Lectio Biblica 2011-2012, Il vanto del pastore


febbraio 2012

IL VANTO DEL PASTORE


  1. INVOCAZIONE DELLO SPIRITO


Vieni, santo Spirito, manda dal cielo un raggio della tua luce.

Vieni, padre dei poveri, vieni, tu che dai i carismi, vieni, luce dei cuori.

Consolatore perfetto, dolce ospite dell’anima, dolce brezza che ristora.

Nella fatica sei pace, nella calura sollievo, nel pianto conforto.

Luce infinitamente beata, riempi l’intimo dei cuori di coloro che a te si affidano.

Senza la tua energia, nulla sarebbe nell’uomo, nulla di innocente.

Lava ciò che è sordido, irriga ciò che è arido, sana ciò che sanguina.

Piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, drizza ciò che è sviato.

Dona ai tuoi fedeli, che pongono in te la fiducia, i tuoi sette santi doni.

Ricompensa la virtù, dona una morte di salvezza, dona eterna gioia.

Stefano Langton +1228


  1. PAROLA


2^ Corinzi 12,1‑10


Se bisogna vantarsi – ma non conviene – verrò tuttavia alle visioni e alle rivelazioni del Signore. So che un uomo, in Cristo, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo. E so che quest’uomo – se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare. Di lui io mi vanterò! Di me stesso invece non mi vanterò, fuorché delle mie debolezze. Certo, se volessi vantarmi, non sarei insensato: direi solo la verità. Ma evito di farlo, perché nessuno mi giudichi più di quello che vede o sente da me e per la straordinaria grandezza delle rivelazioni. Per questo, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.


  1. LETTURA


Per comprendere la forza di questo brano, occorre ricordare che l'errore fondamentale dei corinzi, radice e spiegazione di altre deviazioni, consisteva nel rifiuto della croce: siete "nemici della croce di Cristo" (cfr. Fil 3,18). La loro era una fede tutta centrata nel Signore risorto e glorioso. Dei due aspetti del mistero di Cristo, si privilegiava la risurrezione, sottacendo la passione. La realtà della croce era diventata quasi insignificante, "vanificata", svuotata di efficacia (1Cor 1,17) e l'importanza della risurrezione era stata enfatizzata. In altre parole, vi dominava una cristologia della gloria. Ne derivava una ecclesiologia della gloria. Pensavano cioè che i cristiani, uniti al Cristo risorto mediante i sacramenti del Battesimo e dell'Eucaristia, sono già ora totalmente invasi dalla sua gloria, già fin d'ora, in modo perfetto, abitatori del suo mondo divino e già pienamente trasformati, illuminati, inattaccabili da dubbi, incertezze, angosce e debolezze: ormai liberati dai limiti e dalle contraddizioni della storia, sono già degli arrivati, in pieno e pacifico possesso del Regno ultimo e definitivo. Segno inconfondibile di questa divinizzazione o "situazione di gloria" sarebbero i doni dello Spirito, soprattutto le manifestazioni carismatiche più straordinarie. Ne derivava un cristianesimo entusiasta, trionfalistico e carismatico. La Chiesa di Corinto viveva in un clima di orgoglio spirituale, di esaltazione frenetica, di sicurezza euforica. Di qui il sospetto gettato addosso a Paolo: come può essere apostolo un uomo così dimesso che non brilla, certo, per doni straordinari? E Paolo prende posizione a favore di una "cristologia della croce"; da questa deriva una "ecclesiologia della croce", ma anche una "missionologia della croce".


vv. 1-5 Se bisogna vantarsi - ma non conviene - verrò tuttavia alle visioni e alle rivelazioni del Signore. So che un uomo, in Cristo, quattordici anni fa - se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio - fu rapito fino al terzo cielo. E so che quest’uomo - se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio - fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare. Di lui io mi vanterò! Di me stesso invece non mi vanterò, fuorché delle mie debolezze. Per difendersi dalle calunnie dei suoi avversari, verso la fine del capitolo 11° (22‑33), l'apostolo, parlando da folle (11,23), aveva elencato le sue sofferenze per il Vangelo. Ora prosegue dicendo che se volesse gloriarsi (cosa sconveniente) avrebbe più di un motivo per farlo. E a questo punto, per inciso, ricorda alcune sue esperienze spirituali straordinarie (visioni e rivelazioni), ma lo fa con molta ripugnanza, con estremo imbarazzo. Egli però ha deciso di parlarne, per affermare la sua non inferiorità, anzi la sua superiorità, rispetto a quei super-apostoli, i quali si gonfiavano di orgoglio nel raccontare soprattutto esperienze di questo genere. Ma qual è la natura di questi fenomeni straordinari? Fu un rapimento: quando sulla via di Damasco ha incontrato il Signore, fu gettato a terra; qui invece fu rapito al terzo cielo (secondo la cosmologia celeste di allora che conosceva una stratificazione di tre cieli), nella parte più alta del cielo, dove è situato il paradiso. Va notato il modo con cui Paolo ne parla: tutta la descrizione si caratterizza per l'uso sorprendente della terza persona: Paolo qui si sdoppia: conosco un uomo... L'artificio letterario vuole sottolineare la quasi estraneità di Paolo a questo fatto straordinario: a lui sembra non interessi molto il Paolo rapito al terzo cielo; gli interessa di più il Paolo che cammina debole e vulnerabile sulla terra per annunciare il Vangelo. Vero motivo di vanto per l’apostolo è la sua situazione di debolezza, di povertà, di fragilità, di limite. Paolo avverte tutto questo come un'umiliazione permanente: però, di questa debolezza si vanta, perché proprio in questa situazione di fragilità può manifestarsi pienamente la potenza del Cristo risorto.


v. 7 Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un messo di satana incaricato di schiaffeggiarmi... Più volte Paolo parla delle sue debolezze, tribolazioni, non‑idoneità; più volte si presenta come uomo debole e vulnerabile (cfr. 1Cor 4,9s.; 2Cor 4,7‑15; 6,4s; 11,22s.; At 20,23). Qui aggiunge un particolare nuovo: Dio gli ha messo una spina (o pungiglione) nella carne. Nel testo greco c'è skólops: spina o anche palo per il supplizio della crocifissione. Nella Bibbia (traduzione dei LXX) troviamo questo vocabolo quattro volte (Nm 33,55; Ez 28,24; Sir 43,19; Os 2,8) per indicare una sofferenza insopportabile, un ostacolo che sbarra il cammino, una difficoltà insuperabile, una grandissima sofferenza. Significativo questa allusione al palo della croce conficcato nella carne dell'apostolo! Quel che conta notare è che Paolo, in un primo tempo, riteneva che questa spina - o croce - fosse un ostacolo al ministero apostolico. Per questo, per tre volte (come Gesù nel Getzemani) aveva pregato il Signore perché lo liberasse. Ma il Signore (come per Gesù, così per il suo apostolo) non era intervenuto in modo magico a tirarlo fuori da quella situazione, ma gli aveva dato la forza di restare dentro, la forza di rimanere fedele nella prova. Anzi, gli aveva fatto capire che anche questa situazione rientrava in un suo preciso progetto e ciò che Paolo giudicava un ostacolo, in realtà era la situazione migliore perché l'apostolato riuscisse. E’ il Signore a rivelargli la legge fondamentale dell'apostolo: la mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza (12,9). E' quello che già altrove, in questa lettera, aveva intuito: portiamo questo tesoro in vasi fragili, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio (4,7).


v. 9-10 Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze... mi compiaccio delle mie infermità... perché dimori in me la potenza di Cristo. Vanto e debolezza sembrano termini antitetici; ci si vanta della forza e non della debolezza! Ma Paolo dice mi vanterò: accetto serenamente la mia situazione di limite, anzi pongo la mia fiducia nella situazione di debolezza: questa che prima era motivo di scoraggiamento ora diventa motivo di vanto perché abiti... la potenza...: il termine greco qui usato è episkenóo (piantare la tenda), verbo tecnico per indicare l'incarnazione del Figlio di Dio (basti pensare al prologo di Gv 1,14); e il sostantivo dynamis poi indica, spesso, la forza della risurrezione (cfr. Fil 3,10).


(breve pausa di silenzio per rileggere personalmente il testo)


  1. COSTITUZIONI


Art. 71 “Invece di fare le opere di penitenza” ci insegna Don Bosco “fate quelle dell’obbedienza”. A volte l’obbedienza contrasta con la nostra inclinazione all’indipendenza e all’egoismo o può esigere difficili prove d’amore. E’ il momento di guardare a Cristo obbediente fino alla morte: “Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà”. Il mistero della sua morte e risurrezione c’insegna come sia fecondo per noi obbedire: il grano che muore nell’oscurità della terra porta molto frutto.


L’articolo allude, con tutta evidenza, alle situazioni nelle quali obbedire mette a dura prova il salesiano. Ma non va dimenticato che, per noi, la fondamentale obbedienza è la realizzazione della missione. Infatti l’articolo 64 ricorda: “Con la professione di obbedienza offriamo a Dio la nostra volontà e riviviamo nella Chiesa e nella Congregazione l’obbedienza di Cristo compiendo la missione che ci è affidata. Obbedienza e missione sono intimamente congiunte. Questo può costare non solo nelle circostanze straordinarie, ma nell’esercizio quotidiano del nostro sì a Dio e ai giovani, implicando la rinuncia a noi stessi. L’obbedienza significa, allora, nulla serbare per sé. Il 31 dicembre 1859 Don Bosco an­nunciò, come di consueto, la strenna, ossia un motto programmatico per il nuovo anno. «Miei cari figlioli, voi sapete quanto io vi ami nel Signore e come io mi sia tutto consacrato a farvi quel bene maggiore che potrò. Quel poco di scienza, quel poco di esperienza che ho acqui­stato, quanto sono e quanto posseggo, preghie­re, fatiche, sanità, la mia vita stessa, tutto desi­dero impiegare a vostro servizio. In qualunque giorno e per qualunque cosa fate pure capitale su di me, ma specialmente nelle cose dell'ani­ma. Per parte mia, per strenna vi do tutto me stesso; sarà cosa meschina, ma quando vi do tutto, vuol dire che nulla riserbo per me». (MB VI, 362). Ed è questa la croce quotidiana di cui possiamo vantarci. L’articolo18 infatti ricorda che (il salesiano) “si dà alla missione con operosità instancabile (…) non cerca penitenze straordinarie, ma accetta le esigenze quotidiane e le rinunce della vita apostolica; è pronto a sopportare il caldo e il freddo, la sete e la fame, le fatiche e il disprezzo, ogni volta che si tratti della gloria di Dio e della salvezza delle anime”.


Ma è vero che il vanto della croce può far emergere la nostra debolezza ed allora siamo tentati dallo scoraggiamento; siamo più inclini ad obbedire alla logica umana dell’efficienza ad ogni costo più che a quella evangelica, sia sul piano spirituale che su quello apostolico: realizzazione di sé, affermazione delle proprie capacità, riconoscimenti, prestigio, successo... E’ un pericolo sempre presente. Ma chi crede di portare nella propria carne la croce del Signore, sa anche di portare in sé la potenza della risurrezione. Per cui (il salesiano) non si lascia scoraggiare dalle difficoltà (…) “Nulla ti turbi”, diceva Don Bosco (art. 17). E’ commovente la testimonianza di don Cerruti sull’ultimo periodo di vita di Don Bosco: «Quando e il mal di capo e il petto affranto e gli occhi semispenti non gli permettevano più affatto di occuparsi, era do­loroso e confortante spettacolo vederlo passare le lunghe ore seduto nel suo povero sofà, in luogo talvolta semioscuro..., pure sempre tranquillo e sorridente, con la sua corona in mano, le labbra che articolavano giaculatorie e le mani che si alzavano di tratto in tratto a manifestare nel loro muto linguaggio quella unione e intera conformità alla volontà di Dio, che per troppa stanchezza non poteva più esternare con parole» (MB XVIII). Nell’estrema debolezza fisica d’un organismo stremato dalla fatica apostolica troviamo un Don Bosco sereno, consapevole che la missione non era conclusa ma proseguiva nella tappa di maggior efficacia, la piena adesione alla pasqua del Signore.


  1. SPUNTI PER LA MEDITAZIONE


  • Ho consapevolezza delle mie debolezze: fisiche, morali, spirituali? Per quanto posso, vi reagisco con la cura di me stesso e l’impegno ascetico? O ne faccio un alibi per sottrarmi alla generosità richiesta dalla missione?

  • Vivo nella fede i limiti personali e comunitari offrendo a Dio, per la salvezza dei giovani, le sofferenze che possono procurare?

  • Valorizzo le fatiche e gli inconvenienti del quotidiano impegno missionario come momenti penitenziali per liberare il cuore dall’egoismo ed aprirlo ad una più grande carità?


(pausa di prolungato silenzio per la meditazione personale)


  1. CONDIVISIONE FRATERNA


  1. PREGHIERA


O Dio nostro Padre,

manda a noi il Tuo Spirito

perché possiamo sempre credere, con fede viva,

che la nostra obbedienza è partecipazione

alla morte e risurrezione del Tuo Figlio.

Fa’ che nei momenti della debolezza

sappiamo alzare lo sguardo

al Cristo inchiodato sulla Croce per nostro amore

per continuare a credere, amare e servire

Per Cristo nostro Signore.

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