si occupano del ricovero, dell’istruzione e dell’educazione di povere fanciulle e di poveri ragazzi e giovanetti, che abbandonati per le vie e per le piazze, alla dissipazione, senza ritegno alcuno si gettano in ogni maniera di vizio e di turpitudini»), offrirà un ampio resoconto dell’azione «dell’attivo e nella sua carità impaziente D. Bosco»: «si slanciò in più vasto campo, e si pose alla testa di tre riunioni di giovanetti, collocandole sotto il vessillo della religione e chiamandole, come già S. Filippo Neri, Oratori ... Arriva la Domenica, od il giorno festivo: allora que’ giovani che egli collocò in una qualche bottega od officina tutti accorrono con brio ed impazienza all’Oratorio di S. Francesco di Sales, e là si stringono attorno all’amorevole D. Bosco, verso cui si mostrano pieno l’animo di riconoscenza, e di affetto ... Tutto è regolato dalla presenza, dal rispetto, e dall’amore che ispira il benefico sacerdote, che nella sua propria ristrettezza non esita a dare un pane a chi mostra d’averne bisogno, od anche un bicchiere di vino adacquato a chi tra l’agitazione dello trastullo prova la sete».13

Emergono dunque, nelle osservazioni di questi testimoni dei primordi, gli elementi sufficienti per comprendere come l’Oratorio di Don Bosco, prima che struttura, attività, formula o metodo, fosse atteggiamento interiore di consegna assoluta, un tratto di spiritualità, una consapevole percezione dell’urgenza pastorale ed educativa, una forma caritatis, dalla quale scaturivano zelo, pazienza, costanza, creatività, coraggio e ogni altra virtù e risorsa necessaria.

3 3. La passione pastorale

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L’Oratorio è il risultato del cuore pastorale di Don Bosco. Quel cuore formato ed allenato, sotto la direzione spirituale del Cafasso, a conformarsi al Cristo pastore, obbediente e consegnato al Padre, attivo, zelante e sacrificato: «Prendiamoci in mano questo Crocifisso - suggeriva ai giovani sacerdoti il Cafasso -, e poi fissandolo diciamo a noi stessi: Se io non faccio una cosa sola con questo Signore, se i miei pensieri, i miei affetti, le opere mie non sono come quelle di questo divin Redentore, devo disingannarmi, avrò il nome di sacerdote, ma disgiunto dal principio che mi deve animare, ... copia difforme, degenere dal mio tipo e dal mio modello».14 Ed è il Gesù della vita pubblica che veniva offerto come modello dal Cafasso, per le caratteristiche apostoliche di cui è maestro: «Il che vuol dire che l’uomo apostolico deve essere un uomo di preghiera, tutta bontà, e che in tutte le azioni non abbia altro di mira che l’onore e la gloria di Dio e la salute delle anime».15 Questo spirito conferisce al lavoro del pastore «un brio, un’anima, con modi e maniere» inconfondibili: «Dammi anime, o Signore, diciamo con quell’apostolo di carità, S. Francesco di Sales, dammi anime da salvare! - ripeteva il Cafasso ai suoi allievi -. Coraggio dunque, o cari, ogni giorno adoperiamoci per aiutare, per salvar qualche anima, per impedir qualche peccato».16

In questa tensione spirituale, tradotta in atteggiamenti e in azione pratica, troviamo il principio animatore dell’Oratorio. Don Bosco ne fece il programma della sua vita: «Da mihi animas, caetera tolle». Lo insegnò a Domenico Savio come strumento di perfezione spirituale («La prima cosa che gli venne consigliata per farsi santo fu di adoperarsi per guadagnare anime a Dio»17); lo additò ai membri della sua grande Famiglia: «Lo scopo di questa società - scrive intorno al 1859 in una delle prime stesure delle Costituzioni salesiane - è di riunire insieme i suoi membri ecclesiastici, chierici e anche laici, a fine di perfezionare se medesimi imitando le virtù del nostro Divin Salvatore, specialmente nella carità verso i giovani poveri»18.

È appunto quanto Don Michele Rua, cresciuto vicino a Don Bosco fin dall’estate 1845, ci ricorda con le parole rivolte a un salesiano mandato a fondare un oratorio in un quartiere difficile: «Colà non v’è nulla, neppure il terreno e il locale per radunare i giovani, ma l’Oratorio festivo è in te: se sei vero figlio di Don Bosco, troverai bene dove poterlo piantare e far crescere in albero magnifico e ricco di bei frutti».19

C’è un’espressione molto cara alla generazione sacerdotale alla quale apparteneva Don Bosco che ispirava ai grandi pastori santi della Riforma cattolica (Filippo Neri, Carlo Borromeo, Francesco Saverio e Francesco di Sales): «zelo per la salvezza delle anime». Zelo non significa solo impegno, darsi da fare: esprime un orientamento totalizzante, l’ansia e quasi il tormento di portare a salvezza ogni persona che organizza e polarizza le energie della persona, generando un movimento, uno slancio vitale, una volontà di contatto con tutti, a tutti i costi, con tutti i mezzi e le astuzie, una ricerca instancabile e affettuosissima degli ultimi e dei più abbandonati pastoralmente, una creatività inesauribile e feconda con duttilità psicologica, spirituale e pratica (operativa). San Giuseppe Cottolengo preferiva l’espressione paolina: «Caritas Christi urget nos

Inteso in questo senso, lo zelo pastorale può scaturire solo da una conversione assoluta, dal distacco pieno da sé e dall’amore appassionato verso Dio e il prossimo che plasma, dà forma e unifica la stessa personalità donandole affabilità, cordialità, dolcezza, capacità di cura personalizzata, di paternità tenera e di ardente amicizia; rendendole sopportabile il sacrificio, gioiosa la rinuncia, piacevole il lavoro. S. Francesco di Sales descrive la vita devota come uno slancio gioioso per cui si fanno tutte le cose con amore, con facilità, con fervore, bene e con frequenza, anche con gusto. Lo zelo pastorale di Don Bosco appartiene a questo movimento spirituale che ha in sé qualcosa di dolce e irruente insieme.

Il «da mihi animas, caetera tolle» vissuto dal cuore pastorale di don Bosco è innanzitutto una spiritualità. Infatti ciò in cui si esprime può scaturire soltanto dal superamento di sé nella “santa indifferenza” e dalla conformazione al Cristo obbediente fino alla croce. Un tale slancio del cuore e della vita, che è insieme esplicitazione del suscipe ignaziano e dell’amore di benevolenza salesiano nell’ «estasi della vita e delle opere», si nutre e si rafforza con un lungo, permanente lavoro di ascesi e di conversione verso una sempre più totale signoria di Dio sulla propria vita, in un abbracciare ogni giorno la croce del concreto quotidiano, e nel portarla pazientemente nella sequela del Cristo.

Per esprimere questo robusto modello di pastore, mi paiono efficaci le espressioni usate da Don Bosco in una lettera indirizzata il 25 ottobre 1878 a un par­roco scoraggiato di Forlì: «Non parli d'esentarsi dalla parrocchia. C'è da lavorare? Morrò nel campo del lavoro, sicut bonus miles Christi. Sono buono a poco? Omnia possum in eo qui me confortat. Ci sono spine? Con le spine cangiate in fiori gli angeli tesseranno per lei una corona in cielo. I tempi sono difficili? Furono sempre così, ma Dio non mancò mai del suo aiuto. Christus heri et hodie. Dimanda un consiglio? Eccolo: prenda cura speciale dei fanciulli, dei vecchi e degli ammalati, e diverrà padrone del cuore di tutti»20.

I tentennamenti e i timori derivanti dalla incorrispondenza o dall’ostilità degli uomini, dalla considerazione della propria inadeguatezza, dalla paura delle sofferenze e delle fatiche, dalla dissonanza con la cultura dominante vengono superati nel riferimento al Cristo Salvatore e Signore della storia e nella consapevolezza della potenza della sua grazia. Il prete zelante secondo Don Bosco è un pastore insieme battagliero e infiammato di carità creativa, un modello che mantiene tutta la sua potenza anche oggi, e che ci interpella seriamente.







1 G.B. Lemoyne, Memorie biografiche di don Giovanni Bosco, vol. II, S. Benigno Canavese 1901, p. 74: «Prima di incominciare il catechismo, recitò un’Ave Maria, perché la Madonna gli desse la grazia di poter salvare quell’anima».

2 Sul senso e l’importanza degli “indugi” nella narrativa cfr U. Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi. Harvard University, Norton Lectures 1992-1993, Milano 1994, pp. 61-90.

3 G. Bosco, Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855. Introduzione e note a cura di Antonio da Silva Ferreira, Roma 1992, II,742-764.

4Ivi, II,767-772.

5 Ivi, II,834-839.

6 Cfr ivi, II,711-740.

7 Ivi, II,896-906.

8 L. Gastaldi, L’Oratorio di S. Francesco di Sales in Torino, in «Il Conciliatore Torinese. Giornale religioso politico letterario», Sabato 7 aprile 1849, anno 2°, n. 41, s.p.

9L’Oratorio di S. Francesco di Sales, in «L’Armonia della Religione colla Civiltà», lunedì 2 aprile 1849, anno 2°, n. 40, pp. 158-159.

10 Rivoluzione e Clero. Oratorio di S. Francesco di Sales in Torino, in «L’Armonia della Religione colla Civiltà», Venerdì 4 maggio 1849, anno 2°, n. 53, p. 211.

11 C. Danna, Corrispondenza - Cronichetta, in «Giornale della Società d’Istruzione e d’Educazione» I (1849) I, pp. 459-460.

12 Ottavio Moreno al Ministro di Grazia e Giustizia (6 dicembre 1849), in AST Gran Cancelleria, mazzo 262.

13 Ottavio Moreno al Ministro di Grazia e Giustizia (24 settembre 1851), in AST Grande Cancelleria, mazzo 287/2.

14 G. Cafasso, Opere complete. III: Meditazioni per esercizi spirituali al clero, Torino 1925, p. 204.

15 Ivi, p. 242.

16 G. Cafasso, Opere complete. IV: Istruzioni per esercizi spirituali al clero, Torino 1925 p. 320.

17 G. Bosco, Vita del giovinetto Savio Domenico, in Opere e scritti editi e inediti di Don Bosco, IV, Torino 1942-1943, p. 26.

18 G. Bosco, Costituzioni della Società di S. Francesco di Sales [1858]-1875. Testi critici a cura di Francesco Motto, Roma 1982, p. 72.

19 Testimonianza riferita da P. Albera, Lettera edificante n. 1 (13 maggio 1913), Torino 1913, p. 15.

20 G. Bosco, Epistolario, a cura di Eugenio Ceria, vol. III, Torino 1959, p. 399.