BOZZOLO Sogno dei nove anni breve ITA


BOZZOLO Sogno dei nove anni breve ITA

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IL SOGNO DEI NOVE ANNI DI DON BOSCO
Don Andrea Bozzolo
Torino, 18 settembre 2017
1. I “sogni” di don Bosco: questioni introduttive
I sogni costituiscono un elemento molto prezioso dell’esperienza spirituale e della sapienza
educativa di don Bosco. Essi non possono in alcun modo essere ridotti a semplici racconti
edificanti, ma, pur non avendo tutti lo stesso valore, costituiscono fonti di grande rilievo che
meritano di essere studiate e approfondite per molti motivi. Un primo e fondamentale motivo
consiste nel fatto che don Bosco stesso ha attribuito ad alcuni di essi una valenza ispiratrice e, in
vari modi, se n’è lasciato guidare. Come ha scritto autorevolmente Pietro Stella:
I sogni […] fondarono convinzioni e sostennero imprese. Senza di essi non si spiegherebbero alcuni lineamenti
caratteristici della religiosità di don Bosco e dei salesiani. Per questo essi meritano di essere studiati
attentamente non soltanto per il loro contenuto pedagogico e moralistico, ma già per quello che furono in sé e
per il modo come furono intesi da don Bosco, dai suoi giovani, dai suoi ammiratori ed eredi spirituali.1
Senza dubbio don Bosco ha accolto il messaggio dei sogni con prudenza, li ha sottoposti a
un lungo discernimento spirituale e non li ha mai intesi come una via alternativa alla ricerca orante
della volontà di Dio. Prima di raccontarli ai suoi figli ha atteso molti anni, in alcuni casi addirittura
decenni, e si è deciso a farlo solo quando Pio IX, che vi aveva intuito il segno di una misteriosa
azione dello Spirito, l’ha pressantemente sollecitato. Nonostante le cautele con cui don Bosco si è
servito dei sogni, è innegabile che molti aspetti dell’Oratorio e la stessa fondazione della
Congregazione salesiana sono intrecciati in maniera così stretta con essi, che difficilmente si
potrebbe intendere in tutta la sua ricchezza l’avventura spirituale del prete di Valdocco
trascurandone l’apporto.
Un secondo motivo che spinge a dedicare una particolare attenzione a queste pagine va
ritrovato nel fatto che alcune di esse si presentano come documenti spirituali di altissimo valore, in
cui è possibile ritrovare, nella forma evocativa tipica dei simboli onirici, l’espressione sintetica dei
tratti costitutivi del carisma salesiano. Non è un caso, dunque, che fin dagli inizi della
Congregazione i racconti di alcuni sogni furono utilizzati dal primo maestro dei novizi, don Giulio
Barberis, per introdurre gli aspiranti alla vita salesiana in quello stile originale di consacrazione
apostolica che da don Bosco traeva origine. Nelle immagini dei sogni erano, infatti, evocati gli
atteggiamenti che dovevano essere assunti da chi voleva vivere con don Bosco e assimilare la sua
spiritualità. I successori di don Bosco nella guida della Congregazione e della famiglia salesiana,
d’altra parte, torneranno a più riprese su alcuni di questi testi, facendone risuonare in diverse epoche
il messaggio educativo e spirituale e la forza interpellante.
Un terzo motivo, infine, può essere individuato nel fatto che tali pagine offrono non di rado
un accesso al mondo interiore di don Bosco, che difficilmente si può ritrovare negli altri suoi scritti.
È questo un elemento che forse non è stato ancora sufficientemente evidenziato e le cui potenzialità
attendono di essere svolte. Tutti sappiamo quanto don Bosco fosse poco incline a parlare di sé e
* Presento in questa relazione una breve sintesi di uno studio più ampio, in corso di pubblicazione all’interno di un
volume dedicato interamente ai sogni di don Bosco: A. BOZZOLO (ed.), I sogni di don Bosco. Esperienza spirituale e
sapienza educativa, LAS, Roma 2017.
1 P. STELLA, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica. II. Mentalità religiosa e spiritualità, Pas-Verlag, Zürich
1969, 507.
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molto sobrio nel confidare i moti del proprio animo. Cresciuto in un ambiente contadino, in cui
aveva respirato l’amore per il lavoro e il gusto della concretezza, don Bosco non era portato a
indugiare nell’osservazione dei suoi stati interiori. Il suo carisma educativo e apostolico, inoltre, lo
spingeva a esprimere la qualità della sua fede con l’ardore della carità più che con l’analisi riflessa
del vissuto. È consueto dunque ritenere che non abbiamo molti documenti che ci permettano di
scavare nell’intimo di questo prete divorato dalla passione apostolica, che non aveva tempo né
inclinazione per raccontare la propria autobiografia spirituale. Eppure i racconti dei sogni – di
alcuni in particolare – fanno a nostro avviso eccezione. Mentre li racconta, infatti, don Bosco non
può fare a meno di mettere a nudo il proprio cuore, di lasciar intravedere il ricco mondo delle sue
emozioni: la paura che lo coglie di fronte alla missione, lo sgomento di fronte alle difficoltà,
l’istintivo atteggiamento di difesa di fronte a un compito che lo supera, l’angoscia con cui reagisce
alla vista del peccato, ma ancor più la gioia immensa di percepire la vicinanza di Gesù e la
protezione di Maria, lo stupore di scoprirsi strumento dei piani divini, la meraviglia di vedere
dilatati gli orizzonti della propria fecondità fino a influire sulle vicende ecclesiali e sociali
dell’epoca e ad abbracciare i vasti confini dell’azione missionaria. Mentre racconta i sogni, don
Bosco inevitabilmente racconta di sé, di quel “sé” profondo che molte volte rimane pudicamente
nell’ombra quando egli descrive lo sviluppo della sua opera o quando compone testi destinati
all’istruzione del popolo di Dio o alla catechesi dei suoi giovani.
Se i motivi d’interesse per un’indagine sul tema sono dunque molti, non ci si può però
nascondere le difficoltà che tale impresa comporta e le obiezioni che lo studioso deve affrontare. La
prima e più radicale riguarda la consistenza stessa dell’esperienza del sogno, che il senso comune
considera per sua natura sfuggente e labile, tanto che raramente nella veglia la memoria riesce a
conservarne un’immagine vivida. È giusto dunque chiedersi: a quale regione del reale va assegnato
il fenomeno onirico? Quale spazio gli va riconosciuto nell’ambito della coscienza umana? Quale
dignità e ruolo gli si può attribuire come fonte di conoscenza?
La riflessione approfondita su tali interrogativi, che sembrerebbero minare alla radice ogni
pretesa di un lavoro rigoroso si rivela paradossalmente una preziosa opportunità di chiarimento
teorico. Entrando nella complessa problematica del sogno, infatti, appare chiaro che molti dei
sospetti che gravano su di esso derivano da un preciso modello antropologico, affermatosi nella
modernità, ma non resistono a una riflessione critica di più ampio respiro. Essi dipendono, infatti, in
larga misura dalla tendenza moderna a identificare la coscienza umana con l’attenzione vigile di un
soggetto consapevole, confondendo dunque la realtà della percezione con il suo grado di
consapevolezza e identificando indebitamente il registro della conoscenza con l’acquisizione di idee
chiare e distinte circa un oggetto analiticamente indagato. È chiaro che a partire da questi
presupposti il sogno non può che essere risospinto in una sorta di “buco nero” della coscienza, come
un’esperienza diminuita al limite dell’irreale. In questo modo però il soggetto moderno riduce il
proprio mondo soltanto al tempo della veglia e perde il contatto con ciò che vive nella sua
condizione notturna, in cui certamente non cessa di esistere, di sentire, di sperimentare – seppur in
altro modo – il suo essere al mondo. Il fenomeno del sogno, dunque, può essere accostato nella sua
originalità solo mettendo in discussione i presupposti teorici in nome dei quali s’identifica l’ambito
di esperienze per cui si utilizzano i termini “coscienza”, “sapere”, “realtà”.
Se il sogno è inteso come evento dinamico, come apparire sorgivo di una direzione intuita,
come immagine di un’intenzionalità in divenire, è chiaro che la sua narrazione non può essere una
sorta di resoconto stenografico, una riproduzione dettagliata che abbia la pretesa di restituire ogni
particolare in una forma definitiva. La narrazione del sogno è piuttosto il tentativo di esprimere e
prolungare il dinamismo di un’esperienza percepita in una modalità diversa dalla chiarezza
concettuale, un’esperienza che può giungere a parola solo come in un parto, mentre la coscienza
cerca di intenderne il senso all’interno del proprio orizzonte vitale. Proprio il registro di una parola
che cerca di esprimere un movimento di trascendimento è quello che più fedelmente restituisce la
complessità dell’accadimento notturno. Il sogno non è dunque un materiale da laboratorio, né il
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racconto che lo trasmette una registrazione oggettiva. L’esperienza cui dà voce concerne le regioni
più intime del nostro mondo, che nessun approccio razionalistico è in grado di nominare.
Un secondo elemento di difficoltà, più direttamente connesso con l’ambito specifico della
nostra indagine, è che sotto la denominazione “sogni di don Bosco” ci è stata tramandata la
memoria di esperienze assai diverse: 1. veri e propri fenomeni straordinari (per lo più del tipo che la
teologia spirituale designa come “visioni immaginative”); 2. esperienze oniriche speciali, nelle quali
in qualche modo don Bosco ha ricevuto una parola da Dio, che inabita l’anima del giusto, senza che
l’accadimento avesse una forma miracolosa, ossia senza sospendere le normali leggi della natura; 3.
sogni comuni di un prete zelante, nei quali risuonava l’eco della sua visione della vita e
conseguentemente un certo messaggio morale; 4. racconti didascalici presentati nel genere letterario
del sogno. Distinguere a quali di queste categorie debbano essere attribuiti i diversi “sogni” non è
impresa semplice; ma, almeno di diritto e in una certa misura, neppure impossibile, a patto di
accostarsi ai dati senza pregiudizi, con pazienza, umiltà e senso del limite.
Un terzo aspetto problematico, contingente ma reale, riguarda lo studio delle fonti salesiane.
I “sogni di don Bosco” sono arrivati a noi attraverso percorsi di scritture e riscritture che hanno
bisogno di volta in volta di essere attentamente ricostruiti (là dove è possibile). Se per alcuni sogni
abbiamo la fortuna di avere una stesura autografa di don Bosco o un testo da lui personalmente
rivisto, per altri racconti ci si deve affidare alla redazione di chi ne ha ascoltato la narrazione e ne ha
fissato su carta la memoria. Molte di queste fonti giacciono ancora in archivio in attesa di essere
pazientemente studiate, così da giungere a restituire la genealogia dei testi che sono confluiti nella
versione vulgata, che di solito è quella riportata nelle Memorie Biografiche. Il lavoro storico sulle
fonti rimane dunque un’esigenza imprescindibile per ogni ulteriore sviluppo della ricerca.
L’attenzione al complesso processo che unisce insieme l’esperienza onirica, la sua narrazione e
condivisione, la sua crescita interpretativa nella coscienza del soggetto e nella tradizione che lo
tramanda, esclude comunque letture ingenue e massimaliste, che cedano all’illusione di una sorta di
“immediatismo” nei rapporti tra Dio e l’uomo, come anche un positivismo storico, che pretenda di
accostare con un’unica metodologia le complesse forme dell’esperienza umana.
2. Il sogno dei nove anni: struttura narrativa
Il racconto che don Bosco fa nelle Memorie dell’Oratorio del sogno che ebbe a nove anni
costituisce uno dei testi più rilevanti della tradizione salesiana. La sua narrazione ha accompagnato
in modo vitale la trasmissione del carisma, divenendone uno dei simboli più efficaci e una delle
sintesi più eloquenti. Per questo il testo giunge al lettore che si riconosce in quella tradizione
spirituale con le caratteristiche di una pagina “sacra”, che rivendica una non comune autorevolezza
carismatica ed esercita una consistente energia performativa, toccando gli affetti, muovendo
all’azione e generando identità. In essa, infatti, gli elementi costitutivi della vocazione salesiana
sono allo stesso tempo fissati in modo autorevole, come un testamento da consegnare alle
generazioni future, e ricondotti, attraverso l’esperienza misteriosa del sogno, alla loro origine
trascendente.
Riportiamo il testo secondo l’edizione critica di Antonio da Silva Ferreira, da cui ci
discostiamo solo per due piccole varianti.2 Suddividiamo il racconto in paragrafi che, per comodità,
accompagniamo con una sigla tra parentesi quadre.
[C1] A quell’età ho fatto un sogno, che mi rimase profondamente impresso nella mente per tutta la vita.
2 Il testo critico è in MO 34-37. Le due varianti sono indicate da Aldo Giraudo in G. BOSCO, Memorie dell’oratorio di
S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855, LAS, Roma 2011, 62s., nota 18.
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[I] Nel sonno mi parve di essere vicino a casa in un cortile assai spazioso, dove stava raccolta una moltitudine
di fanciulli, che si trastullavano. Alcuni ridevano, altri giuocavano, non pochi bestemmiavano. All’udire quelle
bestemmie mi sono subito lanciato in mezzo di loro adoperando pugni e parole per farli tacere.
[II] In quel momento apparve un uomo venerando in virile età nobilmente vestito. Un manto bianco gli copriva
tutta la persona; ma la sua faccia era così luminosa, che io non poteva rimirarlo. Egli mi chiamò per nome e mi
ordinò di pormi alla testa di que’ fanciulli aggiungendo queste parole: «Non colle percosse ma colla
mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici. Mettiti adunque immediatamente a fare loro
un’istruzione sulla bruttezza del peccato e sulla preziosità della virtù». Confuso e spaventato soggiunsi che io
era un povero ed ignorante fanciullo incapace di parlare di religione a que’ giovanetti. In quel momento que’
ragazzi cessando dalle risse, dagli schiamazzi e dalle bestemmie, si raccolsero tutti intorno a colui, che parlava.
[III] Quasi senza sapere che mi dicessi, «Chi siete voi», soggiunsi, «che mi comandate cosa impossibile?»
«Appunto perché tali cose ti sembrano impossibili, devi renderle possibili coll’ubbidienza e coll’acquisto della
scienza». «Dove, con quali mezzi potrò acquistare la scienza?». «Io ti darò la maestra sotto alla cui disciplina
puoi diventare sapiente, e senza cui ogni sapienza diviene stoltezza». «Ma chi siete voi, che parlate in questo
modo?» «Io sono il figlio di colei, che tua madre ti ammaestrò di salutar tre volte al giorno». «Mia madre mi
dice di non associarmi con quelli che non conosco, senza suo permesso; perciò ditemi il vostro nome». «Il mio
nome dimandalo a Mia Madre».
[IV] In quel momento vidi accanto di lui una donna di maestoso aspetto, vestita di un manto, che risplendeva
da tutte parti, come se ogni punto di quello fosse una fulgidissima stella. Scorgendomi ognor più confuso nelle
mie dimande e risposte, mi accennò di avvicinarmi a Lei, che presemi con bontà per mano, e «guarda», mi
disse. Guardando mi accorsi che quei fanciulli erano tutti fuggiti, ed in loro vece vidi una moltitudine di
capretti, di cani, di gatti, orsi e di parecchi altri animali. «Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Renditi
umile, forte, robusto; e ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo pei figli
miei». Volsi allora lo sguardo ed ecco invece di animali feroci apparvero altrettanti mansueti agnelli, che tutti
saltellando correvano attorno belando come per fare festa a quell’uomo e a quella signora. A quel punto,
sempre nel sonno, mi misi a piangere, e pregai quello a voler parlare in modo da capire, perciocché io non
sapeva quale cosa si volesse significare. Allora Ella mi pose la mano sul capo dicendomi: «A suo tempo tutto
comprenderai».
[C2] Ciò detto un rumore mi svegliò ed ogni cosa disparve. Io rimasi sbalordito. Sembravami di avere le mani
che facessero male pei pugni che aveva dato, che la faccia mi duolesse per gli schiaffi ricevuti; di poi quel
personaggio, quella donna, le cose dette e le cose udite mi occuparono talmente la mente, che per quella notte
non mi fu possibile prendere sonno. Al mattino ho tosto con premura raccontato quel sogno prima a’ miei
fratelli, che si misero a ridere, poi a mia madre ed alla nonna. Ognuno dava al medesimo la sua interpretazione.
Il fratello Giuseppe diceva: «Tu diventerai guardiano di capre, di pecore o di altri animali». Mia madre: «Chi
sa che non abbi a diventar prete». Antonio con secco accento: «Forse sarai capo di briganti». Ma la nonna, che
sapeva assai di teologia, era del tutto inalfabeta, diede sentenza definitiva dicendo: «Non bisogna badare ai
sogni». Io era del parere di mia nonna, tuttavia non mi fu mai possibile di togliermi quel sogno dalla mente. Le
cose che esporrò in appresso daranno a ciò qualche significato. Io ho sempre taciuto ogni cosa; i miei parenti
non ne fecero caso. Ma quando, nel 1858, andai a Roma per trattar col Papa della congregazione salesiana, egli
si fece minutamente raccontare tutte le cose che avessero anche solo apparenza di soprannaturali. Raccontai
allora per la prima volta il sogno fatto in età di nove in dieci anni. Il Papa mi comandò di scriverlo nel suo
senso letterale, minuto e lasciarlo per incoraggiamento ai figli della congregazione, che formava lo scopo di
quella gita a Roma.
Sarebbe importante svolgere un’analisi narrativa dettagliata del testo, che però non abbiamo
ora il tempo di svolgere, per far emergere alcune tensioni e dinamismi di grande interesse. Mi limito
pertanto a riportare schematicamente la struttura che il testo lascia trasparire:
[I] situazione iniziale
1. collocazione spaziale del sogno
2. comportamento deviante dei fanciulli
3. reazione spontanea di Giovanni
[II] sezione dell’uomo venerando
1. apparizione dell’uomo venerando e sue caratteristiche
2. suo ordine/ammaestramento triplice:
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a. porsi alla testa dei fanciulli (discorso indiretto)
b. non colle percosse…
c. mettiti adunque immediatamente...
3. diversa reazione di Giovanni e dei fanciulli
[III] dialogo intermedio
- «Chi siete voi…?»
- «Dove, con quali mezzi…?»
- «Chi siete voi…?»
- «Ditemi il vostro nome»
[IV] sezione della donna di maestoso aspetto
1. visione della donna e sue caratteristiche
2. suo ordine/ammaestramento triplice intrecciato con scena simbolica:
* visione di animali feroci
a. ecco il tuo campo
b. renditi umile, forte e robusto
c. ciò che vedi… tu dovrai farlo
* mutamento degli animali feroci in agnelli mansueti
3. reazione di Giovanni e assicurazione della donna sulla futura comprensione.
3. Nuclei teologico-spirituali
Un commento ai temi teologico-spirituali presenti nel sogno dei nove anni potrebbe avere
sviluppi tanto ampi da includere una trattazione a tutto campo della “salesianità”. Letto, infatti, a
partire dalla sua storia degli effetti, il sogno apre innumerevoli piste di approfondimento dei tratti
pedagogici e apostolici che hanno caratterizzato la vita di san Giovanni Bosco e l’esperienza
carismatica che da lui ha preso origine. Scegliamo di concentrare l’attenzione su cinque piste di
riflessione spirituale che riguardano rispettivamente (1) la missione oratoriana, (2) la chiamata
all’impossibile, (3) il mistero del Nome, (4) la mediazione materna e, infine, (5) la forza della
mansuetudine.
3.1. La missione oratoriana
Il sogno dei nove anni è pieno di ragazzi. Essi sono presenti dalla prima all’ultima scena e
sono i beneficiari di tutto ciò che avviene. La loro presenza è caratterizzata dall’allegria e dal gioco,
che sono tipici della loro età, ma anche dal disordine e da comportamenti negativi. I fanciulli non
sono dunque nel sogno dei nove anni l’immagine romantica di un’età incantata, non ancora toccata
dai mali del mondo, né corrispondono al mito postmoderno della condizione giovanile, come
stagione dell’agire spontaneo e della perenne disponibilità al cambiamento, che dovrebbe essere
conservata in un’eterna adolescenza. I ragazzi del sogno sono straordinariamente “veri”, sia quando
appaiono con la loro fisionomia, sia quando sono raffigurati simbolicamente sotto forma di animali.
Essi giocano e bisticciano, si divertono ridendo e si rovinano bestemmiando, proprio come avviene
nella realtà. Non paiono né innocenti, come li immagina una pedagogia spontaneista, né capaci di
fare da maestri a se stessi, come li ha pensati Rousseau. Dal momento in cui appaiono, in un “cortile
assai spazioso”, che fa presagire i grandi cortili dei futuri oratori salesiani, essi invocano la
presenza e l’azione di qualcuno. Il gesto impulsivo del sognatore, però, non è l’intervento giusto; è
necessaria la presenza di un Altro.
Con la visione dei fanciulli s’intreccia l’apparizione della figura cristologica, come ormai
possiamo apertamente chiamarla. Colui che nel Vangelo ha detto: «Lasciate che i bambini vengano
a me» (Mc 10,14), viene a indicare al sognatore l’atteggiamento con cui i ragazzi vanno avvicinati e
accompagnati. Egli appare maestoso, virile, forte, con tratti che ne evidenziano chiaramente il
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carattere divino e trascendente; il suo modo di agire è contrassegnato da sicurezza e potenza e
manifesta una piena signoria sulle cose che avvengono. L’uomo venerando, però, non incute paura,
ma anzi porta la pace dove prima c’era confusione e schiamazzo, manifesta benevola comprensione
nei confronti di Giovanni e lo orienta su una via di mansuetudine e carità.
La reciprocità tra queste figure – i ragazzi da una parte e il Signore (cui si aggiunge poi la
Madre) dall’altra – definisce i contorni del sogno. Le emozioni che Giovanni prova nell’esperienza
onirica, le domande che pone, il compito che è chiamato a svolgere, il futuro che gli si apre davanti
sono totalmente vincolati alla dialettica tra questi due poli. Forse il messaggio più importante che il
sogno gli trasmette, quello che probabilmente ha capito per primo perché gli è rimasto impresso
nell’immaginazione, prima ancora di comprenderlo in modo riflesso, è che quelle figure si
richiamano a vicenda e che egli per tutta la vita non potrà più dissociarle. L’incontro tra la
vulnerabilità dei giovani e la potenza del Signore, tra il loro bisogno di salvezza e la sua offerta di
grazia, tra il loro desiderio di gioia e il suo dono di vita devono diventare ormai il centro dei suoi
pensieri, lo spazio della sua identità. La partitura della sua vita sarà tutta scritta nella tonalità che
questo tema generatore gli consegna: modularlo in tutte le sue potenzialità armoniche sarà la sua
missione, in cui dovrà riversare tutte le sue doti di natura e di grazia.
Il dinamismo della vita di Giovanni si prospetta dunque nel sogno-visione come un continuo
movimento continuo, una sorta di andirivieni spirituale, tra i ragazzi e il Signore. Dal gruppo di
fanciulli in mezzo a cui si è buttato con impeto Giovanni deve lasciarsi attirare al Signore che lo
chiama per nome, per poi ripartire da Colui che lo invia e andare a mettersi, con ben altro stile, alla
testa dei compagni. Anche se dai ragazzi riceve in sogno pugni così forti, da sentirne il male ancora
al risveglio, e dall’uomo venerando ascolta parole che lo lasciano interdetto, il suo andare e venire
non è un viavai inconcludente, ma un percorso che gradualmente lo trasforma e fa arrivare ai
giovani un’energia di vita e di amore.
Che tutto ciò avvenga in un cortile è altamente significativo e ha un chiaro valore prolettico,
poiché della missione di don Bosco il cortile oratoriano diventerà il luogo privilegiato e il simbolo
esemplare. Tutta la scena è collocata in quest’ambiente, insieme vasto (cortile assai spazioso) e
familiare (vicino a casa). Il fatto che la visione vocazionale non abbia come sfondo un luogo sacro o
uno spazio celeste, ma l’ambiente in cui i ragazzi vivono e giocano, indica chiaramente che
l’iniziativa divina assume il loro mondo come luogo dell’incontro. La missione che viene affidata a
Giovanni, anche se è chiaramente indirizzata in senso catechetico e religioso («fare loro
un’istruzione sulla bruttezza del peccato e la preziosità della virtù»), ha come proprio habitat
l’universo dell’educazione. L’associazione della figura cristologica con lo spazio del cortile e le
dinamiche del gioco, che certamente un ragazzo di nove anni non può aver “costruito”, costituisce
una trasgressione dell’immaginario religioso più consueto, la cui forza ispiratrice è pari alla
profondità misterica. Essa infatti sintetizza in sé tutta la dinamica del mistero dell’incarnazione, per
cui il Figlio prende la nostra forma per poterci offrire la sua, e mette in luce come non vi sia nulla di
umano che debba essere sacrificato per far spazio a Dio.
Il cortile dice dunque la vicinanza della grazia divina al “sentire” dei ragazzi: per
accoglierla non occorre uscire dalla propria età, trascurarne le esigenze, forzarne i ritmi. Quando
don Bosco, ormai adulto, scriverà nel Giovane provveduto che uno degli inganni del demonio è far
pensare ai giovani che la santità sia incompatibile con la loro voglia di stare allegri e con
l’esuberante freschezza della loro vitalità, non farà che restituire in forma matura la lezione intuita
nel sogno e divenuta poi un elemento centrale del suo magistero spirituale. Il cortile dice allo stesso
tempo la necessità di intendere l’educazione a partire dal suo nucleo più profondo, che riguarda
l’atteggiamento del cuore verso Dio. Lì, insegna il sogno, non vi è solo lo spazio di un’apertura
originaria alla grazia, ma anche l’abisso di una resistenza, in cui si annida la bruttezza del male e la
violenza del peccato. Per questo l’orizzonte educativo del sogno è francamente religioso, e non solo
filantropico, e mette in scena la simbolica della conversione, e non solo quella dello sviluppo di sé.
Nel cortile del sogno, colmo di ragazzi e abitato dal Signore, si dischiude dunque a Giovanni
quella che sarà in futuro la dinamica pedagogica e spirituale dei cortili oratoriani. Di essa vogliamo
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ancora sottolineare due tratti, chiaramente evocati nelle azioni che nel sogno compiono i fanciulli
prima, e gli agnelli mansueti poi.
Il primo tratto va ravvisato nel fatto che i ragazzi «cessando dalle risse, dagli schiamazzi e
dalle bestemmie, si raccolsero tutti intorno a colui che parlava». Questo tema del “radunarsi” è una
delle matrici teologiche e pedagogiche più importanti della visione educativa di don Bosco. In una
celebre pagina scritta nel 1854, l’Introduzione al Piano di Regolamento per l’Oratorio maschile di
S. Francesco di Sales in Torino nella regione Valdocco, egli presenta la natura ecclesiale e il senso
teologico dell’istituzione oratoriana citando le parole dell’evangelista Giovanni: «Ut filios Dei, qui
erant dispersi, congregaret in unum» (Gv 11,52). L’attività dell’Oratorio è così posta sotto il segno
del raduno escatologico dei figli di Dio che ha costituito il centro della missione del Figlio di Dio:
Le parole del santo Vangelo che ci fanno conoscere essere il divin Salvatore venuto dal cielo in terra per
radunare insieme tutti i figliuoli di Dio, dispersi nelle varie parti della terra, parmi che si possano letteralmente
applicare alla gioventù de’ nostri giorni.
La gioventù, «questa porzione la più dilicata e la più preziosa dell’umana Società», si trova
spesso a essere dispersa e sbandata per il disinteresse educativo dei genitori o per l’influenza di
cattivi compagni. La prima cosa da fare per provvedere all’educazione di questi giovani è proprio
«radunarli, loro poter parlare, moralizzarli». In queste parole dell’Introduzione al Piano di
Regolamento l’eco del sogno, maturata nella coscienza dell’educatore ormai adulto, è presente in
modo chiaro e riconoscibile. L’oratorio vi è presentato come una gioiosa “radunanza” dei giovani
intorno all’unica forza calamitante in grado di salvarli e di trasformarli, quella del Signore: «Sono
questi oratori certe radunanze in cui si trattiene la gioventù in piacevole ed onesta ricreazione, dopo
di aver assistito alle sacre funzioni di chiesa». Fin da bambino, infatti, don Bosco ha capito che
«questa fu la missione del figliuolo di Dio; questo può solamente fare la santa sua religione».
Il secondo elemento che diventerà un tratto identitario della spiritualità oratoriana è quello
che nel sogno si rivela attraverso l’immagine degli agnelli che corrono «per fare festa a quell’uomo
e a quella signora». La pedagogia della festa sarà una dimensione portante del sistema preventivo di
don Bosco, che vedrà nelle numerose ricorrenze religiose dell’anno l’occasione per offrire ai
ragazzi la possibilità di respirare a pieni polmoni la gioia della fede. Don Bosco saprà coinvolgere
entusiasticamente la comunità giovanile dell’oratorio nella preparazione di eventi, rappresentazioni
teatrali, ricevimenti che permettono di fornire uno svago rispetto alla fatica del dovere quotidiano,
di valorizzare i talenti dei ragazzi per la musica, la recitazione, la ginnastica, di orientare la loro
fantasia in direzione di una creatività positiva. Se si tiene conto che l’educazione proposta negli
ambienti religiosi dell’Ottocento aveva solitamente un tenore piuttosto austero, che sembrava
presentare come ideale pedagogico da raggiungere quello di una devota compostezza, le sane
baraonde festive dell’oratorio si stagliano come espressione di un umanesimo aperto a cogliere le
esigenze psicologiche del ragazzo e capace di assecondare il suo protagonismo. L’allegria festosa
che segue alla metamorfosi degli animali del sogno è dunque ciò cui deve mirare la pedagogia
salesiana.
3.2. La chiamata all’impossibile
Mentre per i ragazzi il sogno finisce con la festa, per Giovanni termina con lo sgomento e
addirittura con il pianto. Si tratta di un esito che non può che stupire. Si è soliti pensare, infatti, con
qualche semplificazione, che le visite di Dio siano portatrici esclusivamente di gioia e di
consolazione. È paradossale dunque che per un apostolo della gioia, per colui che da seminarista
fonderà la “società dell’allegria” e che da prete insegnerà ai suoi ragazzi che la santità consiste nello
“stare molto allegri”, la scena vocazionale termini con il pianto.
Ciò può certamente indicare che l’allegria di cui si parla non è puro svago e semplice
spensieratezza ma risonanza interiore alla bellezza della grazia. Come tale, essa potrà essere
raggiunta solo attraverso impegnative battaglie spirituali, di cui don Bosco dovrà in larga misura
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pagare il prezzo a beneficio dei suoi ragazzi. Egli rivivrà così su di sé quello scambio di ruoli che
affonda le sue radici nel mistero pasquale di Gesù e che si prolunga nella condizione degli apostoli:
«noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo, noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati»
(1Cor 4,10), ma proprio così «collaboratori della vostra gioia» (2Cor 1,24).
Il turbamento con cui il sogno si chiude, tuttavia, richiama soprattutto la vertigine che i
grandi personaggi biblici provano di fronte alla vocazione divina che si manifesta nella loro vita,
orientandola in una direzione del tutto imprevedibile e sconcertante. Il Vangelo di Luca afferma che
perfino Maria Santissima, alle parole dell’angelo, provò un senso di profondo turbamento interiore
(«a queste parole ella fu molto turbata» Lc 1,29). Isaia si era sentito perduto di fronte alla
manifestazione della santità di Dio nel tempio (Is 6), Amos aveva paragonato al ruggito di un leone
(Am 3,8) la forza della Parola divina da cui era stato afferrato, mentre Paolo sperimenterà sulla via
di Damasco il capovolgimento esistenziale che deriva dall’incontro con il Risorto. Pur
testimoniando il fascino di un incontro con Dio che seduce per sempre, nel momento della chiamata
gli uomini biblici sembrano più esitare impauriti di fronte a qualcosa che li eccede, che lanciarsi a
capofitto nell’avventura della missione.
Il turbamento che Giovanni sperimenta nel sogno sembra un’esperienza analoga. Esso nasce
dal carattere paradossale della missione che gli viene assegnata e che egli non esita a definire
“impossibile” («Chi siete voi che mi comandate cosa impossibile?»). L’aggettivo potrebbe sembrare
“esagerato”, come a volte sono le reazioni dei bambini, soprattutto quando esprimono un senso
d’inadeguatezza di fronte a un compito impegnativo. Ma questo elemento di psicologia infantile
non sembra sufficiente a illuminare il contenuto del dialogo onirico e la profondità dell’esperienza
spirituale che esso comunica. Tanto più che Giovanni ha una vera stoffa da leader e un’ottima
memoria, che gli consentiranno nei mesi successivi al sogno di iniziare subito a fare un po’ di
oratorio, intrattenendo i suoi amici con giochi da saltimbanco e ripetendo loro per filo e per segno la
predica del parroco. Per questo nelle parole con cui dichiara schiettamente di essere «incapace di
parlare di religione» ai suoi compagni, sarà bene sentir risuonare l’eco lontana dell’obiezione di
Geremia alla vocazione divina: «non so parlare, perché sono giovane» (Ger 1,6).
Non è sul piano delle attitudini naturali che si gioca qui la richiesta dell’impossibile, bensì
sul piano di ciò che può rientrare nell’orizzonte del reale, di ciò che ci si può attendere in base alla
propria immagine del mondo, di ciò che rientra nel limite dell’esperienza. Oltre questa frontiera, si
apre appunto la regione dell’impossibile, che è però, biblicamente, lo spazio dell’agire di Dio.
“Impossibile” è per Abramo avere un figlio da una donna sterile e anziana come Sara; “impossibile”
è per la Vergine concepire e dare al mondo il Figlio di Dio fatto uomo; “impossibile” pare ai
discepoli la salvezza, se è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco
entrare nel regno dei cieli. Eppure Abramo si sente rispondere: «C’è forse qualcosa di impossibile
per il Signore?» (Gen 18,14); l’angelo dice a Maria che «nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,37); e
Gesù risponde agli discepoli increduli che «ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio»
(Lc 18,27).
Il luogo supremo in cui si pone la questione teologica dell’impossibile è, però, il momento
decisivo della storia della salvezza, ossia il dramma pasquale, in cui la frontiera dell’impossibile da
superare è lo stesso abisso tenebroso del male e della morte. È in questo spazio generato dalla
risurrezione che l’impossibile diventa effettiva realtà, è in esso che l’uomo venerando del sogno,
splendente di luce pasquale, chiede a Giovanni di rendere possibile l’impossibile. E lo fa con una
formula sorprendente: «Perché tali cose ti sembrano impossibili devi renderle possibili
coll’ubbidienza». Sembrano le parole con cui i genitori esortano i bambini, quando sono riluttanti, a
fare qualcosa di cui non si sentono capaci o che non hanno voglia di fare. «Obbedisci e vedrai che ci
riesci» dicono allora mamma o papà: la psicologia del mondo infantile è perfettamente rispettata.
Ma sono anche, e assai più, le parole con cui il Figlio rivela il segreto dell’impossibile, un segreto
che è tutto nascosto nella sua obbedienza. L’uomo venerando che comanda una cosa impossibile, sa
attraverso la sua umana esperienza che l’impossibilità è il luogo in cui il Padre opera con il suo
Spirito, a condizione che gli si apra la porta con la propria obbedienza.
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1.9 Page 9

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Giovanni ovviamente rimane turbato e sbalordito, ma è l’atteggiamento che l’uomo
sperimenta di fronte all’impossibile pasquale, di fronte cioè al miracolo dei miracoli, di cui ogni
altro evento salvifico è segno. Non deve dunque stupire che nel sogno la dialettica del possibile-
impossibile s’intrecci con l’altra dialettica, quella della chiarezza e della oscurità. Essa caratterizza
anzitutto la stessa immagine del Signore, la cui faccia è talmente luminosa che Giovanni non riesce
a guardarla. Su quel volto splende, infatti, una luce divina che paradossalmente produce oscurità. Vi
sono poi le parole dell’uomo e della donna che, mentre spiegano in modo limpido ciò che Giovanni
deve fare, lo lasciano però confuso e spaventato. Vi è infine un’illustrazione simbolica, attraverso la
metamorfosi degli animali, che però conduce a un’incomprensione ancora maggiore. Giovanni non
può che chiedere ulteriori chiarimenti: «pregai quello a voler parlare in modo da capire, perciocché
io non sapeva quale cosa si volesse significare», ma la risposta che ottiene dalla donna di maestoso
aspetto rinvia in avanti il momento della comprensione: «A suo tempo tutto comprenderai».
Ciò significa certamente che solo attraverso l’esecuzione di ciò che del sogno è già
afferrabile, ossia attraverso l’obbedienza possibile, si dischiuderà in modo più ampio lo spazio per
chiarirne il messaggio. Esso non consiste, infatti, semplicemente in un’idea da spiegare, ma in una
parola performativa, una locuzione efficace, che proprio realizzando la propria potenza operativa
manifesta il suo senso più profondo.
3.3. Il mistero del Nome
Giunti a questo punto della riflessione, siamo in grado di interpretare meglio un altro
elemento importante dell’esperienza onirica. Si tratta del fatto che al centro della duplice tensione
tra possibile e impossibile e tra conosciuto e sconosciuto, e anche, materialmente, al centro della
narrazione del sogno, vi sia il tema del Nome misterioso dell’uomo venerando. Il fitto dialogo della
sezione III è, infatti, intessuto di domande che ribattono lo stesso tema: «Chi siete voi che mi
comandate cosa impossibile?»; «Chi siete voi che parlate in questo modo?», e infine: «Mia madre
mi dice di non associarmi con quelli che non conosco, senza suo permesso; perciò ditemi il vostro
nome». L’uomo venerando dice a Giovanni di chiedere il Nome a sua madre, ma in realtà
quest’ultima non glielo dirà. Esso resta fino alla fine avvolto nel mistero.
Abbiamo già accennato, nella parte dedicata a ricostruire lo sfondo biblico del sogno, che il
tema del Nome è strettamente correlato all’episodio della vocazione di Mosè al roveto ardente
(Es 3). Questa pagina costituisce uno dei testi centrali della rivelazione veterotestamentaria e pone
le basi di tutto il pensiero religioso di Israele. André LaCoque ha proposto di definirla “rivelazione
delle rivelazioni”, perché costituisce il principio di unità della struttura narrativa e prescrittiva che
qualifica la narrazione dell’Esodo, cellula-madre dell’intera Scrittura.3 È importante notare come il
testo biblico articoli in stretta unità la condizione di schiavitù del popolo in Egitto, la vocazione di
Mosè e la rivelazione teofanica. La rivelazione del Nome di Dio a Mosè non avviene come la
trasmissione di un’informazione da conoscere o di un dato da acquisire, ma come la manifestazione
di una presenza personale, che intende suscitare una relazione stabile e generare un processo di
liberazione. In questo senso la rivelazione del Nome divino è orientata in direzione dell’alleanza e
della missione. «Il Nome è insieme teofanico e performativo, poiché quelli che lo ricevono non
sono semplicemente introdotti nel segreto divino, ma sono i destinatari di un atto di salvezza».4
Il Nome, infatti, a differenza del concetto, non designa meramente un’essenza da pensare,
ma un’alterità cui riferirsi, una presenza da invocare, un soggetto che si propone come vero
interlocutore dell’esistenza. Pur implicando l’annuncio di un’incomparabile ricchezza ontologica,
quella stessa dell’Essere che non può mai essere adeguatamente definito, il fatto che Dio si riveli
come un “Io” indica che solo attraverso la relazione personale con Lui sarà possibile accedere alla
3 A. LACOCQUE, La révélation des révélations: Exode 3,14, in P. RICOEUR - A. LACOCQUE, Penser la Bible, Seuil,
Paris 1998, 305.
4 A. BERTULETTI, Dio, il mistero dell’unico, Queriniana, Brescia 2014, 354.
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sua identità, al Mistero dell’Essere che Egli è. La rivelazione del Nome personale è dunque un atto
di parola che interpella il destinatario, chiedendogli di situarsi nei confronti del parlante. Solo così,
infatti, è possibile coglierne il senso. Tale rivelazione, inoltre, si pone esplicitamente come
fondamento per la missione liberatrice che Mosè deve realizzare: «Io-sono mi ha mandato a voi»
(Es 3,14). Presentandosi come un Dio personale, e non un Dio legato a un territorio, e come il Dio
della promessa, e non puramente come il signore dell’immutabile ripetizione, Jahwè potrà sostenere
il cammino del popolo, il suo viaggio verso la libertà. Egli ha dunque un Nome che si fa conoscere
in quanto suscita alleanza e muove la storia.
«Ditemi il vostro nome»: questa domanda di Giovanni non può ricevere risposta
semplicemente attraverso una formula, un nome inteso come etichetta esteriore della persona. Per
conoscere il Nome di Colui che parla nel sogno non basta ricevere un’informazione, ma è
necessario prendere posizione di fronte al suo atto di parola. È necessario cioè entrare in quel
rapporto di intimità e di consegna, che i Vangeli descrivono come un “rimanere” presso di Lui. Per
questo quando i primi discepoli interrogano Gesù sulla sua identità – «Maestro, dove abiti?» o alla
lettera «dove rimani?» – egli risponde «Venite e vedrete» (Gv 1,38s.). Solo “rimanendo” con lui,
abitando nel suo mistero, entrando nella sua relazione con il Padre, si può conoscere realmente Chi
egli sia.
Il fatto che il personaggio del sogno non risponda a Giovanni con un appellativo, come noi
faremmo presentando ciò che c’è scritto sulla nostra carta di identità, indica che il suo Nome non
può essere conosciuto come una pura designazione esterna, ma mostra la sua verità solo quando
sigilla un’esperienza di alleanza e di missione. Giovanni dunque conoscerà quel Nome proprio
attraversando la dialettica del possibile e dell’impossibile, della chiarezza e dell’oscurità; lo
conoscerà realizzando la missione oratoriana che gli è stata affidata. Lo conoscerà, dunque,
portandoLo dentro di sé, grazie a una vicenda vissuta come storia abitata da Lui. Un giorno
Cagliero testimonierà di don Bosco che il suo modo di amare era «tenerissimo, grande, forte, ma
tutto spirituale, puro, veramente casto», tanto che «dava un’idea perfetta dell’amore che il Salvatore
portava ai fanciulli» (Cagliero 1146r). Questo indica che il Nome dell’uomo venerando, il cui volto
era tanto luminoso da accecare la vista del sognatore, è realmente entrato come un sigillo nella vita
di don Bosco. Egli ne ha avuta la experientia cordis attraverso il cammino della fede e della
sequela. È questa l’unica forma in cui la domanda del sogno poteva trovare risposta.
3.4. La mediazione materna
Nell’incertezza circa Colui che lo invia, l’unico punto fermo cui Giovanni può appigliarsi
nel sogno è il rimando a una madre, anzi a due: quella dell’uomo venerando e la propria. Le risposte
alle sue domande, infatti, suonano così: «Io sono il figlio di colei che tua madre ti ammaestrò di
salutar tre volte al giorno» e poi «il mio nome dimandalo a Mia Madre».
Che lo spazio del chiarimento possibile sia mariano e materno è indubbiamente un elemento
su cui merita riflettere. Maria è il luogo in cui l’umanità realizza la più alta corrispondenza alla luce
che viene da Dio e lo spazio creaturale in cui Dio ha consegnato al mondo la sua Parola fatta carne.
È altresì indicativo che al risveglio dal sogno, colei che ne intuisce al meglio il senso e la portata sia
la mamma di Giovanni, Margherita. Su livelli diversi, ma secondo una reale analogia, la Madre del
Signore e la madre di Giovanni rappresentano il volto femminile della Chiesa, che si mostra capace
di intuizione spirituale e costituisce il grembo in cui le grandi missioni vengono gestate e partorite.
Non c’è dunque da stupirsi che le due madri siano accostate tra loro e proprio nel punto in
cui si tratta di andare al fondo della questione che il sogno presenta, ossia la conoscenza di Colui
che affida a Giovanni la missione di una vita. Come già per il cortile vicino a casa, così anche per la
madre, nell’intuizione onirica gli spazi dell’esperienza più familiare e quotidiana si dischiudono e
mostrano nelle loro pieghe un’insondabile profondità. I gesti comuni della preghiera, il saluto
angelico che era usuale tre volte al giorno in ogni famiglia, improvvisamente appaiono per ciò che
sono: dialogo con il Mistero. Giovanni scopre così che alla scuola di sua madre ha già instaurato un
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2 Pages 11-20

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2.1 Page 11

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legame con la Donna maestosa, che può spiegargli tutto. Vi è già dunque una sorta di canale
femminile che consente di superare l’apparente distanza che c’è tra «un povero ed ignorante
fanciullo» e l’uomo «nobilmente vestito». Tale mediazione femminile, mariana e materna,
accompagnerà Giovanni per tutta la vita e farà maturare in lui una particolare disposizione a
venerare la Vergine con il titolo di Aiuto dei cristiani, divenendone l’apostolo per i suoi ragazzi e
per la Chiesa intera.
Il primo aiuto che la Madonna gli offre è quello di cui un bambino ha naturalmente bisogno:
quello di una maestra. Ciò che essa devi insegnargli è una disciplina che rende veramente sapienti,
senza cui «ogni sapienza diviene stoltezza». Si tratta della disciplina della fede, che consiste nel
dare credito a Dio e nell’obbedire anche di fronte all’impossibile e all’oscuro. Maria la trasmette
come l’espressione più alta della libertà e come la sorgente più ricca della fecondità spirituale e
educativa. Portare in sé l’impossibile di Dio e camminare nell’oscurità della fede è, infatti, l’arte in
cui la Vergine eccelle al di sopra di ogni creatura.
Essa ne ha fatto un arduo tirocinio nella sua peregrinatio fidei, segnata non di rado dal buio
e dall’incomprensione. Basti pensare all’episodio del ritrovamento di Gesù dodicenne nel Tempio
(Lc 2,41-50). Alla domanda della madre: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io,
angosciati, ti cercavamo», Gesù risponde in modo sorprendente: «Perché mi cercavate? Non
sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». E l’evangelista annota: «Ma essi non
compresero ciò che aveva detto loro». Meno ancora probabilmente Maria capì quando la sua
maternità, annunciata solennemente dall’alto, le fu per così dire espropriata perché divenisse
comune eredità della comunità dei discepoli: «Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli,
egli è per me fratello, sorella e madre» (Mt 12,50). Ai piedi della croce poi, quando si fece buio su
tutta la terra, l’Eccomi pronunciato nel momento della chiamata prese i contorni della rinuncia
estrema, la separazione dal Figlio al cui posto doveva ricevere dei figli peccatori per i quali lasciarsi
trapassare il cuore dalla spada.
Quando dunque la donna maestosa del sogno inizia a svolgere il suo compito di maestra e,
ponendo una mano sul capo di Giovanni, gli dice «A suo tempo tutto comprenderai», essa trae
queste parole dalle viscere spirituali della fede che ai piedi della croce l’ha resa madre di ogni
discepolo. Sotto la sua disciplina Giovanni dovrà restare per tutta la vita: da giovane, da
seminarista, da sacerdote. In modo particolare dovrà rimanervi quando la sua missione prenderà
contorni che al momento del sogno non poteva immaginare; quando, cioè, egli dovrà divenire nel
cuore della Chiesa fondatore di famiglie religiose destinate alla gioventù di ogni continente. Allora
Giovanni, divenuto ormai don Bosco, capirà anche il senso più profondo del gesto con cui l’uomo
venerando gli ha dato sua madre come “maestra”.
Quando un giovane entra in una famiglia religiosa, trova ad accoglierlo un maestro di
noviziato, cui viene affidato perché lo introduca nello spirito dell’Ordine e lo aiuti ad assimilarlo.
Quando si tratta di un Fondatore, che deve ricevere dallo Spirito Santo la luce originaria del
carisma, il Signore dispone che sia la sua stessa madre, Vergine della Pentecoste e modello
immacolato della Chiesa, a fargli da Maestra. Lei sola, la “piena di grazia”, comprende infatti dal
di dentro tutti i carismi, come una persona che conosca tutte le lingue e le parli come fossero la
propria.
In effetti la donna del sogno sa indicargli in modo preciso e appropriato le ricchezze del
carisma oratoriano. Essa non aggiunge nulla alle parole del Figlio, ma le illustra con la scena degli
animali selvaggi divenuti agnelli mansueti e con l’indicazione delle qualità che Giovanni dovrà
maturare per svolgere la sua missione: «umile, forte, robusto». In questi tre aggettivi, che designano
il vigore dello spirito (l’umiltà), del carattere (la forza) e del corpo (la robustezza), c’è una grande
concretezza. Sono i consigli che darebbe a un giovane novizio chi ha una lunga esperienza di
oratorio e sa ciò che richiede il “campo” in cui si deve “lavorare”. La tradizione spirituale salesiana
ha custodito con cura le parole di questo sogno che si riferiscono a Maria. Le Costituzioni salesiane
vi alludono in modo evidente quando affermano: «La Vergine Maria ha indicato a Don Bosco il suo
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2.2 Page 12

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campo di azione tra i giovani»,5 o ricordano che «guidato da Maria che gli fu Maestra, don Bosco
visse nell’incontro con i giovani del primo oratorio un’esperienza spirituale ed educativa che
chiamò Sistema Preventivo».6
Don Bosco riconobbe a Maria un ruolo determinante nel suo sistema educativo, vedendo
nella sua maternità l’ispirazione più alta di ciò che significa “prevenire”. Il fatto che Maria sia
intervenuta fin dal primo momento della sua vocazione carismatica, che essa abbia avuto un ruolo
così centrale in questo sogno, farà per sempre comprendere a don Bosco che essa appartiene alle
radici del carisma e che ove non le sia riconosciuto questo ruolo ispiratore, il carisma non è inteso
nella sua genuinità. Data per Maestra a Giovanni in questo sogno, essa dovrà esserlo anche per tutti
coloro che ne condividono la vocazione e la missione. Come i successori di don Bosco non si sono
mai stancati di affermare, la «vocazione salesiana è inspiegabile, tanto nella sua nascita come nel
suo sviluppo e sempre, senza il concorso materno e ininterrotto di Maria».7
3.5. La forza della mansuetudine
«Non colle percosse ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi
amici»: queste parole sono senza dubbio l’espressione più nota del sogno dei nove anni, quella che
in qualche modo ne sintetizza il messaggio e ne trasmette l’ispirazione. Sono anche le prime parole
che l’uomo venerando dice a Giovanni, interrompendo il suo sforzo violento di mettere fine al
disordine e alle bestemmie dei suoi compagni. Non si tratta solo di una formula che trasmette una
sentenza sapienziale sempre valida, ma di un’espressione che precisa le modalità esecutive di un
ordine («mi ordinò di pormi alla testa di que’ fanciulli aggiungendo queste parole») con cui, come
si è detto, viene riorientato il movimento intenzionale della coscienza del sognatore. La foga delle
percosse deve divenire lo slancio della carità, l’energia scomposta di un intervento repressivo deve
lasciar spazio alla mansuetudine.
Il termine “mansuetudine” viene ad avere qui un peso rilevante, che colpisce ancora di più
se si pensa che l’aggettivo corrispondente sarà usato alla fine del sogno per descrivere gli agnelli
che fan festa intorno al Signore e a Maria. L’accostamento suggerisce un’osservazione che non pare
priva di pertinenza: perché possano divenire “mansueti” agnelli coloro che erano animali feroci,
bisogna che divenga mansueto anzitutto il loro educatore. Entrambi, seppur a partire da punti
diversi, devono compiere una metamorfosi per entrare nell’orbita cristologica della mitezza e della
carità. Per un gruppo di ragazzi scalmanati e rissosi è facile capire che cosa esiga questo
cambiamento. Per un educatore forse è meno evidente. Egli, infatti, si pone già sul versante del
bene, dei valori positivi, dell’ordine e della disciplina: quale cambiamento gli può essere chiesto?
Si pone qui un tema che nella vita di don Bosco avrà uno sviluppo decisivo, anzitutto sul
piano dello stile dell’azione e, in certa misura, anche su quello di una riflessione teorica. Si tratta
dell’orientamento che conduce don Bosco a escludere categoricamente un sistema educativo basato
sulla repressione e sui castighi, per scegliere con convinzione un metodo che è tutto basato sulla
carità e che don Bosco chiamerà “sistema preventivo”. Di là delle diverse implicanze pedagogiche
che derivano da questa scelta, per le quali rimandiamo alla ricca bibliografia specifica, interessa qui
evidenziare la dimensione teologico-spirituale che è sottesa a questo indirizzo, di cui le parole del
sogno costituiscono in qualche modo l’intuizione e l’innesco.
Ponendosi dalla parte del bene e della “legge”, l’educatore può essere tentato di impostare la
sua azione con i ragazzi secondo una logica che mira a far regnare l’ordine e la disciplina
essenzialmente attraverso regole e norme. Eppure anche la legge porta dentro di sé un’ambiguità
che la rende insufficiente a guidare la libertà, non solo per i limiti che ogni regola umana porta
dentro di sé, ma per un limite che ultimamente è di ordine teologale. Tutta la riflessione paolina è
5 Cost art. 8.
6 Cost art. 20.
7 E. VIGANÒ, Maria rinnova la Famiglia Salesiana di don Bosco, ACG 289 (1978) 1-35, 28.
12

2.3 Page 13

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una grande meditazione su questo tema, poiché Paolo aveva percepito nella sua esperienza
personale che la legge non gli aveva impedito di essere «un bestemmiatore, un persecutore e un
violento» (1Tim 1,13). La stessa Legge data da Dio, insegna la Scrittura, non basta a salvare
l’uomo, se non vi è un altro Principio personale che la integri e la interiorizzi nel cuore dell’uomo.
Paul Beauchamp riassume felicemente questa dinamica quando afferma: «La Legge è preceduta da
un Sei amato e seguita da un Amerai. Sei amato: fondazione della legge, e Amerai: il suo
superamento».8 Senza questa fondazione e questo superamento, la legge porta in sé i segni di una
violenza che rivela la sua insufficienza a generare quel bene che essa, pure, ingiunge di compiere.
Per tornare alla scena del sogno, i pugni e le percosse che Giovanni dà in nome di un sacrosanto
comandamento di Dio, che proibisce la bestemmia, rivelano l’insufficienza e l’ambiguità di ogni
slancio moralizzatore che non sia interiormente riformato dall’alto.
Occorre dunque anche per Giovanni, e per coloro che apprenderanno da lui la spiritualità
preventiva, la conversione a una logica educativa inedita, che va oltre il regime della legge. Tale
logica è resa possibile solo dallo Spirito del Risorto, effuso nei nostri cuori. Solo lo Spirito, infatti,
consente di passare da una giustizia formale ed esteriore (sia essa quella classica della “disciplina” e
della “buona condotta” o quella moderna delle “procedure” e degli “obiettivi raggiunti”) a una vera
santità interiore, che compie il bene perché ne è interiormente attratta e guadagnata. Don Bosco
mostrerà di avere questa consapevolezza quando nel suo scritto sul Sistema preventivo dichiarerà
francamente che esso è tutto basato sulle parole di san Paolo: «Charitas benigna est, patiens est;
omnia suffert, omnia sperat, omnia sustinet».
Naturalmente “guadagnare” i giovani in questo modo è un compito assai esigente. Implica di
non cedere alla freddezza di un’educazione fondata solo sulle regole, né al buonismo di una
proposta che rinuncia a denunciare la “bruttezza del peccato” e a presentare la “preziosità della
virtù”. Conquistare al bene mostrando semplicemente la forza della verità e dell’amore, testimoniata
attraverso la dedizione “fino all’ultimo respiro”, è la figura di un metodo educativo che è al
contempo una vera e propria spiritualità.
Non c’è da stupirsi che Giovanni nel sogno faccia resistenza a entrare in questo movimento
e chieda di comprendere bene chi è Colui che lo imprime. Quando però avrà capito, facendo
diventare quel messaggio dapprima un’istituzione oratoriana e poi anche una famiglia religiosa,
penserà che raccontare il sogno in cui ha appreso quella lezione sarà il modo più bello per
condividere con i suoi figli il significato più autentico della sua esperienza. È Dio che ha guidato
ogni cosa, è Lui stesso che ha impresso il movimento iniziale di quello che sarebbe divenuto il
carisma salesiano.
8 P. BEAUCHAMP, La legge di Dio, Piemme, Casale Monferrato 2000, 116.
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2.4 Page 14

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SOMMARIO DEL VOLUME SUI SOGNI DI DON BOSCO
1. Il sogno oltre l’inconscio. Quell’inquieta certezza che vien dal sonno (L. DE PAULA)
2. I sogni nella storia di Giuseppe (Gn 37; 40-41) (M. PRIOTTO)
3. Sogno e segno. Il rapporto fra sogno e testo nella Scrittura a partire da Gdc 7,9-15 (M. PAVAN)
4. La speciale dignità e missione conferita da Dio a Giuseppe di Nazaret nella narrativa dei sogni di
Mt 1-2 (M. ROSSETTI)
5. Il sogno come elemento letterario e spazio teologico nei Padri della Chiesa (C. BESSO)
6. Lo stato degli studi sui “sogni” di don Bosco e prospettive di ricerca (A. GIRAUDO)
7. Echi di un mondo. Note sul contesto storico-spirituale riflessione nei sogni di don Bosco (E. BOLIS)
8. L’immaginario dei sogni di don Bosco. Ipotesi per una poetica onirica (M. BERGAMASCHI)
9. Il sogno dei nove anni. Questioni ermeneutiche e lettura teologica (A. BOZZOLO)
10. Una casa, una chiesa, un persogolato di rose. Le cinque visite come rivelazione della forma
comunitaria del carisma salesiano (S. MAZZER)
11. Il sacramento della confessione nei sogni di don Bosco (R. CARELLI)
12. «Io ti darò la Maestra». La presenza di Maria nei sogni di don Bosco (L. POCHER)
13. La morte e l’aldilà nei sogni di don Bosco. Tra spiritualità e pedagogia (M. WIRTH)
14. Le citazioni bibliche nel sogno dei “dieci diamanti” (F. MOSETTO)
15. L’uso educativo dei sogni da parte di don Bosco: contesti, processi, intenzioni (M. VOJTÁŠ)
16. Recezione e trasmissione dei sogni di don Bosco da parte di don Giulio Barberis: due episodi
singolari (M. FISSORE)
17. I sogni di don Bosco nel contesto della oralità negro-africana (F. GATTERRE)
18. La forza ispiratrice dei sogni missionari di don Bosco. Riflessioni ed esperienze di un salesiano in
Cina (M. FERRERO)
19. Iconografia dei sogni di don Bosco (N. MAFFIOLI)
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