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Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales
dal 1815 al 1855
Opera di importanza capitale, risalente ai primi anni settanta, per la comprensione della mentalità di
don Bosco e del suo progetto operativo globale; insieme è rievocazione, riflessione e proiezione nel
futuro. Edizione critica a cura di Antonio Da Silva Ferreira ISS, Fonti, Serie prima, 4. Roma – LAS
1991. Edizione divulgativa... Fonti, Serie prima, 5, LAS 1992.
1° quaderno
Memorie dell'Oratorio dal 1815 al 1835 - esclusivamente pei soci salesiani
Memorie per l'oratorio e per la congregazione salesiana
Dieci anni d'infanzia - Morte del genitore - Strettezze di famiglia - La madre vedova
Un sogno
Prima decade: 1825-1835
1° Primi trattenimenti coi fanciulli - Le prediche -Il saltimbanco - Le nidiate
2° Prima comunione - Predica della Missione - D. Calosso - Scuola di Murialdo
3° Lo studio e la zappa - Una cattiva ed una buona nuova - Morte di D. Calosso
4° D. Caffasso - Incertezze - Divisione fraterna - Scuola di Castelnuovo d'Asti – La
musica; il sarto
5° Scuole di Chieri - Bontà dei professori - Le prime quattro classi di grammatica
6° I compagni - Società dell'allegria - Doveri cristiani
7° Buoni compagni e pratiche di pietà
8° Umanità e Retorica - Luigi Comollo
9° Caffettiere e liquorista - Giorno onomastico - Una disgrazia
10° L'ebreo Giona
11° Giuochi - Prestigi - Magia - Discolpa
12° Corsa - Salto - Bacchetta magica - Punta dell'albero
13° Studio dei classici
14° Preparazione - Scelta dello stato
2° quaderno
Memorie dell'Oratorio dal 1835 al 1845 - esclusivamente pei soci salesiani
1° Vestizione chericale - Regolamento di vita
2° Partenza pel seminario
3° La vita del seminario
Divertimenti e ricreazione
4° Le vacanze
5° Festino di campagna - Il suono del violino - La caccia
Relazioni con Luigi Comollo
6° Un fatto del Comollo
7° Premio - Sacristia - Il T. Gioanni Borrelli
8° Studio
9° Sacre ordinazioni – Sacerdozio
10° Principii del sacro ministero - Discorso di Lavriano e Giovanni Brina
11° Convitto ecclesiastico di S. Francesco d'Assisi
12° La festa dell'Immacolata Concezione e il principio dell'Oratorio festivo
13° L'Oratorio nel 1842
14° Sacro ministero - Scelta di un impiego presso al Rifugio (settembre 1844)
15° Un nuovo sogno

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16° Trasferimento dell'Oratorio presso al Rifugio
3° quaderno
3.1
Memorie dell'Oratorio dal 1845 al 1855 - esclusivamente pei soci salesiani
17° L'Oratorio a S. Martino dei Molazzi - Difficoltà - La mano del Signore
18° L'Oratorio in S. Pietro in Vincoli - La serva del Cappellano - Una lettera – Un
tristo accidente
19° L'Oratorio in Casa Moretta
20° L'Oratorio in un prato - Passeggiata a Superga
21° 11 Marchese Cavour e sue minacce - Nuovi disturbi per l'Oratorio
22° Congedo dal Rifugio - Altra imputazione di pazzia
23° Trasferimento nell'attuale Oratorio di S. Francesco di Sales in Valdocco
Memorie dell'Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1846 al 1855
1° La nuova chiesa
2° Di nuovo Cavour - Ragioneria - Guardie civiche
3° Scuole domenicali - Scuole serali
4° Malattia - Guarigione - Dimora progettata per Valdocco
5° Stabile dimora all'Oratorio di Valdocco
6° Regolamento per gli Oratorii - Compagnia e festa di S. Luigi - Visita di
Monsignor Fransoni
3.2
7° Primordii dell'ospizio - Prima accettazione di giovanetti
3.3
Memorie storiche sull'Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1846 al 1855
8° Oratorio di S. Luigi - Casa Moretta - Terreno del Seminario
9° 1848 - Aumento degli artigiani e loro maniera di vita - Sermoncino della sera -
Concessioni dell'Arcivescovo - Esercizi spirituali
10° Progresso della musica - Processione alla Consolata - Premio dal Municipo e
dall'Opera di Mendicità - Il giovedì santo - Il Lavabo
11° Il 1849 - Chiusura dei seminari - Casa Pinardi - Obolo di S. Pietro; coroncine di
Pio IX - Oratorio dell'Angelo Custode - Visita dei Deputati
12° Feste nazionali
13° Un fatto particolare
14° Nuove difficoltà - Un conforto-L'Abate Rosmini e l'Arciprete Pietro De
Gaudenzi
15° Compra di casa Pinardi e di casa Bellezza - L'anno 1850
16° Chiesa di S. Francesco di Sales
17° Scoppio della polveriera - Fascio Gabriele - Benedizione della nuova Chiesa
18° Anno 1852
1853
Letture Cattoliche
1854
Attentati personali
Aggressione - Pioggia di bastonate
Il cane Grigio

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MEMORIE DELL'ORATORIO DAL 1815 AL 1835
ESCLUSIVAMENTE PEI SOCI SALESIANI
Memorie per l'oratorio e per la congregazione Salesiana
Più volte fui esortato di mandare agli scritti le memorie concernenti l'Oratorio di S.
Francesco di Sales, e sebbene non potessi rifiutarmi all’autorità di chi mi
consigliava, tuttavia non ho mai potuto risolvermi ad occuparmene specialmente
perché doveva troppo sovente parlare di me stesso. Ora si aggiunse il comando di
persona di somma autorità, cui non è permesso di porre indugio di sorta, perciò mi
fo qui ad esporre le cose minute confidenziali che possono servire di lume o tornar
di utilità a quella istituzione che la divina Provvidenza si degnò affidare alla Società
di S. Francesco di Sales. Debbo anzi tutto premettere che io scrivo pe' miei
carissimi figli Salesiani con proibizione di dare pubblicità a queste cose sia prima
sia dopo la mia morte.
A che dunque potrà servire questo lavoro? Servirà di norma a superare le difficoltà
future, prendendo lezione dal passato; servirà a far conoscere come Dio abbia egli
stesso guidato ogni cosa in ogni tempo; servirà ai miei figli di ameno trattenimento,
quando potranno leggere le cose cui prese parte il loro padre, e le leggeranno assai
più volentieri quando, chiamato da Dio a rendere conto delle mie azioni, non sarò
più tra loro.
Avvenendo d'incontrare fatti esposti forse con troppa compiacenza e forse con
apparenza di vanagloria, datemene compatimento. E’ un padre che gode di parlare
delle cose sue a' suoi amati figli, i quali godono pure nel sapere le piccole avventure
di chi li ha cotanto amati, e che nelle cose piccole e grandi si è sempre adoperato di
operare a loro vantaggio spirituale e temporale.
Io espongo queste memorie ripartite in decadi ossia in periodi di dieci anni, perché
in ogni tale spazio succedette un notabile e sensibile sviluppo della nostra
istituzione.
Quando poi, o figli miei, leggerete queste memorie dopo la mia morte; ricordatevi
che avete avuto un padre affezionato; il quale prima di abbandonare il mondo ha
lasciate queste memorie come pegno della paterna affezione; e ricordandovene
pregate Dio pel riposo eterno dell'anima mia.
Dieci anni d'infanzia - Morte del genitore - Strettezze di famiglia - La madre
vedova
Il giorno consacrato a Maria Assunta in Cielo fu quello della mia nascita l’anno 1815
in Murialdo Borgata di Castelnuovo d’Asti. Il nome di mia madre era Margherita
Occhiena di Capriglio, Francesco quello di mio padre. Erano contadini, che col
lavoro e colla parsimonia si guadagnavano onestamente il pane della vita. Il mio
buon padre quasi unicamente col suo sudore procacciava sostentamento alla nonna
settuagenaria, travagliata da vari acciacchi; a tre fanciulli, di cui maggiore era
Antonio, figlio del primo letto; il secondo Giuseppe, il più giovane Gioanni, che sono
io, più a due servitori di campagna.

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Io non toccava ancora i due anni, quando Dio misericordioso ci colpi con grave
sciagura. L’amato genitore, pieno di robustezza, sul fiore della età, animatissimo per
dare educazione cristiana alla figliuolanza, un giorno, venuto dal lavoro a casa tutto
molle di sudore incautamente andò nella sotterranea e fredda cantina. Per la
traspirazione soppressa[,] in sulla sera si manifesto una violenta febbre foriera di
non leggera costipazione. Tornò inutile ogni cura e fra pochi giorni si trovò
all'estremo di vita. Munito di tutti i conforti della religione raccomandando a mia
madre la confidenza in Dio, cessava di vivere nella buona età di anni 34, il 12
maggio 1817.
Non so che ne sia stato di me in quella luttuosa occorrenza; soltanto mi ricordo ed e
il primo fatto della vita di cui tengo memoria, che tutti uscivano dalla camera del
defunto, ed io ci voleva assolutamente rimanere. — Vieni, Giovanni, vieni meco,
ripeteva l'addolorata genitrice. — Se non viene papà, non ci voglio andare, risposi.
—Povero figlio, ripiglio mia madre, vieni meco, tu non hai più padre. — Ciò detto
ruppe in forte pianto, mi prese per mano e mi trasse altrove, mentre io piangeva
perché Ella piangeva. Giacché in quella età non poteva certamente comprendere
quanto grande infortunio fosse la perdita del padre.
Questo fatto mise tutta la famiglia nella costernazione. Erano cinque persone da
mantenere; i raccolti dell’annata, unica nostra risorsa, andarono falliti per una
terribile siccità; i commestibili giunsero a prezzi favolosi. Il frumento si pagò fino a
f. 25 l’emina; il gran turco o la meliga fr. 16. Parecchi testimoni contemporanei mi
assicurano, che i mendicanti chiedevano con premura un po’ di crusca da mettere
nella bollitura dei ceci o dei fagiuoli per farsene nutrimento. Si trovarono persone
morte ne’ prati colla bocca piena d’erba, con cui avevano tentato di acquetare la
rabbiosa fame.
Mia madre mi conto più volte, che diede alimento alla famiglia, finché ne ebbe; di
poi porse una somma di danaro ad un vicino, di nome Bernardo Cavallo, affinché
andasse in cerca di che nutrirsi. Quell’amico andò in vari mercati e non poté nulla
provvedere anche a prezzi esorbitanti. Giunse quegli dopo due giorni e giunse
aspettatissimo in sulla sera; ma all’annunzio che nulla aveva seco, se non danaro, il
terrore invase la mente di tutti; giacché in quel giorno avendo ognuno ricevuto
scarsissimo nutrimento, temevansi funeste conseguenze della fame in quella notte.
Mia madre senza sgomentarsi andò dai vicini per farsi imprestare qualche
commestibile e non trovò chi fosse in grado di venirle in aiuto. Mio marito, prese a
parlare, morendo dissemi di avere confidenza in Dio. Venite adunque,
inginocchiamoci e preghiamo. — Dopo breve preghiera si alzò e disse: — Nei casi
estremi si devono usare mezzi estremi. — Quindi coll’aiuto del nominato Cavallo
andò alla stalla, uccise un vitello e facendone cuocere una parte con tutta fretta
poté con quella sfamare la sfinita famiglia. Pei giorni seguenti si poté poi
provvedere con cereali, che, a carissimo prezzo, poterono farsi venire di lontani
paesi.
Ognuno può immaginare quanto abbia dovuto soffrire e faticare mia madre in quella
calamitosa annata. Ma con un lavoro indefesso, con una economia costante, con una
speculazione nelle cose più minute, e con qualche aiuto veramente provvidenziale si
poté passare quella crisi annonaria. Questi fatti mi furono più volte raccontati da
mia Madre e confermati dai vicini parenti ed amici.
Passata quella terribile penuria, e ritornate le cose domestiche in migliore stato,
venne fatta proposta di un convenientissimo collocamento a mia Madre; ma Ella
rispose tostamente: — Dio mi ha dato un marito e me lo ha tolto; morendo egli mi

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affido tre figli, ed io sarei madre crudele, se li abbandonassi nel momento in cui
hanno maggior bisogno di me.—Le fu replicato che i suoi figli sarebbero stati
affidati ad un buon tutore, che ne avrebbe avuto grande cura.—Il tutore, rispose la
generosa donna, è un amico, io sono la madre de’ miei figli; non li abbandonerò
giammai, quando anche mi si volesse dare tutto l'oro del mondo.
Sua massima cura fu di istruire i suoi figli nella religione, avviarli all’ubbidienza ed
occuparli in cose compatibili a quella età. Finché era piccolino mi insegnò Ella
stessa le preghiere; appena divenuto capace di associarmi co’ miei fratelli, mi
faceva mettere con loro ginocchioni mattino e sera e tutti insieme recitavamo le
preghiere in comune colla terza parte del Rosario. Mi ricordo che Ella stessa mi
preparò alla prima confessione, mi accompagnò in chiesa; cominciò a confessarsi
ella stessa, mi raccomandò, al confessore, dopo mi aiuto a fare il ringraziamento.
Ella continuo a prestarmi tale assistenza fino a tanto che mi giudicò capace di fare
degnamente da solo la confessione.
Intanto io era giunto al nono anno di età; mia madre desiderava di mandarmi a
scuola, ma era assai impacciato, per la distanza, giacché dal paese di Castelnuovo
eravi la distanza di cinque chilometri. Recarmi in collegio si opponeva il fratello
Antonio. Si prese un temperamento. Il tempo d’inverno frequentava la scuola del
vicino paesello di Capriglio, dove potei imparare gli elementi di lettura e scrittura. Il
mio maestro era un sacerdote di molta pietà a nome Giuseppe Delacqua, il quale mi
usò molti riguardi, occupandosi assai volentieri della mia istruzione e più ancora
della mia educazione cristiana. Nell'estate poi appagava mio fratello lavorando la
campagna.
Un sogno
A quell’età ho fatto un sogno, che mi rimase profondamente impresso nella mente
per tutta la vita. Nel sonno mi parve di essere vicino a casa in un cortile assai
spazioso, dove stava raccolta una moltitudine di fanciulli, che si trastullavano.
Alcuni ridevano, altri giuocavano, non pochi bestemmiavano. All’udire quelle
bestemmie mi sono subito lanciato in mezzo di loro adoperando pugni e parole per
farli tacere. In quel momento apparve un uomo venerando in virile età nobilmente
vestito. Un manto bianco gli copriva tutta la persona; ma la sua faccia era così
luminosa, che io non poteva rimirarlo. Egli mi chiamò per nome e mi ordinò di
pormi alla testa di que' fanciulli aggiugnendo queste parole: — Non colle percosse
ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici. Mettiti
adunque immediatamente a fare loro un'istruzione sulla bruttezza del peccato e
sulla preziosità della virtù.
Confuso e spaventato soggiunsi che io era un povero ed ignorante fanciullo
incapace di parlare di religione a que’ giovanetti. In quel momento que' ragazzi
cessando dalle risse, dagli schiamazzi e dalle bestemmie, si raccolsero tutti intorno
a colui, che parlava.
Quasi senza sapere che mi dicessi, — Chi siete voi, soggiunsi, che mi comandate
cosa impossibile? Appunto perché tali cose ti sembrano impossibili, devi renderle
possibili coll'ubbidienza e coll’acquisto della scienza. — Dove, con quali mezzi potrò
acquistare la scienza? — Io ti darò la maestra sotto alla cui disciplina puoi diventare
sapiente, e senza cui ogni sapienza diviene stoltezza.
— Ma chi siete voi, che parlate in questo modo?

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— Io sono il figlio di colei, che tua madre ti ammaestro di salutar tre volte al giorno.
— Mia madre mi dice di non associarmi con quelli che non conosco, senza suo
permesso; perciò ditemi il vostro nome.
— Il mio nome dimandalo a Mia Madre. In quel momento vidi accanto di lui una
donna di maestoso aspetto, vestita di un manto, che risplendeva da tutte parti,
come se ogni punto di quello fosse una fulgidissima stella. Scorgendomi ognor più
confuso nelle mie dimande e risposte, mi accenno di avvicinarmi a Lei, che presomi
con bontà per mano, e guarda, mi disse. Guardando mi accorsi che quei fanciulli
erano tutti fuggiti, ed in loro vece vidi una moltitudine di capretti, di cani, di gatti,
orsi e di parecchi altri animali. — Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare.
Renditi umile, forte, robusto; e ciò che in questo momento vedi succedere di questi
animali, tu dovrai farlo pei figli miei.
Volsi allora lo sguardo ed ecco invece di animali feroci apparvero altrettanti
mansueti agnelli, che tutti saltellando correvano attorno belando come per fare
festa a quell'uomo e a quella signora.
A quel punto, sempre nel sonno, mi misi a piangere, e pregai quello a voler parlare
in modo da capire, perciocché io non sapeva quale cosa si volesse significare.
Allora Ella mi pose la mano sul capo dicendomi: A suo tempo tutto comprenderai.
Ciò detto un rumore mi sveglio.
Io rimasi sbalordito. Sembravami di avere le mani che facessero male pei pugni che
aveva dato, che la faccia mi duolesse per gli schiaffi ricevuti; di poi quel
personaggio, quella donna, le cose dette e le cose udite mi occuparono talmente la
mente, che per quella notte non mi fu possibile prendere sonno.
Al mattino ho tosto con premura raccontato quel sogno prima a’ miei fratelli, che si
misero a ridere, poi a mia madre ed alla nonna. Ognuno dava al medesimo la sua
interpretazione. Il fratello Giuseppe diceva: Tu diventerai guardiano di capre, di
pecore o di altri animali. Mia madre: Chi sa che non abbi a diventar prete. Antonio
con secco accento: Forse sarai capo di briganti. Ma la nonna, che sapeva assai di
teologia, era del tutto inalfabeta, diede sentenza definitiva dicendo: Non bisogna
badare ai sogni.
Io era del parere di mia nonna, tuttavia non mi fu mai possibile di togliermi quel
sogno dalla mente. Le cose che esporrò in appresso daranno a ciò qualche
significato. Io ho sempre taciuto ogni cosa; i miei parenti non ne fecero caso. Ma
quando, nel 1858, andai a Roma per trattar col Papa della congregazione salesiana,
egli si fece minutamente raccontare tutte le cose che avessero anche solo
apparenza di soprannaturali. Raccontai allora per la prima volta il sogno fatto in età
di nove in dieci anni. Il Papa mi comandò di scriverlo nel suo senso letterale, minuto
e lasciarlo per incoraggiamento ai figli della congregazione, che formava lo scopo di
quella gita a Roma.
PRIMA DECADE: 1825-1835
Primi trattenimenti coi fanciulli - Le prediche - Il saltimbanco – Le
nidiate

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Voi mi avete più volte dimandato a quale età abbia cominciato ad occuparmi dei
fanciulli. All'età di 10 anni io facevo quello che era compatibile alla mia età e che
era una specie di Oratorio festivo. Ascoltate: Era ancora piccolino assai e studiava
già il carattere dei compagni miei. E fissando taluno in faccia per lo più ne scorgeva
i progetti che quello aveva in cuore. Per questo in mezzo a’ miei coetanei era molto
amato e molto temuto. Ognuno mi voleva per giudice o per amico. Dal mio canto
faceva del bene a chi poteva, ma del male a nissuno. I compagni poi mi amavano
assai, affinché in caso di rissa prendessi di loro difesa. Perciocché sebbene fossi più
piccolo di statura aveva forza e coraggio da incutere timore ai compagni di assai
maggiore età: a segno che nascendo brighe, quistioni, risse di qualunque genere, io
diveniva arbitro dei litiganti ed ognuno accettava di buon grado la sentenza che
fossi per proferire.
Ma ciò che li raccoglieva intorno a me, e li allettava fino alla follia, erano i racconti
che loro faceva. Gli esempi uditi nelle prediche o nei catechismi; la lettura dei Reali
di Francia, del Guerino Meschino, di Bertoldo, Bertoldino, mi somministravano
molta materia. Appena i miei compagni mi vedevano, correvano affollati per farsi
esporre qualche cosa da colui / che a stento cominciava capire quello che leggeva. A
costoro si aggiunsero parecchi adulti, e talvolta nell'andare o venire da
Castelnuovo; talora in un campo, in un prato io era circondato da centinaia di
persone accorse per ascoltare un povero fanciullo, che fuori di un po' di memoria,
era digiuno nella scienza, ma che tra loro compariva un gran dottore. Monoculus
rex in regno caecorum.
Nelle stagioni invernali poi tutti mi volevano nella stalla per farsi raccontare
qualche storiella. Colà raccoglievasi gente di ogni età e condizione, e tutti godevano
di poter passare la serata di cinque ed anche sei ore ascoltando immobili il lettore
dei Reali di Francia, che il povero oratore esponeva ritto sopra una panca, affinché
fosse da tutti udito e veduto. Siccome però dicevasi che venivano ad ascoltare la
predica, così prima e dopo i miei racconti facevamo tutti il segno della santa Croce
colla recita dell'Ave Maria. 1826.
Nella bella stagione, specialmente ne' giorni festivi si radunavano quelli del vicinato
e non pochi forestieri. Qui la cosa prendeva aspetto assai più serio. Io dava a tutti
un trattenimento con alcuni giuocarelli che io stesso aveva da altri imparato. Spesso
sui mercati e sulle fiere vi erano ciarlatani e saltimbanchi, che io andava a vedere.
Osservando attentamente ogni più piccola loro prodezza, me ne andava di poi a
casa e mi esercitava fino a tanto che avessi imparato a fare altrettanto.
Immaginatevi le scosse, gli urti, gli stramazzoni, i capitomboli cui ad ogni momento
andava soggetto. Pure lo credereste? Ad undici anni io faceva i giuochi dei
bussolotti, il salto mortale, la rondinella, camminava sulle mani, camminava, saltava
e danzava sulla corda, come un saltimbanco di professione. /
Da quello che si faceva un giorno festivo comprenderete quanto io faceva negli altri.
Ai Becchi avvi un prato, dove allora esistevano diverse piante, di cui tuttora sussiste
un pero martinello, che in quel tempo mi era di molto aiuto. A questo albero
attaccava una fune, che andava a rannodarsi ad un altro a qualche distanza; di poi
un tavolino colla bisaccia; indi un tappeto a terra per farvi sopra i salti. Quando
ogni cosa era preparata ed ognuno stava ansioso di ammirare novità, allora li
invitava tutti a recitare la terza parte del Rosario, dopo cui si cantava una lode
sacra. Finito questo montava sopra una sedia, faceva la predica, o meglio ripeteva
quanto mi ricordava della spiegazione del vangelo udita al mattino in chiesa; oppure
raccontava fatti od esempi uditi o letti in qualche libro. Terminata la predica si

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faceva breve preghiera, e tosto si dava principio ai trattenimenti. In quel momento
voi avreste veduto[,] come vi dissi, l’oratore divenire un ciarlatano di professione.
Fare la rondinella, il salto mortale, camminare sulle mani col corpo in alto; poi
cingermi la bisaccia, mangiare gli scudi per andarli a ripigliare sulla punta del naso
dell'uno o dell'altro; poi moltiplicare le palle, le uova, cangiare l'acqua in vino,
uccidere e fare in pezzi un pollo e poi farlo risuscitare e cantare meglio di prima,
erano gli ordinarii trattenimenti. Sulla corda poi camminava come per un sentiero;
saltava, danzava, mi appendeva ora per un piede, ora per due; talora con ambe le
mani, talora con una sola. Dopo alcune ore di questa ricreazione quando io era ben
stanco, cessava ogni trastullo, facevasi breve preghiera ed ognuno se ne andava pe'
fatti suoi.
Da queste radunanze erano esclusi tutti quelli che avessero bestemmiato, fatto
cattivi discorsi, o avessero rifiutato di prendere parte alle / pratiche religiose.
Qui voi mi farete una dimanda: Per andare alle fiere, ai mercati, ad assistere i
ciarlatani, provvedere quanto occorreva per quei divertimenti, erano necessarii
danari, e questi dove si prendevano? A questo io poteva provvedere in più modi.
Tutti i soldi che mia madre od altri mi davano per minuti piaceri o per ghiottoneria;
le piccole mancie, i regali, tutto era posto in serbo per questo bisogno. Di più io era
peritissimo ad uccellare colla trappola, colla gabbia, col vischio, coi lacci;
pratichissimo delle nidiate. Fatta raccolta sufficiente di questi oggetti io sapeva
venderli assai bene. I funghi, l'erba tintoria, il treppio erano eziandio per me
sorgente di danaro.
Voi qui mi dimanderete: E la madre mia era contenta che tenessi una vita cotanto
dissipata e spendessi il tempo a fare il ciarlatano? Vi dirò che mia madre mi voleva
molto bene; ed io le aveva confidenza illimitata, e senza il suo consenso non avrei
mosso un piede. Ella sapeva tutto, osservava tutto e mi lasciava fare. Anzi,
occorrendomi qualche cosa me la somministrava assai volentieri. Gli stessi miei
compagni e in generale tutti gli spettatori mi davano con piacere quanto mi fosse
stato necessario per procacciare loro quegli ambiti passatempi.
2° Prima comunione - Predica della Missione - D. Calosso -Scuola di
Murialdo
Io era all'età di anni undici quando fui ammesso alla prima comunione. Sapevo tutto
il piccolo catechismo, ma per lo più niuno era ammesso alla comunione se non ai
dodici anni. Io poi per la lontananza dalla chiesa, era sconosciuto al parroco, e
doveva quasi esclusivamente limitarmi alla istruzione religiosa della buona
genitrice. Desiderando pero di non lasciarmi andare più avanti nell'età senza farmi
praticare quel grande atto di nostra santa religione, si adopero Ella stessa a
prepararmi come meglio poteva e sapeva. Lungo la quaresima mi invio ogni giorno
al catechismo, di poi fui esaminato, promosso e si era fissato il giorno in cui tutti i
fanciulli dovevano fare pasqua.
In mezzo alla moltitudine era impossibile di evitare la dissipazione. Mia madre
studio di assistermi più giorni; mi aveva condotto tre volte a confessarmi lungo la
quaresima. Giovanni mio, disse ripetutamente, Dio ti prepara un gran dono; ma
procura prepararti bene, di confessarti, di non tacer alcuna cosa in confessione.
Confessa tutto, sii pentito di tutto, e prometti a Dio di farti più buono in avvenire.
Tutto promisi; se poi sia stato fedele, Dio lo sa. A casa mi faceva pregare, leggere
un buon libro, dandomi que' consigli che una madre industriosa sa trovare
opportuni pe' suoi figliuoli.

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Quel mattino non mi lascio parlare con nissuno, mi accompagnò alla sacra mensa e
fece meco la preparazione ed il ringraziamento, che il Vicario Foraneo, di nome
Sismondi, con molto zelo faceva a tutti con voce alta ed alternata. In quella giornata
non volle che mi occupassi in alcun lavoro materiale, ma tutta l'adoperassi a
leggere e a pregare. Fra le molte cose mia madre mi ripeté più volte queste parole:
O caro figlio, fu questo per te un gran giorno. Sono persuasa che Dio abbia
veramente preso possesso del tuo cuore. Ora promettigli di fare quanto puoi per
conservarti buono sino alla fine della vita. Per l'avvenire va sovente a comunicarti,
ma guardati bene dal fare dei sacrilegi. Di' sempre tutto in confessione; sii sempre
ubbidiente, va volentieri al catechismo ed alle prediche; ma per amor del Signore
fuggi come la peste coloro che fanno cattivi discorsi.
Ritenni e procurai di praticare gli avvisi della pia genitrice; e mi pare che da quel
giorno vi sia stato qualche miglioramento nella mia vita, specialmente nella
ubbidienza e nella sottomissione agli altri, al che provava prima grande ripugnanza,
volendo sempre fare i miei fanciulleschi riflessi a chi mi comandava o mi dava buoni
consigli.
Una cosa che mi dava grave pensiero era il difetto di una chiesa o cappella dove
andare a cantare, a pregare co' miei compagni. Per ascoltare una predica oppure un
catechismo, bisognava fare la via di circa dieci chilometri, tra andata e ritorno, o a
Castelnuovo o nel paese vicino di Buttigliera. Questo era il motivo per cui si veniva
volentieri ad ascoltare le prediche del saltimbanco.
In quell’anno (1826) una solenne missione che ebbe luogo nel paese di Buttigliera,
mi porse opportunità di ascoltare parecchie prediche. La rinomanza dei predicatori
traeva gente da tutte parti. Io pure ci andava con molti altri. Fatta una istruzione ed
una meditazione in sulla sera, lasciavansi liberi gli uditori di recarsi alle case loro.
Una di quelle sere di aprile, mi recava a casa in mezzo alla moltitudine, e tra noi
eravi un certo D. Calosso di Chieri, uomo assai pio, il quale sebbene curvo dagli
anni faceva quel lungo tratto di via per recarsi ad ascoltare i missionari. Desso era
cappellano di Murialdo. Il vedere un fanciullo di piccola statura, col capo scoperto,
capelli irti ed inanellati camminare in gran silenzio in mezzo agli altri trasse sopra
di me il suo sguardo e prese a parlarmi così:
— Figlio mio, donde vieni? sei forse andato anche tu alla missione?
— Si, signore, sono andato alla predica dei Missionari.
— Che cosa avrai tu mai potuto capire! Forse tua Mamma ti avrebbe fatta qualche
predica più opportuna, non è vero?
— E’ vero, mia Madre mi fa sovente delle buone prediche; ma vado anche assai
volentieri ad ascoltare quelle dei missionari e mi sembra di averle capite.
Se tu sai dirmi quattro parole delle prediche di quest’oggi io ti do quattro soldi.
Mi dica soltanto se desidera, che io le dica della prima o della seconda predica. 350
— Come più ti piace, purché tu mi dica quattro parole. Ti ricordi di che cosa si
tratto nella prima predica?

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— Nella prima predica si parlo della necessita di darsi a Dio per tempo e non
differire la conversione.
— E che cosa fu detto in quella predica? soggiunse il venerando vecchio alquanto
maravigliato.
— Me ne ricordo assai bene e se vuole gliela recito tutta.
E senza altro attendere cominciai ad esporre l’esordio, poi i tre punti, cioè che colui
il quale differisce la sua conversione corre gran pericolo che gli manchi il tempo, la
grazia o la volontà.
Egli mi lasciò continuare per oltre mezz’ora in mezzo alla moltitudine; di poi si fece
ad interrogarmi così?—Come è tuo nome, i tuoi parenti, hai fatto molte scuole?
— Il mio nome è Gioanni, mio Padre morì quando io era ancor bambino. Mia Madre
è vedova con cinque creature da mantenere. Ho imparato a leggere e un poco a
scrivere.
— Non hai studiato il donato o la gramatica?
— Non so che cosa siano.
— Ameresti di studiare?
— Assai, assai.
— Che cosa t'impedisce?
— Mio fratello Antonio.
— Perché Antonio non vuole lasciarti studiare?
— Perché non avendo egli voluto andare a scuola, dice che non vuole che altri perda
tempo a studiare come egli l'ha perduto, ma se io ci potessi andare, si che studierei
e non perderei tempo.
— Per qual motivo desidereresti studiare?
— Per abbracciare lo stato ecclesiastico.
— E per qual motivo vorresti abbracciare questo stato?
— Per avvicinarmi, parlare, istruire nella religione tanti miei compagni, che non
sono cattivi, ma diventano tali, perché niuno di loro ha cura.
Questo mio schietto e direi audace parlare fece grande impressione sopra quel
santo sacerdote, che mentre io parlava non mi tolse mai di dosso lo sguardo. Venuti
intanto ad un punto di strada, dove era mestieri separarci, mi lasciò con queste
parole: Sta di buon animo; io penserò a te e al tuo studio. Domenica vieni con tua
Madre a vedermi e conchiuderemo tutto.
La seguente domenica ci andai di fatto con mia Madre e si convenne, che egli stesso
mi avrebbe fatto scuola, una volta al giorno, impiegando il rimanente della giornata

2 Pages 11-20

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a lavorare in campagna per appagare il fratello Antonio. Questi si contentò
facilmente, perché ciò dovevasi cominciare dopo l'estate, quando i lavori campestri
non danno più gran pensiero.
Io mi sono tosto messo nelle mani di D. Calosso, che soltanto da alcuni mesi era
venuto a quella cappellania. Gli feci conoscere tutto me stesso. Ogni parola, ogni
pensiero, ogni azione eragli prontamente manifestata. Ciò gli piacque assai, perché
in simile guisa con fondamento potevami regolare nello spirituale e nel temporale.
Conobbi allora che voglia dire avere una guida stabile, di un fedele amico
dell’anima, di cui fino a quel tempo era stato privo. Fra le altre cose mi proibì tosto
una penitenza, che io era solito di fare, non adattata alla mia età e condizione.
M’incoraggì a frequentar la confessione e la comunione, e mi ammaestrò intorno al
modo di fare ogni giorno una breve meditazione o meglio un po’ di lettura
spirituale. Tutto il tempo che poteva nei giorni festivi lo passava presso di lui. Ne’
giorni feriali, per quanto poteva, andava servirgli la santa messa. Da quell’epoca ho
cominciato a gustare che cosa sia vita spirituale, giacché prima agiva piuttosto
materialmente e come macchina che fa una cosa, senza saperne la ragione.
Alla metà di settembre ho cominciato regolarmente lo studio della grammatica
italiana, che in breve ho potuto compiere e praticare con opportune composizioni. A
Natale ho dato mano al donato, a Pasqua diedi principio alle traduzioni dal latino in
italiano e vicendevolmente. In tutto quel tempo non ho mai cessato dai soliti
trattenimenti festivi nel prato, o nella stalla d’inverno. Ogni fatto, ogni detto e posso
dire ogni parola del maestro serviva a trattenere i miei uditori.
Io mi reputava felice di essere giunto al compimento de’ miei desiderii, quando
nuova tribolazione, anzi un grave infortunio tronco il filo delle mie speranze.
3° Lo studio e la zappa - Una cattiva ed una buona nuova - Morte di D.
Colosso
Fino a tanto che durò l’inverno e che i lavori contadineschi non richiedevano alcuna
premura il fratello Antonio mi dava tempo di applicarmi alle cose di scuola. Ma
venuta la primavera, cominciò a lagnarsi dicendo che esso doveva logorarsi la vita
in pesanti fatiche mentre io perdeva il tempo facendo il signorino. Dopo vive
discussioni con me e con mia madre, per conservare la pace in famiglia si
conchiuse, che io sarei andato al mattino per tempo a scuola e il rimanente del
giorno avrei impiegato in lavori materiali. Ma come studiare le lezioni? Come fare le
traduzioni?
Ascoltate: L’andata ed il ritorno di scuola porgevami un po’ di tempo a studiare.
Giunto poi a casa, prendeva la zappa da una mano, dall'altra la gramatica; e
durante la strada studiava Qui quae quod, qualora e messo etc. fino al luogo del
lavoro; colà, dando un compassionevole sguardo alla gramatica, mettevala in un
angolo e mi accingeva a zappare, a sarchiare o raccogliere erba cogli altri secondo
il bisogno.
L’ora poi in cui gli altri solevano fare merenda io mi ritirava in disparte, e con una
mano teneva la pagnottella mangiando, coll'altra teneva il libro studiando. La
medesima operazione faceva ritornando a casa. L’ora del desinare, della cena,
qualche furto al riposo era l’unico tempo che mi rimaneva pe' miei doveri in iscritto.

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Malgrado tanto lavoro e tanta buona volontà il fratello Antonio non era soddisfatto.
Un giorno con mia madre, di poi con mio fratello Giuseppe, in tono imperativo
disse: E abbastanza fatto. Voglio finirla con questa gramatica. Io sono venuto
grande e grosso e non ho mai veduto questi libri. Dominato in quel momento
dall'afflizione e dalla rabbia, risposi quello che non avrei dovuto.
Tu parli male, gli dissi: Non sai che il nostro asino e più grosso di te e non andò mai
a scuola? Vuoi tu divenire simile a lui? A quelle parole saltò sulle furie, e soltanto
colle gambe, che mi servivano assai bene, potei fuggire e scampare da una pioggia
di busse e di scappellotti.
Mia madre era afflittissima; io piangevo; il cappellano addolorato. Quel degno
ministro di Dio informato dei guai avvenuti in mia famiglia, mi chiamò un giorno e
mi disse: Gioanni mio, tu hai messo in me la tua confidenza, e non voglio che ciò sia
invano. Lascia adunque un fratello crudele e vieni con me ed avrai un padre
amoroso.
Comunicai tosto a mia madre quella caritatevole profferta, e fu una festa in
famiglia. Al mese di aprile cominciai a fare vita col cappellano, andando soltanto la
sera a casa per dormire.
Niuno può immaginare la grande mia contentezza. D. Calosso per me era divenuto
un idolo. L’amava più che padre, pregava per lui, lo serviva volentieri in tutte le
cose. Era poi sommo piacere di faticare per lui, e direi dare la vita in cosa di suo
gradimento. Io faceva tanto progresso in un giorno col cappellano, quanto non avrei
fatto a casa in una settimana. Quell’uomo di Dio mi portava tanta affezione che più
volte ebbe a dirmi: Non darti pena pel tuo avvenire; finché vivrò, non ti lascierò
mancare niente; se muoio ti provvederò parimenti.
Gli affari miei procedevano con indicibile prosperità: Io mi chiamava pienamente
felice, né cosa alcuna rimanevami a desiderare, quando un disastro troncò il corso a
tutte le mie speranze.
Un mattino di aprile 1828 D. Calosso mi inviò presso a' miei parenti per una
commissione; era appena giunto a casa allorché una persona correndo ansante mi
accenna di correre immediatamente da D. Calosso, colpito da grave malanno, e,
dimandava di me. Non corsi, ma volai accanto al mio benefattore, che fatalmente
trovai a letto senza parola. Era stato assalito da un colpo apopletico. Mi conobbe,
voleva parlare, ma non potéva più articolare parola. Mi diede la chiave del danaro,
facendo segno di non darla ad alcuno. Ma dopo due giorni di agonia il povero D.
Calosso mandava l’anima in seno al Creatore, con lui moriva ogni mia speranza. Ho
sempre pregato e finché avrò vita non mancherò di fare ogni mattina preghiere per
questo mio insigne benefattore.
Vennero gli eredi di D. Calosso, e loro consegnai chiave ed ogni altra cosa.
4° D. Caffasso - Incertezze - Divisione fraterna - Scuola di Castelnuovo
d'Asti- La musica; il sarto
In quell’anno la divina provvidenza mi fece incontrare un novello benefattore: D.
Caffasso Giuseppe di Castelnuovo d'Asti.

2.3 Page 13

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Era la seconda Domenica di ottobre (1827) e dagli abitanti di Murialdo si
festeggiava la Maternità di Maria SS., che era la Solennità principale fra quegli
abitanti. Ognuno era in faccende per le cose di casa, o di chiesa, mentre altri erano
spettatori o prendevano parte a giuochi o a trastulli diversi.
Un solo io vidi lungi da ogni spettacolo; ed era un chierico, piccolo nella persona,
occhi scintillanti, aria affabile, volto angelico. Egli era appoggiato alla porta della
Chiesa. Io ne fui come rapito dal suo sembiante, e sebbene io toccassi soltanto l’età
di dodici anni, tuttavia mosso dal desiderio di parlargli, mi avvicinai e gli indirizzai
queste parole: Signor abate, desiderate di vedere qualche spettacolo della nostra
festa? Io vi condurrò di buon grado ove desiderate.
Egli mi fe’ grazioso cenno di avvicinarmi, e prese ad interrogarmi sulla mia età,
sullo studio, se io era già stato promosso alla Santa Comunione, con che frequenza
andava a confessarmi, ove andava al Catechismo e simili. Io rimasi come incantato a
quelle edificanti maniere di parlare; risposi volentieri ad ogni domanda; di poi quasi
per ringraziarlo della sua affabilità, ripetei l’offerta di accompagnarlo a visitare
qualche spettacolo o qualche novità.
Mio caro amico, egli ripigliò, gli spettacoli dei preti sono le funzioni di Chiesa;
quanto più esse sono divotamente celebrate, tanto più grati ci riescono i nostri
spettacoli. Le nostre novità sono le pratiche della religione che sono sempre nuove
e percio da frequentarsi con assiduità; io attendo solo che si apra la Chiesa per
poter entrare.
Mi feci animo a continuare il discorso, e soggiunsi: È vero quanto mi dite; ma v’è
tempo per tutto; tempo di andare in Chiesa, e tempo per ricrearci.
Egli si pose a ridere, e conchiuse con queste memorande parole, che furono come il
programma delle azioni di tutta la sua vita: Colui che abbraccia lo Stato
Ecclesiastico si vende al Signore; e di quanto avvi nel mondo, nulla deve più stargli
a cuore se non quello che può tornare a maggior gloria di Dio e a vantaggio delle
anime.
Allora tutto maravigliato, volli sapere il nome di quel Chierico, le cui parole e il cui
contegno cotanto manifestavano lo Spirito del Signore. Seppi che egli era il chierico
Giuseppe Cafasso, studente del 1° anno di Teologia, di cui più volte aveva già udito
parlare come di uno specchio di virtù.
La morte di D. Calosso fu per me un disastro irreparabile. Io piangeva inconsolabile
il benefattore defunto. Se era sveglio pensava a lui, se dormiva sognava di lui, le
cose andarono tanto oltre, che mia madre, temendo di mia sanità, mandommi alcun
tempo con mio nonno in Capriglio.
A quel tempo feci altro sogno secondo il quale io era acremente biasimato perché
aveva riposta la mia speranza negli uomini e non nella bontà del Padre Celeste.
Intanto ero sempre accompagnato dal pensiero di progredire negli studi. Io vedeva
parecchi buoni preti che lavoravano nel sacro ministero, ma non poteva con loro
contrarre alcuna famigliarità.
Mi avvenne spesso di incontrare per via il mio prevosto col suo viceparroco. Li
salutava di lontano, più vicino faceva eziandio un inchino. Ma essi in modo grave e
cortese restituivano il saluto continuando il loro cammino. Più volte piangendo

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diceva tra me, ed anche con altri: Se io fossi prete, vorrei fare diversamente; vorrei
avvicinarmi ai fanciulli, vorrei dire loro delle buone parole, dare dei buoni consigli.
Quanto sarei felice, se potessi discorrere un poco col mio prevosto. Questo conforto
l'ebbi con D. Calosso; che nol possa più avere?
Mia madre scorgendomi tuttora afflitto per le difficoltà, che si frapponevano a’ miei
studi, e disperando di ottenere il consenso di Antonio, che già oltrepassava i
vent’anni, delibero di venire alla divisione dei beni paterni. Eravi grave difficoltà
perocché io e Giuseppe essendo minori di età, dovevansi compiere molte
incombenze, e sottostare a gravi spese. Nulla di meno si venne a quella
deliberazione. Così la nostra famiglia fu ridotta a mia madre, a mio fratello
Giuseppe, che volle vivere meco indiviso. Mia nonna era morta alcuni anni prima.
È vero che con quella divisione mi si toglieva un macigno dallo stomaco, e mi si
dava piena libertà di proseguire gli studi; ma per ottemperare alle formalità delle
leggi, ci vollero più mesi, ed io potei soltanto andare alle pubbliche scuole di
Castelnuovo circa al Natale di quell’anno 1828, quando correva l’anno decimoterzo
di mia età.
Gli studi fatti in privato, l'entrare in una scuola pubblica con maestro nuovo, furono
per me uno sconcerto; che dovetti quasi cominciare la gramatica italiana per farmi
poi strada alla latina. Per qualche tempo andava da casa ogni giorno a scuola in
paese, ma nel crudo inverno mi era quasi impossibile. Tra due andate e due ritorni
formavansi venti chilometri di cammino al giorno. Fui pertanto messo in pensione
con un onest’uomo di nome Roberto Gioanni di professione sarto, e buon dilettante
di canto gregoriano e di musica vocale. E poiché la voce mi favoriva alquanto mi
diedi con tutto cuore all’arte musicale e in pochi mesi potei montare sull'orchestra e
fare parti obbligate con buon successo. Di più desiderando di occupare la
ricreazione in qualche cosa, mi posi a cucire da sarto. In brevissimo tempo divenni
capace di fare i bottoni, gli orli, le cuciture semplici e doppie. Appresi pure a
tagliare le mutande, i corpetti, i calzoni, i farsetti; e mi pareva di essere divenuto un
valente capo sarto.
Il mio padrone mirandomi così progredire nel suo mestiere mi fece delle proposte
assai vantaggiose, affinché mi fermassi definitivamente con lui ad esercitarlo. Ma
diverse erano le mie vedute: desiderava di avanzarmi negli studi. Perciò mentre per
evitare l’ozio mi occupava di molte cose faceva ogni sforzo per raggiungere lo scopo
principale.
In quell’anno ho incorso qualche pericolo dalla parte di alcuni compagni. Volevano
condurmi a giuocare in tempo di scuola, e siccome io adduceva la ragione di non
aver danaro, mi suggerirono il modo di farmene rubando al mio padrone; oppure a
mia madre. Un compagno per animarmi a ciò diceva: Mio caro, è tempo di
svegliarti, bisogna imparare a vivere nel mondo. Chi tiene gli occhi bendati non
vede dove cammina. Orsù provvediti del danaro e godrai anche tu i piaceri de’ tuoi
compagni.
Mi ricordo che ho fatto questa risposta: Io non posso comprendere ciò che volete
dire; ma dalle vostre parole sembra che mi vogliate consigliare a giuocare, a
rubare. Ma tu non dici ogni giorno nelle preghiere, settimo non rubare? E poi chi
ruba è ladro e i ladri fanno trista fine. Altronde mia madre mi vuole molto bene, e se
le dimando danaro per cose lecite me lo da, senza suo permesso non ho mai fatto
niente, nemmeno voglio cominciare adesso a disubbidirla. Se i tuoi compagni fanno

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questo mestiere sono perversi. Se poi nol fanno e lo consigliano ad altri, sono
bricconi e scellerati.
Questo discorso andò dall’uno all’altro, e niuno più osò farmi di quelle indegne
proposte. Anzi questa risposta andò all’orecchio del professore, che di poi mi
divenne assai più affezionato; si seppe anche da molti parenti di giovanetti signori,
che perciò esortavano i loro figliuoli venissero meco. In questa guisa io potei con
facilità farmi una scelta di amici, che mi amavano, e mi ubbidivano come quelli di
Murialdo.
Le cose mie prendevano cosi ottima piega allorché novello incidente le venne a
disturbare. Il Sig. D. Virano, mio professore, fu nominato parroco di Mondonio
diocesi d’Asti. Laonde all’aprile di quell’anno 1830 l’amato nostro maestro andava
al possesso della sua parrocchia; ed era supplito da uno che, incapace di tenere la
disciplina, mando quasi al vento quanto nei precedenti mesi aveva imparato.
5° Scuole di Chieri - Bontà dei professori - Le prime quattro classi di
grammatica
Dopo la perdita di tanto tempo finalmente fu presa la risoluzione di recarmi a Chieri
ove applicarmi seriamente allo studio. Era l’anno 1830. Per chi e allevato tra boschi,
e appena ha veduto qualche paesello di provincia prova grande impressione di ogni
piccola novità. La mia pensione era in casa di una compatriotta, Lucia Matta,
vedova con un solo figlio, che si recava in quella città per assisterlo e vegliarlo.
La prima persona che conobbi fu il sacerdote D. Eustachio Valimberti di cara ed
onorata memoria. Egli mi diede molti buoni avvisi sul modo di tenermi lontano dai
pericoli; mi invitava a servirgli la messa, e ciò gli porgeva occasione di darmi
sempre qualche buon suggerimento. Egli stesso mi condusse dal prefetto delle
scuole, mi pose in conoscenza cogli altri miei professori. Siccome gli studi fatti fino
allora erano un po’ di tutto, che riuscivano quasi a niente, così fui consigliato a
mettermi nella sesta classe, che oggidì corrisponderebbe alla classe preparatoria
alla la Ginnasiale.
Il maestro di allora, T. Pugnetti, anch’esso di cara memoria, mi usò molta carità: Mi
accudiva nella scuola, mi invitava a casa sua e mosso a compassione dalla mia età e
dalla buona volontà nulla risparmiava di quanto poteva giovarmi.
Ma la mia età, e la mia corporatura mi faceva comparire come un alto pilastro in
mezzo ai piccoli compagni. Ansioso di togliermi da quella posizione, dopo due mesi
di sesta classe, avendone raggiunto il primo posto, venni ammesso all'esame e
promosso alla classe quinta. Entrai volentieri nella classe novella, perché i
condiscepoli erano più grandicelli, e poi aveva a professore la cara persona di D.
Valimberti. Passati altri due mesi essendo eziandio più volte riuscito il primo della
classe, fui per via eccezionale ammesso ad altro esame e quindi ammesso alla
quarta, che corrisponde alla 2a Ginnasiale.
In questa classe era professore Cima Giuseppe; uomo severo per la disciplina. Al
vedersi un allievo alto e grosso al par di lui, comparire in sua scuola a metà
dell'anno scherzando disse in piena scuola: Costui o che è una grossa talpa, o che è
un gran talento. Che ne dite? Tutto sbalordito da quella severa presenza: Qualche

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cosa di mezzo, risposi, e un povero giovane, che ha buona volontà di fare il suo
dovere e progredire negli studi.
Piacquero quelle parole, e con insolita affabilità soggiunse:
Se avete buona volontà, voi siete in buone mani, io non vi lascierò inoperoso. Fatevi
animo, e se incontrerete difficoltà, ditemele tosto ed io ve le appianerò.
Lo ringraziai di tutto cuore.
Era da due mesi in questa classe quando un piccolo incidente fece parlare alquanto
di me. Un giorno il professore spiegava la vita di Agesilao scritta da Cornelio
Nipote. In quel giorno non aveva meco il libro e per celare al maestro la mia
dimenticanza tenevami davanti il Donato aperto. Se ne accorsero i compagni. Uno
comincio, l’altro continuo a ridere a segno che la scuola era in disordine.
Che c’è, disse il precettore, che c’è, mi si dica sull’istante. E siccome l’occhio di
tutti stava rivolto verso me, egli mi comandò di fare la costruzione e ripetere la
stessa sua spiegazione. Mi alzai allora in piedi, e tenendo tuttora il Donato tra mano
ripetei a memoria il testo, la costruzione e la spiegazione. I compagni quasi
istintamente mandando voci di ammirazione batterono le mani. Non è a dire a quale
furia si lasciasse portare il professore; perché quella era la prima volta, che,
secondo lui, non poteva tener la disciplina. Mi diede uno scappellotto, che scansai
piegando il capo; poi tenendo la mano sul mio Donato si fece dai vicini esporre la
cagione di quel disordine. Dissero questi: Bosco ebbe sempre davanti a se il Donato,
ed ha letto e spiegato come se tra mano avesse avuto il libro di Cornelio.
Il professore prese di fatto il Donato, mi fece ancora continuare due periodi e poi mi
disse: Per la vostra felice memoria vi perdono la dimenticanza che avete fatto. Siete
fortunato, procurate soltanto di servirvene in bene.
Sul finire di quell'anno scolastico (1830-1831) fui con buoni voti promosso alla terza
gramatica ossia terza Ginnasiale.
6° I compagni - Società dell'allegria - Doveri cristiani
In queste prime quattro classi ho dovuto imparare a mio conto a trattare coi
compagni. Io aveva fatto tre categorie di compagni: Buoni, indifferenti, cattivi.
Questi ultimi evitarli assolutamente e sempre appena conosciuti; cogli indifferenti
trattenermi per cortesia e per bisogno; coi buoni contrarre famigliarità, quando se
ne incontrassero che fossero veramente tali. Siccome in questa città io non
conosceva alcuno, così io mi sono fatto una legge di famigliarizzare con nissuno.
Tuttavia ho dovuto lottare non poco con quelli, che io per bene non conosceva.
Taluni volevano guidarmi ad un teatrino, altri a fare una partita al giuoco,
quell’altro ad andare a nuoto. Taluno anche a rubacchiare frutta nei giardini o nella
campagna.
Un cotale fu così sfacciato, che mi consiglio a rubare alla mia padrona di casa un
oggetto di valore a fine di procacciarci dei confetti. Io mi sono liberato da questa
caterva di tristi col fuggire rigorosamente la loro compagnia, di mano in mano mi
veniva dato di poterli scoprire. Generalmente poi diceva a tutti per buona risposta
che mia madre avevami affidato alla mia padrona di casa, e che per l’amore che a

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quella io portava non voleva andare in nissun luogo, ne fare cosa alcuna senza il
consenso della medesima buona Lucia.
Questa mia ferma ubbidienza alla buona Lucia mi tornò anche utile temporalmente,
perciocché con gran piacere mi affidò il suo unico figlio (I)
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(1) Matta Gio. Batt.a di Castelnuovo d'Asti già molti anni sindaco di sua patria, ora
neg. in drogheria nel medesimo paese.
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di carattere molto vivace, amantissimo dei trastulli, pochissimo dello studio. Ella mi
incaricò eziandio di fargli la ripetizione sebbene fosse di classe superiore alla mia.
Io me ne occupai come di un fratello. Colle buone, con piccoli regali, con
trattenimenti domestici, e più conducendolo alle pratiche religiose me lo resi assai
docile, ubbidiente e studioso a segno che dopo sei mesi era divenuto abbastanza
buono e diligente da contentare il suo professore ed ottenere posti d’onore nella sua
classe. La madre ne fu lieta assai e per premio mi condonò intiera la mensile
pensione.
Siccome poi i compagni, che volevano tirarmi ai disordini, erano i più trascurati nei
doveri, così essi cominciarono a far ricorso a me, perché facessi la carità scolastica
prestando o dettando loro il tema di scuola. Spiacque tal cosa al professore, perché
quella falsa benevolenza, fomentava la loro pigrizia, e ne fui severamente proibito.
Allora mi appigliai ad una via meno rovinosa, vale a dire a spiegare le difficoltà, ed
anche aiutare quelli cui fosse mestieri. Con questo mezzo faceva piacere a tutti, e
mi preparava la benevolenza e l’affezione dei compagni. Cominciarono quelli a
venire per ricreazione, poi per ascoltare racconti, e per fare il tema scolastico e
finalmente venivano senza nemmeno cercarne il motivo come già quei di Murialdo e
di Castelnuovo. Per dare un nome a quelle riunioni solevamo chiamarle Società
dell’Allegria; nome che assai bene si conveniva, perciocche era obbligo stretto a
ciascuno di cercare que’ libri, introdurre que’ discorsi, e trastulli che avessero
potuto contribuire a stare allegri; pel contrario era proibito ogni cosa che
cagionasse malinconia specialmente le cose contrarie alla legge del Signore. Chi
pertanto avesse bestemmiato o nominato il nome di Dio invano, o fatto cattivi
discorsi era immediatamente allontanato dalla società. Trovatomi così alla testa di
una moltitudine di compagni di comune accordo fu posto per base:
1° Ogni membro della Società dell'Allegria deve evitare ogni discorso, ogni azione
che disdica ad un buon cristiano;
2° Esattezza nell’adempimento dei doveri scolastici e dei doveri religiosi. Queste
cose contribuirono a procacciarmi stima, e nel 1832 io era venerato da’ miei
colleghi come capitano di un piccolo esercito. Da tutte parti io era cercato per dare
trattenimenti, assistere allievi nelle case private ed anche per fare scuola o
ripetizione a domicilio. Con questo mezzo la divina provvidenza mi metteva in grado
di provvedermi quanto erami necessario per abiti, oggetti di scuola ed altro senza
cagionare alcun disturbo alla mia famiglia.
7° Buoni compagni e pratiche di pietà

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Fra coloro che componevano la Società dell’Allegria ne ho potuto rinvenire alcuni
veramente esemplari. Fra costoro meritano essere nominati Garigliano Guglielmo di
Poirino e Braje Paolo di Chieri. Essi partecipavano volentieri alla onesta ricreazione,
ma in modo che la prima cosa a compiersi fossero sempre i doveri di scuola.
Amavano ambidue la ritiratezza e la pietà, e mi davano costantemente buoni
consigli. Tutte le feste dopo la congregazione del collegio, andavamo alla chiesa di
S. Antonio dove i Gesuiti facevano uno stupendo catechismo, in cui raccontavansi
parecchi esempi che tuttora ricordo.
Lungo la settimana poi la Società dell’Allegria si raccoglieva in casa di uno de’ soci
per parlare di religione. A questa radunanza interveniva liberamente chi voleva.
Garigliano e Braje erano dei più puntuali. Ci trattenevamo alquanto in amena
ricreazione, in pie conferenze, letture religiose, in preghiere, nel darci buoni
consigli, e nel notarci quei difetti personali, che taluno avesse osservato, o ne
avesse da altri udito a parlare. Senza che per allora il sapessi mettevamo in pratica
quel sublime avviso: Beato chi ha un monitore. E quello di Pitagora: Se non avete un
amico che vi corregga i difetti, pagate un nemico che vi renda questo servizio.
Oltre a questi amichevoli trattenimenti andavamo ad ascoltare le prediche, spesso a
confessarci e a fare la santa comunione. Qui e bene che vi ricordi come di que’
tempi la religione faceva parte fondamentale dell’educazione. Un professore che
eziandio celiando avesse pronunziato una parola lubrica, o irreligiosa era
immediatamente dismesso dalla carica. Se facevasi così dei professori immaginatevi
quanta severità si usasse verso gli allievi indisciplinati o scandalosi! La mattina dei
giorni feriali s’ascoltava la santa messa; al principio della scuola si recitava
divotamente l’Actiones colI’Ave Maria. Dopo dicevasi l’Agimus coll’Ave Maria.
Ne’ giorni festivi poi gli allievi erano tutti raccolti nella chiesa della congregazione.
Mentre i giovani entravano si faceva lettura spirituale, cui seguiva il canto
dell’uffizio della Madonna; di poi la messa, quindi la spiegazione del Vangelo. La
sera catechismo, vespro, istruzione. Ciascuno doveva accostarsi ai santi sacramenti
e per impedire trascuratezza di questi importanti doveri, erano obbligati a portare
una volta al mese il biglietto di confessione. Chi non avesse adempito questo dovere
non era più ammesso agli esami della fine dell’anno, sebbene fosse dei migliori
nello studio. Questa severa disciplina produceva maravigliosi effetti. Si passavano
anche più anni senza che fosse udita una bestemmia o cattivo discorso. Gli allievi
erano docili e rispettosi tanto nel tempo di scuola, quanto nelle proprie famiglie. E
spesso avveniva che in classi numerosissime alla fine dell'anno erano tutti promossi
a classe superiore. Nella terza, Umanità e Retorica i miei condiscepoli furono
sempre tutti promossi.
La più fortunata mia avventura fu la scelta di un confessore stabile nella persona
del teologo Maloria canonico della collegiata di Chieri. Egli mi accolse sempre con
grande bontà ogni volta che andava da lui. Anzi mi incoraggiava a confessarmi e
comunicarmi colla maggior frequenza. Era cosa assai rara a trovare chi
incoraggiasse alla frequenza dei sacramenti. Non mi ricordo che alcuno de’ miei
maestri mi abbia tal cosa consigliata. Chi andava a confessarsi e a comunicarsi più
d’una volta al mese era giudicato dei più virtuosi; e molti confessori nol
permettevano. Io però mi credo debitore a questo mio confessore se non fui dai
compagni strascinato a certi disordini che gli inesperti giovanetti hanno purtroppo
a lamentare nei grandi collegi.
In questi due anni non ho mai dimenticato i miei amici di Morialdo. Mi tenni sempre
con loro in relazione e di quando in quando nel giovedì faceva loro qualche visita.

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Nelle ferie autunnali appena sapevano della mia venuta correvano ad incontrarmi a
molta distanza e facevano sempre una festa speciale. Fu pure tra essi introdotta la
Società dell’Allegria, cui venivano aggregati coloro che lungo l’anno si erano
segnalati nella morale condotta; e all’opposto si cancellavano dal catalogo quelli
che si fossero regolati male, specialmente se avessero bestemmiato o fatto cattivi
discorsi.
8° Umanità e Retorica - Luigi Comollo
Compiuti i primi corsi di Ginnasio, abbiamo avuto una visita del Magistrato della
Riforma nella persona dell’avvocato Prof. D. Giuseppe Gazzani, uomo di molto
merito. Egli mi usò molta benevolenza, ed io ho conservato gratitudine e buona
memoria di lui, a segno che fummo di poi sempre in istretta ed amichevole
relazione. Quell’onesto sacerdote vive tuttora in Moltedo Superiore presso di
Oneglia sua patria, e fra le molte opere di carita ha fondato un posto gratuito nel
nostro collegio di Alassio per un giovinetto, che desideri studiare per lo stato
ecclesiastico.
Quegli esami si diedero con molto rigore, tuttavia i miei condiscepoli in numero di
quarantacinque furono tutti promossi alla classe superiore, che corrisponde alla
nostra quarta Ginnasiale. Io ho corso un gran pericolo di essere rimandato per
avere dato copia del lavoro ad altri. Se fui promosso ne sono debitore alla
protezione del venerando mio professore P. Giusiana domenicano, che mi ottenne un
nuovo tema, il quale essendomi riuscito bene fui con pieni voti promosso.
Era allora lodevole consuetudine che in ogni corso almeno uno a titolo di premio
venisse dal municipio dispensato dal minervale di f. 12. Per ottenere questo favore
era mestieri riportare i pieni voti negli esami, e pieni voti nella morale condotta. Io
sono sempre stato favorito dalla sorte ed in ogni corso fui sempre dispensato da
quel pagamento.
In quell’anno ho perduto uno de’ miei più cari compagni. Il giovane Braje Paolo, mio
caro ed intimo amico, dopo lunga malattia, vero modello di pietà, di rassegnazione,
di viva fede, moriva il giorno anno andando così a raggiungere S. Luigi, di cui si
mostrò seguace fedele in tutta la vita. Tutto il collegio ne provò rincrescimento; i
suoi compagni intervennero in corpo alla sua sepoltura. E non pochi per molto
tempo solevano andare in giorno di vacanza a fare la S. Comunione, recitare
l’uffizio della Madonna, o la terza parte del Rosario per l’anima dell’amico defunto.
Dio però si degnò di compensare questa perdita con un altro compagno egualmente
virtuoso ma assai più celebre per le opere sue. Fu questi Luigi Comollo, di cui fra
breve dovrò parlare.
Terminava adunque l’anno di umanità e mi riuscì assai bene, a segno che i miei
professori, specialmente il Dottor Pietro Banaudi mi consigliarono di chiedere
l’esame per la filosofia, cui di fatto sono stato promosso; ma siccome amava lo
studio di lettere, ho giudicato bene di continuare regolarmente le classi e fare la
Retorica ossia quinta Ginnasiale l’anno 1833-4. Appunto in quell'anno cominciarono
le mie relazioni col Comollo. La vita di questo prezioso compagno fu scritta a parte
ed ognuno può leggerla a piacimento; qui noterò un fatto che me lo ha fatto
conoscere in mezzo agli umanisti.
Si diceva adunque tra retorici che in quell’anno ci doveva venire un allievo santo, e
si accennava essere quello il nipote del Prevosto di Cinzano, sacerdote attempato,

2.10 Page 20

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ma assai rinomato per santità di vita. Io desiderava di conoscerlo, ma ignorava il
nome. Un fatto me lo fece conoscere. Da quel tempo era già in uso il pericoloso
giuoco della cavallina in tempo d’ingresso nella scuola. I più dissipati e meno
amanti dello studio ne sono avidissimi e ordinariamente i più celebri.
Si mirava da alcuni giorni un modesto giovanetto sui quindici anni, che, giunto in
collegio, prendeva posto e senza badare agli schiamazzi altrui si metteva a leggere
o a studiare. Un compagno insolente gli va vicino, lo prende per un braccio,
pretende che egli pure vada a giuocare la cavallina.
— Non so, rispondeva l’altro tutto umile e mortificato. Non so, non ho mai fatto
questi giuochi.
— Io voglio che tu venga assolutamente, altrimenti ti fo venire a forza di calci e
schiaffi.
Puoi battermi a tuo talento, ma io non so, non posso, non voglio...
Il maleducato e cattivo condiscepolo il prese per un braccio, lo urtò e poi gli diede
due schiaffi che fecero eco in tutta la scuola. A quella vista io mi sentii bollire il
sangue nelle vene e attendeva che l’offeso ne facesse la dovuta vendetta; tanto più
che l’oltraggiato era di molto superiore all’altro in forze ed età. Ma quale non fu la
maraviglia, quando il buon giovanetto colla sua faccia rossa e quasi livida, dando un
compassionevole sguardo al maligno compagno dissegli soltanto: Se questo basta
per soddisfarti, vattene in pace, io ti ho già perdonato.
Quell’atto eroico ha destato in me il desiderio di saperne il nome, che era appunto
Luigi Comollo nipote del Prevosto di Cinzano, di cui si erano uditi tanti encomii. Da
quel tempo l’ebbi sempre per intimo amico e posso dire che da lui ho cominciato ad
imparare a vivere da cristiano. Ho messa piena confidenza in lui, egli in me; l’uno
aveva bisogno dell’altro. Io di aiuto spirituale, l'altro di aiuto corporale. Perciocché
il Comollo per la sua grande timidità non osava nemmeno tentare la difesa contro
agli insulti dei cattivi, mentre io da tutti i compagni, anche maggiori di età e di
statura, era temuto pel mio coraggio e per la mia forza gagliarda. Ciò aveva un
giorno fatto palese verso taluni che volevano disprezzare e percuotere il medesimo
Comollo ed un altro di nome Candelo Antonio modello di bonomia. Io volli
intervenire in loro favore, ma non si voleva badare. Vedendo un giorno quegli
innocenti maltrattati, guai a voi, dissi ad alta voce, guai a chi fa ancora oltraggio a
costoro.
Un numero notabile dei più alti e dei più sfacciati si misero in atteggiamento di
comune difesa e di minaccia contro di me stesso, mentre due sonore ceffate cadono
sulla faccia del Comollo. In quel momento io dimenticai me stesso ed eccitando in
me non la ragione, ma la mia forza brutale, non capilandomi tra mano ne sedia ne
bastone strinsi colle mani un condiscepolo alle spalle, e di lui mi valsi come di
bastone a percuotere gli avversari. Quattro caddero stramazzoni a terra gli altri
fuggirono gridando e dimandando pietà. Ma che? In quel momento entrò il
professore nella scuola, e mirando braccia e gambe sventolare in alto in mezzo ad
uno schiamazzo dell’altro mondo, si pose a gridare dando spalmate a destra e a
sinistra. Il temporale stava per cadere sopra di me, ma fattasi raccontare la cagione
di quel disordine, volle fosse rinnovata quella scena, o meglio sperimento di forza.
Rise il professore, risero tutti gli allievi ed ognuno facendo maraviglia, non si badò
più al castigo che mi era meritato.

3 Pages 21-30

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3.1 Page 21

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Ben altre lezioni mi dava il Comollo. Mio caro, dissemi appena potemmo parlare tra
noi, la tua forza mi spaventa, ma credimi, Dio non te la diede per massacrare i
compagni. Egli vuole che ci amiamo, ci perdoniamo, e che facciamo del bene a
quelli che ci fanno del male.
Io ammirai la carità del collega, e mettendomi affatto nelle sue mani, mi lasciava
guidare dove come egli voleva. D’accordo coll’amico Garigliano andavamo insieme a
confessarci, comunicarci, fare la meditazione, la lettura spirituale, la visita al SS.
Sacramento, a servire la S. Messa. Sapeva invitare con tanta bontà, dolcezza, e
cortesia, che era impossibile rifiutarsi a' suoi inviti.
Mi ricordo che un giorno chiaccherando con un compagno passai davanti ad una
chiesa senza scoprirmi il capo. L’altro mi disse tosto in modo assai garbato: Gioanni
mio, tu sei così attento a discorrere cogli uomini, che dimentichi perfino la casa del
Signore.
9° Caffettiere e liquorista - Giorno onomastico - Una disgrazia
Dato così un cenno sulle cose di scuola riferirò alcuni fatti particolari che possono
servire di amena ricreazione.
L’anno di umanità ho cangiato pensione sia per essere più vicino al mio professore,
D. Banaudi, sia anche per accondiscendere ad un amico di famiglia di nome Pianta
Gioanni, il quale andava in quell’anno ad aprire un caffè nella città di Chieri. Quella
pensione era certamente assai pericolosa, ma essendo con buoni cristiani, e
continuando le relazioni con esemplari compagni ho potuto andare avanti senza
danno morale. Ma oltre ai doveri scolastici rimanendomi molto tempo libero, io
soleva impiegarne una parte a leggere i classici italiani o latini, impiegava l’altra
parte a fare liquori e confetture. Alla metà di quell’anno io ero in grado di preparare
caffè, cioccolatte; conoscere le regole e le proporzioni per fare ogni genere di
confetti, di liquori, di gelati e rinfreschi. Il mio principale cominciò per darmi la
pensione gratuita, e considerando il vantaggio che avrei potuto recare al suo
negozio, mi fece vantaggiose profferte purché lasciando le altre occupazioni mi
fossi interamente dedicato a quel mestiere. Io però faceva quei lavori soltanto per
divertimento e ricreazione, ma la mia intenzione era di continuare gli studi.
Il professore Banaudi era un vero modello degli insegnanti. Senza mai infliggere
alcun castigo era riuscito a farsi temere ed amare da tutti i suoi allievi. Egli li
amava tutti quai figli, ed essi l’amavano qual tenero padre.
Per dargli un segno di affezione fu deliberato di fargli un regalo pel suo Giorno
Onomastico. A tale effetto ci siamo accordati di preparare composizioni poetiche,
[e] in prosa, e provvedere alcuni doni che noi giudicavamo tornargli di speciale
gradimento.
Quella festa riuscì splendida, il Maestro fu contento a più non dire, e per darci un
segno della sua soddisfazione ci condusse a fare un pranzo in campagna. La
giornata riuscì amenissima. Tra professore ed allievi eravi un cuor solo, ed ognuno
studiava modi per esprimere la gioia dell’animo. Prima di rientrare nella città di
Chieri il professore incontrò un forestiere con cui dovettesi accompagnare
lasciandoci soli per un breve tratto di via. In quel momento si avvicinarono alcuni

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compagni di classi superiori, che ci invitarono ad un bagno in sito detto La Fontana
Rossa distante circa un miglio da Chieri. Io con alcuni miei compagni ci siamo
opposti ma inutilmente. Parecchi vennero meco a casa, altri vollero andare a
nuotare. Trista deliberazione. Poche ore dopo il nostro arrivo a casa, giunge un
compagno, poi un altro spaventati ed ansanti correndo per dirci: Oh se sapeste mai,
se sapeste mai! Filippo N. quello che insistette tanto perché andassimo a nuotare, è
rimasto morto.
— Come, tutti dimandavano, egli era così famoso a nuotare!
— Che volete mai, continuo l’altro, per incoraggiarci a sommergerci nell’acqua,
confidando nella sua perizia, e non conoscendo i vortici della pericolosa Fontana
Rossa, si gettò pel primo. Noi aspettavamo che ritornasse a ga[l]la, ma fummo
delusi. Ci siamo messi a gridare, venne gente, si usarono molti mezzi e non fu senza
pericolo altrui che dopo un'ora e mezzo si riuscì a trarne fuori il cadavere.
Tale infortunio cagionò a tutti profonda tristezza; né per quell’anno né per l'anno
seguente (1834) non si è mai più udito a dire che alcuno abbia anche solo espresso
il pensiero di andare a nuoto. Qualche tempo fa accadde di trovarmi con alcuno di
quegli antichi amici, con cui ricordammo con vero dolore la disgrazia toccata
all’infelice compagno nel gorgo della Fontana Rossa.
10° L 'Ebreo Giona
L’anno di umanità, dimorando nel caffè dell’amico Gioanni Pianta contrassi
relazione con un giovanetto ebreo di nome Giona. Esso era sui diciotto anni, di
bellissimo aspetto; cantava con una voce rara fra le più belle.
Giuocava assai bene al bigliardo, ed essendoci già conosciuti presso al libraio Elia,
appena giungeva in bottega, dimandava tosto di me. [Io] gli portava grande affetto,
egli poi era folle per amicizia verso di me. Ogni momento libero egli veniva a
passarlo in mia camera; ci trattenevamo a cantare, a suonare il piano, a leggere,
ascoltando volentieri mille storielle, che gli andava raccontando. Un giorno gli
accadde un disordine con rissa, che poteva avere triste conseguenze, onde egli
corse da me per avere consiglio. Se tu, o caro Giona, fossi cristiano, gli dissi, vorrei
tosto condurti a confessarti; ma ciò non ti è possibile.
— Ma anche noi, se vogliamo, andiamo a confessarci.
— Andate a confessarvi, ma il vostro confessore non è tenuto al segreto, non ha
potere di rimettervi i peccati, né può amministrare alcun sacramento.
— Se mi vuoi condurre, io andrò a confessarmi da un prete.
— Io ti potrei condurre, ma ci vuole molta preparazione.
— Quale?
— Sappi che la confessione rimette i peccati commessi dopo il battesimo; perciò se
tu vuoi ricevere qualche sacramento bisogna che prima di ogni altra cosa tu riceva
il battesimo.

3.3 Page 23

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— Che cosa dovrei fare per ricevere il battesimo?
— Istruirti nella cristiana religione, credere in Gesù Cristo vero Dio e vero Uomo.
Fatto questo tu puoi ricevere il battesimo.
— Quale vantaggio mi darà poi il battesimo?
— Il battesimo ti scancella il peccato originale ed anche i peccati attuali, ti apre la
strada a ricevere tutti gli altri sacramenti, ti fa insomma figliuolo di Dio ed erede
del paradiso.
— Noi ebrei non possiamo salvarci?
— No, mio caro Giona, dopo la venuta di Gesù Cristo gli ebrei non possono più
salvarsi senza credere in Lui.
— Se mia madre viene a sapere che io voglio farmi cristiano, guai a me!
Non temere, Dio e padrone dei cuori, e se egli ti chiama a farti cristiano, farà in
modo che tua madre si contenterà, o provvederà in qualche modo per l’anima tua.
— Ma tu che mi vuoi tanto bene, se fossi al mio posto, che faresti?
— Comincierei ad istruirmi nella cristiana religione, intanto Dio aprirà la via a
quanto si dovrà fare in avvenire. A questo scopo prendi il piccolo catechismo, e
comincia a studiarlo. Prega Dio che ti illumini, e che ti faccia conoscere la verità.
Da quel giorno cominciò ad essere affezionato alla fede cristiana. Veniva al caffè, e
fatta appena una partita al bigliardo cercava tosto di me per discorrere di religione
e del catechismo. Nello spazio di pochi mesi apprese a fare il segno della s. croce, il
Pater, Ave Maria, Credo, ed altre verità principali della fede. Egli ne era
contentissimo, ed ogni giorno diventava migliore nel parlare, e nell’operare.
Egli aveva perduto il padre da fanciullo, la madre di nome Rachele aveva già inteso
qualche voce vaga, ma non sapeva ancora niente di positivo. La cosa si scoprì in
questo modo: Un giorno nel fargli il letto ella trovò il catechismo, che suo figlio
aveva inavvedutamente dimenticato tra il materasso ed il saccone. Si mise ella a
gridare per casa, porto il catechismo al Rabbino, e sospettando di quello, che era di
fatto, corse frettolosa dallo studente Bosco, di cui aveva più volte udito a parlare da
suo figlio medesimo. Immaginatevi il tipo della bruttezza ed avrete un’idea della
madre di Giona. Era cieca da un occhio, sorda da ambe le orecchie; naso grosso;
quasi senza denti, labbra esorbitanti, bocca torta, mento lungo ed acuto, voce simile
al grugnito di un poledro. Gli ebrei solevano chiamarla col nome di Maga Lili, col
quale nome sogliono esprimere la cosa più brutta di loro nazione. La sua comparsa
mi ha spaventato, e senza dar tempo a riavermi prese a parlare così: Affè che giuro,
voi avete torto; voi, si voi avete rovinato il mio Giona; l'avete disonorato in faccia al
pubblico, io non so che sarà di lui. Temo che finisca col farsi cristiano; e voi ne siete
la cagione.
Compresi allora chi era e di chi parlava, e con tutta calma risposi che ella doveva
essere contenta e ringraziare chi faceva del bene a suo figlio.
— Che bene è mai questo? Sarà un bene a far rinnegare la propria religione?

3.4 Page 24

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— Calmatevi, buona signora, le dissi, ed ascoltate: Io non ho cercato il vostro Giona,
ma ci siamo incontrati nella bottega del libraio Elia. Siamo divenuti amici senza
saperne la cagione. Egli porta molta affezione a me; io l’amo assai, e da vero amico
desidero che egli si salvi l'anima, e che possa conoscere quella religione fuori di cui
niuno può salvarsi. Notate bene, o Madre di Giona, che io ho dato un libro a vostro
figlio dicendogli soltanto d’istruirsi nella religione e se egli si facesse cristiano non
abbandona la religione ebraica, ma la perfeziona.
— Se per disgrazia egli si facesse cristiano egli dovrebbe abbandonare i nostri
profeti, perché i cristiani non credono ad Abramo, Isacco, Giacobbe, a Mosè né ai
profeti.
— Anzi noi crediamo a tutti i santi patriarchi e a tutti i profeti della Bibbia. I loro
scritti, i loro detti, le loro profezie formano il fondamento della fede cristiana.
— Se mai fosse qui il nostro Rabbino, egli saprebbe che rispondere. Io non so ne il
Misna ne il Gemara (sono le due parti del Talmud). Ma che ne sarà del mio povero
Giona?
Ciò detto se ne partì. Qui sarebbe lungo riferire gli attacchi fattimi più volte dalla
Madre, dal suo Rabbino, dai parenti di Giona. Non fu minaccia, violenza che non
siasi usata contro al coraggioso giovanetto. Egli tutto soffrì, e continuò ad istruirsi
nella fede. Siccome in famiglia non era più sicuro della vita, così dovettesi
allontanare da casa e vivere quasi mendicando. Molti però gli vennero in ajuto e
affinché ogni cosa procedesse colla dovuta prudenza, raccomandai il mio allievo ad
un dotto sacerdote, che si prese di lui cura paterna. Allora che fu a dovere istrutto
nella religione, mostrandosi impaziente di farsi cristiano, fu fatta una solennità, che
tornò di buon esempio a tutti i chieresi, e di eccitamento ad altri ebrei, di cui
parecchi abbracciarono più tardi il cristianesimo.
Il Padrino e la Madrina furono Carlo ed Ottavia coniugi Bertinetti, i quali provvidero
a quanto occorreva al Neofito, che divenuto cristiano, poté col suo lavoro
procacciarsi onestamente il pane della vita. Il nome del neofito fu Luigi.
11° Giuochi- Prestigi- Magia – Discolpa
In mezzo a’ miei studi e trattenimenti diversi, come sono canto, suono,
declamazione, teatrino, cui prendeva parte di tutto cuore, aveva eziandio imparati
vari altri giuochi. Carte, tarocchi, pallottole, piastrelle, stampelle, salti, corse, erano
tutti divertimenti di sommo gusto, in cui, se non era celebre, non era certamente
mediocre. Molti li aveva imparati a Murialdo, altri a Chieri, e se nei prati di
Murialdo era piccolo allievo, a quell’anno era divenuto un compatibile maestro. Ciò
cagionava molta maraviglia perché a quell’epoca tali giuochi essendo poco
conosciuti, parevano cose dell’altro mondo. Ma che diremo dei prestigi?
Soleva spesso dare pubblici e privati spettacoli. Siccome la memoria mi favoriva
assai, così sapeva a mente una gran parte dei classici specialmente poeti. Dante,
Petrarca, Tasso, Parini, Monti ed altri assai mi erano cosi famigliari da potermene
valere a piacimento come di roba mia. Per la qual cosa mi riusciva molto facile a
trattare all’improvviso qualunque argomento. In quei trattenimenti, in quegli
spettacoli talvolta cantava, talora suonava o componeva versi, che giudicavansi capi
d'opera, ma che in realtà non erano altro, che brani di autori accomodati agli

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argomenti proposti. Per questo motivo non ho mai date le mie composizioni ad altri;
e taluna che fu scritta ho procurato di consegnarla alle fiamme.
Cresceva poi la maraviglia ne’ giuochi di prestigiatore. Il vedere uscire da un
piccolo bossolotto mille palle tutte più grosse di lui; da un piccolo taschetto tirar
fuori mille uova, erano cose che facevano trasecolare. Quando poi vedevanmi
raccogliere palloni dalla punta del naso degli astanti; indovinare i danari della
saccoccia altrui; quando col semplice tatto delle dita si riducevano in polvere
monete di qualsiasi metallo; o si faceva comparire l'udienza intera di orribile
aspetto ed anche senza teste; allora si cominciò da taluno a dubitare, che io fossi un
mago, e che non potessi operare quelle cose senza l'intervento di qualche diavolo.
Accresceva credenza il mio padrone di casa di nome Tommaso Cumino. Era questi
un fervoroso cristiano, che amava molto lo scherzo, ed io sapeva approfittarmi del
suo carattere e direi dabbenaggine per fargliene di tutti i colori. Un giorno con
grande cura aveva preparata una gelatina con un pollo per regalare a’ suoi
pensionari nel giorno suo onomastico. Portò a tavola il piatto, ma scopertolo, ne
saltò fuori un gallo che svolazzando cantarellava in mille guise. Altra volta apprestò
una pentola di maccheroni, e dopo averli fatti cuocere assai lungo tempo, nell’atto
di versarli nel piatto trovo altrettanta crusca asciuttissima. Più volte empieva la
bottiglia di vino e volendolo versare nel bicchiere, trovava limpida acqua. Volendo
poi bere acqua, trovavasi invece il bicchiere pieno di vino. Le confetture cangiate in
fette di pane; il danaro della borsa trasmutato in inutili e rugginosi pezzetti di latta;
il cappello cangiato in cuffia; noci e nocciuole cangiate in sacchetti di minuta ghiaia
erano cose assai frequenti.
Il buon Tommaso non sapeva più che dire. Gli uomini, diceva tra se, non possono
fare queste cose; Dio non perde tempo in queste inutilità; dunque è il demonio che
fa tutto questo. Non osando parlarne con quei di casa, si consigliò con un vicino
sacerdote, D. Bertinetti. Scorgendo esso pure magia bianca in quelle opere, in que’
trastulli, decise di riferire la cosa al delegato delle scuole, che era in quel tempo un
rispettabile ecclesiastico, il can.co Burzio, arciprete e curato del duomo.
Era questi persona assai istrutta, pia e prudente; e senza fare ad altri parola mi
chiese ad audiendum verbum. Giunsi a casa sua in momento che recitava il
breviario e guardandomi con un sorriso mi accennò di attendere alquanto. In fine
mi disse di seguirlo in un gabinetto e la con parole cortesi, ma con severo aspetto
cominciò ad interrogarmi così: Mio caro, io sono molto contento del tuo studio e
della condotta che hai tenuto finora; ma ora si raccontano tante cose di te... Mi
dicono che tu conosci i pensieri degli altri, indovini il danaro che altri ha in
saccoccia; fai vedere bianco quello che è nero. Conosci le cose da lontano e simili.
Ciò fa parlare assai di te e taluno giunse a sospettare che tu ti servi della magia e
che perciò in quelle opere vi sia lo spirito di Satana. Dimmi adunque: chi ti
ammaestrò in questa scienza, dove l’hai imparata? Dimmi ogni cosa in modo
confidenziale; ti assicuro che non me ne servirò, se non per farti del bene.
Senza scompormi di aspetto chiesigli cinque minuti di tempo a rispondere e l’invitai
a dirmi l’ora precisa. Mette egli la mano in tasca e più non trovo il suo orologio. Se
non ha l’orologio, soggiunsi, mi dia una moneta da cinque soldi. Frugò egli in ogni
saccoccia, ma non trovo più la sua borsa.
Briccone, prese a dirmi tutto incollerito: O che tu sei servo del demonio, o che il
demonio serve a te. Tu mi hai già involato borsa ed orologio. Io non posso più
tacere, sono obbligato a denunziarti e non so come mi tenga dal non farti un fracco

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di bastonate! Ma nel rimirarmi calmo e sorridente parve acquetarsi alquanto e
ripigliò: Prendiamo le cose in modo pacifico: spiegami questi misteri. Come fu
possibile, che la mia borsa e il mio orologio uscissero dalle mie saccoccie senza che
io me ne sia accorto? dove sono andati questi oggetti?
Signor arciprete, presi a dirgli rispettosamente: io spiego tutto in poche parole. È
tutto destrezza di mano, intelligenza presa, o cosa preparata.
—Che intelligenza vi poté essere pel mio orologio e per la mia borsa?
—Spiego tutto in breve: Quando giunsi in casa sua Ella dava limosina ad un
bisognoso, di poi mise la borsa sopra uno inginocchiatoio. Andando poi di questa in
altra camera lasciò l’orologio sopra questo tavolino. Io nascosi l'uno e l'altro, ed Ella
pensava di avere quegli oggetti con sé, mentre erano invece sotto a questo
paralume.
Ciò dicendo alzai il paralume e si trovarono ambidue gli oggetti creduti dal demonio
portati altrove.
Rise non poco il buon canonico; mi fece dar saggio di alcuni atti di destrezza, e
come poté conoscere il modo con cui le cose facevansi comparire e disparire, ne fu
molto allegro, mi fece un piccolo regalo, e in fine conchiuse: Va a dire a tutti i tuoi
amici che ignorantia est magistra admirationis.
12° Corsa - Salto - Bacchetta magica - Punta dell'albero
Discolpatomi che ne’ miei divertimenti non vi era la magia bianca mi sono di nuovo
messo a radunare compagni e trattenerli e ricrearli come prima. In quel tempo
avvenne che alcuni esaltavano a cielo un saltimbanco, che aveva dato pubblico
spettacolo con una corsa a piedi percorrendo la città di Chieri da una all'altra
estremità in due minuti e mezzo, che e quasi il tempo della Ferrovia a grande
velocità.
Non badando alle conseguenze delle mie parole ho detto che io mi sarei volentieri
mi surato con quel ciarlatano. Un imprudente compagno riferì la cosa al
saltimbanco, ed eccomi impegnato in un sfida: Uno studente sfida un corriere di
professione!
Il luogo scelto era il viale di Porta Torinese.
La scommessa era di 20 f. Non possedendo io quel danaro parecchi amici
appartenenti alla Società dell’Allegria, mi vennero in soccorso. Una moltitudine di
gente assisteva. Si comincia la corsa e il mio rivale mi guadagnò alcuni passi; ma
tosto riacquistai terreno e lo lasciai talmente dietro di me, che a metà corsa si
fermò; dandomi partita guadagnata.
— Ti sfido a saltare, dissemi, ma voglio scommettere fr. 40 e di più se vuoi.
Accettammo la sfida, e toccando a lui scegliere il luogo, egli fissò che il salto
dovesse avere luogo contro il parapetto di un ponticello. Egli saltò il primo e pose il
piede vicinissimo al muriccio, sicché più in là non si poteva saltare. In quel modo io
avrei potuto perdere, ma non guadagnare. L’industria però mi venne in soccorso.

3.7 Page 27

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Feci il medesimo salto, ma appoggiando le mani sul parapetto del ponte prolungai il
salto al di là del medesimo muro e dello stesso fosso. Applausi generali.
— Voglio ancora farti una sfida. Scegli qualunque giuoco di destrezza.
Accettai, e scelsi il giuoco della bacchetta magica colla scommessa di fr. 80. Presi
pertanto una bacchetta, ad una estremità posi un cappello, poi appoggiai l’altra
estremità sulla palma di una mano. Di poi senza toccarla coll’altra la feci saltare
sulla punta del dito mignolo, dell’anulare, del medio, dell’indice, del pollice; quindi
sulla nocetta della mano, sul gomito, sulla spalla, sul mento, sulle labbra, sul naso,
sulla fronte. Indi rifacendo lo stesso cammino torno sulla palma della mano.
— Non temo di perdere, disse il rivale, è questo il mio giuoco prediletto. Prese
adunque la medesima bacchetta e con meravigliosa destrezza la fece camminare fin
sulle labbra, d’onde, avendo alquanto lungo il naso, urto e perdendo l’equilibrio
dovette prenderla colla mano per non lasciarla cadere a terra.
Quel meschino vedendosi il patrimonio andare a fondo quasi furioso esclamo:
Piùttosto qualunque altra umiliazione, ma non quella di essere stato vinto da uno
studente. Ho ancora cento franchi e questi li scommetto e li guadagnerà chi di noi
metterà i piedi più vicino alla punta di quest’albero, accennava ad un olmo che era
accanto al viale. Accettammo anche questa volta, anzi in certo modo eravamo
contenti che egli guadagnasse giacché sentivamo di lui compassione, e non
volevamo rovinarlo.
Salì egli il primo sopra l’olmo e portò i piedi a tale altezza, che, per poco fosse più
alto salito, [l’albero] sarebbesi piegato cadendo a terra colui che si arrampicava.
Tutti dicevano che non era possibile salire più in alto. Feci la mia prova. Salii alla
possibile altezza senza far curvare la pianta, poi tenendomi colle mani all’albero
alzai il corpo e portai i piedi circa un metro oltre all'altezza del mio contendente.
Chi mai può esprimere gli applausi della moltitudine, la gioia de' miei compagni, la
rabbia del saltimbanco, e l’orgoglio mio, che era riuscito vincitore, non contro i miei
condiscepoli, ma contro ad un capo di ciarlatani? In mezzo però alla grande
desolazione gli abbiamo voluto procurare un conforto. Mossi a pietà dalla tristezza
del poverino gli abbiamo detto che noi gli ritornavamo il suo danaro se egli
accettava una condizione, di venire cioè a pagarci un pranzo all'albergo del
Muretto. Accetto l’altro con gratitudine. Andammo in numero di ventidue, tanti
erano i miei partigiani. Il pranzo costò 25 franchi, così che gli furono tornati f. 215.
Quello fu veramente giovedì di grande allegria. Io mi sono coperto di gloria per
avere in destrezza superato un ciarlatano. Contentissimi i compagni che si
divertirono a più non posso col ridere e col buon pranzo. Contento dovette pur
essere il ciarlatano, che riebbe quasi tutto il suo danaro, godette anche un buon
pranzo. Nel separarsi egli ringraziò tutti dicendo: Col ritornarmi questo danaro voi
impedite la mia rovina. Vi ringrazio di tutto cuore. Serberò di voi grata memoria,
ma non faro mai più scommesse cogli studenti.
13° Studio dei classici
Nel vedermi passare il tempo in tante dissipazioni, voi direte che doveva per
necessità trascurare lo studio. Non vi nascondo che avrei potuto studiare di più: ma

3.8 Page 28

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ritenete che l’attenzione nella scuola mi bastava ad imparare quanto era necessario.
Tanto più che in quel tempo io non faceva distinzione tra leggere e studiare e con
facilità poteva ripetere la materia di un libro letto o udito a raccontare. Di più
essendo stato abituato da mia madre a dormire assai poco, poteva impiegare due
terzi della notte a leggere libri a piacimento, e spendere quasi tutta la giornata in
cose di libera elezione, come fare ripetizioni, scuole private, cui sebbene spesso mi
prestassi per carità o per amicizia, da parecchi però era pagato.
Era allora in Chieri un libraio ebreo di nome Elia, col quale contrassi relazioni
associandomi alla lettura dei classici italiani. Un soldo ogni volumetto, che gli
ritornava dopo averlo letto. Dei volumetti della biblioteca popolare ne leggeva uno
al giorno. L’anno di quarta Ginnasiale l’impiegai nella lettura degli autori italiani.
L’anno di Retorica mi posi a fare studi sui classici latini, e cominciai a leggere
Cornelio Nipote, Cicerone, Salustio, Quinto Curzio, Tito Livio, Cornelio Tacito,
Ovidio, Virgilio, Orazio Flacco ed altri. Io leggeva que’ libri per divertimento e li
gustava come se li avessi capito interamente. Soltanto più tardi mi accorsi che non
era vero, perciocché fatto sacerdote, messomi a spiegare ad altri quelle classiche
celebrità, conobbi che appena con grande studio e con molta preparazione riusciva
a penetrarne il giusto senso e la bellezza loro.
Ma i doveri di studio, le occupazioni delle ripetizioni, la molta lettura, richiedevano
il giorno ed una parte notabile della notte. Più volte accadde che giungeva l’ora
della levata mentre teneva tuttora tra mano le decadi di Tito Livio, di cui aveva
intrapreso lettura la sera antecedente. Tal cosa mi rovinò talmente la sanità che per
più anni la mia vita sembrava ognora vicina alla tomba. Laonde io darò sempre per
consiglio di fare quel che si può e non di più. La notte è fatta pel riposo, ed
eccettuato il caso di necessità, altrimenti dopo la cena niuno deve applicarsi in cose
scientifiche. Un uomo robusto reggerà alquanto, ma cagionerà sempre qualche
detrimento alla sua sanità.
14° Preparazione - Scelta dello stato
Intanto si avvicinava la fine dell’anno di Retorica, epoca in cui gli studenti sogliono
deliberare intorno alla loro vocazione. Il sogno di Murialdo mi stava sempre
impresso; anzi mi si era altre volte rinnovato in modo assai più chiaro, per cui,
volendoci prestar fede, doveva scegliere lo stato ecclesiastico; cui appunto mi
sentiva propensione: ma non volendo credere ai sogni, e la mia maniera di vivere,
certe abitudini del mio cuore, e la mancanza assoluta delle virtù necessarie a questo
stato, rendevano dubbiosa e assai difficile quella deliberazione.
Oh se allora avessi avuto una guida, che si fosse presa cura della mia vocazione!
Sarebbe stato per me un gran tesoro, ma questo tesoro mi mancava! Aveva un buon
confessore, che pensava a farmi buon cristiano, ma di vocazione non si volle mai
mischiare.
Consigliandomi con me stesso, dopo avere letto qualche libro, che trattava della
scelta dello stato, mi sono deciso di entrare nell’Ordine Francescano. Se io mi fo
cherico nel secolo, diceva tra me, la mia vocazione corre gran pericolo di naufragio.
Abbraccierò lo stato ecclesiastico, rinuncierò al mondo, andrò in un chiostro, mi
darò allo studio, alla meditazione, e così nella solitudine potrò combattere le
passioni, specialmente la superbia, che nel mio cuore aveva messe profonde radici.
Feci pertanto dimanda ai conventuali riformati, ne subii l’esame, fui accettato e
tutto era preparato per entrare nel convento della Pace in Chieri. Pochi giorni prima
del tempo stabilito per la mia entrata ho fatto un sogno dei più strani. Mi parve di

3.9 Page 29

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vedere una moltitudine di que’ religiosi colle vesti sdruscite indosso e correre in
senso opposto l’uno dall’altro. Uno di loro vennemi a dire: Tu cerchi la pace e qui
pace non troverai. Vedi l’atteggiamento de’ tuoi fratelli. Altro luogo, altra messe Dio
ti prepara.
Voleva fare qualche dimanda a quel religioso, ma un rumore mi svegliò e non vidi
più cosa alcuna. Esposi tutto al mio confessore, che non volle udire a parlare né di
sogno né di frati. In questo affare, rispondevami, bisogna che ciascuno segua le sue
propensioni e non i consigli altrui.
In quel tempo succedette un caso, che mi pose nella impossibilità di effettuare il
mio progetto. E siccome gli ostacoli erano molti e duraturi, così io ho deliberato di
esporre tutto all'amico Comollo. Esso mi diede per consiglio di fare una novena,
durante la quale egli avrebbe scritto al suo zio prevosto. L’ultimo giorno della
novena in compagnia dell’incomparabile amico ho fatto la confessione e la
comunione, di poi udii una messa, e ne servii un’altra in duomo all’altare della
Madonna delle Grazie. Andati poscia a casa trovammo di fatto una lettera di D.
Comollo concepita in questi termini: Considerate attentamente le cose esposte, io
consiglierei il tuo compagno di soprassedere di entrare in un convento. Vesta egli
l’abito chericale, e mentre farà i suoi studi conoscerà viemeglio quello che Dio vuole
da lui. Non abbia alcun timore di perdere la vocazione, perciocché colla ritiratezza,
e colle pratiche di pietà egli supererà tutti gli ostacoli.
Ho seguito quel savio suggerimento, mi sono seriamente applicato in cose che
potessero giovare a prepararmi alla vestizione chericale. Subito l’esame di Retorica,
sostenni quello dell'abito di cherico in Chieri e precisamente nelle camere attuali
della casa Bertinetti Carlo, che morendo ci lasciò in eredità e che erano tenute a
pigione dall’arciprete Can.co Burzio. In quell’anno l’esame non ebbe luogo secondo
il solito in Torino a motivo del cholera-morbus, che minacciava i nostri paesi.
Voglio qui notare una cosa che fa certamente conoscere quanto lo spirito di pietà
fosse coltivato nel collegio di Chieri. Nello spazio di quattro anni che frequentai
quelle scuole non mi ricordo di avere udito un discorso od una sola parola che fosse
contro ai buoni costumi o contro alla religione. Compiuto il corso della Retorica, di
25 allievi, di cui componevasi quella scolaresca, 21 abbracciarono lo stato
ecclesiastico; tre medici, uno mercante.
Andato a casa per le vacanze, cessai di fare il ciarlatano e mi diedi alle buone
letture, che, debbo dirlo a mia vergogna, fino allora aveva trascurato. Ho però
continuato ad occuparmi dei giovanetti, trattenendoli in racconti, in piacevole
ricreazione, in canti di laudi sacre, anzi osservando che molti erano già inoltrati
negli anni, ma assai ignoranti nelle verità della fede, mi sono dato premura
d’insegnare loro anche le preghiere quotidiane ed altre cose più importanti in
quella età.
Era quella una specie di oratorio, cui intervenivano circa cinquanta fanciulli, che mi
amavano e mi ubbidivano, come se fossi stato loro padre.

3.10 Page 30

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MEMORIE DELL'ORATORIO DAL 1835 AL 1845
ESCLUSIVAMENTE PEI SOCI SALESIANI
Vestizione chericale - Regolamento di vita
Presa la deliberazione di abbracciare lo stato ecclesiastico e subitone il prescritto
esame andavami preparando a quel giorno di massima importanza, perciocché era
persuaso che dalla scelta dello stato ordinariamente dipende l’eterna salvezza o
l'eterna perdizione. Mi sono raccomandato a vari amici di pregare per me; ho fatto
una novena, e nel giorno di S. Michele (ottobre 1834) mi sono accostato ai santi
sacramenti, di poi il Teologo Cinzano Prevosto e Vicario Foraneo di mia patria, mi
benedisse l’abito e mi vestì da cherico prima della messa solenne. Quando mi
comando di levarmi gli abiti secolareschi con quelle parole: Exuat te Dominus
veterem hominem cum actibus suis, dissi in cuor mio: Oh quanta roba vecchia c’è
da togliere! Mio Dio, distruggete in me tutte le mie cattive abitudini. Quando poi nel
darmi il collare aggiunse: Induat te Dominus novum hominem, qui secundum Deum
creatus est in iustitia et sanctitate veritatis! mi sentii tutto commosso e aggiunsi tra
me: Si, o mio Dio, fate che in questo momento io vesta un uomo nuovo, cioè che da
questo momento io incominci una vita nuova, tutta secondo i divini voleri, e che la
giustizia e la santità siano l'oggetto costante de' miei pensieri, delle mie parole e
delle mie opere. Così sia. O Maria, siate voi la salvezza mia.
Compiuta la funzione di chiesa il mio prevosto volle farne un'altra tutta profana:
condurmi alla festa di S. Michele, che si celebrava a Bardella Borgata di
Castelnuovo. Egli con quel festino intendeva usarmi un atto di benevolenza, ma non
era cosa opportuna per me. Io figurava un burattino vestito di nuovo, che si
presentava al pubblico per essere veduto. Inoltre dopo più settimane di
preparazione a quella sospirata giornata, trovarmi di poi ad un pranzo in mezzo a
gente di ogni condizione, di ogni sesso, colà radunata per ridere, chiaccherare,
mangiare, bere e divertirsi; gente che per lo più andava in cerca di giuochi, balli e
di partite di tutti i generi; quella gente quale società poteva mai formare con uno,
che al mattino dello stesso giorno aveva vestito l’abito di santità, per darsi tutto al
Signore?
I1 mio prevosto se ne accorse, e nel ritorno a casa mi chiese perché in quel giorno
di pubblica allegria, io mi fossi mostrato cotanto ritenuto e pensieroso. — Con tutta
sincerità risposi che la funzione fatta al mattino in chiesa discordava in genere,
numero e caso con quella della sera. Anzi, soggiunsi, l’aver veduto preti a fare i
buffoni in mezzo ai convitati presso che brilli di vino, mi ha quasi fatto venire in
avversione la mia vocazione. Se mai sapessi di venire un prete come quelli, amerei
meglio deporre quest’abito e vivere da povero secolare, ma da buon cristiano.
— I1 mondo è fatto così, mi rispose il prevosto, e bisogna prenderlo come è. Bisogna
vedere il male per conoscerlo ed vitarlo. Niuno divenne valente guerriero senza
apprendere il maneggio delle armi. Così dobbiamo fare noi che abbiamo un
continuo combattimento contro al nemico delle anime.
Tacqui allora, ma nel mio cuore ho detto: Non andrò mai più in pubblici festini, fuori
che ne sia obbligato per funzioni religiose.
Dopo quella giornata io doveva occuparmi di me stesso. La vita fino allora tenuta
doveva essere radicalmente riformata. Negli anni addietro non era stato uno

4 Pages 31-40

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4.1 Page 31

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scellerato, ma dissipato, vanaglorioso, occupato in partite, giuochi, salti, trastulli ed
altre cose simili, che rallegravano momentaneamente, ma che non appagavano il
cuore.
Per farmi un tenore di vita stabile da non dimenticarsi, ho scritto le seguenti
risoluzioni:
1° Per l’avvenire non prenderò mai più parte a pubblici spettacoli sulle fiere, sui
mercati; né andrò a vedere balli o teatri. E per quanto mi sarà possibile non
interverrò ai pranzi, che soglionsi dare in tali occasioni.
2° Non farò mai più i giuochi de' bussolotti, di prestigiatore, di saltimbanco, di
destrezza, di corda; non suonerò più il violino, non andrò più alla caccia. Queste
cose le reputo tutte contrarie alla gravità ed allo spirito ecclesiastico.
3° Amerò e praticherò la ritiratezza, la temperanza nel mangiare e nel bere; e di
riposo non prenderò se non le ore strettamente necessarie per la sanità.
4° Siccome pel passato ho servito al mondo con letture profane, così per l'avvenire
procurerò di servire a Dio dandomi alle letture di cose religiose.
5° Combatterò con tutte le mie forze ogni cosa, ogni lettura, pensiero, discorsi,
parole ed opere contrarie alla virtù della castità. All’opposto praticherò tutte quelle
cose anche piccolissime, che possano contribuire a conservare questa virtù.
6° Oltre alle pratiche ordinarie di pietà, non ometterò mai di fare ogni giorno un
poco di meditazione ed un po’ di lettura spirituale.
7° Ogni giorno racconterò qualche esempio o qualche massima vantaggiosa alle
anime altrui. Ciò farò coi compagni, cogli amici, coi parenti, e quando non posso
con altri, il farò con mia madre.
Queste sono le cose deliberate quando ho vestito l’abito chericale, ed affinché mi
rimanessero bene impresse sono andato avanti ad un'immagine della Beata Vergine,
le ho lette, e dopo una preghiera ho fatto formale promessa a quella Celeste
Benefattrice, di osservarle a costo di qualunque sacrifizio.
2° Partenza pel seminario
I1 giorno 30 di ottobre di quell’anno 1835 doveva trovarmi in seminario. Il piccolo
corredo era preparato. I miei parenti erano tutti contenti; io più di loro. Mia madre
soltanto stava in pensiero e mi teneva tuttora lo sguardo addosso come volesse
dirmi qualche cosa. La sera antecedente alla partenza Ella mi chiamò a sé e mi fece
questo memorando discorso: Gioanni mio, tu hai vestito l’abito sacerdotale, io ne
provo tutta la consolazione, che una madre può provare per I la fortuna di suo figlio.
Ma ricordati, che non è l’abito che onora il tuo stato, è la pratica della virtù. Se mai
tu venissi a dubitare di tua vocazione, ah per carità! non disonorare questo abito.
Deponilo tosto. Amo meglio di avere un povero contadino, che un figlio prete
trascurato ne’ suoi doveri. Quando sei venuto al mondo ti ho consacrato alla Beata
Vergine; quando hai cominciato i tuoi studi ti ho raccomandato la divozione a questa
nostra Madre; ora ti raccomando di esserle tutto suo: ama i compagni divoti di
Maria; e se diverrai sacerdote raccomanda a propaga mai sempre la divozione di
Maria.

4.2 Page 32

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Nel terminare queste parole mia madre era commossa, io piangeva. Madre, le
risposi, vi ringrazio di tutto quello, che avete detto e fatto per me; queste vostre
parole non saranno dette invano e ne farò tesoro in tutta la mia vita.
Al mattino per tempo mi recai a Chieri e la sera dello stesso giorno entrai in
seminario. Salutati i superiori, e aggiustatomi il letto, coll’amico Garigliano mi sono
messo a passeggiare pei dormitorii, pei corridoi, e in fine pel cortile. Alzando lo
sguardo sopra una meridiana lessi questo verso:
Afflictis lentae, celeres gaudentibus horae.
Ecco, dissi all’amico, ecco il nostro programma: stiamo sempre allegri e passerà
presto il tempo.
Il giorno dopo cominciò un triduo di esercizi ed ho procurato di farli bene per
quanto mi fu possibile. Sul finire di quelli mi recai dal professore di filosofia, che
allora era il T. Ternavasio di Bra, e gli chiesi qualche norma di vita con cui
soddisfare a’ miei doveri ed acquistarmi la benevolenza de’ miei superiori. Una cosa
sola, mi rispose il degno sacerdote, coll'esatto adempimento de’ vostri doveri.
Ho preso per base questo consiglio e mi diedi con tutto l’animo all’osservanza delle
regole del seminario. Non faceva distinzione tra quando il campanello chiamava allo
studio, in chiesa, oppure in Refettorio, in ricreazione, al riposo. Questa esattezza mi
guadagno l’affezione de’ compagni e la stima de’ superiori, a segno che sei anni di
seminario furono per me una piacevolissima dimora.
La vita del seminario
I giorni del seminario sono presso poco sempre gli stessi; perciò io accennerò le
cose in genere riserbandomi descrivere separatamente alcuni fatti particolari.
Comincierò dai superiori.
Io amava molto i miei superiori, ed essi mi hanno sempre usato molta bontà; ma il
mio cuore non era soddisfatto. I1 Rettore e gli altri superiori solevano visitarsi
all'arrivo dalle vacanze e quando si partiva per le medesime. Niuno andava a
parlare con loro se non nei casi di ricevere qualche strillata. Uno dei superiori
veniva per turno a prestar assistenza ogni settimana in Refettorio e nelle
passeggiate e poi tutto era finito. Quante volte avrei voluto parlare, chiedere loro
consiglio o scioglimento di dubbi, e ciò non poteva; anzi accadendo che qualche
superiore passasse in mezzo ai seminaristi senza saperne la cagione, ognuno
fuggiva precipitoso a destra e a sinistra come da una bestia nera. Ciò accendeva
sempre di più il mio cuore di essere presto prete per trattenermi in mezzo ai
giovanetti, per assisterli, ed appagarli ad ogni occorrenza.
In quanto ai compagni mi sono tenuto al suggerimento dell’amata mia Genitrice;
vale a dire associarmi a’ compagni divoti di Maria, amanti dello studio e della pietà.
Debbo dire per regola di chi frequenta il seminario, che in quello vi sono molti
cherici di specchiata virtù, ma ve ne sono anche dei pericolosi. Non pochi giovani
senza badare alla loro vocazione vanno in seminario senza avere ne spirito, né
volontà del buon seminarista. Anzi io mi ricordo di aver udito cattivissimi discorsi
da compagni. Ed una volta, fatta perquisizione ad alcuni allievi, furono trovati libri
empi ed osceni di ogni genere. È vero che somiglianti compagni o deponevano
volontariamente l’abito chericale, oppure venivano cacciati dal seminario appena

4.3 Page 33

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conosciuti per quello che erano. Ma mentre dimoravano in seminario erano peste
pei buoni e pei cattivi.
Per evitare il pericolo di tali condiscepoli io mi scelsi alcuni che erano notoriamente
conosciuti per modelli di virtù. Essi erano Garigliano Guglielmo, Giacomelli Gioanni
di Avigliana e di poi Comollo Luigi. Questi tre compagni furono per me un tesoro.
Le pratiche di pietà si adempivano assai bene. Ogni mattino messa, meditazione, la
terza parte del Rosario; a mensa lettura edificante. In quel tempo leggevasi la storia
eccl[esiasti]ca di Bercastel. La confessione era obbligatoria ogni quindici giorni, ma
chi voleva poteva anche accostarsi tutti i sabati. La santa comunione però potevasi
soltanto fare la domenica od in altra speciale solennità. Qualche volta si faceva
lungo la settimana, ma per ciò fare bisognava commettere una disubbidienza. Era
uopo scegliere l’ora di colazione, andare di soppiatto nell’attigua chiesa di S.
Filippo, fare la comunione, e poi venire raggiungere i compagni al momento che
tornavano allo studio o alla scuola. Questa infrazione di orario era proibita, ma i
superiori ne davano tacito consenso, perché lo sapevano e talvolta vedevano, e non
dicevano niente in contrario. Con questo mezzo ho potuto frequentare assai più la
santa comunione, che posso chiamare con ragione il più efficace alimento della mia
vocazione. A questo difetto di pietà si è ora provveduto, quando, per disposizione
dell’Arcivescovo Gastaldi furono ordinate le cose da poter ogni mattino accostarsi
alla comunione, purché uno siane preparato.
Divertimenti e ricreazione
I1 trastullo più comune in tempo libero era il noto giuoco di Bara rotta. In principio
ci presi parte con molto gusto, ma siccome questo giuoco si avvicinava molto a
quelli dei ciarlatani, cui aveva assolutamente rinunziato, così pure ho voluto da
quello cessare. In certi giorni era permesso il giuoco dei tarocchi, e a questo ci ho
preso parte per qualche tempo. Ma anche qui trovava il dolce misto coll'amaro.
Sebbene non fossi valente giuocatore, tuttavia era così fortunato, che guadagnava
quasi sempre. In fine delle partite io aveva le mani piene di soldi, ma al vedere i
miei compagni afflitti perché li avevano perduti, io diveniva più afflitto di loro. Si
aggiugne che nel giuoco io fissava tanto la mente che dopo non poteva più né
pregare, né studiare avendo sempre l’immaginazione travagliata dal Re da Cope e
dal Fante da Spada, dal 13 o dal quindici da Tarocchi. Ho pertanto presa la
risoluzione di non più prendere parte a questo giuoco come aveva già rinunziato ad
altri. Ciò feci alla metà del secondo anno di Filosofia 1836.
La ricreazione, quando era più lunga dell'ordinaria, era allegrata da qualche
passeggiata che i seminaristi facevano spesso ne' luoghi amenissimi, che
circondano la città di Chieri. Quelle passeggiate tornavano anche utili allo studio,
perciocché ciascuno procurava di esercitarsi in cose scolastiche, interrogando il suo
compagno, o rispondendo alle fatte dimande. Fuori del tempo di pubblica
passeggiata, ognuno si poteva anche ricreare passeggiando cogli amici pel
seminario discorrendo di cose amene, edificanti, e scientifiche.
Nelle lunghe ricreazioni spesso ci raccoglievamo in Refettorio per fare il così detto
circolo scolastico. Ciascuno colà faceva quesiti intorno a cose che non sapesse, o
che non avesse ben intese nei trattati o nella scuola. Ciò mi piaceva assai, e mi
tornava molto utile allo studio, alla pietà ed alla sanità. Celebre a fare dimande era
Comollo, che era venuto in seminario un anno dopo di me. Un certo Peretti
Domenico, ora parroco di Buttigliera, era assai loquace e rispondeva sempre;

4.4 Page 34

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Garigliano era eccellente uditore. Faceva soltanto qualche riflesso. Io poi era
presidente e giudice inappellabile.
Siccome nei nostri famigliari discorsi mettevansi in campo certe questioni, certi
punti scientifici, cui talvolta niuno di noi sapeva dare esatta risposta, così ci
dividevamo le difficoltà. Ciascuno entro un tempo determinato doveva preparare la
risoluzione di quanto era stato incaricato.
La mia ricreazione era non di rado dal Comollo interrotta. Mi prendeva egli per un
brano dell'abito e dicendomi di accompagnarlo conducevami in cappella per fare la
visita al SS. Sacramento pegli agonizzanti, recitare il rosario o l'ufficio della
Madonna in suffragio delle anime del purgatorio.
Questo maraviglioso compagno fu la mia fortuna. A suo tempo sapeva avvisarmi,
correggermi, consolarmi, ma con si bel garbo e con tanta carità, che in certo modo
era contento di dargliene motivo per gustare il piacere di esserne corretto. Trattava
famigliarmente con lui, mi sentiva naturalmente portato ad imitarlo, e sebbene fossi
mille miglia da lui indietro nella virtù, tuttavia se non sono stato rovinato dai
dissipati, e se potei progredire nella mia vocazione ne sono veramente a lui
debitore. In una cosa sola non ho nemmeno provato ad imitarlo: nella
mortificazione. Il vedere un giovanetto sui diciannove anni digiunare rigorosamente
l'intera quaresima ed altro tempo dalla Chiesa comandato; digiunare ogni sabato in
onore della B.V.; spesso rinunziare alla colezione del mattino; talvolta pranzare a
pane ed acqua; sopportare qualunque disprezzo, ingiuria senza mai dare minimo
segno di risentimento; il vederlo esattissimo ad ogni piccolo dovere di studio, e di
pietà; queste cose mi sbalordivano, e mi faceva ravvisare in quel compagno un idolo
come amico, un eccitamento al bene, un modello di virtù per chi vive in seminario.
4° Le vacanze
Un grande pericolo pei cherici sogliono essere le vacanze tanto più in quel tempo
che duravano quattro mesi e mezzo. Io impiegava il tempo a leggere, a scrivere, ma
non sapendo ancora a trar partito dalle mie giornate ne perdeva molte senza frutto.
Cercava di ammazzarle con qualche lavoro meccanico. Faceva fusi, cavigliotti,
trottole, bocce o pallottole al torno; cuciva abiti, tagliava, cuciva scarpe; lavorava
nel ferro, nel legno. Ancora presentemente avvi nella casa mia di Murialdo uno
scrittoio, una tavola da pranzo con alcune sedie che ricordano i capi d'opera di
quelle mie vacanze. Mi occupava pure a segare l'erba nei prati, a mietere il
frumento nel campo; a spampinare, a smoccolare, a vendemmiare, a vineggiare, a
spillare il vino e simili. Mi occupava de' miei soliti giovanetti, ma ciò poteva
solamente fare ne' giorni festivi. Trovai però un gran conforto a fare catechismo a
molti miei compagni che trovavansi ai sedici ed anche ai diciassette anni digiuni
affatto delle verità della fede. Mi sono eziandio dato ad ammaestrarne alcuni nel
leggere e nello scrivere con assai buon successo, poiché il desiderio anzi la smania
d'imparare mi traeva giovanetti di tutte età. La scuola era gratuita, ma metteva per
condizione assiduità, attenzione e la confessione mensile. In principio alcuni per
non sottoporsi a queste condizioni cessarono. La qual cosa tornò di buon esempio e
di incoraggiamento agli altri.
Ho pure cominciato a fare prediche e discorsi col permesso e coll’assistenza del mio
prevosto. Predicai sopra il SS. Rosario nel paese di Alfiano, nelle vacanze di fisica;
sopra S. Bartolomeo Apostolo dopo il primo anno di teologia in Castelnuovo d’Asti;

4.5 Page 35

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sopra la Natività di Maria in Capriglio. Non so quale ne sia stato il frutto. Da tutte
parti però era applaudito, sicché la vanagloria mi andò guidando finché ne fui
disingannato come segue. Un giorno dopo la detta predica sulla Nascita di Maria ho
interrogato uno, che pareva dei più intelligenti, sopra la predica, di cui faceva elogii
sperticati, e mi rispose: La sua predica fu sopra le povere anime del Purgatorio ed
io aveva predicato sopra le glorie di Maria. Ad Alfiano ho anche voluto richiedere il
parere del paroco, persona di molta pietà e dottrina, di nome Pelato Giuseppe, e lo
pregai a dirmi il suo parere intorno alla mia predica.
— La vostra predica, mi rispose, fu assai bella, ordinata, esposta con buona lingua,
con pensieri scritturali; e che continuando così potete riuscire nella predicazione.
— Il popolo avrà capito?
— Poco. Avranno capito il mio fratello prete, io, e pochissimi altri.
— Come mai non furono intese cose tanto facili?
— A voi sembrano facili, ma pel popolo sono assai elevate. Lo sfiorare la storia
sacra, volare ragionando sopra un tessuto di fatti della storia ecclesiastica, sono
tutte cose che il popolo non capisce.
— Che adunque mi consiglia di fare?
— Abbandonare la lingua e l’orditura dei classici, parlare in volgare dove si può, od
anche in lingua italiana, ma popolarmente, popolarmente, popolarmente. Invece poi
di ragionamenti tenetevi agli esempi, alle similitudini, ad apologi semplici e pratici.
Ma ritenete sempre che il popolo capisce poco, e che le verità della fede non gli
sono mai abbastanza spiegate.
Questo paterno consiglio mi servi di norma in tutta la vita. Conservo ancora a mio
disdoro que’ discorsi, in cui presentemente non iscorgo più altro che vanagloria e
ricercatezza. Dio misericordioso ha disposto che avessi quella lezione, lezione
fruttuosa nelle prediche, nei catechismi, nelle istruzioni e nello scrivere, cui mi era
fin da quel tempo applicato.
5° Festino di campagna - Il suono del violino - La caccia
Mentre poco fa diceva che le vacanze sono pericolose intendeva di parlare per me.
Un povero cherico senza che se ne accorga gli accade spesso di trovarsi in gravi
pericoli. Io ne fui alla prova. Un anno fui invitato ad un festino in casa di alcuni miei
parenti. Non voleva andare, ma adducendosi che non eravi alcun cherico che
servisse in chiesa, ai ripetuti inviti di un mio zio credei bene di accondiscendere e ci
sono andato. Compiute le sacre funzioni, cui presi parte a servire e cantare, ce ne
andammo a pranzo. Fino ad una parte del desinare andò bene, ma quando si
cominciò ad essere un po' brilli di vino si misero in scena certi parlari, che non
potevansi più tollerare da un cherico. Provai a fare qualche osservazione, ma la mia
voce fu soffocata. Non sapendo più a qual partito appigliarmi me ne volli fuggire. Mi
alzai da mensa, presi il cappello per andarmene; ma lo zio si oppose; un altro si
mise a parlare peggio, e ad insultare tutti i commensali. Dalle parole si passava ai
fatti; schiamazzi, minaccie, bicchieri, bottiglie, piatti, cucchiai, forchette, e poi

4.6 Page 36

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coltelli, si univano insieme a fare un baccano orribile. In quel momento io non ho
più avuto altro scampo che darmela a gambe. Giunto a casa ho rinnovato di tutto
cuore il proponimento già fatto più volte, di stare ritirato se non si vuole cadere in
peccato.
Fatto di altro genere, ma eziandio spiacente mi succedette a Croveglia Frazione di
Buttigliera. Volendosi celebrare la festa di S. Bartolomeo, fui invitato da altro mio
zio ad intervenire per aiutare nelle sacre funzioni, cantare ed anche suonare il
violino, che era stato per me un istrumento prediletto, a cui aveva rinunciato. Ogni
cosa andò benissimo in chiesa. I1 pranzo era a casa di quel mio zio, che era priore
della festa, e fino allora niente era a biasimarsi. Finito il desinare i commensali mi
invitarono a suonare qualche cosa a modo di ricreazione. Mi sono rifiutato. Almeno,
disse un musicante, mi farà l'accompagnamento. Io farò la prima ella farà la
seconda parte.
Miserabile! non seppi rifiutarmi e mi posi a suonare e suonai per un tratto, quando
si ode un bisbiglio ed un calpestio che segnava moltitudine di gente. Mi faccio allora
alla finestra e miro una folla di persone che nel vicino cortile allegramente danzava
al suono del mio violino. Non si può esprimere con parole la rabbia da cui fui invaso
in quel momento. Come, dissi ai commensali, io che grido sempre contro ai pubblici
spettacoli, io ne son divenuto promotore? Ciò non sarà mai più. Feci in mille pezzi il
violino, e non me ne volli mai più servire, sebbene siansi presentate occasioni e
convenienza nelle funzioni sacre.
Ancora un episodio avvenutomi alla caccia. Andava alle nidiate lungo l’estate, di
autunno uccellava col vischio, colla trapoletta, colla passeriera e qualche volta
anche col fucile. Un mattino mi sono dato ad inseguire una lepre e camminando di
campo in campo, di vigna in vigna, trapassai valli e colli per più ore. Final mente
giunsi a tiro di quell’animale, che con una fucilata gli ruppi le coste, sicché la
povera bestiolina cadde lasciandomi in sommo abbattimento in vederla estinta. A
quel colpo corsero i miei compagni, e mentre essi rallegravansi per quella preda
portai uno sguardo sopra di me stesso e mi accorsi che era in manica di camicia,
senza sottana, con un cappello di paglia, per cui faceva la comparsa di uno
sfrosadore, e ciò in sito lontano oltre a due miglia da casa mia.
Ne fui mortificatissimo, chiesi scusa ai compagni dello scandalo dato con quella
foggia di vestire, me ne andai tosto a casa, e rinunciai nuovamente e
definitivamente ad ogni sorta di caccia. Coll’aiuto del Signore questa volta
mantenni la promessa. Dio mi perdoni quello scandalo.
Questi tre fatti mi hanno dato una terribile lezione, e d'allora in poi mi sono dato
con miglior proposito alla ritiratezza, e fui davvero persuaso che chi vuole darsi
schiettamente al servizio del Signore bisogna che lasci affatto i divertimenti
mondani. È vero che spesso questi non sono peccaminosi, ma è certo che pei
discorsi che si fanno, per la foggia di vestire, di parlare e di operare contengono
sempre qualche rischio di rovina per la virtù, specialmente per la delicatissima virtù
della castità.
Relazioni con Luigi Comollo
Finché Dio conservo in vita questo incomparabile compagno, ci fui sempre in intima
relazione. Nelle vacanze più volte io andava da lui, più volte egli veniva da me.

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Frequenti erano le lettere che ci indirizzavamo. Io vedeva in lui un santo giovanetto;
lo amava per le sue rare virtù; egli amava me perché l'aiutava negli studi scolastici,
e poi quando era con lui mi sforzava di imitarlo in qualche cosa.
Una vacanza venne a passar meco una giornata in tempo che i miei parenti erano in
campagna per la mietitura. Egli mi fece leggere un suo discorso che doveva recitare
alla prossima festa dell'Assunzione di Maria; di poi lo recitò accompagnando le
parole col gesto. Dopo alcune ore di piacevole trattenimento ci siamo accorti essere
ore del pranzo. Eravamo soli in casa. Che fare? — Alto là, disse il Comollo, io
accenderò il fuoco, tu preparerai la pentola e qualche cosa faremo cuocere.
— Benissimo, risposi, ma prima andiamo a cogliere un pollastrino nell'aia e questo
ci servirà di pietanza e di brodo, tale è l’intenzione di mia madre.
Presto siamo riusciti a mettere le mani addosso ad un pollino, ma poi chi sentivasi
di ucciderlo? Ne l’uno ne l’altro. Per venire ad una conclusione vantaggiosa fu
deciso che il Comollo tenesse l’animale col collo sopra un tronco di legno appianato,
mentre con un falcetto senza punta glielo avrei tagliato. Fu fatto il colpo, la testa
spiccata dal busto. Di che ambidue spaventati ci siamo dati a precipitosa fuga e
piangendo.
Sciocchi che siamo, disse di lì a poco il Comollo, il Signore ha detto di servirci delle
bestie della terra pel nostro bene, perché dunque tanta ripugnanza in questo fatto?
Senz’altra difficoltà abbiamo raccolto quell’animale, e spennatolo e cottolo, ci servì
per pranzo.
Io doveva recarmi a Cinzano per ascoltare il discorso del Comollo sull’Assunta, ma
essendo anch’io incaricato di fare altrove il medesimo discorso ci andai il giorno
dopo. Era una maraviglia l’udire le voci di encomio, che da tutte parti risuonavano
sulla predica del Comollo. Quel giorno (16 di agosto) correva festa di S. Rocco, che
suole chiamarsi festino della pignatta o della cucina, perché i parenti e gli amici
sogliono approfittarne per invitare vicendevolmente i loro cari a pranzo ed a godere
qualche pubblico trattenimento. In quella occasione avvenne un episodio che
dimostrò fin dove giungesse la mia audacia.
Si aspettò il predicatore di quella solennità quasi fino all’ora di montare in pulpito e
non giunse. Per togliere il prevosto di Cinzano dall'impaccio io andava ora dall’uno
ora dall’altro dei molti parroci colà intervenuti, pregando ed insistendo che
qualcheduno indirizzasse un sermoncino al numeroso popolo raccolto in chiesa.
Niuno voleva acconsentire. Seccati da’ miei ripetuti inviti mi risposero acremente:
Minchione che siete; il fare un discorso sopra S. Rocco all’improvviso non è bere un
bicchiere di vino; e invece di seccare gli altri fatelo voi. A quelle parole tutti
batterono le mani. Mortificato e ferito nella mia superbia io risposi: Non osava
certamente offerirmi a tanta impresa, ma poiché tutti si rifiutano, io accetto.
Si cantò una laude sacra in chiesa per darmi alcuni istanti a pensare; poi
richiamando a memoria la vita del Santo, che aveva già letto, montai in pulpito, feci
un discorso che mi fu sempre detto essere stato il migliore di quanti avessi fatto
prima e di poi.
In quelle vacanze e in quella stessa occasione (1838) uscii un giorno a passeggio col
mio amico sopra un colle, donde scorgevasi vasta estensione di prati, campi e
vigne. Vedi, Luigi presi a dirgli, che scarsezza di raccolti abbiamo quest'anno!
Poveri contadini! Tanto lavoro e quasi tutto invano!

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È la mano del Signore, egli rispose, che pesa sopra di noi. Credimi, i nostri peccati
ne sono la cagione.
— L’anno venturo spero che il Signore ci donerà frutti più abbondanti.
— Lo spero anch’io, è buon per coloro che si troveranno a goderli.
— Su via, lasciamo a parte i pensieri malinconici, per quest’anno pazienza, ma
l'anno venturo avremo più copiosa vendemmia e faremo miglior vino.
— Tu ne beverai.
— Forse tu intendi continuare a bere la solita tua acqua?
— Io spero di bere un vino assai migliore.
— Che cosa vuoi dire con ciò?
— Lascia, lascia... il Signore sa quel che si fa.
— Non dimando questo, io dimando che cosa vuoi dire con quelle parole: Io spero di
bere un vino migliore. Vuoi forse andartene al Paradiso?
— Sebbene io non sia affatto certo di andare al paradiso dopo mia morte, tuttavia
ne ho fondata speranza, e da qualche tempo mi sento un si vivo desiderio di andare
a gustar l’ambrosia dei Beati, che parmi impossibile che siano ancora lunghi i giorni
di mia vita. Questo diceva il Comollo colla massima ilarità di volto in tempo che
godeva ottima sanità, e si preparava per ritornare in Seminario.
6° Un fatto del Comollo
Le cose più memorabili che precedettero ed accompagnarono la preziosa morte di
questo caro amico furono descritte a parte e chi lo desidera può leggerle a
piacimento. Qui non voglio omettere un fatto che diede motivo a molto parlare, e di
cui appena si fa cenno nelle memorie già pubblicate. È il seguente. Attesa
l'amicizia, la confidenza illimitata che passava tra me e il Comollo, eravamo soliti
parlare di quanto poteva ad ogni momento accadere, della nostra separazione pel
caso di morte. Un giorno dopo aver letto un lungo brano della vita dei Santi, tra
celia e serietà dicemmo che sarebbe stata una grande consolazione, se quello che di
noi fosse primo a morire avesse portato notizie dello stato suo. Rinnovando più volte
tal cosa abbiamo fatto questo contratto. Quello che di noi sarà il primo a morire, se
Dio lo permetterà, recherà notizia di sua salvezza al compagno superstite. Io non
conosceva l’importanza di tale promessa, e confesso che ci fu molta leggerezza, né
mai sarei per consigliare altri a farla. Tuttavia l’abbiamo fatta e più volte ripetuta
special mente nell'ultima malattia del Comollo. Anzi le ultime sue parole e l'ultimo
sguardo confermavano quanto si era detto a questo uopo. Molti compagni erano di
ciò consapevoli.
Moriva Comollo il due aprile 1839 e la sera del dì seguente era con gran pompa
portato alla sepoltura nella chiesa di San Filippo. I consapevoli di quella promessa
erano ansiosi di saperla verificata. Io ne era ansiosissimo, perché così sperava un
grande conforto alla mia desolazione. La sera di quel giorno essendo già a letto in

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un dormitorio di circa 20 seminaristi, io era in agitazione, persuaso che in quella
notte sarebbesi verificata la promessa. Circa alle 11 ½ un cupo rumore si fa sentire
pei corridoi: sembrava che un grosso carrettone tirato da molti cavalli si andasse
avvicinando alla portina del dormitorio. Facendosi ad ogni momento più tetro e a
guisa di tuono fa tremare tutto il dormitorio. Spaventati i cherici fuggono dai loro
letti per raccogliersi insieme e darsi animo a vicenda. Fu allora, ed in mezzo a
quella specie di violento e cupo tuono che si udì la chiara voce del Comollo dicendo
tre volte: Bosco, io son salvo. Tutti udirono il rumore, parecchi intesero la voce
senza capirne il senso; alcuni però la intesero al par di me, a segno che per molto
tempo si andava ripetendo pel seminario. Fu la prima volta che a mia ricordanza io
abbia avuto paura; paura e spavento tali che caduto in grave malattia fui portato
vicino alla tomba. Non sarei mai per dare ad altri consigli di questo genere. Dio è
onnipotente. Dio è misericordioso. Per lo più non da ascolto a questi patti, talvolta
però nella sua infinita misericordia permette che abbiano il loro compimento, come
nel caso esposto.
7° Premio - Sacristia - Il T. Gioanni Borrelli
Nel seminario io sono stato assai fortunato ed ho sempre goduto l’affezione de’ miei
compagni e quella di tutti i miei superiori. All’esame semestrale si suole dare un
premio di fr. 60 in ogni corso a colui che riporta i migliori voti nello studio e nella
condotta morale. Dio mi ha veramente benedetto, e nei sei anni che passai in
seminario sono sempre stato favorito di questo premio. Nel secondo anno di
Teologia fui fatto sacristano, che era una carica di poca entità, ma un prezioso
segno di benevolenza dei superiori, cui erano annessi altri franchi sessanta. Così
che godeva già metà pensione, mentre il caritatevole D. Caffasso provvedeva al
rimanente. Il sacrista deve aver cura della nettezza della chiesa, della sacristia,
dell’altare, e tenere in ordine lampade, candele, gli altri arredi ed oggetti necessari
al divin culto.
Fu in quest’anno che ebbi la buona ventura di conoscere uno de’ più zelanti ministri
del santuario venuto a dettar gli esercizi spirituali in seminario. Egli apparve in
sacristia con aria ilare, con parole celianti, ma sempre condite di pensieri morali.
Quando ne osservai la preparazione e il ringraziamento della messa, il contegno, il
fervore nella celebrazione di essa, mi accorsi subito, che quegli era un degno
sacerdote, quale appunto era il T. Gioanni Borrelli di Torino. Quando poi cominciò la
sua predicazione e se ne ammirò la popolarità, la vivacità, la chiarezza, e il fuoco di
carità che appariva in tutte le parole, ognuno andava ripetendo che egli era un
santo.
Di fatto tutti facevano a gara per andarsi a confessare da lui, trattare con lui della
vocazione ed avere qualche particolare ricordo. Io pure ho voluto conferire col
medesimo delle cose dell’anima. In fine avendogli chiesto qualche mezzo certo per
conservare lo spirito di vocazione lungo l’anno e specialmente in tempo delle
vacanze, egli mi lasciò con queste memorande parole: Colla ritiratezza, e colla
frequente comunione si perfeziona e si conserva la vocazione e si forma un vero
ecclesiastico.
Gli esercizi spirituali del T. Borrelli fecero epoca in seminario, e parecchi anni
appresso si andavano ancora ripetendo le sante massime, che aveva in pubblico
predicate o privatamente consigliate.
8° Studio

4.10 Page 40

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Intorno agli studi fui dominato da un errore che in me avrebbe prodotto funeste
conseguenze, se un fatto provvidenziale non me lo avesse tolto. Abituato alla lettura
dei classici in tutto il corso secondario, assuefatto alle figure enfatiche della
mitologia e delle favole dei pagani, non trovava gusto per le cose ascetiche. Giunsi a
persuadermi che la buona lingua e la eloquenza non si potesse conciliare colla
religione. Le stesse opere dei santi Padri mi sembravano parto di ingegni assai
limitati, eccettuati i principii religiosi, che essi esponevano con forza e chiarezza.
Sul principio del secondo anno di filosofia andai un giorno a fare la visita al SS.
Sacramento e non avendo meco il libro di preghiera mi feci a leggere de imitatione
Christi di cui lessi qualche capo intorno al SS. Sacramento. Considerando
attentamente la sublimità dei pensieri, e il modo chiaro e nel tempo stesso ordinato
ed eloquente con cui si esponevano quelle grandi verità, cominciai a dire tra me
stesso: L'autore di questo libro era un uomo dotto. Continuando altre e poi altre
volte a leggere quell' aurea operetta, non tardai ad accorgermi, che un solo
versicolo di essa conteneva tanta dottrina e moralità, quanta non avrei trovato nei
grossi volumi dei classici antichi: E’ a questo libro cui son debitore di aver cessato
dalla lettura profana. Datomi pertanto alla lettura del Calmet, Storia dell'Antico e
Nuovo Testamento; a quella di Giuseppe Flavio, Delle Antichità giudaiche; Della
Guerra giudaica; di poi di Monsig. Marchetti, Ragionamenti sulla Religione; di poi
Frassinous, Balmes, Zucconi, e molti altri scrittori religiosi. Gustai pure la lettura
del Fleury, Storia Ecclesiastica, che ignorava essere libro da evitarsi. Con maggior
frutto ancora ho letto le Opere del Cavalca, del Passavanti, del Segneri, e tutta la
Storia della Chiesa dell’Henrion.
Voi forse direte: Occupandomi in tante letture, non poteva attendere ai trattati. Non
fu così. La mia memoria continuava a favorirmi, e la sola lettura e la spiegazione dei
trattati fatta nella scuola mi bastavano per soddisfare i miei doveri. Quindi tutte le
ore stabilite per lo studio, io le poteva occupare in letture diverse. I superiori
sapevano tutto e mi lasciavano libertà di farlo.
Uno studio che mi stava molto a cuore era il greco. Ne aveva già appreso i primi
elementi nel corso classico, aveva studiato la grammatica ed eseguite le prime
versioni coll’uso dei Lessici. Una buona occasione mi fu a tale uopo assai
vantaggiosa. L’anno 1836, essendovi in Torino minaccia di cholera, i Gesuiti
anticiparono la partenza dei convittori dal collegio del Carmine per Montaldo.
Quell’anticipazione richiedeva doppio personale insegnante perché dovevansi
tuttora coprire le classi degli esterni, che intervenivano al collegio. I1 Sac. D.
Caffasso, che ne era stato richiesto, propose me per una classe di greco. Ciò mi
spinse ad occuparmi seriamente di questa lingua per rendermi idoneo di insegnarla.
Di più trovandosi nella stessa Compagnia un sacerdote di nome Bini, profondo
conoscitore del greco, di lui mi valsi con molto vantaggio. In soli quattro mesi mi
fece tradurre quasi tutto il Nuovo Testamento; i due primi libri di Omero con
parecchie odi di Pindaro e di Anacreonte. Quel degno sacerdote ammirando la mia
buona volontà continuò ad assistermi e per quattro anni ogni settimana leggeva una
composizione greca o qualche versione da me spedita, e che egli puntualmente
correggeva e poi rimandava colle opportune osservazioni. In questa maniera potei
giungere a tradurre il greco quasi come si farebbe del latino.
Fu pure in questo tempo che io studiai la lingua Francese, ed i principii di lingua
ebraica. Queste tre lingue, ebraico, Greco e Francese mi furono sempre predilette
dopo il latino e l'Italiano.

5 Pages 41-50

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9° Sacre ordinazioni – Sacerdozio
L’anno della morte del Comollo (1839) riceveva la tonsura coi quattro minori nel
terzo anno di Teologia. Dopo quell’anno mi nacque il pensiero di tentare cosa che in
quel tempo rarissimamente si otteneva: fare un corso nelle vacanze. A tale uopo
senza farne motto ad alcuno mi presentai solo dall’Arcivescovo Fransoni
chiedendogli di poter istudiare i trattati del 4° anno in quelle vacanze e così
compiere il quinquennio nel successivo anno scolastico 1840-1. Adduceva per
ragione la mia avanzata età di 24 anni compiuti.
Quel santo Prelato mi accolse con molta bontà, e verificato l’esito de’ miei esami
fino allora sostenuti in seminario, mi concedette il favore implorato a condizione,
che io portassi tutti i trattati corrispondenti al corso, che io desiderava di
guadagnare. Il T. Cinzano mio Vicario Foraneo era incaricato di eseguire la volontà
del superiore. In due mesi ho potuto collo studio esaurire i trattati prescritti e per
l’ordinazione delle quattro tempora di autunno sono stato ammesso al
Suddiaconato. Ora che conosco le virtù che si ricercano per quell'importantissimo
passo, resto convinto che io non era abbastanza preparato; ma non avendo chi si
prendesse cura diretta della mia vocazione, mi sono consigliato con D. Caffasso; che
mi disse di andare avanti e riposare sopra la sua parola. Nei dieci giorni di spirituali
esercizi fatti nella casa della Missione in Torino ho fatto la confessione generale
affinché il confessore potesse avere un'idea chiara di mia coscienza e darmi
l’opportuno consiglio. Desiderava di compiere i miei studi, ma tremava al pensiero
di legarmi per tutta la vita, perciò non volli prendere definitiva risoluzione se non
dopo avere avuto il pieno consentimento del confessore.
D’allora in poi mi sono dato il massimo impegno di mettere in pratica il consiglio del
Teologo Borrelli; colla ritiratezza e colla frequente comunione si conserva e si
perfeziona la vocazione. Ritornato poi in seminario fui annoverato fra quelli del
quinto anno e venni costituito prefetto, che è la carica più alta cui possa essere
sollevato un seminarista.
Al Sitientes del 1841 ricevetti il Diaconato, alle tempora estive doveva essere
ordinato sacerdote. Ma un giorno di vera costernazione era quello in cui doveva
uscire definitivamente dal Seminario. I superiori mi amavano e mi diedero continui
segni di benevolenza. I compagni mi erano affezionatissimi. Si può dire che io
viveva per loro, essi vivevano per me. Chi avesse avuto bisogno di farsi radere la
barba o la cherica ricorreva a Bosco. Chi avesse abbisognato di berretta da prete, di
cucire, rappezzare qualche abito faceva capo a Bosco. Perciò mi torno dolorosissima
quella separazione, separazione da un luogo dove era vissuto per sei anni; dove
ebbi educazione, scienza, spirito ecclesiastico e tutti i segni di bontà e di affetto che
si possano desiderare.
Il giorno della mia ordinazione era la vigilia della SS. Trinità, ed ho celebrato la mia
prima messa nella chiesa di S. Francesco d’Assisi dove era capo di conferenza D.
Caffasso. Era ansiosamente aspettato in mia patria, dove da molti anni non si era
più celebrata messa nuova; ma ho preferito di celebrarla in Torino senza rumore, e
quello posso chiamarlo il più bel giorno della mia vita. Nel Memento di quella
memoranda messa ho procurato di fare divota menzione di tutti i miei professori,
benefattori spirituali e temporali, e segnatamente del compianto D. Calosso che ho
sempre ricordato come grande ed insigne benefattore. Lunedì andai a celebrare alla
Chiesa della SS. Consolata, per ringraziare la gran Vergine Maria degli innumerabili
favori, che mi aveva ottenuto dal suo Divin Figliuolo Gesù.

5.2 Page 42

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Martedì mi recai a Chieri e celebrai messa nella chiesa di S. Domenico, dove tuttora
viveva l'antico mio professore P. Giusiana, che con paterno affetto mi attendeva.
Durante quella messa egli pianse sempre per commozione. Ho passato con lui tutto
quel giorno che posso chiamare giornata di paradiso.
Il Giovedì, Solennità del Corpus Domini, appagai i miei patriotti, cantai messa e feci
quivi la processione di quella Solennità. Il prevosto volle invitare a pranzo i miei
parenti, il clero ed i principali del paese. Tutti presero parte a quell'allegrezza,
perciocché io era molto amato dai miei cittadini ed ognuno godeva di tutto quello,
che avesse potuto tornare a mio bene. La sera di quel giorno mi sono restituito in
famiglia. Ma quando fui vicino a casa e mirai il luogo del sogno fatto all’età di circa
nove anni non potei frenare le lagrime e dire: Quanto mai sono maravigliosi i
disegni della Divina Provvidenza! Dio ha veramente tolto dalla terra un povero
fanciullo per collocarlo coi primari del suo popolo.
10° Principii del sacro ministero - Discorso di Lavriano e Giovanni Brina
In quell’anno (1841) mancando il mio prevosto di Vicecurato io ne compii l'uffizio
per cinque mesi. Provava il più grande piacere a lavorare. Predicava tutte le
domeniche, visitava gli ammalati, amministrava loro i santi sacramenti, eccetto la
penitenza, perché non aveva ancora subito l’esame di confessione. Assisteva alle
sepolture, teneva in ordine i libri parochiali, faceva certificati di povertà o di altro
genere. Ma la mia delizia era fare catechismo ai fanciulli, trattenermi con loro,
parlare con loro. Da Murialdo mi venivano spesso a visitare; quando andava a casa
era sempre da loro intorniato. In paese poi cominciavano pure a farsi compagni ed
amici. Uscendo dalla casa parochiale era sempre accompagnato da una schiera di
fanciulli e dovunque mi recassi, era sempre attorniato da’ miei piccoli amici, che mi
festeggiavano.
Avendo molta facilità ad esporre la parola di Dio era spesso ricercato di predicare[,]
di fare panegirici nei paesi vicini. Fui invitato a dettare quello di S. Benigno a
Lavriano sul finire dell'ottobre di quell'anno. Accondiscesi di buon grado, essendo
quella patria del mio amico e collega D. Grassino Gioanni ora parroco di Scalenghe.
Desiderava di rendere onore a quella solennità e perciò preparai e scrissi il mio
discorso in lingua popolare ma pulita; lo studiai bene persuaso di acquistarne
gloria. Ma Dio voleva dare terribile lezione alla mia vanagloria. Essendo giorno
festivo, e prima di partire dovendo celebrare la santa messa a comodità della
popolazione, fu mestieri servirmi di un cavallo per fare a tempo a predicare.
Percorsa metà strada trottando e galoppando, era giunto nella valle di
Casalborgone tra Cinzano e Bersano, quando da un campo seminato di miglio
all'improvviso si alza una moltitudine di passeri, al cui volo e rumore il mio cavallo
spaventato si dà a correre per via, campi e prati. Mi tenni alquanto in sella, ma
accorgendomi che questa piegava sotto al ventre dell'animale, tentai una manovra
di equitazione, ma la sella fuori di posto mi spinse in alto ed io caddi capovolto
sopra un mucchio di pietre spaccate.
Un uomo dalla vicina collina poté osservare il compassionevole incidente e con un
suo servo corse in mio aiuto e trovatomi privo dei sensi, mi portò in casa sua e mi
adagiò nel miglior letto che avesse. Prodigatemi cure le più caritatevoli, dopo
un'ora riacquistai me stesso e conobbi di essere in casa altrui.—Non datevi pena,
disse il mio ospite, non inquietatevi perché siete in casa altrui. Qui non vi mancherà

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niente. Ho già mandato pel medico; ed altra persona andò in traccia del cavallo. Io
sono un contadino, ma provveduto di quanto mi è necessario. Si sente molto male?
— Dio vi compensi di tanta carità, o mio buon amico. Credo non vi sia grave male;
forse una rottura nella spalla, che più non posso muovere. Qui dove mi trovo?
— Ella è sulla collina di Bersano in casa di Gioanni Calosso soprannominato Brina
suo umile servitore. Ho anch’io girato pel mondo ed anch'io ho avuto bisogno degli
altri. Oh quante me ne sono accadute andando alle fiere ed ai mercati!
— Mentre attendiamo il medico raccontatemi qualche cosa.
— Oh quante ne avrei da raccontare; ne ascolti una. Parecchi anni or sono di
autunno io era andato in Asti colla mia somarella a fare provvigioni per l’inverno.
Nel ritorno, giunto nelle valli di Murialdo la mia povera bestia carica assai cadde in
un pantano e restò immobile in mezzo la via. Ogni sforzo per rialzarla tornò inutile.
Era mezzanotte, tempo oscurissimo e piovoso. Non sapendo più che fare mi diedi a
gridare chiamando aiuto. Dopo alcuni minuti mi si corrispose dal vicino casolare.
Vennero un cherico un suo fratello con due altri uomini portando fiaccole accese. Mi
aiutarono a scaricare la giumenta, la tirarono fuori del fango, e condussero me e
tutte le cose mie in casa loro. Io ero mezzo morto; ogni cosa imbrattata di melma.
Mi pulirono, mi ristorarono con una stupenda cena, poi mi diedero un letto
morbidissimo. Al mattino prima di partire ho voluto dare compenso come di dovere;
il cherico ricusò tutto dicendo: Non può darsi che dimani noi abbiamo bisogno di
voi?!
A quelle parole mi sentii commosso e l'altro si accorse delle mie lagrime. Si sente
male, dissemi.
— No, risposi; mi piace tanto questo racconto, che mi commuove.
— Se sapessi che cosa fare per quella buona famiglia!... Che buona gente!
— Come si chiamava?
— Famiglia Bosco, detta volgarmente Boschetti. Ma perché si mostra tanto
commosso? Forse conosce quella famiglia... Vive, sta bene quel cherico?
— Quel cherico, mio buon amico, è quel sacerdote cui ricompensate mille volte di
quanto ha fatto per voi. È quello stesso che voi portaste in vostra casa, collocaste in
questo letto. La divina provvidenza ha voluto farci conoscere con questo fatto che
chi ne fa, ne aspetti.
Ognuno può immaginarsi la maraviglia, il piacere di quel buon cristiano e di me,
che nella disgrazia Dio mi aveva fatto capitare in mano di tale amico. La moglie, una
sorella, altri parenti ed amici furono in grande festa nel sapere che era capitato in
casa colui, di cui avevano tante volte udito a parlare. Non ci fu riguardo che non mi
fosse usato. Giunto di lì a poco il medico trovò che non esistevano rotture, e perciò
in pochi giorni sul ritrovato cavallo potei rimettermi in cammino alla volta della mia
patria. Gioanni Brina mi accompagnò sino a casa, e finché egli visse abbiamo
sempre conservato le più care rimembranze di amicizia.
Dopo questo avviso ho fatto ferma risoluzione di voler per l’avvenire preparare i
miei discorsi per la maggior gloria di Dio, e non per comparire dotto o letterato.

5.4 Page 44

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11° Convitto ecclesiastico di S. Francesco d'Assisi
Sul finire di quelle vacanze mi erano offerti tre impieghi, di cui doveva scegliere
uno: L'uffizio di Maestro in casa di un signore genovese collo stipendio di mille
franchi annui; di cappellano di Murialdo, dove i buoni popolani, pel vivo desiderio di
avermi raddoppiavano lo stipendio dei cappellani antecedenti; di Vice curato in mia
patria. Prima di prendere alcuna definitiva deliberazione ho voluto fare una gita a
Torino per chiedere consiglio a D. Caffasso, che da parecchi anni era divenuto mia
guida nelle cose spirituali e temporali. Quel santo sacerdote ascoltò tutto, le
profferte di buoni stipendii, le insistenze dei parenti e degli amici, il mio buon
volere di lavorare. Senza esitare un istante egli mi indirizzò queste parole: "Voi
avete bisogno di studiare la morale e la predicazione. Rinunciate per ora ad ogni
proposta e venite al Convitto". Seguii con piacere il savio consiglio e il 3 Novembre
1841 entrai nel mentovato Convitto.
Il Convitto Ecclesiastico si può chiamare un complemento dello studio teologico,
perciocché ne' nostri seminarii si studia soltanto la dommatica, la speculativa. Di
morale si studia soltanto le proposizioni controverse. Qui si impara ad essere preti.
Meditazione, lettura, due conferenze al giorno, lezioni di predicazione, vita ritirata,
ogni comodità di studiare, leggere buoni autori, erano le cose intorno a cui ognuno
deve applicare la sua sollecitudine. Due celebrità in quel tempo erano a capo di
questo utilissimo Istituto: il Teologo Luigi Guala e D. Giuseppe Caffasso. Il T. Guala
era il fondatore dell’opera. Uomo disinteressato, ricco di scienza, di prudenza e di
coraggio, si era fatto tutto a tutti in tempo del governo di Napoleone I. Affinché poi i
giovani leviti, terminati i corsi in seminario, potessero imparare la vita pratica del
sacro ministero, fondò quel maraviglioso semenzaio, da cui provenne molto bene
alla Chiesa specialmente a sbarbare alcune radici di giansenismo che tuttora si
conservava tra noi.
Fra le altre era agitatissima la questione del probabilismo e del probabiliorismo. In
capo ai primi era l'Alasia, l'Antoine con altri rigidi autori la cui pratica può condurre
al giansenismo. I probabilisti seguivano la dottrina di S. Alfonso, che ora è stato
proclamato dottore di S. Chiesa e la cui autorità si può dire la teologia del Papa,
perché la Chiesa proclamò le sue opere potersi insegnare, predicare, praticare, né
esservi cosa che meriti censura. I1 T. Guala si mise fermo in mezzo ai due partiti, e
per centro di ogni opinione mettendo la carità di N. S. G. C. riuscì a ravvicinare
quegli estremi. Le cose giunsero a tal segno che merce il T. Guala S. Alfonso
divenne il maestro delle nostre scuole con quel vantaggio che fu lungo tempo
desiderato, e che oggidì se ne provano i salutari effetti.
Braccio forte del Guala era D. Caffasso. Colla sua virtù che resisteva a tutte prove,
colla sua calma prodigiosa, colla sua accortezza, prudenza poté togliere
quell'acrimonia che in alcuni ancora rimaneva dei probabilioristi verso ai liguoristi.
Una miniera d’oro nascondevasi nel sacerdote torinese T. Golzio Felice, egli pure
convittore. Nella sua vita modesta fece poco rumore; ma col suo lavoro indefesso,
colla sua umiltà, e colla sua scienza era un vero appoggio o meglio un braccio forte
del Guala e del Caffasso. Le carceri, gli ospedali, i pulpiti, gli istituti di beneficenza,
gli ammalati a domicilio; le città, i paesi e possiamo dire i palazzi dei grandi ed i
tuguri dei poveri provarono i salutari effetti dello I zelo di questi tre luminari del
Clero Torinese.

5.5 Page 45

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Questi erano i tre modelli che la Divina Provvidenza mi porgeva, e dipendeva
solamente da me seguirne le traccie, la dottrina, le virtù. D. Caffasso, che da sei
anni era mia guida, fu eziandio mio Direttore spirituale, e se ho fatto qualche cosa
di bene lo debbo a questo degno ecclesiastico nelle cui mani riposi ogni mia
deliberazione, ogni studio, ogni azione della mia vita. Per prima cosa egli prese a
condurmi nelle carceri, dove imparai tosto a conoscere quanto sia grande la malizia
e la miseria degli uomini. Vedere turbe di giovanetti, sull’età dei 12 ai 18 anni; tutti
sani, robusti, d'ingegno svegliato; ma vederli là inoperosi, rosicchiati dagli insetti,
stentar di pane spirituale e temporale, fu cosa che mi fece inorridire. L’obbrobrio
della patria, il disonore delle famiglie, l'infamia di se stesso erano personificati in
quegli infelici. Ma quale non fu la mia maraviglia e sorpresa quando mi accorsi che
molti di loro uscivano con fermo proposito di vita migliore ed intanto erano in breve
ricondotti al luogo di punizione, da cui erano da pochi giorni usciti.
Fu in quelle occasioni che mi accorsi come parecchi erano ricondotti in quel sito
perché abbandonati a se stessi. Chi sa, diceva tra me, se questi giovanetti avessero
fuori un amico, che si prendesse cura di loro, li assistesse e li istruisse nella
religione nei giorni festivi, chi sa che non possano tenersi lontani dalla rovina o
almeno diminuire il numero di coloro, che ritornano in carcere? Comunicai questo
pensiero a D. Caffasso, e col suo consiglio e co’ suoi lumi mi sono messo a studiar
modo di effettuarlo abbandonandone il frutto alla grazia del Signore senza cui sono
vani tutti gli sforzi degli uomini.
12° La festa delI’Immacolata Concezione e il principio dell'Oratorio festivo
Appena entrato nel Convitto di S. Francesco, subito mi trovai una schiera di
giovanetti che mi seguivano pei viali, per le piazze e nella stessa sacristia della
chiesa dell'Istituto. Ma non poteva prendermi diretta cura di loro per mancanza di
locale. Un lepido incidente porse occasione di tentare l’attuazione del progetto in
favore dei giovanetti vaganti per le vie della città specialmente quelli usciti dalle
carceri.
I1 giorno solenne all’Immacolata Concezione di Maria (8 dicembre 1841) all’ora
stabilita era in atto di vestirmi dei sacri paramentali per celebrare la santa messa. Il
cherico di sacristia, Giuseppe Comotti, vedendo un giovanetto in un canto lo invita
di venirmi a servire la messa. Non so, egli rispose tutto mortificato.
— Vieni, replicò l’altro, voglio che tu serva messa.—Non so, replicò il giovanetto,
non l’ho mai servita. — Bestione che sei, disse il cherico di sacristia tutto furioso, se
non sai servire messa, a che vieni in sacristia?
Ciò dicendo da di piglio alla pertica dello spolverio, e giù colpi sulle spalle o sulla
testa di quel poverino. Mentre l’altro se la dava a gambe: Che fate, gridai ad alta
voce, perché battere costui in cotal guisa, che ha fatto?
— Perché viene in sacristia, se non sa servir messa?
— Ma voi avete fatto male.
— A Lei che importa?

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— Importa assai, e un mio amico, chiamatelo sull'istante, ho bisogno di parlare con
lui.
— Tuder, tuder, si mise a chiamare; e correndogli dietro, e assicurandolo di miglior
trattamento me lo ricondusse vicino.
L’altro si approssimò tremante e lagrimante per le busse ricevute. Hai già udita la
messa? gli dissi colla amorevolezza a me possibile.
—No, rispose l’altro.
— Vieni adunque ad ascoltarla; dopo ho piacere di parlarti di un affare, che ti farà
piacere. Me lo promise. Era mio desiderio di mitigare l'afflizione di quel poveretto e
non lasciarlo con quella sinistra impressione verso ai direttori di quella sacristia.
Celebrata la santa messa e fattone il dovuto ringraziamento condussi il mio
candidato in un coretto. Con faccia allegra ed assicurandolo, che non avesse più
timore di bastonate, presi ad interrogarlo così:
— Mio buon amico, come ti chiami?
— Mi chiamo Bartolomeo Garelli.
— Di che paese tu sei?
— D'Asti.—Vive tuo padre?—No, mio padre è morto.—E tua madre? Mia madre e
anche morta.
— Quanti anni hai?—Ne ho sedici.
— Sai leggere e scrivere?—Non so niente.
— Sei stato promosso alla s. comunione?—Non ancora.
— Ti sei già confessato?
— Si, ma quando era piccolo.
— Ora vai al catechismo?—Non oso.—Perché?
— Perché i miei compagni più piccoli sanno il catechismo; ed io tanto grande ne so
niente. Perciò ho rossore di recarmi a quelle classi.
— Se ti facessi un catechismo a parte, verresti ad ascoltarlo?
— Ci verrei molto volentieri.
— Verresti volentieri in questa cameretta?
— Verrò assai volentieri, purché non mi diano delle bastonate. I
— Sta tranquillo, che niuno ti maltratterà. Anzi tu sarai mio amico, e avrai da fare
con me e con nissun altro. Quando vuoi che cominciamo il nostro catechismo?
— Quando a Lei piace.—Stasera?—Si.

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— Vuoi anche adesso?
— Si anche adesso con molto piacere.
Mi alzai e feci il segno della S. Croce per cominciare, ma il mio allievo nol faceva
perché ignorava il modo di farlo. In quel primo catechismo mi trattenni a fargli
apprendere il modo di fare il segno della Croce e a fargli conoscere Dio Creatore e
il fine per cui ci ha creati. Sebbene di tarda memoria, tuttavia coll’assiduità e
coll’attenzione in poche feste riuscì ad imparare le cose necessarie per fare una
buona confessione e poco dopo la sua santa comunione.
A questo primo allievo se ne aggiunsero alcuni altri e nel corso di quell'inverno mi
limitai ad alcuni adulti che avevano bisogno di catechismo speciale e soprattutto
per quelli che uscivano dalle carceri.
Fu allora che io toccai con mano, che i giovanetti usciti dal luogo di punizione, se
trovano una mano benevola, che di loro si prenda cura, li assista nei giorni festivi,
studi di collocarli a lavorare presso di qualche onesto padrone, e andandoli qualche
volta a visitare lungo la settimana, questi giovanetti si davano ad una vita onorata,
dimenticavano il passato, divenivano buoni cristiani ed onesti cittadini. Questo è il
primordio del nostro Oratorio, che benedetto dal Signore prese quell'incremento,
che certamente non avrei potuto allora immaginare.
13° L'Oratorio nel 1842
Nel corso pertanto di quell’inverno mi sono adoperato di consolidare il piccolo
Oratorio. Sebbene mio scopo fosse di raccogliere soltanto i più pericolanti fanciulli,
e di preferenza quelli usciti dalle carceri; tuttavia per avere qualche fondamento
sopra cui basare la disciplina e la moralità, ho invitato alcuni altri di buona condotta
e già istruiti. Essi mi aiutavano a conservare l’ordine ed anche a leggere e cantare
laudi sacre; perciocché fin d'allora mi accorsi che senza la diffusione di libri di
canto e di amena lettura le radunanze festive sarebbero state come un corpo senza
spirito. Alla festa della Purificazione (2 Febbraio 1842) che allora era ancora festa
di precetto, aveva già una ventina di fanciulli con cui per la prima volta potemmo
cantare Lodate Maria, o lingue fedeli.
Alla festa della Vergine Annunziata eravamo già in numero di 30. In quel giorno si
fece un po’ di festa. Al mattino gli allievi si accostarono ai santi sacramenti; la sera
si cantò una lode e dopo il catechismo si raccontò un esempio in modo di predica. Il
coretto in cui ci eravamo fino allora radunati essendo divenuto ristretto ci siamo
trasferiti nella vicina cappella della sacristia.
Qui l’Oratorio si faceva così: Ogni giorno festivo si dava comodità; di accostarsi ai
santi sacramenti della confessione e comunione; ma un sabato ed una domenica al
mese era stabilita per compiere questo religioso dovere. La sera ad un'ora
determinata si cantava una lode, si faceva il catechismo, poi un esempio colla
distribuzione di qualche cosa ora a tutti ora tirata a sorte.
Fra i giovani che frequentarono i primordi dell'Oratorio vuolsi notare Buzzetti
Giuseppe, che fu costante ad intervenire in modo esemplare. Esso si affezionò
talmente a D. Bosco ed a quella radunanza festiva, che ebbe a rinunziare di recarsi
a casa in sua famiglia (a Caronno Ghiringhello) come erano soliti di fare gli altri

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suoi fratelli ed amici. Primeggiavano eziandio i suoi fratelli, Carlo, Angelo, Giosuè;
Gariboldi Gioanni e suo fratello, allora semplici garzoni ed ora capi mastri muratori.
In generale l’Oratorio era composto di scalpellini, muratori, stuccatori, selciatori,
quadratori e di altri che venivano di lontani paesi. Essi non essendo pratici né di
chiese né di compagni erano esposti ai pericoli di perversione specialmente nei
giorni festivi.
Il buon Teologo Guala e D. Caffasso godevano di quella raccolta di fanciulli e mi
davano volentieri immagini, foglietti, libretti, medaglie, piccole croci da regalare.
Talvolta mi diedero mezzi per vestire alcuni che erano in maggior bisogno; e dar
pane ad altri per più settimane, fino a tanto che col lavoro potessero guadagnarsene
da sé. Anzi, essendo cresciuto assai il loro numero, mi concedettero di poter
qualche volta radunare il mio piccolo esercito nel cortile annesso per fare
ricreazione. Se la località l’avesse permesso saremmo presto giunti a più centinaia,
ma dovemmo limitarci ad ottanta circa.
Quando si accostavano ai santi sacramenti lo stesso T. Guala o D. Caffasso solevano
sempre venirci a fare una visita e raccontarci qualche episodio edificante.
Il T. Guala desiderando che si facesse una bella festa in onore di S. Anna, festa dei
muratori, dopo le funzioni del mattino li invitò tutti a fare seco lui colezione. Si
raccolsero quasi in numero di cento nella gran sala detta delle conferenze. Colà
furono tutti serviti abbondantemente di caffè, latte, cioccolato, Ghiffer, briossi,
semolini ed altri simili pani dolci, che sono cose ghiottissime pei fanciulli. Ognuno
può immaginarsi quanto rumore eccitasse quella festa, e quanti sarebbero venuti se
il locale avesse ciò permesso!
La festa era tutta consacrata ad assistere i miei giovanetti; lungo la settimana
andava a visitarli in mezzo ai loro lavori nelle officine, nelle fabbriche. Tal cosa
produceva grande consolazione ai giovanetti, che vedevano un amico prendersi
cura di loro; faceva piacere ai padroni, che tenevano volentieri sotto la loro
disciplina giovanetti assistiti lungo la settimana e più ne' giorni festivi che sono
giorni di maggior pericolo.
Ogni sabato mi recava nelle carceri colle saccoccie piene ora di tabacco, ora di
frutti, ora di pagnottelle sempre nell’oggetto di coltivare i giovanetti che avessero la
disgrazia di essere cola condotti; assisterli, rendermeli amici, e così eccitati di
venire all’Oratorio quando avessero la buona ventura di uscire dal luogo di
punizione.
14° Sacro ministero - Scelta di un impiego presso al Rifugio (settembre
1844)
In quel tempo ho cominciato a predicare pubblicamente in alcune chiese di Torino,
nell’Ospedale di Carità, all’Albergo di Virtù, nelle carceri, nel Collegio di S.
Francesco di Paola dettando tridui, novene od esercizi spirituali. Compiuti due anni
di morale ho subìto l'esame di confessione; e così potei con maggior successo
coltivare la disciplina, la moralità e il bene dell'anima de' miei giovanetti nelle
carceri, nell’Oratorio ed ovunque ne fosse mestieri.
Era per me cosa consolante lungo la settimana e segnatamente ne' giorni festivi
vedere il mio confessionale intorniato da quaranta o cinquanta giovanetti attendere
ore ed ore perché venisse il loro torno per potersi confessare.

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Questo fu l’andamento ordinario dell'Oratorio per quasi tre anni, cioè fino
all'ottobre del 1844.
Intanto cose nuove, mutazioni, ed anche tribolazioni andava la divina Provvidenza
preparando.
Sul finire del triennio di morale doveva applicarmi a qualche parte determinata del
sacro Ministero. Il vecchio e cadente zio del Comollo, D. Giuseppe Comollo Rettore
di Cinzano, col parere dell’Arcivescovo mi aveva chiesto ad economo
amministratore della parocchia, cui per età e malori non poteva più reggere. Il T.
Guala mi dettò egli stesso la lettera di ringraziamento all’Arcivescovo Fransoni,
mentre mi preparava ad altro. Un giorno D. Caffasso mi chiamò a sé e mi disse: Ora
avete compiùto il corso de’ vostri studi; uopo è che andiate a lavorare. In questi
tempi la messe è copiosa assai. A quale cosa vi sentite specialmente inclinato?
— A quella che Ella si compiacera di indicarmi.
— Vi sono tre impieghi: Vicecurato a Buttigliera d’Asti; Ripetitore di morale qui al
Convitto; Direttore del piccolo Ospedaletto accanto al Rifugio. Quale scegliereste?
— Quello che Ella giudicherà.
— Non vi sentite propensione ad una cosa più che ad un’altra?
— La mia propensione è di occuparmi per la gioventù. Ella poi faccia di me quel che
vuole; io conosco la volontà del Signore nel suo consiglio.
— In questo momento che cosa occupa il vostro cuore, che si ravvolge in mente
vostra?
— In questo momento mi pare di trovarmi in mezzo ad una moltitudine di fanciulli,
che mi dimandano aiuto.
Andate adunque a fare qualche settimana di vacanza. Al vostro ritorno vi dirò
la vostra destinazione.
Dopo quelle vacanze D. Caffasso lasciò passare qualche settimana senza dirmi
niente; io gli chiesi niente affatto. — Perché non dimandate quale sia la vostra
destinazione? mi disse un giorno. — Perché io voglio riconoscere la volontà di
Dio nella sua deliberazione e voglio metter niente del mio volere.
— Fatevi il fagotto e andate col T. Borrelli; là sarete direttore del piccolo Ospedale
di S. Filomena; lavorerete anche nell'Opera del Rifugio. Intanto Dio vi metterà tra
mano quanto dovrete fare per la gioventù.
A prima vista sembrava che tale consiglio contrariasse le mie inclinazioni,
perciocché la direzione di un Ospedale; il predicare e confessare in un istituto di
oltre a quattrocento giovanette mi avrebbero tolto il tempo ad ogni altra
occupazione. Pure erano questi i voleri del cielo, come ne fui in appresso assicurato.
Dal primo momento che ho conosciuto il T. Borrelli ho sempre osservato in lui un
santo sacerdote un modello degno di ammirazione e di essere imitato. Ogni volta
che poteva trattenermi con lui aveva sempre lezioni di zelo sacerdotale, sempre
buoni consigli, eccitamenti al bene. Nei tre anni passati al Convitto fui dal
medesimo più volte invitato a servire nelle sacre funzioni, a confessare, a predicare
seco lui. Di modo che il campo del mio lavoro era già conosciuto e in certo modo
famigliare.

5.10 Page 50

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Ci siamo parlato a lungo più volte intorno alle regole da seguirsi per aiutarci a
vicenda nel frequentare le carceri, e compiere i doveri a noi affidati, e nel tempo
stesso assistere i giovanetti, la cui moralità ed abbandono richiamava sempre di più
l'attenzione dei sacerdoti. Ma come fare? Dove raccogliere que’ giovanetti?
La camera, disse il T. Borrelli, che è destinata per Lei, può per qualche tempo
servire a raccogliere i giovanetti che intervenivano a S. Francesco d’Assisi. Quanto
poi potremo andare nell’edifizio preparato pei preti accanto all'Ospedaletto, allora
studieremo località migliore.
15° Un nuovo sogno
La seconda domenica di ottobre di quell’anno (1844) doveva partecipare ai miei
giovanetti, che l’Oratorio sarebbe stato trasferito in Valdocco. Ma l’incertezza del
luogo, dei mezzi, delle persone mi lasciavano veramente sopra pensiero. La sera
precedente andai a letto col cuore inquieto. In quella notte feci un nuovo sogno, che
pare un’appendice di quello fatto ai Becchi quando aveva nove anni. Io giudico bene
di esporlo letteralmente.
Sognai di vedermi in mezzo ad una moltitudine di lupi, di capre, e capretti, di
agnelli, pecore, montoni, cani, ed uccelli. Tutti insieme facevano 98s un rumore,
uno schiamazzo o meglio un diavolio da incutere spavento ai più coraggiosi. Io
voleva fuggire, quando una Signora, assai ben messa a foggia di pastorella, mi fe’
cenno di seguire ed accompagnare quel gregge strano, mentre Ella precedeva.
Andammo vagando per vari siti; facemmo tre stazioni o fermate. Ad ogni fermata
molti di quegli animali si cangiavano in agnelli, il cui numero andavasi ognor più
ingrossando. Dopo avere molto camminato mi sono trovato in un prato, dove quegli
animali saltellavano e mangiavano insieme senza che gli uni tentassero di nuocere
agli altri.
Oppresso dalla stanchezza voleva sedermi accanto di una strada vicina, ma la
pastorella mi invitò a continuare il cammino. Fatto ancora breve tratto di via, mi
sono trovato in un vasto cortile con porticato attorno alla cui estremità eravi una
chiesa. Allora mi accorsi che quattro quinti di quegli animali erano diventati agnelli.
Il loro numero poi divenne grandissimo. In quel momento sopraggiunsero parecchi
pastorelli per custodirli. Ma essi fermavansi poco, e tosto partivano. Allora
succedette una maraviglia: Molti agnelli cangiavansi in pastorelli, che crescendo
prendevano cura degli altri. Crescendo i pastorelli in gran numero, si divisero e
andavano altrove per raccogliere altri strani animali e guidarli in altri ovili.
Io voleva andarmene, perché mi sembrava tempo di recarmi a celebrar messa, ma
la pastora mi invitò di guardare al mezzodì. Guardando vidi un campo in cui era
stata seminata meliga, patate, cavoli, barbabietole, lattughe e molti altri erbaggi.—
Guarda un’altra volta, mi disse, e guardai di nuovo. Allora vidi una stupenda ed alta
chiesa. Un’orchestra, una musica istrumentale e vocale mi invitavano a cantar
messa. Nell’interno di quella chiesa era una fascia bianca, in cui a caratteri cubitali
era scritto: Hic domus mea, inde gloria mea.
Continuando nel sogno volli dimandare alla pastora dove mi trovassi; che cosa
volevasi indicare con quel camminare, colle fermate, con quella casa, chiesa, poi
altra chiesa. Tu comprenderai ogni cosa quando cogli occhi tuoi materiali vedrai di
fatto quanto ora vedi cogli occhi della mente. Ma parendomi di essere svegliato,
dissi: Io vedo chiaro e vedo cogli occhi materiali; so dove vado e quello che faccio.

6 Pages 51-60

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6.1 Page 51

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In quel momento suonò la campana dell'Ave Maria nella chiesa di S. Francesco ed io
mi svegliai.
Questo mi occupò quasi tutta la notte; molte particolarità l’accompagnarono; allora
ne compresi poco il significato perché poca fede ci prestava, ma capii le cose di
mano in mano avevano il loro effetto. Anzi più tardi[,] congiuntamente ad altro
sogno, mi servì di programma nelle mie deliberazioni.
16° Trasferimento dell'Oratorio presso al Rifugio
La seconda domenica di ottobre sacra alla Maternita di Maria partecipai ai miei
giovanetti il trasferimento dell'Oratorio presso al Rifugio. Al primo annunzio
provarono qualche turbazione, ma quando loro dissi che colà ci attendeva vasto
locale, tutto per noi, per cantare, correre, saltare e ricrearci ne ebbero piacere, ed
ognuno attendeva impaziente la seguente domenica per vedere le novità che si
andavano immaginando. La terza domenica di quell'ottobre, giorno sacro alla purità
di M. V., un po' dopo il mezzodì ecco una turba di giovanetti di varia età e diversa
condizione correre giù in Valdocco in cerca dell'Oratorio novello.
Dove è l’Oratorio, dov’è D. Bosco? si andava da ogni parte chiedendo. Niuno sapeva
dirne parola, perché niuno in quel vicinato aveva udito a parlare né di D. Bosco né
dell'Oratorio. I postulanti credendosi burlati alzavano la voce e le pretese. Gli altri
credendosi insultati opponevano minacce e percosse. Le cose cominciavano a
prendere severo aspetto, quando io e il T. Borrelli, udendo gli schiamazzi, uscimmo
di casa. Al nostro comparire cessò ogni rumore, ogni alterco. Corsero in folla
intorno a noi; dimandando dove fosse l’Oratorio.
Fu detto che il vero Oratorio non era ancora ultimato, che per intanto venissero in
mia camera, che, essendo spaziosa, avrebbeci servito assai bene. Di fatto per quella
domenica le cose andarono abbastanza bene. Ma la domenica successiva, agli
antichi allievi, aggiugnendosene parecchi del vicinato, non sapeva più ove collocarli.
Camera, corridoio, scala, tutto era ingombro di fanciulli. Al giorno dei Santi col T.
Borrelli essendomi messo a confessare, tutti volevano confessarsi, ma che fare?
Eravamo due confessori, erano oltre dugento fanciulli. Uno voleva accendere il
fuoco, l’altro si adoperava di spegnerlo. Costui portava legna, quell'altro acqua,
secchia, molle, palette, brocca, catinella, sedie, scarpe, libri ed ogni altro oggetto
era messo sossopra, mentre volevano ordinare ed aggiustare le cose. Non è più
possibile andare avanti, disse il caro Teologo, uopo è provvedere qualche locale più
opportuno. Tuttavia si passarono sei giorni festivi in quello stretto locale, che era la
camera superiore al vestibolo della prima porta di entrata al Rifugio.
Intanto si andò a trattare coll'Arcivescovo Fransoni, il quale capì l'importanza del
nostro progetto. Andate, ci disse, fate quanto giudicate bene per le anime, io vi dò
tutte le facoltà che vi possono occorrere, parlate colla Marchesa Barolo; forse essa
potra somministrarvi qualche locale opportuno. Ma ditemi: questi ragazzi non
potrebbero recarsi alle rispettive loro parocchie?
--- Sono giovanetti per lo più stranieri, i quali passano a Torino soltanto una parte
dell'anno. Non sanno nemmeno a quale parocchia appartengano. Di essi molti sono
mal messi, parlano dialetti poco intelligibili, quindi intendono poco e poco sono
dagli altri intesi. Alcuni poi sono già grandicelli e non osano associarsi in classe coi
piccoli.

6.2 Page 52

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— Quindi, ripigliò l'Arcivescovo, è necessario un luogo a parte adattato per loro.
Andate adunque. Io benedico voi e il vostro progetto. In quel che potrò giovarvi,
venite pure e farò sempre quanto potrò!
Si andò di fatto a parlare colla Marchesa Barolo, e siccome fino all’agosto dell'anno
successivo non si apriva l'Ospedaletto, la caritàtevole signora si contentò che noi
riducessimo a cappella due spaziose camere destinate per la ricreazione dei preti
del Rifugio, quando essi avessero colà trasferito la loro abitazione. Per andare
adunque al novello Oratorio passavasi dove ora e la porta dell'ospedale, e pel
piccolo viale che separa l'Opera Cottolengo dall'edifizio citato, si andava fino
all'abitazione attuale dei preti, e per la scala interna si saliva al 3° piano.
Là era il sito scelto dalla Divina Provvidenza per la prima chiesa dell’Oratorio. Esso
cominciò a chiamarsi di S. Francesco di Sales per due ragioni: la Perché la
Marchese Barolo aveva in animo di fondare una Congregazione di preti sotto a
questo titolo, e con questa intenzione aveva fatto eseguire il dipinto di questo Santo
che tuttora si rimira all'entrata del medesimo locale; 2a perché la parte di quel
nostro ministero esigendo grande calma e mansuetudine, ci eravamo messi sotto
alla protezione di questo Santo, affinché ci ottenesse da Dio la grazia di poterlo
imitare nella sua straordinaria mansuetudine e nel guadagno delle anime. Altra
ragione era quella di metterci sotto alla protezione di questo santo, affinché ci
aiutasse dal cielo ad imitarlo nel combattere gli errori contro alla religione
specialmente il protestantismo, che cominciava insidioso ad insinuarsi nei nostri
paesi e segnatamente nella città di Torino.
Pertanto l'anno 1844 il giorno 8 Dicembre, sacro all'Immacolato Concepimento di
Maria, coll'autorizzazione dell'Arcivescovo, per un tempo freddissimo, in mezzo ad
alta neve, che tuttora cadeva fitta dal cielo, fu benedetta la sospirata cappella, si
celebro la santa messa, parecchi giovanetti fecero la loro confessione e comunione,
ed io compii quella sacra funzione con un tributo di lagrime di consolazione; perché
vedeva in modo, che parevami stabile, l’Opera dell'Oratorio collo scopo di
trattenere la gioventù più abbandonata e pericolante dopo avere adempiùti i doveri
religiosi in chiesa.
MEMORIE DELL'ORATORIO DAL 1845 AL 1855
ESCLUSIVAMENTE PEI SOCI SALESIANI
17° L'Oratorio a S. Martino dei Molazzi – Difficoltà - La mano del Signore
Nella cappella annessa all'edifizio dell'Ospedaletto di S. Filomena l'Oratorio
prendeva ottimo avviamento. Nei giorni festivi intervenivano in folla i giovanetti per
fare la loro confessione e comunione. Dopo la messa tenevasi breve spiegazione del
vangelo. Dopo mezzodì catechismo, canto di laudi sacre, breve istruzione, litanie
lauretane e Benedizione. Nei varii intervalli i giovani erano trattenuti in piacevole
ricreazione con trastulli diversi. Ciò si faceva nel piccolo viale che tuttora esiste tra
il monastero delle Maddalene e la via pubblica. Passammo colà sette mesi e noi ci

6.3 Page 53

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pensavamo di aver trovato il paradiso terrestre, quando dovemmo abbandonare
l'amato asilo per andarcene a cercarcene un altro.
La Marchesa Barolo, sebbene vedesse di buon occhio ogni opera di carità, tuttavia,
avvicinandosi l'apertura del suo Ospedaletto (fu aperto il 10 agosto 1845) volle che
il nostro Oratorio venisse di la allontanato. E’ vero che il locale destinato a cappella,
a scuola, o a ricreazione dei giovani non aveva alcuna comunicazione coll'interno
dello stabilimento; le medesime persiane erano fisse e rivolte all'insù; nulla di meno
si dovette ubbidire. Si promosse viva istanza al Municipio Torinese e mercè
raccomandazione dell’Arcivescovo Fransoni si ottenne di trasferire l'Oratorio alla
chiesa di S. Martino dei Molazzi ovvero dei Molini di città.
Ed eccoci una domenica del mese di Luglio 1845, si prendono panche,
inginocchiatoi, candelieri; alcune sedie, croci, quadri e quadretti, e ciascuno
portando quell'oggetto, di cui era capace, a guisa I di popolare emigrazione p. Io fra
gli schiamazzi, il riso ed il rincrescimento siamo andati a stabilire il nostro quartiere
generale nel luogo sopra indicato.
Il T. Borelli fece un discorso di opportunita tanto prima della partenza, quanto
nell'arrivo alla novella chiesa.
Quel degno ministro del santuario con una popolarità, che si può chiamare piuttosto
unica che rara espresse questi pensieri: I cavoli, o amati giovani, se non sono
trapiantati non fanno bella e grossa testa. Diciamo lo stesso del nostro Oratorio.
Finora fu spesso trasferito di luogo in luogo, ma ne' vari siti dove fece qualche
fermata ebbe sempre un notabile incremento con non leggero vantaggio dei giovani
che sono intervenuti. S. Francesco di Assisi lo vide cominciar come catechismo e un
po' di canto. Colà non si poteva fare di più. Il Rifugio lo volle momentaneamente a
fare una fermata come dicono farsi da chi cammina in ferrovia, e ciò affinché i
nostri giovani non mancassero in quei pochi mesi dell'aiuto spirituale delle
confessioni, dei catechismi, delle prediche e di ameni trastulli.
— Accanto all'Ospedaletto cominciò un vero Oratorio, e ci sembrava di avere
trovato la vera pace, un luogo opportuno per noi, ma la divina Provvidenza dispose
che dovessimo sloggiare e venire qua a S. Martino. Qui staremo molto tempo? nol
sappiamo; speriamo di sì, ma comunque sia noi crediamo che, come i cavoli
trapiantati, il nostro Oratorio crescerà nel numero di giovani amanti della virtù,
crescerà il desiderio del canto, della musica, delle scuole serali ed anche diurne.
Adunque passeremo qui molto tempo? Non occupiamoci di questo pensiero;
gettiamo ogni nostra sollecitudine tra le mani del Signore, egli avra cura di noi. E’
certo che egli ci benedice, ci aiuta e ci provvede; egli penserà al luogo conveniente
per promuovere la sua gloria e pel bene delle nostre anime. Siccome però le grazie
del Signore formano una specie di catena in guisa che un anello è collegato
coll'altro; così, approfittando noi delle prime grazie siamo sicuri che Dio ne
concederà delle maggiori; e noi corrispondendo allo scopo dell'Oratorio,
cammineremo di virtù in virtù finché giungeremo alla patria Beata dove l'infinita
misericordia di N. S. G. C. darà il premio che ognuno colle sue buone opere si sarà
meritato.
A quella solenne funzione era presente una folla immensa di giovanetti; e colla
massima emozione si canto un Te Deum di ringraziamento.

6.4 Page 54

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Le pratiche religiose qui si compievano come al Rifugio. Ma non si poteva celebrar
Messa, né dare la benedizione alla sera, quindi non poteva avere luogo la
comunione, che è l'elemento fondamentale della nostra istituzione. La stessa
ricreazione era non poco disturbata, incagliata a motivo che i ragazzi dovevano
trattenersi nella via e nella piazzetta situata avanti la chiesa per dove passavano
spesso gente a piedi, carri, cavalli e carrettoni. Non potendo avere di meglio
ringraziavamo il cielo di quanto ci aveva concesso, aspettando località migliore; ma
nuovi disturbi ci caddero addosso.
I mugnai, i garzoni, i commessi, non potendo tollerare i salti, i canti e talvolta gli
schiamazzi dei nostri allievi, si allarmarono e d'accordo promossero lamenti al
medesimo Municipio. Fu allora che si cominciò a dire che quelle radunanze di
giovanetti erano pericolose, che da un momento all'altro potevano fare sommosse e
rivoluzioni. Ciò dicevano appoggiati alla pronta ubbidienza con cui eglino si
prestavano ad ogni piccolo cenno del Superiore. Si aggiungeva senza fondamento
che i ragazzi facevano mille guasti in Chiesa; fuori di Chiesa, nel selciato, e
sembrava che Torino dovesse subbissare se noi avessimo continuato a radunarci in
quel luogo.
Pose poi il colmo ai nostri guai una lettera scritta da un segretario dei Molini al
Sindaco di Torino, in cui si raccoglievano tutte le voci vaghe ed amplificando i
guasti immaginarii (1), diceva essere impossibile che le famiglie
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(1) Il Sindaco mandò a verificare e trovò mura, selciato esterno, pavimento[,] tutte
le cose di Chiesa a suo posto. Il solo guasto consisteva che un ragazzo colla punta di
un chiodino aveva fatto una breve riga nelle pareti.
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addette a quegli uffizi potessero continuare i loro doveri ed avere tranquillita. Si
giunse fino a dire che quello era un semenzaio d'immoralità. Il Sindaco, sebbene
persuaso della relazione infondata, scrisse una calda lettera in forza di cui dovevasi
immediatamente portare altrove il nostro Oratorio. Rincrescimento generale,
sospiri inutili! Dovemmo sgombrare.
E’ bene però di notare che il segretario di nome Cussetti (non mai da pubblicarsi)
autore della famosa lettera, scrisse per l'ultima volta, giacché fu colpito da un
tremolo violento alla destra, dietro a cui passati tre anni andò alla tomba. Dio
dispose che il figlio di lui fosse abbandonato in mezzo ad una strada e costretto di
venire a chiedere pane e ricetto nell'Ospizio che si apri di poi in Valdocco.
18° L'Oratorio in S. Pietro in Vincoli- La serva del cappellano - Una lettera -
Un tristo accidente
Siccome il Sindaco e in generale il Municipio erano persuasi della insussistenza di
quanto scrivevasi contro di noi, così a semplice richiesta, e con raccomandazione
dell'Arcivescovo, si ottenne di poterci raccogliere nel cortile e nella Chiesa del
Cenotafio del SS.mo Crocifisso detto volgarmente S. Pietro in Vincoli. Così dopo due
mesi di dimora a S. Martino noi dovemmo con amaro rincrescimento trasferirci in
altra nuova località, che per altro era più opportuna per noi. Il lungo porticato, lo

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spazioso cortile, la Chiesa adattata per le sacre funzioni, tutto servì ad eccitare
entusiasmo nei giovanetti, sicché parevano frenetici per la gioia. Ma in quel sito
esisteva un terribile rivale, da noi ignorato. Era questi non un defunto, che in gran
numero riposavano nei vicini sepolcri; ma una persona vivente[,] la serva del
cappellano. Appena costei ncominciò a udire i canti e le voci e, diciamo, anche gli
schiamazzi degli allievi uscì fuori di casa tutta sulle furie, e colla cuffia per traverso
e colle mani sui fianchi si diede ad apostrofare la moltitudine dei trastullanti. Con
lei inveiva una ragazzina, un cane, un gatto, tutte le galline dimodoché sembrava
essere imminente una guerra europea. Studiai di avvicinarmi per acquetarla,
facendole osservare che quei ragazzi non avevano alcuna cattiva volontà, che si
trastullavano, ne facevano alcun peccato. Allora si volse contro di me e diedemi il
fatto mio.
In quel momento ho giudicato di far cessare la ricreazione[,] fare un po' di
Catechismo, e recitato il Rosario in Chiesa, ce ne partimmo colla speranza di
ritrovarci con maggiore quiete la Domenica seguente. Ben il contrario. Allora che in
sulla sera giunse il Cappellano, la buona domestica se gli mise attorno e chiamando
D. Bosco e i suoi figli rivoluzionari, profanatori dei luoghi santi e tutto fior di
canaglia spinse il buon padrone a scrivere una lettera al Municipio.
Scrisse sotto il dettato della fantesca ma con tale acrimonia, che fu
immediatamente spedito ordine di cattura per chiunque di noi fosse colà ritornato.
Duole il dirlo, ma quella fu l'ultima lettera del Cappellano D. Tesio, il quale scrisse il
Lunedì, e poche ore dopo era preso da colpo apoplettico che lo rese cadavere quasi
sull'istante. Due giorni dopo simile sorte toccava alla fantesca. Queste cose si
dilatarono e fecero profonda impressione sull'animo dei giovani e di tutti quelli cui
pervenne tale notizia. La smania di venire, di udire i tristi casi era grande in tutti;
ma essendo proibiti di raccoglierci in S. Pietro in Vincoli, né essendosi potuto dare
avviso opportuno, nissuno più poteva immaginarsi, nemmeno io, dove sarebbesi
potuto avere un luogo di radunanza.
19° L’Oratorio in Casa Moretta
La domenica successiva a quella proibizione una moltitudine di giovanetti si reco a
S. Pietro in Vincoli; perciocché non si era potuto dare loro alcun avviso preventivo.
Trovando tutto chiuso si versarono in massa sulla mia abitazione presso
l'Ospedaletto. Che fare! Io mi trovava un mucchio di attrezzi di chiesa e di
ricreazione; una turba di fanciulli seguiva ovunque i miei passi, mentre io non aveva
un palmo di terreno dove poterci raccogliere.
Celando tuttavia le mie pene mi mostrava con tutti di buon umore e tutti li
rallegrava raccontando mille maraviglie intorno al futuro Oratorio che per allora
esisteva soltanto nella mente mia e nei decreti del Signore. Per poterli poi in
qualche modo occupare ne' giorni festivi li conduceva quando a Sassi, quando alla
Madonna del Pilone; alla Madonna di Campagna; al monte dei Cappuccini ed anche
fino a Superga: In queste chiese procurava di celebrare loro la S. Messa nel mattino
colla spiegazione del vangelo. La sera un po' di catechismo, canto di lodi, qualche
racconto, quindi giri, passeggiate fino all'ora di fare ritorno alle proprie famiglie.
Sembrava che questa critica posizione dovesse mandare in fumo ogni pensiero di
Oratorio, ed invece aumentava in numero straordinario gli avventori.

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Intanto eravamo al mese di novembre (1845) stagione non più opportuna per fare
passeggiate o camminate fuori città. D'accordo col T. Borrelli abbiamo preso a
pigione tre camere della casa di D. Moretta, che è quella vicina, quasi di fronte
all'attuale chiesa di Maria Ausil. Ora quella casa a forza di riparazioni venne
pressoché rifatta. Colà passammo quattro mesi, angustiati pel locale, ma contenti di
poter almeno in quelle camerette raccogliere i nostri allievi, istruirli e dar loro
comodità specialmente delle confessioni. Anzi in quello stesso inverno abbiamo
cominciato le scuole serali. Era la prima volta che nei nostri paesi parlavasi di tal
genere di scuole; perciò se ne fece gran rumore[,] alcuni in favore, altri in avverso.
Fu pure in quel tempo che si propagarono alcune dicerie strane assai. Taluni
chiamavano D. Bosco rivoluzionario, altri il volevano pazzo oppure eretico. La
ragionavano così: Questo Oratorio allontana i giovanetti dalle parocchie, quindi il
paroco si vedrà la chiesa vuota, né più potrà conoscere i fanciulli, di cui dovra
rendere I conto al tribunale del Signore. Dunque D. Bosco mandi i fanciulli alle loro
parocchie e cessi di raccoglierli in altre località.
Così dicevanmi due rispettabili paroci di questa città che mi visitarono a nome
anche dei loro colleghi.
— I giovani che raccolgo, loro rispondeva, non turbano la frequenza alle parocchie,
perché la maggior parte di essi non conoscono né paroco né parocchia.
— Perché?—Perché sono quasi tutti forestieri, i quali rimangono abbandonati dai
parenti in questa città, o qui venuti per trovare lavoro, che non poterono avere.
Savoiardi, Svizzeri, Valdostani, Biellesi, Novaresi, Lombardi sono quelli che per
ordinario frequentano le mie adunanze.
— Non potrebbe mandare questi giovanetti alle rispettive parocchie?
— Non le conoscono.—Perché non farle conoscere?
— Non è possibile. La lontananza dalla patria, la diversità di linguaggio, la
incertezza del domicilio, e l'ignoranza dei luoghi rendono difficile per non dire
impossibile l'andare alle parocchie. Di più molti di essi sono già adulti: taluni
toccano i 18, i 20 ed anche i 25 anni d'età, e sono affatto ignari delle cose di
religione. Chi mai potrebbe indurre costoro di andarsi ad associare con ragazzi di 8
o 10 anni, molto più di loro istrutti?
—Non potrebbe Ella stessa condurli e venire a fare il Catechismo nelle stesse
Chiese parocchiali?
—Potrei al più recarmi ad una parocchia, ma non a tutte. Si potrebbe a ciò
provvedere se ogni parroco volesse prendersi cura di venire, od inviare chi
raccogliesse questi fanciulli e li guidasse alle rispettive parocchie. Ma anche tal
cosa riesce difficile, perché non pochi di quelli sono dissipati, ed anche discoli, i
quali lasciandosi adescare dalla ricreazione, dalle passeggiate, che tra noi hanno
luogo, si risolvono a frequentare anche i Catechismi e le altre pratiche di pietà.
Perciò sarebbe necessario che ogni Parocchia avesse eziandio un luogo determinato
dove radunare e trattenere questi giovanetti in piacevole ricreazione.
— Queste cose sono impossibili. Non ci sono locali, né preti che abbiano libero il
giorno festivo per queste occupazioni.

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— Dunque?
— Dunque faccia come giudica bene, intanto stabiliremo tra di noi quello che sia
meglio di fare.
Venne quindi agitata la questione tra i paroci Torinesi, se gli Oratorii dovevansi
promuovere oppure riprovarsi. Si disse pro e contro. Il Curato di Borgo Dora D.
Agostino Cattino col T. Ponzati Curato di S. Agostino[,] mi portò la risposta in questi
termini: I paroci della Città di Torino raccolti nelle solite loro Conferenze trattarono
sulla convenienza degli Oratorii. Ponderati i timori e le speranze da una parte e
dall'altra, non potendo ciascun paroco provvedere un Oratorio nella rispettiva
parocchia incoraggiscono il Sac. Bosco a continuare finché non sia presa altra
deliberazione.
Mentre queste cose avvenivano giungeva la primavera del 1846. La casa Moretta
era abitata da molti inquilini, i quali, sbalorditi dagli schiamazzi e dal continuo
rumore dell'andare e venire dei giovanetti mossero lagnanza al padrone,
dichiarando di smettersi tutti dalla pigione se non cessavano immantinenti quelle
radunanze. Così il buon sacerdote Moretta dovette avvisarci di cercarci
immediatamente altra località dove raccogliere i nostri giovani se volevamo tenere
in vita il nostro Oratorio.
20° L’Oratorio in un prato - Passeggiata a Superga
Con grave rincrescimento e con non leggero disturbo delle nostre radunanze nel
Marzo del 1846 dovemmo abbandonare Casa Moretta e prendere in affitto un prato
dai fratelli Filippi, dove attualmente avvi una fonderia di getto ossia ghisa. Io mi
trovai la a cielo scoperto, in mezzo ad un prato, cinto da grama siepe, che lasciava
libero adito a chiunque volesse entrare. I giovanetti erano da tre a quattrocento, i
quali trovavano il loro Paradiso terrestre in quell'Oratorio, la cui volta, le cui pareti
erano la medesima volta del Cielo.
Ma in questo luogo mai praticare le cose di religione? Alla bella meglio qui si faceva
il Catechismo, si cantavano lodi, si cantavano i Vespri, quindi il T. Borrelli od io
montavamo sopra di una riva o sopra di una sedia e indirizzavamo il nostro
sermoncino ai giovani, che ansioni venivano ad ascoltarci.
Le confessioni poi si facevano così: Ne' giorni festivi di buon mattino io mi trovava
nel prato dove già parecchi attendevano. Mettevami a sedere sopra di una riva
ascoltando le confessioni degli uni mentre altri ne facevano la preparazione od il
ringraziamento, dopo cui non pochi ripigliavano la loro ricreazione. Ad un certo
punto della mattinata si dava un suono di tromba, che radunava tutti i giovanetti,
altro suono di tromba indicava il silenzio, che mi dava campo a parlare e segnare
dove andavamo ad ascoltare la Santa Messa e fare la Comunione.
Talvolta, come si disse, andavamo alla Madonna di Campagna, alla Chiesa della
Consolata, a Stupinigi o nei luoghi sopra mentovati. Siccome poi facevamo frequenti
camminate in luoghi anche lontani, così io ne descriverò una fatta a Superga, da cui
si conoscerà come si facevano le altre.

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Raccolti i giovani nel prato e dato loro tempo a giuocare alquanto alle bocce, alle
piastrelle[,] alle stampelle, etc., si suonava un tamburo quindi una tromba che
segnava la radunanza e la partenza. Si procurava che ognuno ascoltasse prima la
Messa e poco dopo le 9 partimmo alla volta di Superga. Chi portava canestri di
pane, chi cacio o salame o frutta od altre cose necessarie per quella giornata. Si
osservava silenzio sin fuori delle abitazioni della città, di poi cominciavano gli
schiamazzi, canti e grida ma sempre in fila ed ordinati.
Giunti poi a' piedi della salita, che conduce a quella basilica, trovai uno stupendo
cavallino che, bardato a dovere, il Sac. Anselmetti, Curato di quella Chiesa mi aveva
mandato. Laàpure riceveva una letterina del T. Borrelli, che ci aveva preceduti,
nella quale diceva: "Venga tranquillo coi cari nostri giovani, la minestra, la pietanza,
il vino sono preparati". Io montai sopra quel cavallo e poi lessi ad alta voce quella
lettera. Tutti si raccolsero intorno al cavallo e udita quella lettura unanimi si posero
a fare applausi ed ovazioni gridando, schiamazzando e cantando. Gli uni
prendevano il cavallo per le orecchie, gli altri per le narici o per la coda urtando ora
la povera bestia, ora chi la cavalcava. Il mansueto animale tutto sopportava in pace
dando segni di pazienza maggiore di quella che avrebbe dato chi era portato sul
dorso. In mezzo a que' trambusti avevamo la nostra musica che consisteva in un
tamburo, in una tromba ed in una chitarra. Era tutto disaccordo, ma servendo a fare
rumore colle voci dei giovani bastava per fare una maravigliosa armonia.
Stanchi dal ridere, scherzare, cantare e direi di urlare[,] giungemmo al luogo
stabilito. I giovanetti, perché sudati, si raccolsero nel cortile del santuario e furono
tosto provveduti di quanto era necessario pel vorace loro appetito. Dopo alquanto
riposo li radunai tutti e loro raccontai minutamente la storia maravigliosa di quella
Basilica, delle tombe reali che esistono sotto alla medesima, e dell'Accademia
Ecclesiastica ivi eretta da Carlo Alberto e promossa dai Vescovi degli Stati Sardi.
Il T. Guglielmo Audisio, che ne era preside, fece la graziosa spesa di una minestra
colla pietanza a tutti gli ospitati. Il paroco donò vino e frutta. Si concedette lo spazio
di un paio d'ore per visitare i locali, di poi ci siamo radunati in Chiesa, dove era
pure intervenuto molto popolo. Alle 3 pomeridiane ho fatto un breve discorso dal
pulpito, dopo cui alcuni più favoriti dalla voce cantarono un Tantum ergo in musica,
che per la novità delle voci bianche trasse tutti in ammirazione. Alle sei si fecero
salire alcuni globi areostatici, di poi tra vivi ringraziamenti a chi ci aveva beneficati
partimmo alla volta di Torino. Il medesimo cantare, ridere, correre e talvolta
pregare occupò la nostra via. Giunti in città, di mano in mano che alcuno giungeva
al sito più vicino alla propria casa cessava dalle file e si ritirava in famiglia.
Quand'io giunsi al Rifugio aveva ancora con me 7 od 8 giovani dei più robusti che
portavano gli attrezzi usati nella giornata.
21° Il Marchese Cavour e sue minacce - Nuovi disturbi per l'Oratorio
Non è a dire quale entusiasmo eccitassero nei giovanetti quelle passeggiate.
Affezionati a questa mescolanza di divozione, di trastulli, di passeggiate ognuno mi
diveniva affezionatissimo a segno, che non solamente erano ubbidientissimi a' miei
comandi, ma erano ansiosi che loro affidassi qualche incumbenza da compiere. Un
giorno un carabiniere vedendomi con un cenno di mano ad imporre silenzio ad un
quattrocento giovanetti, che saltellavano e schiamazzavano pel prato, si pose ad
esclamare: Se questo prete fosse un generale d'armata, potrebbe combattere contro

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al più potente esercito del mondo. E veramente l'ubbidienza e l'affezione de' miei
allievi andava alla follia.
Questo per altro die' cagione a rinnovare la voce che D. Bosco co' suoi figli poteva
ad ogni momento eccitare una rivoluzione. Tale asserzione, che appoggiava sul
ridicolo, trovò di nuovo credenza tra le autorità locali e specialmente presso al
Marchese di Cavour, padre dei celebri Camillo e Gustavo, allora Vicario di Città, che
era quanto dire capo del potere urbano. Egli adunque mi fece chiamare al Palazzo
Municipale e tenutomi lungo ragionamento sopra le fole che si spacciavano a mio
conto conchiuse con dirmi:— Mio buon prete, prendete il mio consiglio, lasciate in
libertà quei mascalzoni: Essi non daranno che dispiaceri a voi ed alle pubbliche
autorità. Io sono assicurato, che tali radunanze sono pericolose, e perciò io non
posso tollerarle.
— Io, risposi io, non ho altra mira, Sig. Marchese, che migliorare la sorte di questi
poveri figli del popolo. Non dimando mezzi pecuniarii ma soltanto un luogo dove
poterli raccogliere. Con questo mezzo spero di poter diminuire il numero dei discoli,
e di quelli che vanno ad abitare le prigioni.
— V'ingannate, mio buon prete; vi affaticate invano. Io non posso assegnarvi alcuna
località ravvisando tali radunanze pericolose; e voi dove prenderete i mezzi per
pagare pigioni e sopperire a tante spese, che vi cagionano questi vagabondi? Vi
ripeto qui, che io non posso permettervi tali radunanze.
— I risultati ottenuti, Sig. Marchese, mi assicurano che non fatico invano. Molti
giovanetti totalmente abbandonati furono raccolti, liberati dai pericoli, avviati a
qualche mestiere, e le prigioni non furono più loro abitazione. I mezzi materiali
finora non mi mancarono, essi sono nelle mani di Dio, il quale talvolta si serve di
spregevoli istrumenti per compiere i suoi sublimi disegni.
— Abbiate pazienza, ubbiditemi senz'altro, io non posso permettervi tali radunanze.
— Non concedetelo per me, Sig. Marchese, ma concedetelo pel bene di tanti
giovanetti abbandonati, che forse andrebbero a fare trista fine.
— Tacete, io non sono qui per disputare. Questo è un disordine, ed io lo voglio e lo
debbo impedire. Non sapete che ogni assembramento è proibito, ove non vi sia
legittimo permesso?
— Li miei assembramenti non hanno scopo politico: Io insegno il Catechismo a'
poveri ragazzi e questo faccio col permesso dell'Arcivescovo.
— L'Arcivescovo è inforrnato di queste cose?
— Ne è pienamente informato, e non ho mai mosso un passo senza il consentimento
di lui.
— Ma io non posso permettere questi assembramenti?
— Io credo, Sig. Marchese, che voi non vorrete proibirmi di fare un Catechismo col
permesso del mio Arcivescovo.
— E se l'Arcivescovo vi dicesse di desistere da questa vostra ridicola impresa, non
opporreste difficoltà?

6.10 Page 60

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— Nissunissima. Ho cominciato ed ho finora continuato col parere del mio
Superiore Ecclesiastico, e ad un semplice suo motto sarò tutto a' cenni suoi.
— Andate, parlerò coll'Arcivescovo, ma non siate poi ostinato agli ordini suoi,
altrimenti mi costringerete a misure severe, che io non vorrei usare.
Ridotte le cose a questo punto, credeva, almeno per qualche tempo, essere lasciato
in pace. Ma quale non fu la mia perturbazione quando giunsi a casa e trovai una
lettera con cui i fratelli Filippi mi licenziavano dal locale a me pigionato.
— I suoi ragazzi, mi dicevano, calpestando ripetutamente il nostro prato faranno
perdere fino la radice dell'erba. Noi siamo contenti di condonarle la pigione scaduta
purché entro a quindici giorni ci dia libero il nostro prato. Maggior dilazione non le
possiamo concedere.
Sparsa la voce di tante difficoltà parecchi amici mi andavano dicendo di
abbandonare l'inutile impresa, così detta da loro. Altri poi vedendomi sopra
pensiero e sempre circondato da ragazzi cominciavano a dire che io era venuto
pazzo.
Un giorno il Teologo Borrelli in presenza del sac. Pacchiotti Sebastiano e di altri
prese a dirmi così: Per non esporci a perdere tutto è meglio salvare qualche cosa.
Lasciamo in libertà tutti gli attuali giovanetti, riteniamone soltanto una ventina dei
più piccoli. Mentre continueremo ad istruire costoro nel Catechismo, Dio ci aprirà
la via e l'opportunità di fare di più. Loro risposi: Non occorre aspettare altra
opportunità, il sito è preparato, vi è un cortile spazioso, una casa con molti fanciulli,
porticato, Chiesa, preti, cherici, tutto ai nostri cenni.
— Ma dove sono queste cose, interruppe il T. Borrelli.
— Io non so dire dove siano, ma esistono certamente e sono per noi.
Allora il T. Borrelli dando in copioso pianto, povero D. Bosco, esclamò, gli è dato la
volta al cervello. Mi prese per mano, mi baciò e si allontano con D. Pacchiotti,
lasciandomi solo nella mia camera.
22° Congedo dal Rifugio - Altra imputazione di pazzia
Le molte cose che andavansi dicendo sul conto di D. Bosco cominciavano ad
inquietare la Marchesa Barolo, tanto più da che il Municipio Torinese si mostrava
contrario a' miei progetti.
Un giorno adunque venuta in mia camera Ella prese a parlarmi così:
— Io sono assai contenta delle cure che si prende pei miei istituti. La ringrazio che
abbia cotanto lavorato per introdurre in quelli il canto delle laudi sacre, il canto
fermo, la musica, l’aritmetica ed anche il sistema metrico.
— Non occorre ringraziamenti: I preti devono lavorare per loro dovere, Dio paghera
tutto, e non si parli più di questo.

7 Pages 61-70

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7.1 Page 61

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— Voleva dire che mi rincresce assai, che la moltitudine delle sue occupazioni
abbiano alterata la sua sanità. Non e possibile che possa continuare la direzione
delle mie opere e quella dei ragazzi abbandonati, tanto più presentemente, che il
loro numero è cresciuto fuori misura. Io sono per proporle di fare soltanto quello,
che è di obbligo suo, cioè direzione dell'Ospedaletto, non più andare nelle carceri,
nel Cottolengo e sospendere ogni sollecitudine pei fanciulli. Che ne dice?
— Signora Marchesa, Dio mi ha finora aiutato e non mancherà di aiutarmi. Non si
inquieti sul da farsi. Tra me, D. Pacchiotti, il T. Borrelli faremo tutto.
— Ma io non posso più tollerare che ella si ammazzi. Tante e così svariate
occupazioni da volere o non volere tornano a detrimento della sua sanità e de' miei
istituti. E poi le voci che corrono intorno alla sua sanità mentale; l’opposizione delle
autorità locali mi costringono a consigliarla...
— A che, signora Marchesa?
— O a lasciare l'opera de' ragazzi, o l'opera del Rifugio. Ci pensi e mi risponderà.
La mia risposta è già pensata. Ella ha danaro e con facilità troverà preti quanti ne
vuole pe' suoi istituti. De' poveri fanciulli non è così. In questo momento se io mi
ritiro, ogni cosa va in fumo perciò io continuerò a fare parimenti quello che posso
pel Rifugio, cesserò dall'impiego regolare e mi darò di proposito alla cura dei
fanciulli abbandonati.
— Ma come potrà vivere?
— Dio mi ha sempre aiutato e mi aiuterà anche per l'avvenire.
— Ma Ella è rovinata di sanità, la sua testa non la serve più; andra ad ingolfarsi nei
debiti; verrà da me, ed io protesto fin d'ora che non le darò mai un soldo pei suoi
ragazzi. Ora accetti il mio consiglio di madre. Io le continuerò lo stipendio, e
l'aumenterò se vuole. Ella vada a passare uno, tre, cinque anni in qualche sito: si
riposi, quando sia ben ristabilito, ritorni al Rifugio e sarà sempre il benvenuto.
Altrimenti mi mette nella spiacevole necessità di congedarlo da' miei istituti. Ci
pensi seriamente.
— Ci ho già pensato, signora Marchesa. La mia vita e consacrata al bene della
gioventù. La ringrazio delle profferte che mi fa, ma non posso allontanarmi dalla via
che la divina Provvidenza mi ha tracciato.
— Dunque preferisce i suoi vagabondi ai miei Istituti? Se è così, resta congedato in
questo momento. Oggi stesso provvederò chi la deve rimpiazzare.
Le feci vedere che un diffidamento così precipitoso avrebbe fatto supporre motivi
non onorevoli né a me né a Lei: era meglio agire con calma, e conservare tra noi
quella stessa carità, con cui dovremo poi parlare ambidue al tribunale del Signore.
— Dunque, conchiuse, le darò tre mesi, dopo cui lascierà ad altri la direzione del
mio Ospedaletto.
Accettai il diffidamento, abbandonandomi a quello che Dio avrebbe disposto di me.

7.2 Page 62

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Intanto prevaleva ognor più la voce che D. Bosco era divenuto pazzo. I miei amici si
mostravano dolenti; altri ridevano; ma tutti si tenevano lontani da me.
L'Arcivescovo lasciava fare; D. Caffasso consigliava di temporeggiare, il T. Borrelli
taceva. Così tutti i miei collaboratori mi lasciarono solo in mezzo a circa
quattrocento ragazzi.
In quell'occasione alcune rispettabili persone vollero prendersi cura della mia
sanità. Questo D. Bosco, diceva uno di loro, ha delle fissazioni, che lo condurranno
inevitabilmente alla pazzia. Forse una cura gli farà bene. Conduciamolo al
manicomio e colà, coi dovuti riguardi, si farà quanto la prudenza suggerira.
Furono incaricati due di venirmi a prendere con una carrozza e condurmi al
manicomio. I due messaggeri mi salutarono cortesemente, di poi chiestemi notizie
della sanità, dell'Oratorio, del futuro edifizio e chiesa, trassero in fine un profondo
sospiro e proruppero in queste parole: E’ vero.
Dopo ciò mi invitarono di recarmi seco loro a fare una passeggiata. Un po' di aria ti
farà bene; vieni; abbiamo appunto la carrozza, andremo insieme ed avremo tempo a
discorrere. Mi accorsi allora del giuoco che mi volevano fare, e senza mostrarmene
accorto, li accompagnai alla vettura, insistetti che essi entrassero primi a prendere
posto nella carrozza, e invece di entrarci anch'io, ne chiusi lo sportello in fretta
dicendo al cocchiere: Andate con tutta celerita al manicomio, dove questi due
ecclesiastici sono aspettati.
23° Trasferimento nell'attuale Oratorio di S. Francesco di Sales in Valdocco
Mentre succedevansi le cose sopramentovate, era venuta l'ultima domenica, in cui
mi era ancora permesso di tenere l’Oratorio nel prato (15 marzo 1846). Io taceva
tutto, ma tutti sapevano i miei imbarazzi e le mie spine. In sulla sera di quel giorno
rimirai la moltitudine di fanciulli, che si trastullavano; e considerava la copiosa
messe, che si andava preparando pel sacro ministero, per cui era solo di operai,
sfinito di forze, di sanità male andata senza sapere dove avrei in avvenire potuto
radunare i miei ragazzi. Mi sentii vivamente commosso.
Ritiratomi pertanto in disparte, mi posi a passeggiare da solo e forse per la prima
volta mi sentii commosso fino alle lacrime. Passeggiando e alzando gli occhi al
Cielo, mio Dio, esclamai, perché non mi fate palese il luogo in cui volete che io
raccolga questi fanciulli? O fatemelo conoscere o ditemi quello che debbo fare?
Terminava quelle espressioni, quando giunge un cotale, di nome Pancrazio Soave
che balbettando mi dice: E vero che cerca un sito per fare un laboratorio?
— Non un laboratorio, ma un Oratorio.
— Non so se sia lo stesso Oratorio o laboratorio; ma un sito c’è, lo venga a vedere. È
di proprietà del Sig. Giuseppe Pinardi, onesta persona. Venga e farà un buon
contratto.
Giunse opportuno in quel momento un fedele mio collega di Seminario, D. Merla
Pietro, fondatore dell'Opera pia nota sotto al nome di famiglia di S. Pietro. Egli si
occupava con zelo nel sacro ministero, ed aveva iniziato il suo istituto ad oggetto di

7.3 Page 63

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provvedere al triste abbandono in cui si trovano tante zitelle o donne sgraziate, che,
dopo aver scontato la pena del carcere, per lo più sono abborrite dalla società degli
onesti a segno che loro riesce pressoché impossibile trovare chi loro voglia dare
pane o lavoro. Quando a quel degno Sacerdote rimaneva qualche momento di
tempo, correva con piacere in aiuto del suo amico, che per lo più si trovava solo in
mezzo ad una moltitudine di ragazzi.
— Che c'è, disse appena mi vide, non ti vidi mai così malinconico. Ti colse qualche
disgrazia?
— Disgrazia no, ma un grande imbarazzo. Oggi è l'ultimo giorno, che mi è permesso
dimorare in questo prato. Siamo alla sera; rimangono due [ore] di giorno; debbo
dire ai miei figli dove si raduneranno un'altra domenica e non so. Avvi qui un amico,
che mi dice esservi un locale forse conveniente. Vieni, assisti un momento la
ricreazione; io vado a vedere e presto saro di nuovo qua.
Giunto al luogo indicato vidi una casupola di un solo piano colla scala e balcone di
legno tarlato, attorniata da orti, prati, campi. Io voleva salire la scala, ma il Pinardi
ed il Pancrazio, no, mi dissero. Il sito destinato per Lei è qui di dietro. Era una
tettoia prolungata, che da un lato appoggiava al muro, dall'altro terminava
coll'altezza di circa un metro da terra. Poteva per necessità servire a magazzino o
per legnaia e non di più. Per entrarci dentro ho dovuto tenere chino il capo a fine di
non urtare nel solaio.
— Non mi serve, perché troppo bassa: dissi.
— Io la farò aggiustare come vuole, ripigliò graziosamente il Pinardi. Io scaverò,
farò scalini, farò altro pavimento; ma desidero tanto che il suo laboratorio venga
stabilito qui.
— Non un laboratorio, ma un Oratorio, una piccola chiesa per radunare dei
giovanetti.
— Più volentieri ancora. Mi presterò assai di buon grado. Facciamo contratto. Sono
anch'io cantore, verrò ad aiutarla; porterò due sedie, una per me l'altra per mia
moglie. E poi in mia casa ho una lampana, la porterò ancora qua.
Quel dabben uomo sembrava che vaneggiasse per la contentezza di avere una
chiesa in sua casa.
— Vi ringrazio, o mio buon amico, della vostra carità e del vostro buon volere.
Accetto queste belle offerte. Se voi mi potete abbassare il pavimento non meno di
un piede (cent. 50) io l'accetto, ma quanto dimandate?
— Trecento franchi; me ne vogliono dare di più, ma preferisco Lei, che vuole
destinare questo locale al pubblico vantaggio ed alla religione.
— Ve ne do trecentoventi, purché mi diate anche la striscia di sito che lo circonda
per la ricreazione dei giovani; purché mi promettiate che domenica prossima io
possa già venir qua co' miel ragazzi.
— Inteso, patto conchiuso: Venga pure. Tutto sarà ultimato.

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Non cercai di più. Corsi tosto da' miei giovani; li raccolsi intorno a me e ad alta voce
mi posi a gridare: — Coraggio, miei figli, abbiamo un Oratorio più stabile del
passato; avremo chiesa, sacristia, camere per le scuole, sito per la ricreazione.
Domenica, domenica andremo nel novello Oratorio che e colà in casa Pinardi; e loro
additava il luogo.
Quelle parole furono accolte col più vivo entusiasmo. Chi faceva corse o salti di
gioia; chi stava come immobile; chi gridava con voci e sarei per dire con urli e
strilli. Ma commossi come chi prova un gran piacere e non sa come esprimerlo,
trasportati da profonda gratitudine e per ringraziare la S. Vergine che aveva accolte
ed esaudite le nostre preghiere, che in quel mattino stesso avevam fatto alla
Madonna di Campagna, ci siamo inginocchiati per l'ultima volta in quel prato, ed
abbiamo recitato il SS. Rosario dopo cui ognuno si ritiro a casa sua. Così veniva
dato l'ultimo saluto a quel luogo, che ciascuno aveva amato per necessità, ma che
per la speranza di averne un altro migliore abbandonava senza rincrescimento.
La Domenica seguente solennita di Pasqua nel giorno 12 di Aprile, si trasportarono
colà tutti gli attrezzi di chiesa e di ricreazione, e andammo a prendere possesso
della nuova località.
MEMORIE DELL'ORATORIO DI S. FRANCESCO DI SALES
DAL 1846 AL 1855
La nuova chiesa
Sebbene questa nuova chiesa fosse una vera meschinità, tuttavia essendo pigionato
con un contratto formale ci liberava dalle inquietudini di dover ad ogni momento
emigrare da un luogo ad un altro con gravissimi disturbi. A me poi sembrava essere
veramente il sito dove aveva sognato scritto: Haec est domus mea, inde gloria mea,
sebbene fossero diverse le disposizioni del cielo. Non piccola difficoltà presentava la
casa presso cui ci trovavamo; era casa d'immoralità; difficoltà eziandio per parte
dell'albergo della Giardiniera, attuale casa Bellezza, dove si raccoglievano
specialmente ne' giorni festivi, tutti i buontemponi della città. Ciò nulla di meno
potemmo tutto superare e cominciare a fare regolarmente le nostre radunanze.
Ultimati i lavori, l’Arcivescovo in data... aprile concedeva la facoltà di benedire e
consacrare al divin culto quel modesto edifizio. Ciò avveniva la domenica del...
aprile 1846. Il medesimo Arcivescovo per mostrare la sua soddisfazione rinnovò la
facoltà già concessa quando eravamo al Rifugio, cioè di cantar messa, fare tridui,
novene, esercizi spirituali, promuovere alla cresima, alla santa comunione, e di
poter eziandio soddisfare al precetto pasquale a tutti quelli che avessero
frequentata la nostra Istituzione.
Il sito stabile, i segni d'approvazione dell'Arcivescovo, le solenni funzioni, la musica,
il rumore di un giardino di ricreazione, attraevano fanciulli da tutte parti. Parecchi
ecclesiastici presero a ritornare. Tra quelli che prestavano l'opera loro vuolsi
notare, D. Trivero Giuseppe, T. Carpano Giascinto, T. Gio. Vola, il T. Roberto
Murialdo, e l'intrepido T. Borrelli.
Le funzioni si facevano così. Ne' giorni festivi di buon mattino si apriva la chiesa: e
si cominciavano le confessioni, che duravano fino all'ora della messa. Essa era

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fissata alle ore otto, ma per appagare la moltitudine di quelli, che desideravano
confessarsi, non di rado era differita fino alle nove ed anche di più. Qualcuno de'
preti, quando ce n'erano, assisteva, e con voce alternata recitava le orazioni. Tra la
messa facevano la s. comunione quelli che erano preparati. Finita la messa e tolti i
paramentali io montava sopra una bassa cattedra per fare la spiegazione del
Vangelo, che allora si cangiò per dare principio al racconto regolare della Storia
Sacra. Questi racconti ridotti a forma semplice e popolare vestiti dei costumi dei
tempi, dei luoghi, dei nomi geografici coi loro confronti, piacevano assai ai piccolini,
agli adulti ed agli stessi ecclesiastici che trovavansi presenti. Alla predica teneva
dietro la scuola che durava fino a mezzo giorno.
Ad un'ora pom. cominciava la ricreazione, colle bocce, stampelle, coi fucili, colle
spade in legno, e coi primi attrezzi di Ginnastica. Alle due mezzo si dava principio al
catechismo. L'ignoranza in generale era grandissima. Più volte mi avvenne di
cominciare il canto dell'Ave Maria e di circa quattrocento giovanetti, che erano
presenti, non uno era capace di rispondere, e nemmeno di continuare, se cessava la
mia voce.
Terminato il catechismo, non potendosi per allora cantare i Vespri si recitava il
Rosario. Più tardi si cominciò a cantare l'Ave Maris Stella, poi il Magnificat, poi il
Dixit, quindi gli altri salmi; e in fine un'Antifona e nello spazio di un anno ci siamo
fatti capaci di cantare tutto il Vespro della Madonna.
A queste pratiche teneva dietro un breve sermoncino, che per lo più era un
esempio, in cui si personificava un vizio o qualche virtù. Ogni cosa aveva termine
col canto delle Litanie e colla benedizione del SS. Sacramento.
Usciti di chiesa cominciava il tempo libero in cui ciascuno poteva occuparsi a
piacimento. Chi continuava la classe di catechismo, altri del canto, o di lettura, ma
la maggior parte se la passava saltando, correndo e godendosela in varii giuochi e
trastulli. Tutti i ritrovati pei salti, corse, bussolotti, corde, bastoni, siccome
anticamente aveva appreso dai saltimbanchi, erano messi in opera sotto alla mia
disciplina. Così potevasi tenere a freno quella moltitudine, la quale in gran parte
potevansi dire: Sicut equus et mulus, quibus non est intellectus ( I ).
-------------------------------------------------------------------------------------------------------
(1) Tob. c. VI, 17 e Psal. XXXI, 9.
-------------------------------------------------------------------------------------------------------
Debbo dire per altro che nella grande ignoranza ho sempre ammirato un grande
rispetto per le cose di chiesa, pei sacri ministri ed un grande trasporto per imparare
le cose di religione.
0pklioAnzi io mi serviva di quella smodata ricreazione per insinuare a' miei 600
allievi pensieri di religione e di frequenza ai santi sacramenti. Agli uni con una
parola nell'orecchio raccomandava maggior ubbidienza, maggior puntualità nei
doveri del proprio stato; ad altri di frequentare il catechismo, di venirsi a confessare
e simili. Di modo che per me quei trastulli erano un mezzo opportuno per
provvedermi una moltitudine di fanciulli che al sabato a sera o la domenica mattina
con tutto buon volere venivano a fare la loro confessione:
Talvolta li toglieva dagli stessi trastulli per condurli a confessarsi, qualora li avessi
veduti alquanto restii a quegli importanti doveri. Riferirò uno dei molti fatti. Un

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giovanetto era stato invitato più volte di venire a fare pasqua; egli prometteva ogni
domenica di venire, ma poi non manteneva la parola. Un giorno festivo, dopo le
sacre funzioni egli si pose a fare ricreazione la più vivace. Mentre correva in tutti i
lati saltando e correndo e tutto molle di sudore[,] tutto rosso nella faccia da non
sapere più se fosse in questo mondo o nell'altro, lo chiesi in tutta fretta pregandolo
a recarsi meco in sacristia per aiutarmi a compiere un affare. Voleva venire
com'era, in manica di camicia; no[,] gli dissi, mettiti la giubbetta e vieni. Giunti alla
sacristia il condussi in coro quindi soggiunsi:
Inginocchiati sopra questo genu~lessorio. Lo fece; ma egli voleva traslocare
l'inginocchiatoio.
— No, soggiunsi, lascia ogni cosa come è.
— Che vuole adunque da me?
— Confessarti. Non sono preparato.—Lo so.
— Dunque?—Dunque preparati, e poi ti confesserai.
— Bene, benone, esclamò; ne avevo proprio bisogno; ne aveva vero bisogno, ha
fatto bene a prendermi in questo modo, altrimenti per timore dei compagni non mi
sarei ancora venuto a confessare. Mentre recitai una parte di Breviario, l’altro si
preparò alquanto; di poi fece assai di buon grado la sua confessione con divoto
ringraziamento. D'allora in poi fu costantemente dei più assidui a compiere i suoi
religiosi doveri. Soleva poi raccontare il fatto ai suoi compagni conchiudendo: Don
Bosco uso un bello stratagemma per cogliere il merlo nella gabbia.
Sul far della notte, con un segno di campanello erano tutti raccolti in chiesa, dove si
faceva un po' di preghiera o si recitava il Rosario coll' Angelus, ed ogni cosa
compievasi col canto di Lodato sempre sia etc.
Usciti di chiesa mettevami in mezzo di loro, li accompagnava mentre essi cantavano
o schiamazzavano. Fatto la salita del Rondo, si cantava ancora qualche strofa di
laude sacra, di poi si invitavano per la seguente domenica, ed augurandoci a
vicenda ad alta voce la buona sera, ognuno se ne andava pei fatti suoi.
Una scena singolare era la partenza dall'Oratorio. Usciti di chiesa ciascuno dava le
mille volte la buona sera senza punto staccarsi dall'assemblea dei compagni. Io
aveva un bel dire: — Andate a casa, si fa notte, i parenti vi attendono.
Inutilmente. Bisognava che li lasciassi radunare; sei dei più robusti facevano colle
loro braccia una specie di sedia sopra cui come sopra di un trono era giuocoforza
che io mi ponessi a sedere. Messisi quindi in ordine a più file, portando D. Bosco
sopra quel palco di braccia, che superava i più alti di statura, procedevano
cantando[,] ridendo e schiamazzando fino al circolo detto comunemente il Rondo.
Colà si cantavano ancora alcune lodi, che avevano per conclusione il solenne canto
del Lodato sempre sia. Fattosi di poi un profondo silenzio io poteva allora a tutti
augurare buona sera e buona settimana. Tutti con quanto avevano di voce
rispondevano buona sera. In quel momento io veniva deposto dal mio trono; ognuno
andava in seno della propria famiglia, mentre alcuni dei più grandicelli mi
accompagnavano fino a casa mezzo morto per la stanchezza.

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2° Di nuovo Cavour - Ragioneria - Guardie civiche
Malgrado l’ordine[,] la disciplina e la tranquillità dell'Oratorio nostro, il Marchese
Cavour, Vicario di città, pretendeva che avessero fine i nostri assembramenti, che
egli chiamava pericolosi. Quando seppe che io aveva sempre proceduto col
consenso dell'Arcivescovo, convocò la così detta Ragioneria nel palazzo vescovile
essendo quel prelato allora alquanto ammalato.
La Ragioneria era una scelta de’ primari consiglieri municipali, nelle cui mani
concentravasi tutto il potere della civica amministrazione. Il capo della Ragioneria
detto Mastro di Ragione, primo Decurione od anche Vicario di città, in potere era
superiore al sindaco.
Quando io vidi tutti quei magnati, disse di poi l'Arcivescovo, a raccogliersi in questa
sala, mi parve doversi tenere il giudizio universale. Si disputò molto pro e contro;
ma in fine si conchiuse doversi assolutamente impedire e disperdere quegli
assembramenti, perché compromettevano la pubblica tranquillita.
Faceva parte della Ragioneria il conte Giuseppe Provana di Collegno, p. 124 nostro
insigne benefattore, e allora Ministro al Controllo generale, ossia delle Finanze
presso al Re Carlo Alberto. Più volte mi aveva dato sussidii e del suo proprio ed
anche per parte del Sovrano. Questo principe udiva assai con piacere a parlare
dell'Oratorio, e quando si faceva qualche solennità leggeva sempre volentieri la
relazione che io gli mandava scritta, o che il prefato conte faceva verbalmente. Mi
ha più volte fatto dire che egli molto stimava questa parte di ecclesiastico ministero,
paragonandolo al lavoro delle missioni straniere, esprimendo vivo desiderio che in
tutte le città e paesi del suo stato fossero attivate simili istituzioni. Per buon capo
d'anno soleva sempre mandarmi un sussidio di L. 300 con queste parole: Ai monelli
di D. Bosco.
Quando venne a sapere che la Ragioneria minacciava la dispersione delle nostre
adunanze die carico al prefato conte di comunicare la sua volontà con queste
parole: E’ mia intenzione che queste radunanze festive siano promosse e protette;
se avvi pericolo di disordine si studi modo di prevenirli e di impedirli.
Il conte Collegno, che silenzioso aveva assistito a tutta quella viva discussione,
quando osservò che se ne proponeva l'ordine di dispersione e definitivo
scioglimento, si alzò, chiese di parlare e comunico la sovrana intenzione, e la
protezione che il Re intendeva di prendere di quella microscopica istituzione.
A quelle parole tacque il Vicario e tacque la Ragioneria. Con premura il Vicario mi
mandò novellamente a chiamare e continuando il tono minaccievole e chiamandomi
ostinato, conchiuse con queste benevole parole: Io non voglio il male di nissuno. Voi
lavorate con buona intenzione, ma ciò che fate è pieno di pericoli. Essendo io
obbligato a tutelare la pubblica tranquillità, io manderò a sorvegliare voi e le vostre
radunanze. Alla minima cosa che vi possa compromettere io farò immediatamente
disperdere i vostri monelli e voi mi darete conto di quanto sarà per avvenire.
Fossero le agitazioni, cui andò soggetto, fosse qualche malanno che già lo
travagliasse, fatto fu che quella è stata l'ultima volta che il Vicario Cavour andò al
Palazzo Municipale. Assalito dalla podagra, dovette soffrire assai e fra pochi mesi
venne condotto alla tomba.

7.8 Page 68

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Ma per i sei mesi che visse ancora mandava ogni domenica alcuni arceri o guardie
civiche a passare con noi tutta la giornata, vegliando sopra tutto quello che in
chiesa o fuori di chiesa si diceva o si faceva.
— E bene, disse il Marchese Cavour ad una di quelle guardie, che cosa avete
veduto, udito in mezzo a quella marmaglia?
— Sig. Marchese, abbiamo veduto una moltitudine immensa di ragazzi a divertirsi
in mille modi: abbiamo udito in chiesa delle prediche che fanno paura. Si
raccontarono tante cose sull'inferno e sui demonii, che mi fecero venir volontà di
andarmi a confessare.
— E di politica?
— Di politica non si parlò punto, perché quei ragazzi non ne capirebbero niente.
Credo tratterebbero bene l'argomento delle pagnottelle, intorno a cui ciascuno
sarebbe in grado di fare la prima parte.
Morto Cavour non fu più alcuno del Municipio che ci abbia cagionato molestia, anzi
ogni volta se ne presento occasione il Municipio torinese ci fu sempre favorevole
fino al 1877.
3° Scuole domenicali - Scuole serali
A S. Francesco di Assisi io aveva già conosciuta la necessità di qualche scuola. Certi
fanciulli sono alquanto inoltrati negli anni e tuttora ignoranti delle verità della fede.
Per costoro il puro ammaestramento verbale sarebbe lungo e per lo più loro
annoierebbe, perciò facilmente cessano di intervenire. Si provò a fare un po' di
scuola, ma non si poteva per difetto di locali e di maestri opportuni che ci volessero
aiutare. Al Rifugio, di poi in casa Moretta si cominciò una scuola domenicale
stabile[,] ed anche la scuola serale regolare quando venimmo in Valdocco. Per
ottenere qualche buon risultato si prendeva un solo ramo d'insegnamento per volta.
Per esempio si faceva una domenica o due passare e ripassare l'alfabeto e la
relativa sillabazione; poi si prendeva subito il piccolo catechismo intorno a cui si
faceva leggere e sillabare fino a tanto che fossero in grado di leggere una o due
delle prime dimande del catechismo, e ciò serviva di lezione lungo la settimana. La
successiva domenica si faceva ripetere la stessa materia, aggiugnendo altre
dimande e risposte. In questa guisa in otto giorni festivi ho potuto ottenere che
taluni giungessero a leggere e a studiare da sé delle intere pagine di catechismo.
Ciò fu di grande guadagno nel tempo, giacché i più grandicelli dovevano
frequentare il catechismo quasi degli anni prima di poterli istruire abbastanza per
la sola confessione.
Le prove delle scuole domenicali riuscivano vantaggiose a molti, ma non bastavano;
perciocché non pochi perché di tardissimo ingegno, dimenticavano affatto quanto la
domenica prima avevano imparato. Furono allora introdotte le scuole serali che
cominciate al Rifugio si fecero con maggior regolarita in casa Moretta, e meglio
ancora appena si poté avere abitazione stabile in Valdocco.
Le scuole serali producevano due buoni effetti: animavano i giovanetti ad
intervenire per istruirsi nella letteratura, di cui sentivano grave bisogno; nel tempo

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stesso davano grande opportunita per istruirli nella religione, che formava lo scopo
delle nostre sollecitudini.
Ma dove prendere tanti maestri, mentre quasi ogni giorno uopo era di aggiugnere
nuove classi?
Per provvedere a questo bisogno mi sono messo a fare scuola ad un certo numero di
giovanetti della città. Somministrava loro l'insegnamento gratuito d'Italiano, di
Latino, di Francese, di Aritmetica, ma coll'obbligo di venirmi ad aiutare ad
insegnare il catechismo e fare la scuola domenicale e serale. Questi miei maestrini,
allora in numero di otto o dieci, continuarono ad aumentare in numero, e di qui
cominciò la categoria degli studenti.
Quando era ancora al Convitto di S. Francesco d'Assisi, fra i miei allievi ebbi
Gioanni Coriasco, ora Maestro Falegname[,] Vergnano Felice, ora neg. in
passamanterie[,] Delfino Paolo. Quest'ultimo ora è professore di corso Tecnico. Al
Rifugio ebbi Melanotte Anto[nio], ora Droghiere, Melanotte Gioanni, confetturiere,
Ferrero Felice, sensale; Ferrero Pietro, compositore; Piola Gioanni, falegname,
padrone di bottega; ad essi unironsi Genta Luigi, Mogna Vittorio; ed altri che però
non continuarono stabilmente. Doveva spendere molto tempo e molto danaro, e
generalmente al punto del bisogno la maggior parte mi abbandonava.
A costoro si aggiunsero altri pii signori di Torino. Costanti furono il sig. Gagliardi
Giuseppe chincagliere, Fino Gius. della stessa professione; Ritner Vittorio orefice ed
altri. I sacerdoti mi aiutavano specialmente per la celebrazione della santa messa,
per la predicazione e per le classi di catechismo ai più adulti.
Una difficoltà grande si presentava nei libri, perciocché terminato il piccolo
catechismo non aveva più alcun libro di testo. Ho esaminato tutte le piccole Storie
Sacre, che tra noi solevansi usare nelle scuole; ma non ne potei trovare alcuna che
soddisfacesse al mio bisogno. Mancanza di popolarità, fatti inopportuni, questioni
lunghe o fuori di tempo, erano comuni difetti. Molti fatti poi erano esposti in modo
che mettevano a pericolo la moralità dei giovanetti. Tutti poi si curavano poco di far
rilevare i punti che devono servire di fondamento alle verità della fede. Lo stesso
dicasi dei fatti che si riferiscono al culto esterno, al purgatorio, alla confessione,
Eucaristia e simili.
A fine di provvedere a questa parte di educazione che i tempi reclamavano
assolutamente, mi sono di proposito applicato a compilare una Storia Sacra che
oltre alla facilità della dicitura e popolarita dello stile fosse scevra dei mentovati
difetti. E’ questa la ragione che mi mosse a scrivere e stampare la così detta Storia
Sacra ad uso delle Scuole. Non poteva garantire un lavoro elegante, ma ho lavorato
con tutto il buon volere di giovare alla gioventù.
Fatti alcuni mesi di scuola abbiamo dato pubblici saggi del nostro insegnamento
festivo, in cui gli allievi furono interrogati su tutta la Storia Sacra, sulla relativa
geografia, con tutte le opportune interrogazioni. Erano spettatori il celebre Ab.
Aporti[,] Boncompagni, T. Pietro Baricco, Prof. Gius. Rayneri, e tutti applaudirono a
quell'esperimento.
Animati dai progressi ottenuti nelle scuole domenicali e serali[,] alla lettura e
scrittura fu eziandio aggiunta la classe di aritmetica e di disegno. Era la prima volta
che nei nostri paesi avevano luogo tali scuole. Da tutte parti se ne parlava come di
una grande novità. Molti professori ed altri distinti personaggi ci venivano con

7.10 Page 70

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frequenza a visitare. Lo stesso Municipio con alla testa il Comm. Gius. Duprè mandò
una commissione appositamente incaricata di recarsi a verificare se i decantati
risultati delle scuole serali erano realtà. Facevano eglino stessi delle dimande sulla
pronuncia; sulla contabilità; sulla declamazione e non potevano darsi ragione:
affatto illetterati fino ai 18 ed anche 20 anni potessero in pochi portarsi così avanti
nella educazione e nella istruzione. Al vedere quel gran numero di giovani adulti,
raccolti alla sera, che invece di girovagare per le vie, attendevano all’istruzione,
quei signori partirono pieni di entusiasmo. Fattane relazione in pieno Municipio
venne assegnata come premio una annualita di trecento franchi, che si e percepita
fino al 1 1878 quando, non se ne poté mai sapere la ragione, fu tolto quel sussidio
per darlo ad un altro istituto.
Il Cav. Gonella, il cui zelo e carità lasciarono in Torino gloriosa ed imperitura
memoria, era in quel tempo Direttore dell'Opera La mendicità istruita. Venne egli
pure più volte a vederci e l'anno dopo (1847) introdusse le stesse scuole, gli stessi
metodi nell'opera a lui affidata. Ma avendo riferita ogni cosa agli amministratori di
quell'Opera, con piena deliberazione decretarono un premio di mille franchi per le
nostre Scuole. Il Municipio lo seguì, e nello spazio di pochi anni, le scuole serali si
propagarono in tutte le principali città del Piemonte.
Altro bisogno apparve: un libro di divozione adattato ai tempi. Sono innumerabili
quelli, che, redatti da valente penna, corrono per le mani di tutti. Ma questi libri in
generale sono fatti per le persone culte, adulte, e per lo più possono servire pei
cattolici, ebrei e protestanti. Vedendo come l'eresia insidiosa si andava ogni giorno
più insinuando ho procurato di compilare un libro adatto alla gioventù, opportuno
per le loro idee religiose, appoggiato sulla Bibbia, il quale esponesse i fondamenti
della religione cattolica colla massima brevità e chiarezza. Questo fu il Giovane
Provveduto.
La stessa cosa mi era necessaria per l'insegnamento dell'aritmetica e del sistema
metrico. E’ vero che l'uso del sistema metrico non era obbligatorio fino al 1850; ma
cominciò ad introdursi nelle scuole nel 1846. Sebbene introdotto legalmente nelle
scuole, mancavano affatto i libri di testo. A ciò ho provveduto col libretto intitolato:
ll sistema metrico decimale ridotto a semplicità, etc.
4° Malattia - Guarigione - Dimora progettata per Valdocco
I molti impegni che io aveva nelle carceri, nell'Opera Cottolengo, nel Rifugio,
nell'Oratorio e nelle scuole facevano si, che dovessi occuparmi di notte per
compilare i libretti che mi erano assolutamente necessari. Per la qual cosa la mia
sanità, già per se stessa assai cagionevole, deteriorò al punto che i medici mi
consigliarono a desistere da ogni occupazione. Il Teologo Borrelli, che assai mi
amava, per mio bene mi mandò a passare qualche tempo presso al curato di Sassi.
Riposava lungo la settimana; la domenica mi recava a lavorare all'Oratorio. Ma ciò
non bastava. I giovanetti a turbe venivano a visitarmi; a costoro si aggiunsero quelli
del paese. Sicché era disturbato più che a Torino, mentre io stesso cagionava
immenso disturbo ai miei piccoli amici.
Non solamente quelli che frequentavano l'Oratorio correvano, si può dire ogni
giorno, a Sassi, ma gli stessi allievi dei Fratelli delle Scuole Cristiane. Tra i molti
avvenne questo episodio. Si dettarono gli esercizi spirituali agli alunni delle scuole
di S. Barbara amministrate eziandio dai medesimi religiosi. Essendo soliti in gran
numero confessarsi da me, sul terminare degli esercizi vennero in corpo a cercarmi

8 Pages 71-80

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8.1 Page 71

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all'Oratorio; ma non avendomi trovato colà partirono alla volta di Sassi, distante
quattro chilometri da Torino. Era tempo piovoso; eglino inesperti della via andavano
vagando ne' prati, ne' campi e nelle vigne in cerca di D. Bosco. Ci giunsero
finalmente in numero di circa quattrocento, tutti sfiniti dal cammino e dalla fame,
molli di sudore, coperti di zacchere anzi di fango, e chiedenti di potersi confessare.
Noi, dicevano, abbiamo fatto gli esercizi, vogliamo farci buoni, vogliamo tutti fare la
nostra confessione generale, e col permesso dei nostri Maestri siamo qua venuti.
Fu detto loro che ritornassero tosto al collegio per togliere dalla ansietà i loro
Maestri ed i loro parenti, ma essi rispondevano con asseveranza che volevano
confessarsi. Fra il Maestro comunale, Curato, Vicecurato e me si confesso quanto si
pote; ma ci volevano almeno una quindicina di confessori.
Ma come ristorare o meglio acquetare l’appetito a quella moltitudine? Quel buon
curato, e l'attuale T. Abbondioli, diede a quei viaggiatori ogni suo commestibile,
pane, polenta, fagiuoli, riso, patate, cacio, frutta, ogni cosa fu acconciata e loro
somministrata.
Quale non fu poi lo sconcerto, quando i predicatori, i maestri, alcuni personaggi
invitati intervennero per la chiusa degli esercizi, per la messa, comunione generale
e non trovarono un allievo in collegio? Fu un vero disordine; e si diedero efficaci
provvedimenti a che non venissero più rinnovati.
Venuto a casa, fui preso da sfinimento, portato a letto. La malattia si manifestò con
una bronchite, cui si aggiunse tosse ed infiammazione violenta assai. In otto giorni
fui giudicato all’estremo della vita. Aveva ricevuto il SS. Viatico, l’Olio santo. Mi
sembra che in quel momento fossi preparato a morire; mi rincresceva di
abbandonare i miei giovanetti, ma era contento che terminava i miei giorni dopo
aver dato una forma stabile all’Oratorio.
Sparsa la notizia che la mia malattia era grave, si manifestò generale e vivissimo
rincrescimento da non potersi dire maggiore. Ad ogni momento schiere di
giovanetti lagrimanti e bussando alla porta chiedevano del mio male. Più si davano
notizie, più se ne dimandavano. Io udiva i dialogi che si facevano col domestico e ne
era commosso. In appresso ho saputo quello che aveva fatto fare l'affezione de' miei
giovani. Spontaneamente pregavano, digiunavano, ascoltavano messe, facevano
comunioni. Si alternavano passando la notte in preghiera e la giornata avanti
l’immagine di Maria Consolatrice. Al mattino si accendevano lumi speciali, e fino a
tarda sera erano sempre in numero notabile a pregare e scongiurare l'augusta
Madre di Dio a voler conservare il povero loro D. Bosco.
Parecchi fecero voto di recitare il Rosario intiero per un mese, altri per un anno,
alcuni per tutta la vita. Né mancarono quelli che promisero di digiunare a pane ed
acqua per mesi, anni ed anche tutta la vita. Mi consta che parecchi garzoni
muratori digiunarono a pane ed acqua delle intere settimane punto non rallentando
da mattino a sera i pesanti loro lavori. Anzi, rimanendo qualche breve tratto di
tempo libero andavano frettolosi a passarlo davanti al SS. Sacramento.
Dio li ascoltò! Era un sabato a sera e si credeva quella notte essere l’ultima di mia
vita; così dicevano i medici, che vennero a consulto; così ne era io persuaso,
scorgendomi affatto privo di forze con perdite continue di sangue. A tarda notte mi
sentii tendenza a dormire. Presi sonno, mi svegliai fuori di pericolo. Il dottor Botta e
il dottor Caffasso al mattino nel visitarmi dissero che andassi a ringraziare la
Madonna della Consolata per la grazia ricevuta.

8.2 Page 72

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I miei giovani non potevano credere se non mi vedevano, e mi videro di fatto poco
dopo col mio bastoncino a recarmi all'Oratorio con quelle commozioni che ognuno
può immaginare ma non descrivere. Fu cantato un TeDeum. Mille acclamazioni,
entusiasmo indescrivibile.
Fra le prime cose, una fu quella di cangiare in cose possibili i voti e le promesse che
non pochi avevano fatto senza la dovuta riflessione quando io era in pericolo della
vita.
Questa malattia avveniva sul principio di luglio 1846 quando appunto doveva
lasciare il Rifugio e trasferirmi altrove.
Io sono andato a fare alcuni mesi di convalescenza in famiglia, a casa, a Murialdo.
Avrei più a lungo protratta la mia dimora in quel luogo nativo, ma i giovanetti
cominciarono a venire a schiere a farmi visita a segno che non era più possibile
godere né riposo né tranquillità. Tutti mi consigliavano a passar almeno qualche
anno fuori di Torino in luoghi sconosciuti per tentar l’acquisto della primiera sanità.
D. Caffasso e l’Arcivescovo erano di questo parere. Ma tal cosa tornandomi di
troppo grave rincrescimento, mi fu acconsentito di venire all'Oratorio con obbligo
che per due anni non avessi più preso parte ne alle confessioni ne alla predicazione.
Ho disubbidito: Ritornando all’Oratorio, ho continuato a lavorare come prima e per
27 anni non ho più avuto bisogno né di medico, né di medicine. La qual cosa mi ha
fatto credere che il lavoro non sia quello che rechi danno alla sanità corporale.
5° Stabile dimora all'Oratorio di Valdocco
Passati alcuni mesi in convalescenza in famiglia sembravami di poter fare ritorno a'
miei amati figli, di cui parecchi ogni giorno venivano a vedermi o mi scrivevano
eccitandomi a fare presto ritorno tra loro. Ma dove prendere alloggio, essendo stato
congedato dal Rifugio? Con quali mezzi sostenere un’opera che diveniva ogni giorno
più laboriosa e dispendiosa? Di che avrei potuto vivere io e le persone che meco
erano indispensabili?
In quel tempo si resero vacanti due camere in casa Pinardi e queste si pigionarono
per abitazione mia e di mia madre.
Madre, le dissi un giorno, io dovrei andar ad abitare in Valdocco, ma a motivo delle
persone che occupano quella casa non posso prendere meco altra persona che voi.
Ella capì la forza delle mie parole e soggiunse tosto: Se ti pare tal cosa piacere al
Signore, io sono pronta a partire in sul momento. Mia madre faceva un grande
sacrifizio; perciocché in famiglia, sebbene non fosse agiata, era tuttavia padrona di
tutto, amata da tutti, ed era considerata come la regina dei piccoli e degli adulti.
Abbiamo fatto precedere alcune cose di maggiormente necessarie che con quelle
già esistenti al Rifugio furono spedite alla novella abitazione. Mia madre empié un
canestro di biancheria e di altri oggetti indispensabili; io presi il breviario, un
messale con alcuni [libri] e quaderni più necessari. Era questa tutta la nostra
fortuna. Partimmo a piedi dai Becchi alla volta di Torino. Facemmo breve fermata a
Chieri e la sera del 3 Novembre 1846 giungemmo in Valdocco.
Al vederci in quelle camere sprovviste di tutto, mia madre scherzando disse: A casa
aveva tanti pensieri per amministrare e comandare; qui sono assai più tranquilla
perché non ho più né che maneggiare né a chi fare comandi.

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Ma come vivere, che mangiare, come pagare i fitti e provvedere a molti fanciulli che
ad ogni momento dimandavano pane, calzamenta, abiti o camicie, senza cui non
potevano recarsi al lavoro? Avevamo fatto venire da casa un po' di vino, di meliga,
fagiuoli, grano e simili. Per fare fronte alle prime spese aveva venduto qualche
pezzo di campo ed una vigna. Mia madre avevasi fatto portare il corredo sposalizio,
che fino allora aveva gelosamente conservato intero. Alcune sue vesti servirono a
formare pianete, colla biancheria si fecero degli amitti, dei purificatori, rocchetti,
camici e delle tovaglie. Ogni cosa passo per mano di madama Margherita Gastaldi,
che fin d’allora prendeva parte ai bisogni dell’Oratorio.
La stessa mia madre aveva qualche anello, una piccola collana d'oro, che tosto
vendette per comperare galloni e guarniture pei sacri paramentali. Una sera mia
madre, che era sempre di buon umore, mi cantava ridendo:
Guai al mondo se ci sente.
Forestieri senza niente.
Sistemate in qualche modo le cose domestiche ho preso a pigione un’altra camera,
che venne destinata a sacristia. Non potendosi aver locali per le scuole, qualche
tempo dovetti farla in cucina od in mia camera[,] ma gli allievi, fior di monelli, o
tutto guastavano o tutto mettevano sossopra.
Si cominciarono alcune classi in sacristia, in coro, e nelle altre parti della chiesa;
ma le voci, il canto, l'andirivieni degli uni disturbavano quanto volevano fare gli
altri. Alcuni mesi dopo si poterono avere due altre camere a pigione, e quindi
organizzare meglio le nostre classi serali. Come fu detto sopra nell'inverno del
1846-7 (1) le nostre scuole ottennero ottimi risultati.
--------------------------------------------------------------------------------------------------------
(I) Si ritenga che le prime scuole serali attuate in Torino furono quelle che nel
novembre del 1845 vennero aperte in casa Moretta. Non si potevano ricevere che
200 allievi in tre camere classi. Il buon risultato ottenuto ci mosse a riaprirle
nell'anno seguente, appena si poté avere dimora stabile in Valdocco.
Fra quelli che aiutavano nelle scuole serali, e preparavano i giovani per la
declamazione, pei dialoghi e teatrini, si devono ricordare il prof. Teologo Chiaves, D.
Musso, e T. Giacinto Carpano.
In media avevano trecento allievi ogni sera. Oltre alla parte scientifica animava le
nostre classi il canto fermo e la musica vocale, che tra noi furono in ogni tempo
coltivati.
6° Regolamento per gli Oratorii - Compagnia e festa di S. Luigi - Visita di
Monsignor Fransoni
Stabilita così regolare dimora in Valdocco mi sono messo con tutto l’animo a
promuovere le cose che potevano contribuire a conservare l’'unità di spirito, di
disciplina e di amministrazione. Per prima cosa ho compilato un Regolamento, in cui
ho semplicemente esposto quanto si praticava nell'Oratorio, e il modo uniforme con
cui le cose dovevano essere fatte. Questo essendo stampato a parte ognuno può

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leggerlo a piacimento. Il vantaggio di questo piccolo Regolamento fu assai notabile:
ognuno sapeva quello che aveva da fare, e siccome io soleva lasciare ciascuno
risponsale del suo uffizio, così ognuno si dava sollecitudine per conoscere e
compiere la parte sua. Molti Vescovi e paroci ne fecero dimanda e si studiarono e si
adoperarono per introdurre l'opera degli Oratorii nei paesi e nelle città delle
rispettive diocesi.
Stabilite le basi organiche per la disciplina e l'amministrazione dell’Oratorio era
mestieri dare eccitamento alla pietà con qualche pratica stabile e uniforme. Ciò fu
fatto coll'istituzione della Compagnia di S. Luigi. Compiùte le Regole nel limite che
mi sembravano più adatte per la gioventù, le presentai all’Arcivescovo, che ne fece
lettura, di poi le diede ad altri, che ne facessero studio e riferissero. In fine le lodò,
le approvò concedendo particolari indulgenze in data 12 Aprile 1847. Queste Regole
si possono leggere a parte.
Grande entusiasmo cagionò tra i nostri giovanetti la Compagnia di S. Luigi, tutti ci
si volevano ascrivere. A ciò conseguire erano necessarie due condizioni: Buon
esempio in chiesa e fuori di chiesa; evitare i cattivi discorsi e frequentare i santi
sacramenti. Quindi si vide un notabilissimo miglioramento nella moralità.
Per animare poi tutti i giovani a celebrare le sei domeniche di S. Luigi fu comperata
una statua del Santo, fu fatto fare un Gonfalone, e si dava ai giovani la comodita di
venirsi a confessare a qualunque ora del giorno[,] della sera o della notte. Siccome
poi quasi nissuno di loro aveva ricevuta la cresima, così ne furono preparati per la
festa di S. Luigi. Concorso immenso! Coll'aiuto però di varii ecclesiastici e signori
Laici si poterono preparare, e pel giorno della festa del Santo tutto era in ordine (1).
Era la prima [volta]
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(I) Tra quelli che si ascrissero con piacere alla Compagnia di S. Luigi sono da
notarsi l’Ab. Antonio Rosmini, il Can.co Arcip. Pietro De Gaudenzi ora Vescovo di
Vigevano, Camillo e Gustavo Cavour, il Card. Antonucci Arciv. di Ancona, S. S. Pio
IX, il Card. Antonelli e molti altri
--------------------------------------------------------------------------------------------------------
che facevansi tali funzioni nell'Oratorio, ed era eziandio la prima volta che
l’Arcivescovo ci veniva a far visita.
Avanti la piccola chiesuola fu fatta una specie di padiglione sotto cui venne ricevuto
l'Arcivescovo. Ho letto qualche cosa di opportunità; poi alcuni giovani
rappresentarono una breve commedia intitolata: Un Caporale di Napoleone. Non
era altro che un caporale in caricatura che per esprimere le sue maraviglie in quella
solennità diceva mille facezie. Ciò fu causa di molto riso e di amena ricreazione per
quel prelato, che ebbe a dire di non aver mai riso tanto in vita sua. Egli si
compiacque di rispondere a tutti, esprimendo la sua grande consolazione per quella
istituzione; lodò ed incoraggiò a perseverare, e ringraziò della cordiale accoglienza
che gli avevamo fatto.
Celebrò la santa messa in cui diede la santa comunione ad oltre trecento giovanetti,
di poi amministro la santa cresima.

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Fu in quella occasione, che l'Arcivescovo nell’atto che se gli pose la mitra sul capo,
non riflettendo che non era in Duomo, alzo in fretta il capo e con quella urtò nel
soffitto della chiesa. La qual cosa eccito ilarita in lui e in tutti gli astanti. Assai
spesso l’Arcivescovo soleva con piacere ripetere quell'episodio, ricordando così le
nostre adunanze, che l'Abate Rosmini ebbe a paragonarle con quelle che si fanno
nei paesi e nelle chiese delle missioni straniere.
E’ bene di notare che per le sacre funzioni vennero due canonici della
metropolitana ad assistere l'Arcivescovo con molti altri ecclesiastici. Finita la
funzione si fece una specie di verbale in cui si notava chi aveva amministrato quel
sacramento, nome e cognome del padrino colla data del luogo e del giorno, quindi si
raccolsero i biglietti, che ripartiti secondo le varie parocchie vennero portati alla
Curia ecclesiastica perché li trasmettesse al rispettivo paroco.
7° Primordii dell'ospizio - Prima accettazione di giovanetti
Mentre si organizzavano i mezzi per agevolare l'istruzione religiosa e letteraria
apparve altro bisogno assai grande cui era urgente un provvedimento. Molti
giovanetti Torinesi e forestieri pieni di buon volere di darsi ad una vita morale e
laboriosa; ma invitati a cominciarla solevano rispondere, non avere né pane[,] né
vestito, né alloggio ove ricoverarsi almeno per qualche tempo. Per alloggiarne
almeno alcuni, che la sera non sapevano più dove ricoverarsi, avevasi preparato un
fienile, dove si poteva passare la notte sopra un po' di paglia. Ma gli uni
ripetutamente portarono via le lenzuola, altri le coperte, e infine la stessa paglia fu
involata e venduta.
Ora avvenne che una piovosa sera di maggio sul tardi si presentò un giovanetto sui
quindici anni tutto inzuppato dall'acqua. Egli dimandava pane e ricovero. Mia
madre l’accolse in cucina, l’avvicinò al fuoco e mentre si riscaldava e si asciugava
gli abiti, diedegli minestra e pane da ristorarsi.
Nello stesso tempo lo interrogai se era andato a scuola, se aveva parenti, e che
mestiere esercitava. Egli mi rispose: Io sono un povero orfano, venuto da Valle di
Sesia per cercarmi lavoro. Aveva meco tre franchi, i quali ho tutti consumati prima
di poterne altri guadagnare e adesso ho più niente e sono più di nissuno.
— Sei già promosso alla s. comunione?
— Non sono ancora promosso.
— E la cresima?
— Non l'ho ancora ricevuta.
— E a confessarti?
— Ci sono andato qualche volta.
— Adesso dove vuoi andare?

8.6 Page 76

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— Non so, dimando per carità di poter passare la notte in qualche angolo di questa
casa.
Ciò detto si mise a piangere; mia madre piangeva con lui, io era commosso.
— Se sapessi che tu non sei un ladro, cercherei di aggiustarti, ma altri mi portarono
via una parte delle coperte e tu mi porterai via l'altra.
— Non signore. Stia tranquillo; io sono povero, ma non ho mai rubato niente.
— Se vuoi, ripiglio mia Madre, io l'accomodero per questa notte, e dimani Dio
provvederà.
— Dove?—Qui in cucina.—Vi portera via fin le pentole.
— Provvederò a che ciò non succeda.
— Fate pure.
La buona donna aiutata dall'orfanello uscì fuori[,] raccolse alcuni pezzi di mattoni, e
con essi fece in cucina quattro pilastrini, sopra cui adagiò alcuni assi, e vi soprapose
un saccone, preparando così il primo letto dell'Oratorio. La buona mia Madre
fecegli di poi un sermoncino sulla necessità del lavoro, della fedeltà e della
religione. Infine lo invitò a recitare le preghiere. Non le so, rispose. Le reciterai con
noi, gli disse; e così fu.
Affinché poi ogni cosa fosse assicurata, venne chiusa a chiave la cucina né più si
aprì fino al mattino.
Questo fu il primo giovane del nostro Ospizio. A questo se ne aggiunse tosto un
altro, e poi altri, però per mancanza di sito in quell'anno abbiamo dovuto limitarci a
due. Correva l'anno 1847.
Accorgendomi che per molti fanciulli tornerebbe inutile ogni fatica se loro non si da
ricovero, mi sono dato premura di prendere altre e poi altre camere a pigione
sebbene a prezzo esorbitante. Così oltre all'Ospizio si poté pure iniziare la scuola di
canto fermo e di musica vocale. Essendo la prima volta (1845) che avevano luogo
pubbliche scuole di musica, la prima volta che la musica era insegnata in classe a
molti allievi contemporaneamente, vi fu un concorso stragrande.
I famosi Maestri Rossi Luigi, Blanchi Giuseppe, Cerutti, Can.co Luigi Nasi, venivano
ansiosi ad assistere ogni sera le mie lezioni. Ciò era contradditorio al Vangelo, che
dice non essere l'allievo sopra il maestro, mentre io che non sapeva un milionesimo
di quanto sapevano quelle celebrità, la faceva da Dottore in mezzo di loro. Essi per
altro venivano per osservare come era eseguito il nuovo metodo, che è quello stesso
che oggidì è praticato nelle nostre case. Nei tempi passati ogni allievo che avesse
desiderato imparare musica, doveva cercarsi un maestro che gli desse lezione
separata.
MEMORIE STORICHE

8.7 Page 77

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SULL’ORATORIO DI S. FRANCESCO DI SALES
DAL 1846 AL 1855
8° Oratorio di S. Luigi - Casa Moretta - Terreno del Seminario
Quanto più era grande la sollecitudine a promuovere l’istruzione scolastica, tanto
più cresceva il numero degli allievi. Ne' giorni festivi una parte appena poteva
raccogliersi nella chiesa per le funzioni e nel cortile per la ricreazione. Allora
sempre d'accordo col T. Borrelli[,] a fine di provvedere a quel crescente bisogno
venne aperto un novello Oratorio in altro quartiere della città. A tale uopo venne
presa a pigione una piccola casa a Porta Nuova sul viale del Re comunemente detto
Viale dei Platani dalle piante che lo fiancheggiano.
Per avere quella casa si dovette sostenere una battaglia assai accanita cogli
abitanti. Era occupata da parecchie lavandaie, le quali credevano dover succedere
la fine del mondo qualora avessero dovuto abbandonare l'antica loro dimora. Ma
prese alle buone e mediante qualche indennità si poterono comporre le cose senza
che le parti belligeranti venissero alle ostilità.
Di quel sito e del giardino per la ricreazione era proprietaria la Sig. Vaglienti, che di
poi lasciò erede il Cav. Gius. Turvano. La pigione era di f. 450: L'Oratorio fu detto di
S. Luigi Gonzaga, titolo che gli fu finora conservato (1).
--------------------------------------------------------------------------------------------------------
(I) L'attuale chiesa di S. Giovanni Evangelista, cuopre il sito dove giaceva la chiesa,
sacristia, e piccola casa del portinaio dell'Oratorio di S. Luigi.
--------------------------------------------------------------------------------------------------------
L'inaugurazione fu fatta da me e dal T. Borrelli il giorno della Immacolata
Concezione 1847. Vi fu straordinario concorso di giovanetti che così diradarono
alquanto le file troppo compatte di quelli di Valdocco. La direzione di quell'Oratorio
fu affidata al T. Giacinto Carpano, che vi lavorò alcuni anni totalmente gratis. Lo
stesso Regolamento compilato per l'istituto di Valdocco fu applicato a quello di S.
Luigi senza che fosse introdotta veruna modificazione.
In questo anno medesimo nel desiderio di dare ricetto ad una moltitudine di
fanciulli che dimandavano ricovero si comperò tutta la casa Moretta. Ma essendoci
messi all'opera per adattarla al nostro bisogno si trovò che le mura non reggevano.
Perciò si giudicò meglio di rivenderla, tanto più che ci era offerto prezzo assai
vantaggioso.
Allora facemmo acquisto di una giornata di terreno (38 are) dal seminario di Torino,
ed è quel sito, dove di poi fu fabbricata la chiesa di Maria Ausiliatrice e l’edifizio
dove al presente esistono i laboratorii dei nostri artigiani.
9° 1848 - Aumento degli artigiani e loro maniera di vita - Sermoncino della
sera - Concessioni dell'Arcivescovo - Esercizi spirituali

8.8 Page 78

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In quest’anno gli affari politici e lo spirito pubblico presentarono un dramma, il cui
scioglimento non si può ancora prevedere.
Carlo Alberto aveva concessa la Costituzione. Molti si pensavano che colla
Costituzione si fosse eziandio concessa la liberta di fare bene o male a capriccio.
Appoggiavano questa asserzione sopra la emancipazione degli ebrei e dei
protestanti, cui mercè si pretendeva di non esservi più distinzione tra cattolici e le
altre credenze (1). Ciò era vero in politica, ma non in fatto di religione (2).
---------------------------------------------------------------------------------------------
(1) Il 20 dicembre del 1847 Carlo Alberto riceveva una petizione di 600 rinomati
cattolici, dietro cui era firmata la famosa emancipazione di cui qui si parla.
(2) Nel dicembre 1847 fu presentata al Re Carlo Alberto una Supplica firmata da
600 illustri cittadini, in gran numero ecclesiastici, che dimandavano quella famosa
emancipazione. Si esponevano le ragioni, ma non si badavano alle espressioni
ereticali che entro quella supplica si incontrano in fatto di religione. Dopo
quell’epoca gli ebrei uscirono dal ghetto e divennero primari possidenti. I
protestanti poi sciolsero il freno alla loro audacia, e sebbene sia scarso tra noi il
loro numero, tuttavia appoggiati dall'autorità civile, ne ritornòo gran danno alla
religione ed alla moralità.
-------------------------------------------------------------------------------------------------------
Intanto una specie di frenesia invade le menti degli stessi giovanetti, che
assembrandosi in varii punti della città, nelle vie e nelle piazze, giudicavano ben
fatto ogni sfregio contro al prete o contro alla religione. Io fui più volte assalito in
casa e per istrada. Un giorno mentre faceva il catechismo una palla di archibugio
entrò per una finestra, mi forò la veste tra il braccio e le coste, e andò a fare largo-
guasto nel muro. Altra volta un cotale, assai conosciuto, mentre io era in mezzo ad
una moltitudine di fanciulli, di pieno giorno, mi assalì con lungo coltello alla mano.
E fu per miracolo se correndo a precipizio potei ritirarmi e salvarmi in mia camera.
Il T. Borrelli poté pure scampare come per prodigio di una pistolettata, e dai colpi di
coltello in un momento che fu scambiato per un altro. Era perciò difficile assai
domare tale sfrenata gioventù. In quel pervertimento di idee e di pensieri, appena si
poterono avere altre camere, si aumentò il numero degli artigiani, che si portò fino
a quindici, tutti dei più abbandonati e pericolanti. 1847.
Eravi però una grande difficoltà: Non avendosi ancora i laboratorii nell'istituto, i
nostri allievi andavano a lavorare e a scuola in Torino, con grande scapito della
moralità perciocché i compagni che incontravano[,] i discorsi che udivano, e quello
che vedevano, facevano tornare frustraneo quanto loro si faceva e si diceva
nell'Oratorio.
Fu allora che ho cominciato a fare un brevissimo sermoncino alla sera dopo le
orazioni collo scopo di esporre o confermare qualche verità che per avventura fosse
stata contraddetta nel corso della giornata. Ciò che succedeva degli artigiani era
ugualmente a lamentarsi degli studenti. Perciocché per le varie classi in cui erano
divisi, i più avanzati negli studi dovevansi inviare (i grammatici) presso al Prof.
Gius. Bonzanino; i Retorici al Prof. D. Picco Matteo. Erano scuole ottime, ma per
l’andata e pel ritorno erano piene di pericoli. L’anno 1856 con gran vantaggio
furono definitivamente stabilite le scuole ed i laboratorii nella casa dell’Oratorio.

8.9 Page 79

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In quel momento apparve tale un pervertimento di idee e di azioni, che io non
poteva più fidarmi di gente di servizio; quindi ogni lavoro domestico era fatto da me
e mia madre. Fare la cucina, preparare la tavola, scopare, spaccar legna, tagliare e
fare mutande, camicie, calzoni, giubbetti, asciugamani, lenzuola, e farne le relative
riparazioni; erano cose di mia spettanza. Ma queste cose tornavano assai
vantaggiose moralmente, perché io poteva comodamente indirizzare ai giovani un
consiglio od una parola amica, mentre loro somministrava pane, minestra od altro.
Scorgendo poi la necessità di avere qualcheduno che mi venisse in aiuto nelle cose
domestiche e scolastiche nell'Oratorio, cominciai a condurne meco alcuni in
campagna, altri a villeggiare a Castelnuovo mia patria, taluni meco a pranzo, altri
alla sera venivano per leggere o scrivere alcun che, ma sempre collo scopo di
opporre un antidoto alle velenose opinioni del giorno. Ciò fu fatto con maggiore o
minore frequenza dal 1841 al 1848. Io adoperava tutti i mezzi per conseguire
eziandio uno scopo mio particolare, che era studiare, conoscere, scegliere alcuni
individui che avessero attitudine e propensione alla vita comune e riceverli meco in
casa.
Con questo medesimo fine in questo anno (1848) ho fatto esperimento di una
piccola muta di esercizi spirituali. Ne raccolsi una cinquantina entro la casa
dell'Oratorio; mangiavano tutti meco; ma non essendoci letti per tutti una parte
andava a dormire presso la propria famiglia per fare ritorno il mattino seguente.
L'andare e venire a casa loro mattino e sera rischiava quasi tutto il profitto che si
raccoglieva dalle prediche e dalle altre istruzioni che sogliono avere luogo in quella
occasione. Cominciavano la domenica a sera e terminavano il sabato a sera. Ciò
riusci assai bene. Molti, intorno a cui erasi lavorato lungo tempo inutilmente, si
diedero davvero ad una vita virtuosa. Parecchi si fecero religiosi, altri rimasero nel
secolo, ma divennero modelli nella frequenza agli Oratorii (1). Di questa materia si
parlerà a parte nella
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(I) Arnaud Giacinto, Sansoldi, ambidue defunti; Buzzetti Giuseppe, Galesio Nicola;
Costantino Gioanni, defunto; Cerutti Giacomo, defunto; Gastini Carlo, Gravano
Gio.;Borgialli Domenico, defunto, sono annoverati fra quelli che fecero i primi
esercizii in quell'anno e che si mostrarono sempre buoni cristiani.
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storia della Società salesiana.
In quest’anno pure alcuni paroci, specialmente quello di Borgodora, del Carmine e
di S. Agostino, mossero nuovi lamenti presso all’Arcivescovo perché si
amministravano i sacramenti negli Oratorii. In quell'occasione l’Arcivescovo emanò
un decreto con cui dava ampia facoltà di preparare e presentare i fanciulli a
ricevere la cresima, la santa comunione e a soddisfare il precetto pasquale a quelli
che avessero frequentati i nostri Oratorii. Rinnovava la facoltà di fare ogni funzione
religiosa che siasi solita a fare nelle parochie. Queste chiese, diceva l’Arcivescovo,
per tali fanciulli forestieri ed abbandonati saranno come chiese parochiali pel tempo
che dimoreranno in Torino.

8.10 Page 80

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10° Progresso della musica - Processione alla Consolata - Premio dal
Municipio e dall'Opera di Mendicità - Il giovedì santo - Il Lavabo
I pericoli, cui i giovanetti erano esposti in fatto di religione e di moralità,
richiedevano maggiori sforzi per tutelarli. Alla scuola serale ed anche diurna, alla
musica vocale si giudico bene di aggiugnere la scuola di piano e di organo e la
stessa musica istrumentale. Quindi io mi sono trovato maestro di musica vocale ed
istrumentale, di piano e di organo senza esserne mai stato vero allievo. Il buon
volere suppliva a tutto. Preparate alcune voci bianche più belle, si cominciarono a
fare funzioni all'Oratorio, di poi per Torino, a Rivoli, a Moncalieri, Chieri e in altri
siti. Il canonico Luigi Nasi, D. Michelangelo Chiatellino si prestavano assai di buon
grado ad esercitare i nostri musici ed accompagnarli, e dirigerli nelle pubbliche
funzioni in varii paesi, perciocché non essendosi fino allora uditi cori di voci
argentine sulle orchestre, gli a soli, i duetti, i ripieni, faceva tale novità che da tutte
parti si parlava della nostra musica e si andava a gara per avere i nostri cantori. Il
can.co Luigi Nasi, D. Chiatellino Michelangelo per lo più erano i due
accompagnatori della nostra nascente società filarmonica.
Eravamo soliti andare ogni anno a fare una religiosa funzione alla Consolata, ma in
quest'anno vi si andò processionalmente dall’Oratorio. Il canto per la via, la musica
in chiesa trassero innumerabile folla di gente. Si celebrò la messa, si fece la s.
comunione, quindi ho fatto un sermoncino di opportunità nella cappella sotterranea,
e infine gli Oblati di Maria ci improvvisarono una stupenda colazione nei claustri del
Santuario. In questa guisa si andava vincendo il rispetto umano, si raccoglievano
giovanetti e si avevano opportunita di insinuare colla massima prudenza lo spirito di
moralità, di rispetto alle autorità, e la frequenza dei santi sacramenti. Ma tali novità
facevano gran romore.
In questo anno pure il Municipio di Torino mandò altra deputazione composta del
Cav. Pietro Ropolo del Capello detto Moncalvo, e comm. Duprè a verificare quanto
la voce pubblica vagamente riferiva. Ne furono assai soddisfatti; e fattane la dovuta
relazione, venne decretato un premio di f. 1000 con lettera assai lusinghiera. Da
quell’anno il Municipio stanzio un sussidio annuo che fu ogni anno pagato fino al
1878. In quest’anno furono tolti i 300 f. che gli assennati Reggitori di Torino
bilanciarono per provvedere i lumi per la scuola serale a benefizio dei figli del
popolo.
L’opera della Mendicità, che col nostro metodo aveva pur introdotte le scuole serali
e musicali, in capo al Cav. Gonella mandò eziandio una deputazione per farci una
visita. In segno di gradimento ci diedero altro premio di mille franchi.
Noi eravamo soliti di andare insieme ogni anno a fare le visite ai sacri sepolcri del
giovedì santo; ma in seguito ad alcune burle che vogliamo dire anche disprezzi, non
pochi non osavano più associarsi cogli altri loro compagni. Egli fu per incoraggiare
ognor più i nostri giovani a disprezzare il rispetto umano che in quell'anno si andò
per la prima volta processionalmente a fare quelle visite cantando in musica lo
Stabat Mater ed il Miserere. Allora furono veduti giovanetti di ogni età e
condizione, lungo la processione andare a gara per unirsi alle nostre file. Ogni cosa
procedette con ordine e tranquillità.
Alla sera fu per la prima volta fatta la funzione del Lavabo. A questo scopo si
scelsero dodici giovanetti, che soglionsi appellare i dodici apostoli. Dopo la lavanda
secondo il rituale, si tenne morale discorso al pubblico. Quindi i dodici apostoli

9 Pages 81-90

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9.1 Page 81

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vennero tutti insieme ammessi ad una frugale cena con un piccolo regalo che
ciascuno con somma gioia portò a casa sua.
Parimenti in quell'anno fu eretta regolarmente la via Crucis, e se ne benedissero le
stazioni con grande solennità. Ad ogni stazione si teneva breve sermoncino, cui
teneva dietro analogo mottetto cantato in musica.
Così andavasi consolidando l’umile nostro Oratorio, mentre si compievano gravi
avvenimenti che dovevano mutare l'aspetto alla politica d'Italia e forse del mondo.
11° Il 1849 - Chiusura dei seminari - Casa Pinardi - Obolo di S. Pietro;
coroncine di Pio IX- Oratorio dell'Angelo Custode - Visita dei Deputati
Quest’anno è assai memorando. La guerra del Piemonte contro l'Austria cominciata
l'anno antecedente aveva scosso tutta l’Italia. Le pubbliche scuole rimasero
sospese, i seminarii, specialmente quello di Chieri e di Torino furono chiusi ed
occupati dai militari; e per conseguenza i cherici della nostra diocesi rimasero
senza maestri e senza luogo, dove raccogliersi. Fu allora che per avere almeno la
consolazione di aver fatto quanto si poteva e per mitigare le pubbliche calamità, si
prese a pigione tutta la casa Pinardi. Strillarono gli inquilini, minacciarono me, mia
madre, lo stesso proprietario, si dovette fare grande sacrifizio di danaro; tuttavia si
ottenne che quell’edifizio fosse tutto messo a nostra disposizione. Così quel nido di
iniquità che da vent'anni era a servizio di Satana rimase in nostro potere.
Abbracciava tutto il sito, che forma l'attuale cortile tra la chiesa di Maria Ausilitrice
e la casa dietro stante.
In questa guisa potemmo aumentare le nostre classi, ingrandire la chiesa e lo spazio
per la ricreazione fu raddoppiato, e il numero dei giovani tu portato a trenta. Ma lo
scopo principale era di poter accogliere, come di fatto si accolsero, i cherici della
diocesi; e si può dire che la casa dell'Oratorio per quasi 20 anni divenne il
Seminario diocesano.
Sul finire del 1848 gli avvenimenti politici costrinsero il S. Padre Pio IX a fuggire da
Roma e ricoverarsi a Gaeta. Questo grande Pontefice ci aveva già molte volte usata
benevolenza. Essendosi sparsa la voce come egli trovavasi nelle strettezze
pecuniarie, si apri in Torino una questua sotto il nome di obolo di S. Pietro. Una
commissione composta del T. Can.co Francesco Valinotti e del Marchese Gustavo
Cavour venne all'Oratorio. La nostra questua monto a f. 35. Era poca cosa, che noi
procurammo di rendere in qualche modo gradevole al S. Padre con un indirizzo che
gli pi acque assai. Palesò il suo gradimento con una lettera diretta al Card.
Antonucci, allora Nunzio a Torino, ed ora Arcivescovo di Ancona, incaricò di
esprimerci quanto gli fosse consolante la nostra offerta, ma assai più i pensieri che
l'accompagnavano. In fine colla sua Apostolica Benedizione inviava un pacco di 60
dozzine di coroncine, che furono solennemente distribuite il 20 luglio di quell’anno.
V. libretto stampato in quell'occasione e diversi giornali. Lettera del Card.
Antonucci, allora Nunzio a Torino.
A motivo del crescente numero dei giovanetti esterni, che intervenivano agli
Oratorii, si dovette pensare ad altro locale, e questo fu l'Oratorio del Santo Angelo
Custode in Vanchiglia, poco distante dal sito dove per opera specialmente della
Marchesa Barolo sorse di poi la chiesa di S. Giulia.

9.2 Page 82

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Il Sac. Gio. Cocchis aveva da più anni fondato quell'Oratorio con uno scopo alquanto
analogo al nostro. Ma acceso di amor di patria giudicò bene di ammaestrare i suoi
allievi a maneggiar fucile e spada per mettersi alla loro testa e marciare, come fece
di fatto, contro agli Austriaci.
Quell'Oratorio rimase chiuso un anno. Dopo l'abbiamo affittato noi, e ne fu affidata
la direzione al T. Gioanni Vola, di buona memoria. Questo Oratorio si tenne aperto
fino all'anno 1871 quando venne trasferito presso alla chiesa parochiale. La
Marchesa Barolo lasciò un legato per questo bisogno colla condizione che il locale e
la cappella fossero destinati ai giovani annessi alla parochia come tuttora si pratica.
Una solenne visita fu fatta in quel tempo all'Oratorio da una commissione di
Deputati con altri incaricati dal Ministero dell'interno, che vennero ad onorarci di
loro presenza. Visitarono tutti e tutto in senso amichevole, di poi fecero una lunga
relazione alla Camera dei Deputati. Ciò diede motivo a lunga e viva discussione che
si può vedere nella Gazzetta Piemontese del 29 marzo 1849. La Camera dei
Deputati fece una largizione di fr. 300 ai nostri giovani; Urbano Ratazzi allora
Ministro dell’interno decretò la somma di fr. 2000. Si consultino i documenti.
Fra i miei allievi finalmente potei averne uno che vestì l'abito chericale, Savio
Ascanio, attuale Rettore del Rifugio, fu il primo cherico dell'Oratorio, e ne era
vestito sul finire di ottobre di quell’anno.
Capo 12° Feste nazionali
Un fatto strano venne in que' giorni a cagionare non leggero disturbo alle nostre
radunanze. Si voleva che l’umile nostro Oratorio prendesse parte alle pubbliche
dimostrazioni che si andavano ripetendo nelle città e nei paesi sotto al nome di
Feste Nazionali. Chi ci prendeva parte e voleva pubblicamente mostrarsi amante
della nazione si ispartiva i capelli sulla fronte e li lasciava cadere inanellati di
dietro, con farsetto attillato e a vari colori, con Bandiera nazionale, con medaglia ed
azzurra coccarda sul petto. Così abbigliati andavasi in processione cantando inni
all'unità nazionale.
Il Marchese Roberto d'Azeglio, promotore principale di tali dimostrazioni ci fece
formale invito, e, malgrado il mio rifiuto, provvide quanto ci occorreva perché
potessimo cogli altri fare onorevole comparsa. Un posto ci stava preparato in piazza
Vittorio accanto a tutti gli istituti di qualsiasi nome, scopo e condizione. Che fare?
Rifiutarmi era un dichiararmi nemico dell'Italia; accondiscendere, valeva
l’accettazione di principii che io giudicava di funeste conseguenze.
— Sig. Marchese, risposi al prelodato d’Azeglio, questa mia famiglia, i giovani che
dalla città qui si raccolgono, non sono ente morale; io mi farei burlare, se
pretendessi di fare mia una istituzione, che e tutta della carità cittadina.
— Appunto così. Sappia la carità cittadina, che tale opera nascente non e contraria
alle moderne istituzioni; ciò vi fara del bene; aumenteranno le offerte, il Municipio,
io stesso largheggeremo in vostro favore.
— Sig. Marchese, è mio fermo sistema tenermi estraneo ad ogni cosa che si
riferisca alla politica. Non mai pro, non mai contro.

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— Che cosa dunque volete fare?
— Fare quel po' di bene che posso ai giovanetti abbandonati adoperandomi con
tutte le forze affinché diventino buoni cristiani in faccia alla religione, onesti
cittadini in mezzo alla civile società.
— Capisco tutto: ma voi vi sbagliate, e se persistete su questo principio voi sarete
abbandonato da tutti, e l’opera vostra diventa impossibile. Bisogna studiar il mondo,
conoscerlo e portare le antiche e le moderne istituzioni all'altezza dei tempi.
— Vi ringrazio del vostro buon volere e dei consigli che mi date. Invitatemi a
qualunque cosa, dove il prete eserciti la carità, e voi mi vedrete pronto a sacrificare
vita e sostanze, ma io voglio essere ora e sempre estraneo alla politica.
Quel rinomato patrizio mi lasciò con soddisfazione, e d'allora in poi non ebbesi più
relazione di sorta tra noi. Dopo di lui parecchi altri laici ed ecclesiastici mi
abbandonarono. Anzi rimasi come solo dopo il fatto che sono per raccontare.
Capo 13° Un fatto particolare
La domenica dopo la festa accennata alle due pomeridiane io era in ricreazione coi
giovanetti mentre un cotale stava leggendo l'Armonia, quando i preti soliti venire ad
aiutarmi nel sacro ministero si presentano in corpo con medaglia, coccarda,
bandiera a tricolore, più con un giornale veramente immorale detto Opinione. Uno
di loro, assai rispettabile per zelo e dottrina mi si fa davanti e rimirando che a mio
fianco eravi chi tra mano aveva l'Armonia, — Vitupero, prese a dire, è tempo di
finirla con questi rugiadosi. — Ciò dicendo strappo da l'altrui mano quel foglio, lo
ridusse in mille pezzi, lo gitto per terra, e sputandoci sopra, lo pesto e calpesto
cento volte. Dato questo primo sfogo di fervore politico, venne in mio cospetto,
questo si che è buon giornale, disse avvicinandomi l'Opinione alla faccia, questo e
non altro si deve leggere da tutti i veri e dagli onesti cittadini.
Rimasi sbalordito a quel modo di parlare e di agire e non volendo che si
aumentassero gli scandali nel sito dove si doveva dar buon esempio; mi limitai di
pregare lui e i suoi colleghi a parlare di quegli argomenti in privato e tra noi
soltanto.
Non signore, ripiglio, non ci deve più essere ne privato ne segreto. Ogni cosa sia
posta in chiara luce.
In quel momento il campanello chiamo tutti I in chiesa, e chiamava appunto uno di
quegli ecclesiastici stato incaricato di fare un sermoncino morale ai poveri
giovanetti. Ma quella volta fu veramente immorale. Libertà, emancipazione,
indipendenza risuonarono in tutta la durata di quel discorso.
Io era in sacristia impaziente di poter parlare e porre un freno al disordine; ma il
predicatore uscì tosto di chiesa e data appena la benedizione, invitò preti e giovani
ad associarsi con lui, e intonando a tutta gola inni nazionali facendo freneticamente
sventolare la bandiera, andarono difilato intorno a Monte dei Cappuccini. Colà fu
fatta formale promessa di non più intervenire all'Oratorio se non invitati e ricevuti
con tutte le forme nazionali.

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Tutto questo succedevasi senza che io potessi in alcun modo esprimere né ragioni
né pensieri. Ma io non paventava cosa alcuna che si opponesse a' miei doveri. Feci
dire a quei preti che erano severamente proibiti di ritornare presso di me; i giovani
poi dovessero uno per volta presentarsi a me prima di rientrare nell’Oratorio.
La cosa mi riusci bene. Niuno dei preti tento di ritornare; i giovanetti chiesero
scusa asserendo essere stati ingannati, e promisero ubbidienza e disciplina.
14° Nuove difficoltà - Un conforto - L'Abate Rosmini e l'Arciprete Pietro De
Gaudenzi
Ma io rimasi solo. Ne' giorni festivi doveva di buon mattino comincia le confessioni,
alle nove celebrare la messa, dopo fare la predica, quindi scuola di canto, di
letteratura fino a mezzogiorno. All’una pomeridiana: ricreazione, di poi catechismo,
vespri, istruzione, benedizione, indi ricreazione, canto e scuola fino a notte.
Nei giorni feriali, lungo il giorno doveva lavorare per li miei artigiani, fare scuola
ginnasiale ad una decina di giovanetti; la sera scuola di francese, di aritmetica, di
canto fermo, di musica vocale, di pianoforte e di organo erano tutte cose cui doveva
attendere. No so come io abbia potuto reggere. Dio mi aiutò! Un grande conforto
però ed un grande appoggio in quei momenti l'ebbi nel Teologo Borrelli. Quel
maraviglioso sacerdote, sebbene oppresso da altre gravissime occupazioni di sacro
ministero, studiava ogni briciolo di tempo per venirmi in aiuto. Non di rado esso
rubava le ore del sonno per recarsi a confessare i giovani; negava il ristoro allo
stanco corpo per venire a predicare. Questa critica posizione duro fino a tanto che
potei avere qualche sollievo nel ch. Savio, Bellia, Vacchetta, di cui per altro ne
rimasi presto privato; perciocché, secondando essi il suggerimento altrui, senza
farmene parola fuggirono per entrare negli Oblati di Maria.
In uno di que' giorni festivi fui visitato da due sacerdoti, che io credo opportuno di
nominare. Nel cominciare il catechismo era tutto in moto per ordinare le mie classi,
allora che si presentano due ecclesiastici, i quali in contegno umile e rispettoso
venivano a rallegrarsi con me e dimandavano ragguaglio sull’origine e sistema di
quella istituzione. Per unica risposta dissi: — Abbiano la bonta di aiutarmi. Ella
venga in coro ed avrà i più grandicelli; a Lei, dissi all'altro di più alta statura, affido
questa classe che e di più dissipati. — Essendomi accorto che facevano a maraviglia
il catechismo, pregai uno a regalare un sermoncino ai nostri giovani, e l'altro a
compartirci la benedizione col Venerabile. Ambidue accondiscesero graziosamente.
Il Sacerdote di minore statura era l'Abate Antonio Rosmini fondatore dell'Istituto
della Carità; l’altro era il Can. Arciprete De Gaudenzi, ora Vescovo di Vigevano, che
d'allora in poi l'uno e l'altro si mostrarono sempre benevoli[,] anzi benefattori della
Casa.
Capo 15° Compra di casa Pinardi e di casa Bellezza - L'anno 1850
L'anno 1849 fu spinoso, sterile, sebbene abbia costato grandi fatiche ed enormi
sacrifizi; ma ciò era una preparazione per l'anno 1850 che e meno burrascoso, e

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assai più fecondo di buoni risultati. Cominciamo dalla casa Pinardi. Coloro che
erano stati sloggiati da questa casa non potevano darsi opace.
Non ripugna, si andava dicendo, che una casa di ricreazione e di sollievo cada nelle
mani di un prete e di un prete intollerante?
Venne pertanto proposta al Pinardi una pigione quasi due volte maggiore alla
nostra. Ma egli sentiva non leggero rimorso nel ricavare maggior lucro da mezzi
iniqui, perciò mi aveva talvolta fatto proposta di vendere qualora io avessi voluto
comperare. Ma le pretese di lui erano esorbitanti. Chiedeva ottanta mila franchi per
un edifizio il cui valore doveva essere di un terzo. Iddio vuole far vedere che è
padrone dei cuori, ed ecco come.
Un giorno festivo mentre il teologo Borrelli predicava, io stava sulla porta del
cortile per impedire gli assembramenti e i disturbi, quando si presenta il Sig.
Pinardi; alto la, disse, bisogna che D. Bosco compri la mia casa.
— Alto là[,] bisogna che il Sig. Pinardi me la dia pel suo prezzo, ed io la compro
subito.
— Si che la do pel suo prezzo.
— Quanto?
— Al prezzo richiesto.
— Non posso fare offerte.—Offra.—Non posso.—Perché?
— Perché e prezzo esagerato. Non voglio offendere chi dimanda. —
Offra quel che vuole.
— Me la dà pel suo valore?—Parola d'onore, che la do. — Mi stringa la mano e faro
l'offerta.—Di quanto?—La ho fatta stimare da un suo e mio amico, e mi assicuro che
nello stato attuale deve patteggiarsi tra il 26 ed il 28 mila franchi; ed io, affinché sia
cosa compiuta, le do 30.000 fr.
— Regalerà ancora uno spillo di fr. 500 a mia moglie?
— Farò questo regalo.
— Mi pagherà in contanti.
— Pagherò in contanti.
— Quando faremo lo strumento?
— Quando a Lei piace.
— Dimani a quindici giorni, ma con un pagamento solo.
— Tutto inteso come desidera.
— Cento mila franchi di multa a chi desse indietro.

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— Così sia. —
Quell'affare fu trattato in cinque minuti; ma dove prendere tale somma in così breve
tempo? Cominciò allora un bel tratto della divina Provvidenza. Quella stessa sera D.
Caffasso, cosa insolita nei giorni festivi, mi viene a far visita, e mi dice che una pia
persona, contessa Casazza-Riccardi, l’aveva incaricato di darmi dieci mila franchi
da spendersi in quello che avrei giudicato della maggior gloria di Dio. Il giorno dopo
giunge un religioso Rosminiano che veniva in Torino per mettere a frutto fr. 20.000,
e me ne chiedeva consiglio. Proposi di prenderli a mutuo pel contratto Pinardi, e
così fu messa insieme la somma ricercata. I tre mila franchi di spese accessorie
furono aggiunti dal Cav. Cotta nella cui Banca venne stipulato il sospirato
istrumento.
Assicurato così l'acquisto di quello edifizio si porto il pensiero sopra la così detta
Giardiniera. Era questa una bettola, dove nei giorni festivi solevano radunarsi gli
amatori del buon tempo. Organini, pifferi, clarinetti, chitarre, violini, bassi,
contrabassi e canto di ogni genere succedevansi nel corso della giornata; anzi non
di rado erano contemporaneamente tutti raccolti insieme pei loro concerti. Siccome
quell'edifizio, casa Bellezza, era da un semplice muriccio diviso dal nostro cortile,
così spesso avveniva che i cantici di nostra cappella restassero confusi o soffocati
dagli schiamazzi del suono e delle bottiglie della Giardiniera. Di più era un continuo
andirivieni da casa Pinardi alla Giardiniera. Ognuno può di leggieri immaginarsi con
quale disturbo nostro e con quale pericolo pei nostri giovani.
Per liberarci da quella grave molestia ho tentato di farne acquisto, ma non mi è
riuscito; cercai di prendere a pigione, cui la padrona acconsentiva; ma la padrona
della bettola reclamava danni favolosi.
Allora feci proposta di rilevare tutta l'osteria, assumermi la pigione, e comperare
tutto il suppellettile di camera, di tavole, di cantina, di cucina etc.; e pagando ogni
cosa a ben caro prezzo, potei divenire arbitro del locale cui diedi immediatamente
altra destinazione. In questa guisa veniva disperso il secondo semenzaio d'iniquità
che accanto di casa Pinardi tuttora sussisteva in Valdocco.
Capo 16° Chiesa di S. Francesco di Sales
Liberati dalle vessazioni morali di casa Pinardi e della Giardiniera era mestieri
pensare ad una chiesa più decorosa pel culto, è più adattata al crescente bisogno.
L'antica, è vero, erasi alquanto ingrandita, e corrispondeva all'attuale sito del
Refettorio dei Superiori, ma era incomoda per la capacità, e per la bassezza.
Siccome per entrarvi bisognava discendere due scalini, così d'inverno e in tempo
piovoso eravamo allagati, mentre di estate eravamo soffocati dal caldo e dal tanfo
eccessivo. Pel che passavano pochi giorni festivi senza che qualche allievo venisse
preso da sfinimento e portato fuori come asfissiato. Era dunque necessità che si
desse mano ad un edifizio più proporzionato al numero dei giovanetti, più ventilato
e salubre.
Il Cav. Blachier fece un disegno, la cui esecuzione doveva dare l'attuale chiesa di S.
Francesco e l'edifizio che circonda il cortile posto a fianco della chiesa. Impresario
era il Sig. Bocca Federico.

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Scavate le fondamenta fu fatta la benedizione della pietra fondamentale il 20 luglio
1850. Il Cav. Giuseppe Cotta la poneva a suo posto; il can.co Moreno economo
generale la benediceva; il celebre Padre Barrera, commosso alla vista della
moltitudine di gente accorsa, montò sopra un rialzo di terra ed improvviso uno
stupendo discorso di opportunità. Egli esordiva con queste testuali parole: "Signori,
quella pietra che abbiamo testè benedetta e collocata a fondamento di questa
chiesa ha due grandi significati. Significa il granello di senapa che crescerà in
albero mistico, presso cui molti ragazzi verranno a rifugiarsi; significa che
quest'opera basa sopra una pietra angolare, che è Cristo Gesù contro cui saranno
vani gli sforzi che i nemici della fede faranno per abbatterla". Dimostrava quindi
l'una e l'altra di queste premesse con grande soddisfazione degli uditori, che
giudicavano come inspirato l’eloquente predicatore.
Ecco il verbale etc. Si trascriva il verbale di quella solennità.
Quelle rumorose solennità traevano giovanetti esterni da tutte parti, mentre ad ogni
ora del giorno molti altri venivano chiedendo ricovero. Il loro numero in quell'anno
passò i cinquanta, e si diè principio a qualche laboratorio in casa; perciocché ognor
più funesta si esperimentava l'uscita dei giovanetti a lavorare in città.
Già il sacro e sospirato edifizio usciva fuori di terra, quando mi accorsi essere le
finanze totalmente esauste. Aveva messo insieme 35 mila franchi colla vendita di
alcuni stabili, ma questi scomparvero come ghiaccio al sole. L’Economato assegnò
nove mila franchi, ma da versarsi ad opera quasi compiuta. Il Vescovo di Biella,
Monsig. Pietro Losana, riflettendo che il novello edifizio, e tutta quella istituzione
tornava a speciale vantaggio dei garzoni muratori biellesi, diramò una circolare a'
suoi paroci invitandoli a concorrere col loro obolo. Si trascriva la circolare.
La questua frutto mille franchi. Ma queste erano gocce d’acqua sopra arsiccio
terreno; onde fu ideata una lotteria di oggetti ossia di piccoli doni. Era la prima
volta che ricorreva in questo modo alla pubblica beneficenza, e si ebbe accoglienza
assai favorevole. Si raccolsero tre mila trecento doni. Il Sommo Pontefice, il Re, la
Regina Madre, la Regina Consorte, e in generale tutta la corte sovrana si segnalo
colle sue offerte. Lo spaccio dei biglietti (cent. 50 caduno) fu compiùto; e quando si
fece la pubblica estrazione al Palazzo di Città vi fu chi andavane in cerca offrendo
cinque franchi l'uno e non poteva più rinvenirne. Si può mettere il Programma e il
Regolamento di quella Lotteria.
Molti di quelli, che vinsero qualche dono, il lasciarono con gran piacere a benefizio
della chiesa. Dal che si ricavò altro provento. È vero che ci furono non piccole
spese, tuttavia si ottenne netta la somma di fr. 26 mila.
Capo 17° Scoppio della polveriera - Fascio Gabriele -Benedizione della
nuova Chiesa
Mentre gli oggetti erano in pubblica esposizione avvenne (26 aprile 1852) lo
scoppio della polveriera sita accanto al Cenotafio di S. Pietro in Vincoli. L'urto che
ne segui fu orribile e violento. Molti edifizi vicini e lontani vennero scossi e ne
riportarono grave danno. Dei lavoranti 28 rimasero vittime, e sarebbero stato assai
maggiore il danno se un certo sergente di nome Sacco, con grande pericolo della
propria vita non avesse impedita la comunicazione del fuoco ad una maggior
quantità di polvere, che avrebbe potuto rovinare l'intera città di Torino. La casa

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dell'Oratorio, che era di cattiva costruzione, ne soffrì assai; e i deputati ci
mandarono l'offerta di f. 300 per aiutarne la riparazione.
Voglio a questo proposito raccontare un fatto che si riferisce ad un nostro
giovanetto artigiano di nome Fascio Gabriele. L'anno antecedente egli cadde in
malattia, che lo porto all’estremo di vita. Nell'eccesso del suo male andava
ripetendo:
Guai a Torino, guai a Torino! I suoi compagni li dissero: — Perché? Perché è
minacciata da un gran disastro.
— Quale? — E’ un orribile terremoto.
— Quando sarà? — Altro anno. Oh guai a Torino al 26 di aprile.
— Che cosa dobbiamo fare? Pregare S. Luigi che protegga l'Oratorio e quelli che vi
abitano.
Fu allora che a richiesta di tutti i giovanetti della casa che aggiunse mattino e sera
nelle comuni preghiere un Pater Ave e Gloria a questo Santo. Di fatto la nostra casa
rimase poco danneggiata in paragone del pericolo, ed i ricoverati non ebbero a
lamentare alcun danno personale.
Intanto i lavori della chiesa di S. Francesco di Sales progredivano con alacrita
incredibile, e nello spazio di undici mesi fu condotta al suo termine.
Il 20 giugno 1852 fu consacrata al divin culto con una solennità tra noi piùttosto
unica che rara. Un arco di altezza colossale erasi elevato all'entrata del cortile.
Sopra di esso, in caratteri cubitali stava scritto: In caratteri dorati — scriveremo in
tutti i lati — Viva eterno questo dì.
Da ogni parte echeggiavano questi versi posti in musica dal Maestro Blanchi
Giuseppe, di grata memoria:
Prima il sole dall'occaso
Fia che torni al suo oriente,
Ogni fiume a sua sorgente
prima indietro tornerà,
Che da noi ci si cancelli
Questo dì, che tra i più belli
Tra di noi sempre sarà.
Si recitò e si cantò con grande sfarzo la poesia seguente:
Come augel di ramo in ramo
Va cercando albergo fido, etc.

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Molti giornali parlarono di questa solennita: v. L'Armonia e la Patria di que' giorni.
Il primo di giugno dell'anno stesso si die principio alla Società di mutuo soccorso
per impedire che i nostri giovani andassero ad ascriversi colla Società detta degli
Operai, che fin dal suo principio manifesto principii tutt'altro che religiosi. Si
prenda il libretto stampato. Servì a maraviglia al nostro scopo. Più tardi questa
medesima nostra Società si cangio in Conferenza annessa di S. Vincenzo de' Paoli
che tuttora sussiste.
Terminata la chiesa occorrevano arredi di tutti i generi. La carità cittadina non
mancò. Il Comm. Giuseppe Duprè fece abbellire una cappella, che fu dedicata a S.
Luigi, e comperò un altare di marmo, che tuttora adorna quella chiesa. Altro
benefattore fece fare l'orchestra, sopra cui fu collocato il piccolo organo destinato a
favore dei giovani esterni. Il sig. Michele Scannagatti comperò una compiuta muta
di candelieri; il marchese Fassati fece fare l'altare della Madonna, provvide una
muta di candelieri di bronzo e più tardi la statua della Madonna. D. Caffasso pagò
tutte le spese occorse pel pulpito. L'altare magg. venne provveduto dal Dottore
Francesco Vallauri e completato da suo figlio D. Pietro sacerdote. Così la novella
chiesa in breve tempo si vide provveduta di quanto era più necessario per le private
e solenni funzioni.
Capo 18° Anno 1852
Colla nuova chiesa di S. Francesco di Sales[,] colla sacristia e col campanile si dava
provvedimento a quei giovanetti che avessero desiderato d’intervenire alle sacre
funzioni del giorno festivo, delle scuole serali ed anche diurne. Ma come provvedere
alla moltitudine di poveri fanciulli che ad ogni momento chiedevano di essere
ricoverati? Tanto più che lo scoppio della polveriera, avvenuto l'anno prima, aveva
quasi rovinato l'antico edifizio. In quel momento di supremo bisogno fu presa la
deliberazione di fabbricare un nuovo braccio di casa. Affinché si potesse tuttora
usufruire il vecchio locale, si cominciò il nuovo in sito separato, cioè dal termine
dell'attuale refettorio fino alla fonderia dei caratteri tipografici.
I lavori progredirono con tutta alacrità, e sebbene la stagione autunnale fosse già
alquanto inoltrata, tuttavia si giunse fino all'altezza del coperchio. Anzi tutta la
travatura era stata collocata al suo posto, tutti i listelli inchiodati, e le tegole
stavano ammucchiate sui travi culminanti per essere ordinatamente collocate,
quando un violento acquazzone fece interrompere ogni lavoro. L’acqua diluviò più
giorni e più notti, e scorrendo e colando dalle travi e dagli stessi listelli rose e
trasse seco la calcina fresca restando così le mura di soli mattoni e ciottoli lavati.
Era circa la mezzanotte[,] tutti eravamo in riposo, quando si ode un rumore violento
che ad ogni momento si rende più intenso e spaventoso. Ognuno si sveglia ed
ignorando che ci fosse, pieno di terrore si avviluppa nelle coperte o nelle lenzuola,
esce di dormitorio e fugge confuso senza sapere dove, ma con animo di allontanarsi
dal pericolo, che s'immaginava. Cresce il disordine ed il frastuono; l’armatura del
tetto, le tegole si mischiano coi materiali delle mura e tutto cadde rovinoso, con
immenso fracasso.
Siccome quella costruzione poggiava contro al muro del basso e vecchio edifizio, si
temeva che tutti rimanessero schiacciati sotto alle cadenti rovine; ma non si ebbe a
provare altro male che un orrendo frastuono, che non cagiono alcun danno
personale.

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Giunto il mattino, venne una visita di ingegneri per parte del Municipio. Il Cav.
Gabbetti vedendo un alto pilastro smosso dalla base pendere sopra un dormitorio
esclamò:
Andate pure a ringraziare la Madonna della Consolata. Quel pilastro si regge per
miracolo e cadendo avrebbe sepolto nelle rovine D. Bosco con trenta giovanetti
coricati nel dormitorio sottostante. I lavori essendo ad impresa, il maggior danno fu
del capomastro. Il nostro danno fu valutato a fr. 10.000. Il fatto avveniva la
mezzanotte del 2 dicembre 1852.
In mezzo alle continue tristi vicende che opprimono la povera umanità avvi sempre
la mano benefica del Signore che mitiga le nostre sciagure. Se quel disastro fosse
succeduto due ore prima avrebbe sepolto i nostri allievi delle scuole serali.
Terminavano queste alle dieci, ed usciti dalle loro classi in numero di circa 300
scorazzarono per oltre mezz'ora lungo i vani dell'edifizio in costruzione. Un po' dopo
succedeva quella rovina.
La stagione inoltrata non permetteva più non dico di terminare; ma nemmeno di
cominciare né in tutto né in parte i lavori della casa rovinata, e intanto chi
provvederà alle nostre strettezze? Che fare in mezzo a tanti giovani, con sì poco
locale e mezzo rovinato? Si fece di necessità virtù. Assicurate le mura della chiesa
antica venne ridotta a dormitorio. Le scuole poi vennero trasferite nella chiesa
nuova, che perciò era chiesa nei giorni festivi, collegio lungo la settimana.
In questo anno fu pure costrutto il campanile che fiancheggia la chiesa di S.
Francesco di Sales, ed il benefico Sig. Michele Scannagatti provvide una elegante
muta di candelieri per l'altare maggiore, che formano tuttora uno de’ più belli
arredi di questa chiesa.
1853
Appena la stagione il permise si diede immediatamente mano a rialzare la casa
rovinata. I lavori si progredirono alacremente e col mese di ottobre l'edifizio era
compiùto. Essendo nel massimo bisogno di locale, siamo tosto volati ad occuparlo.
Io andai pel primo nella camera che Dio mi concede di poter tuttora abitare. Scuole,
refettorio, dormitorio poterono stabilirsi e regolarizzarsi, e il numero degli allievi fu
portato a sessantacinque.
Continuarono le provviste da parte di varii benefattori. Il cav. Giuseppe Duprè
provvide a sue spese la balaustra di S. Luigi in marmo; ne fece abbellire l'altare e
stuccare tutta la Cappella. Il Marchese Domenico Fassati regalò la piccola balaustra
dell'altare della Madonna, una muta di candelieri di bronzo dorato, pel medesimo
altare. Il conte Carlo Cays, nostro insigne benefattore, per la seconda volta Priore
della Compagnia di S. Luigi, ci pagò un vecchio debito di mille duecento franchi al
panattiere, che cominciava a fare difficoltà a somministrarci il pane. Compro una
campana, che fu oggetto di una graziosa festa. Il T. Cattino, nostro curato di felice
memoria, la venne a benedire; di poi fece un sermoncino di opportunità alla molta
gente accorsa dalla città. Dopo le sacre funzioni venne rappresentata una
commedia che fu tema di molta allegria per tutti. Lo stesso conte Cays provvide una
bella panta, l’attuale baldacchino con altri attrezzi di chiesa.

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10.1 Page 91

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Fornita così la nuova chiesa delle cose più necessarie al culto si poté finalmente
appagare per la prima volta il comune desiderio mercè l'esposizione delle
quarantore. Non vi era grande ricchezza di addobbi, ma vi fu straordinario concorso
di fedeli. Per secondare quel religioso trasporto e dare a tutti comodità di
soddisfare la propria divozione alle quarantore fecesi seguire un ottavario di
predicazione, che fu letteralmente impiegato ad ascoltare le confessioni della
moltitudine. Quell'insolito concorso fu motivo che negli anni successivi continuo a
farsi l'esposizione delle quarantore con regolare predicazione con grande frequenza
dei santi sacramenti e di altre pratiche di pietà.
Letture Cattoliche
Quest'anno, al mese di marzo cominciò la periodica pubblicazione delle Letture
Cattoliche. Nel 1847 quando ebbe luogo l'emancipazione degli ebrei e dei
protestanti divenne necessario qualche antidoto da porre in mano dei fedeli
cristiani in genere, specialmente della gioventù. Con quell'atto pareva che il
governo intendesse solamente dare libertà a quelle credenze, ma non a detrimento
del cattolicismo. Ma i protestanti non la intesero così, e si diedero a fare
propaganda con tutti i mezzi loro possibili. Tre giornali (La buona Novella, La luce
Evangelica, Il Rogantino piemontese)[,] molti libri biblici e non biblici; largheggiare
soccorsi, procacciare impieghi, somministrare lavori; offerire danaro, abiti,
commestibili a chi andava alle loro scuole o frequentava le loro conferenze o
semplicemente il loro tempio, sono tutti mezzi da loro usati per fare proseliti.
Il governo sapeva tutto e lasciava fare e col suo silenzio li proteggeva
efficacemente. Aggiungasi che i protestanti erano preparati e forniti di ogni mezzo
materiale e morale; mentre i cattolici fidandosi delle leggi civili che fino allora li
avevano protetti e difesi, appena possedevano qualche giornale, qualche opera
classica o di erudizione, ma niun giornale, niun libro da mettere nelle mani del
basso popolo.
In quel momento prendendo consiglio dalla necessità, ho cominciato a formare
alcune tavole sinottiche intorno alla Chiesa cattolica; poi altri cartelli intitolati:
Ricordi pei Cattolici, e mi diedi a spacciarli fra i giovanetti e fra gli adulti
specialmente in occasione di esercizi spirituali e di missioni.
Quelle pagelle, quei libretti erano accolti con grande ansietà; e in breve se ne
spacciarono migliaia di migliaia. Ciò mi persuase della necessità di qualche mezzo
popolare con cui agevolare la conoscenza dei principii fondamentali del
cattolicismo. [Fu] fatto quindi stampare un librettino col titolo: Avvisi ai Cattolici,
che ha lo scopo di mettere i cattolici all'erta e non lasciarsi cogliere nella rete degli
eretici. Lo spaccio ne fu straordinario; in due anni se ne diffusero oltre a
duecentomila esemplari. Ciò piacque ai buoni, ma fece dare alle furie i protestanti,
che si pensavano di essere i soli padroni del campo evangelico.
Mi avvidi allora essere cosa urgente di preparare e stampare libri pel popolo, e
progettai le così dette Letture Cattoliche. Preparati alcuni fascicoli voleva tosto
pubblicarli, quando nacque una difficoltà né aspettata né immaginata. Niun Vescovo
voleva mettersi alla testa. Vercelli, Biella, Casale si rifiutarono, dicendo essere cosa
pericolosa lanciarsi in battaglia coi protestanti. Monsignor Fransoni, allora
dimorante in Lione, approvava, raccomandava, ma niuno voleva assumersi
nemmeno la Revisione ecclesiastica. Il Can.co Giuseppe Zappata, Vicario Generale,

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fu il solo, che a richiesta dell’Arcivescovo ne rivedesse un mezzo fascicolo, di poi mi
ritorno il manoscritto dicendomi:
Si prenda il suo lavoro; io non mi sento di segnarmi: il fatto di Ximenes e di Palma
(1) sono troppo recenti. Ella sfida e prende di fronte i nemici ed io amo meglio
battere la ritirata in tempo utile.
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(1) L'Abate Ximenes Direttore di un giornale cattolico, Il Contemporaneo di Roma,
fu assassinato. Monsig. Palma, Seg. pontificio e scrittore di quel giornale, finiva per
un colpo di archibugio nelle medesime sale del Quirinale.
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D'accordo col Vicario Generale esposi ogni cosa all'Arcivescovo, e ne ebbi risposta
con lettera da portare a Monsig. Moreno Vescovo di Ivrea. Con essa pregava quel
prelato a prendere la progettata pubblicazione sotto alla sua protezione, di
assisterla colla revisione e colla sua autorità. Il Moreno si prestò volentieri; delegò
l’avv. Pinoli, suo Vic[ario] Gen[erale,] per la revisione, tacendo però il nome del
Revisore. Si compilò tosto un programma, e col primo marzo 1853 uscì il primo
fascicolo del Cattolico provv.
1854
Le Letture Cattoliche furono accolte con generale applauso, e il numero dei lettori
fu straordinario; ma di qui appunto cominciarono le ire dei protestanti. Provarono a
combatterle coi loro giornali, colle loro Letture Evangeliche; ma non potevano avere
lettori. Quindi ogni sorta di attacchi contro al povero D. Bosco. Ora gli uni ora gli
altri venivano a disputare persuasi, essi dicevano, che niuno valesse a resistere alle
loro ragioni. I preti cattolici fossero tanti gonzi e perciò con due parole potevano
confondersi.
Eglino pertanto vennero ad attaccarmi ora uno ora due, ed ora più insieme. Io li ho
sempre ascoltati e mi raccomandava sempre che le difficoltà, cui essi non sapevano
rispondere, fossero presentate ai loro ministri, e di poi mi fossero cortesi darmene
comunicazione. Venne Amedeo Bert, di poi Meille, l'evangelista Pugno, poi altri ed
altri, ma non poterono ottenere che io cessassi né dal parlare, né dallo stampare i
nostri trattenimenti: cosa che li eccito a massima rabbia. Credo bene di riferire
alcuni fatti relativi a questa materia.
Una domenica a sera del mese di Gennaio mi sono annunziati due signori che
venivano per parlarmi. Entrarono e dopo una lunga serie di complimenti e di
lusinghe uno di loro prese ad esprimersi così:
— Voi, Sig. Teologo, avete sortito dalla natura un gran dono: quello di farvi capire e
di farvi leggere dal popolo; perciò saremmo a pregarvi di volere occupare questo
dono prezioso in cose utili per l’umanità, in vantaggio della scienza, delle arti, del
commercio.
— I miei pensieri sono appunto rivolti alle Letture Cattoliche; di cui intendo
occuparmi con tutto l’animo.

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— Sarebbe assai meglio occuparvi di qualche buon libro per la gioventù, come
sarebbe una storia antica, un trattato di Geografia, di Fisica e Geometria, non però
delle Let[ture] Catt[oliche].
— Perché non di queste Letture?
— Perché è un lavoro già fritto e rifritto da tanti.
— Questi lavori furono già eseguiti da tanti, ma in volumi di erudizione, non però
pel popolo, come appunto è mio scopo colle Letture Cattoliche.
— Ma questo lavoro non vi da alcun vantaggio, al contrario, se faceste i lavori che
noi vi raccomandiamo, fareste anche un bene materiale al maraviglioso istituto che
la Provvidenza vi ha affidato. Prendete, qui avete già qualche cosa (erano quattro
biglietti da mille franchi) ma non sarà l'ultima oblazione, anzi ne avrete delle
maggiori.
— Per quale ragione tanto danaro?
— Per incoraggiarvi ad intraprendere le opere accennate e per coadiuvare a questo
non mai abbastanza lodato istituto.
— Perdonatemi, Signori, se vi ritorno il vostro danaro; io non posso per ora
intraprendere altro lavoro scientifico, se non quello che concerne alle Letture
Cattoliche.
— Ma se è un lavoro inutile...
— Se e un lavoro inutile perché volete prendervene pensiero? Perché spendere
questo danaro per farmi desistere?
— Voi non badate all'azione che fate; perciocché con questo rifiuto voi fate un danno
all'opera vostra, esponete voi a certe conseguenze, a certi pericoli...
— Signori, io capisco quello che volete significarmi, ma vi dico chiaro che per la
verità non temo alcuno, facendomi prete, mi sono consacrato al bene della Chiesa e
pel bene della povera umanità, e intendo di continuare colle deboli mie fatiche a
promuovere le Let[ture] Catt[oliche].
— Voi fate male, soggiunsero con voce e con volto alterato alzandosi in piedi, voi
fate male, voi ci fate un insulto, e poi chi sa che sarà di voi qui, e, in modo
minaccioso, se uscite di casa sarete sicuro di rientrare?
— Voi, Signori, non conoscete i preti cattolici, finché vivono, essi lavorano per
compiere il loro dovere; che se in mezzo a questo lavoro e per questo motivo
dovessero morire, per loro sarebbe la più grande fortuna, la massima gloria. —
In quel momento apparvero ambidue così irritati che temeva mi mettessero le mani
addosso. Mi alzai, misi la sedia tra me e loro dicendo: Se volessi usare la forza non
temerei le vostre minaccie, ma la forza del prete sta nella pazienza e nel perdono;
ma partitevi di qui.
Fatto intanto un giro intorno alla sedia, aprii l’uscio della camera, Buzzetti, dissi,
conduci questi signori fino al cancello, essi non sono guari periti della scala. —

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Rimasero confusi a quell'intimazione, e dicendo ci vedremo altro momento più
opportuno, se ne uscirono col volto e cogli occhi infiammati di sdegno. — Questo
fatto fu pubblicato da alcuni giornali, specialmente dall’Armonia.
Attentati personali
Sembrava che ci fosse una trama personale segreta contro di me, ordita dai
protestanti o dalla massoneria. Racconterò, ma in breve, alcuni fatti.
Una sera mentre stava in mezzo ai giovani facendo scuola; vennero due uomini
chiamandomi in fretta al Cuor d'Oro per un moribondo.
Ci andai tosto, ma volli essere accompagnato da alcuni dei più grandicelli. Non
occorre, mi dissero, che siano disturbati questi suoi allievi. Noi la condurremo
dall'infermo e la ricondurremo a casa. L’infermo forse sarebbe disturbato dalla
presenza di costoro.
— Non datevi pensiero di ciò, aggiunsi; questi miei allievi fanno una breve
passeggiata, e si arresteranno ai pie' della scala pel tempo che io passerò presso
l'infermo. —
Ma giunti alla casa del Cuor d'Oro: venga qua un momento, mi dissero, si riposi
alquanto e intanto andremo a prevenire l'ammalato della sua venuta.
Mi condussero in una camera a pian terreno, dove eranvi parecchi bontemponi che
dopo cena stavano mangiando castagne. Mi accolsero con mille parole di encomio e
di applausi, vollero che mi servissi e mangiassi delle loro castagne, che però non
posi in bocca, adducendo per ragione che aveva testé fatta la mia cena.
— Almeno beverà un bicchiere del nostro vino ripigliarono. Non le spiacerà; viene
dalle parti di Asti.
— Non mi sento, non sono solito a bere fuori pasto, mi farebbe male.
— Un piccolo bicchiere non le farà certamente alcun male. — Ciò dicendo versano
vino per tutti, giunti poi a me uno si recò a prendere bottiglia e bicchiere a parte.
Mi accorsi allora del perverso loro divisamento, ciò non di meno presi tra mano il
bicchiere, feci con loro un brindisi, ma invece di bere cercava riporlo sulla tavola.
— Non faccia questo, è un dispiacere, diceva uno; e un insulto, soggiungeva un
altro. Non ci faccia questo rifiuto.
— Non mi sento, non posso e non voglio bere.
— Bisogna che beva a qualunque costo.
Ciò detto, uno prese la mia spalla sinistra, un altro la spalla destra soggiungendo:
Non possiamo tollerare questo insulto. Beva per amore o per forza.
— Se volete assolutamente che io beva; il farò, ma lasciatemi alquanto in libertà, e
siccome io non posso bere lo darò ad uno de’ miei figli che beveranno in vece mia.

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Pronunciando quelle simulate parole feci un lungo passo verso l'uscio, lo aprii
invitando i miei giovani ad entrare.
— Non occorre, non occorre che altri beva. Stia tranquillo, andremo tosto a
prevenire l'ammalato, questi stiano in fondo alla scala. — Non avrei certamente
dato ad altri quel bicchiere, ma agiva per meglio scuoprire la loro trama che era di
farrni bere il veleno.
Fui poscia condotto in una camera al secondo piano, dove, invece di un infermo, mi
accorsi star coricato quello stesso che era venuto a chiamarmi, e che dopo avere
sostenute alcune mie dimande diede in uno scroscio di riso dicendo: Mi confesserò
poi dimani mattina. — Me ne andai tosto pei fatti miei.
Una persona amica fece alcune indagini intorno a coloro che mi avevano chiamato,
intorno al loro scopo, e potei essere assicurato che un cotale aveva loro pagata una
lauta cena coll'intendimento che eglino si fossero adoperati per farmi bere un po' di
vino che egli aveva preparato.
Aggressione - Pioggia di bastonate
Sembrano favole gli attentati che vo raccontando, ma pur troppo sono dolorose
verità che ebbero moltissimi testimoni. Eccone altro più strano ancora.
Una sera di agosto, circa alle ore sei di sera, circondato da' miei giovani io stava
sulla cancellata che metteva nel cortile dell'Oratorio, quando un grido inaspettato si
fa sentire: È un assassino, è un assassino. Ed ecco un cotale, da me assai conosciuto
ed anche beneficato; messo in manica di camicia con lungo coltello in mano correva
furioso, verso di me dicendo: Voglio D. Bosco, voglio D. Bosco. Tutti si diedero a
fuggire sbandati, e l'altro continuò la sua corsa dietro ad un cherico creduto per
vece mia. Allorché si accorse dello scambio, ripigliò furioso il suo passo contro di
me. Appena ebbi tempo di rifuggirmi su per le scale dell'antica abitazione, e la
serratura del cancello non era per anco ferma quando sopravvenne il malcapitato.
Batteva, gridava, mordeva le stanghe di ferro per aprirle, ma inutilmente: io era in
sicuro. I miei giovani volevano assalire quel miserabile e farlo in pezzi, ma io li ho
costantemente proibiti e mi ubbidirono. Fu dato avviso alla pubblica sicurezza, alla
questura, ai carabinieri, ma non si poté avere alcuno fino alle 9 ½ della stessa sera,
ora in cui due carabinieri catturarono il malandrino e seco lo condussero alla
caserma.
Il giorno seguente il questore mi mandò un uomo di polizia chiedendo se io
perdonava quell'oltraggiatore. Risposi che io perdonava quella ed altre ingiurie, che
però in nome della legge mi raccomandava alle autorità di tutelare meglio le
persone e le abitazioni dei cittadini. Chi lo crederebbe? All’ora stessa in cui erasi
tentata l’aggressione il mio rivale il giorno appresso mi stava attendendo a poca
distanza che uscissi di casa.
Un mio amico osservando che non potevasi avere difesa dalle autorità volle parlare
a quel miserabile. Io sono pagato, rispose, e mi si dia quanto altri mi danno, io me
ne vado in pace. Gli vennero pagati 80 franchi di fitto scaduto, altri 80 per
anticipazione di altro alloggio lontano da Valdocco, e così termino quella prima
commedia.

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Non così fu la seconda, che sto per raccontare. Circa un mese dopo al fatto sopra
narrato una domenica a sera fui richiesto in fretta in casa Sardi vicino al Rifugio per
confessare un'ammalata che si diceva all’estremo di vita. A motivo dei fatti
precedenti invitai parecchi giovani grandicelli ad accompagnarmi. Non occorre, mi
si diceva, noi l'accompagneremo, si lascino questi giovani ai loro trastulli. Questo
bastò perché io non andassi da solo. Ne lasciai alcuni nella via a piè della scala;
Buzzetti Giuseppe e Giacinto Arnaud si arrestarono al 1° piano sul pianerottolo
della scala a poca distanza dall'uscio della camera dell'ammalata.
Entrai, e vidi una donna ansante a guisa di chi sta per mandare l’ultimo respiro.
Invitai gli astanti in numero di quattro ad allontanarsi alquanto per parlare di
religione.—Prima di confessarmi, ella prese a dire con gran voce, io voglio che quel
briccone che mi sta di fronte, si ricreda delle calunnie che mi ha imputate.
— No, rispose un altro.
— Silenzio, aggiunse un altro alzandosi in piedi. Allora si levarono tutti da sedere.
Si, no, guarda, ti strozzo, ti scanno erano voci che miste ad orrende imprecazioni
facevano un eco diabolico per quella camera. In mezzo a quel diavolio si spengono i
lumi; aumentandosi gli schiamazzi, comincia una pioggia di bastonate dirette la
dove io era seduto. Indovinai tosto il giuoco, che consisteva nel farmi la festa; e in
quel momento non avendo tempo né a pensare né a riflettere presi consiglio dalla
necessità, diedi mano ad una sedia, me la misi in capo, e sotto a quel parabastonate
camminando verso l'uscita riceveva que' colpi di bastone che con gran rumore
cadevano sopra la sedia.
Uscito da quella fucina di Satana mi lanciai tra le braccia de’ miei giovani, che a
quel rumore e a quegli schiamazzi volevano ad ogni costo entrare in quella casa.
Non riportai grave ferita eccetto una bastonata, che colpi il pollice della sinistra
appoggiato sullo schienale della sedia e ne riportò via l'unghia colla metà della
falange, siccome tuttora serbo la cicatrice. Il maggior male fu lo spavento.
Io non ho mai potuto sapere il vero motivo di tali vessazioni, ma sembra che ogni
cosa fosse sempre ordita ad attentarmi la vita per farmi desistere, essi dicevano, dal
calunniare i protestanti.
Il cane Grigio
Il cane Grigio fu tema di molti discorsi e di varie supposizioni. Non pochi di voi
l’avranno veduto ed anche accarezzato. Ora lasciando a parte le strane storielle che
di questo cane si raccontano, io vi verrò esponendo quanto è pura verità. I frequenti
insulti di cui era fatto segno mi consigliarono a non camminare da solo nell'andare o
nel venire dalla città di Torino. A quel tempo il Manicomio era l’ultimo edifizio verso
l'Oratorio, il rimanente era terreno ingombro di bossoli e di acacie.
Una sera oscura alquanto sul tardi veniva a casa soletto non senza un po' di panico;
quando mi vedo accanto un grosso cane che a primo aspetto mi spavento; ma non
minacciando atti ostili, anzi facendo moine come se io fossi il suo padrone, ci siamo
tosto messi in buona relazione, e mi accompagnò sino all'Oratorio. Ciò che avvenne
in quella sera, succedette molte altre volte; sicché io posso dire che il grigio mi ha
reso importanti servigi.

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Ne esporrò alcuni. Sul finire di novembre 1854 una sera nebbiosa e piovosa veniva
dalla città e per non fare lunga via da solo discendeva per la via che dalla Consolata
mette al Cottolengo. Ad un punto di strada mi accorgo che due uomini
camminavano a poca distanza dinanzi a me. Costoro acceleravano o rallentavano il
passo ogni volta rallentava o accelerava il mio. Quando poi io tentava portarmi nella
parte opposta per evitarne lo scontro, eglino destramente si recavano davanti di
me. Tentai rifare la via, ma non fui più a tempo; perciocché facendo
improvvisamente due salti indietro, conservando cupo silenzio, mi gettarono un
mantello nella faccia.
Mi sforzai per non lasciarmi avviluppare, ma inutilmente, anzi uno tentava di
turarmi la bocca, con un moccichino. Voleva gridare, ma non poteva più. In quel
momento appare il grigio, e urlando a guisa di orso si lancia colle zampe contro alla
faccia di uno, colla bocca spalancata verso l'altro in modo che dovevano avviluppare
il cane prima di me.
— Chiami questo cane, si posero a gridare tremanti.
— Si che lo chiamo, ma lasciate in libertà i passeggieri.
— Ma lo chiami tosto, esclamavano.—Il grigio continuava ad urlare come lupo o
come orso arrabbiato.
Ripigliarono gli altri la loro via, e il grigio, standomi sempre a fianco mi
accompagnò fino a che entrai nell'Opera Cottolengo. Riavuto dallo spavento, e
ristorato con una bibita che la carità di quell'Opera sa sempre trovare
opportunamente, con buona scorta me ne andai a casa.
Tutte le sere che non era da altri accompagnato, passati gli edifizi, mi vedeva
spuntare il grigio da qualche lato della via. Più volte lo videro i giovani
dell'Oratorio, ma una volta ci servì di commedia. Lo videro i giovani della casa
entrare nel cortile: chi lo voleva battere, chi prenderlo a sassate.
— Non si disprezzi, disse Buzzetti Giuseppe, e il cane di D. Bosco.
Allora ognuno si fece ad accarezzarlo in mille guise e lo accompagnarono da me. Io
era in Refettorio a cena con alcuni cherici e preti, e con mia madre. A quella vista
inaspettata rimasero tutti sbigottiti: Non temete, io dissi, e il mio grigio, lasciatelo
venire. Di fatto compiendo egli un largo giro intorno alla tavola si recò vicino a me
tutto festoso. Io pure lo accarezzai e gli offerii minestra, pane e pietanza, ma egli
tutto rifiutò, anzi volle nemmeno fiutare queste offerte.—Ma dunque che vuoi?
soggiunsi. Egli non fece altro se non isbattere le orecchie e muovere la code. — O
mangiar, o bere, o altrimenti stammi allegro, conchiusi. Continuando allora a dar
segni di compiacenza, appoggiò il capo sulla mia tovaglia come volesse parlare e
darmi la buona sera, quindi, con grande maraviglia ed allegria fu accompagnato dai
giovani fuori della porta. Mi ricordo che quella sera venni sul tardi a casa, ed un
amico mi aveva portato nella sua carrozza.
L'ultima volta che io vidi il grigio fu nel 1866 nel recarmi da Murialdo a Moncucco
presso di Luigi Moglia mio amico. Il paroco di Buttigliera mi volle accompagnare un
tratto di via, e ciò fu cagione che fossi sorpreso dalla notte a metà cammino. — O se
avessi il mio grigio, dissi tra me, quanto mi sarebbe opportuno! — Ciò detto, montai
in un prato per godere l'ultimo sprazzo di luce. In quel momento il grigio mi corre
incontro con gran festa, e mi accompagnò pel tratto di via da farsi, che era ancora

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di tre chilometri. Giunto alla casa dell'amico, dove ero atteso, mi prevennero di
passare in sito appartato, affinché il mio grigio non venisse a battaglia con due
grossi cani della casa. Si sbranerebbero l'un l'altro, se si misurassero, diceva il
Moglia.
Si parlò assai con tutta la famiglia, di poi si andò a cena, e il mio compagno fu
lasciato in riposo in un angolo della sala. Terminata la mensa, bisogna dare la cena
anche al grigio, disse l’amico, e preso un po' di cibo lo si portò al cane, che si cercò
in tutto gli angoli della sala e della casa. Ma il grigio non si trovò più. Tutti rimasero
maravigliati, perciocché non si era aperto né uscio né finestra, né i cani della
famiglia diedero alcun segno della sua uscita; si rinnovarono le indagini nelle
abitazioni superiori, ma niuno più poté rinvenirlo.
È questa l'ultima notizia che io ebbi del cane grigio, che fu tema di tante indagini e
discussioni. Né mai mi fu dato poterne conoscere il padrone. Io so solamente che
quell'animale fu per me una vera provvidenza in molti pericoli in cui mi sono
trovato.