08 Aprile - Il cuore della paternita salesiana


08 Aprile - Il cuore della paternita salesiana

Aldo Giraudo – Esercizi spirituali sui luoghi di don Bosco (1999)



10 - Il cuore della paternità salesiana





La paternità di Don Bosco, nell’immaginario salesiano e nelle formule ricorrenti (dai documenti ufficiali ai testi degli inni tradizionali e recenti), si è andata caricando di significati e di valenze in cui si mescolano alle espressioni originarie del santo, il ricordo emotivamente intenso dei testimoni, le amplificazioni celebrative, gli slanci lirici della predicazione e una serie di luoghi comuni.

1 1. Un’affettività avvolgente

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Mi limito a svolgere alcune considerazioni su un aspetto particolare, quello del nesso tra spiritualità e paternità (o quell’insieme di atteggiamenti che noi siamo soliti chiamare “paternità”).

Prendo lo spunto da due testi.

Il primo è costituito da una suggestiva testimonianza di Don Albera, efficacissima per descrivere l’impatto emotivo e la potenza affettiva della “paternità” di Don Bosco, ma anche utile per coglierne un possibile fraintendimento. Scriveva il secondo successore di Don Bosco in una circolare dell’ottobre 1920 sull’amore di predilezione per i giovani:

«Bisogna, o carissimi, che noi amiamo i giovani che la Provvidenza affida alle nostre cure, come li sapeva amare D. Bosco. Non vi dico che la cosa sia facile, ma è qui che sta tutto il segreto della vitalità espansiva della nostra Congregazione.

Bisogna dire però che D. Bosco ci prediligeva in un modo unico, tutto suo: se ne provava il fascino irresistibile, ma la lingua non trova vocaboli per farlo capire a chi non l’ha provato sopra di sé, e neppure la più fervida fantasia sa rappresentarlo con immagini atte a darne una giusta idea.

Ancor adesso mi sembra di provare tutta la soavità di questa sua predilezione verso di me giovinetto: mi sentivo come fatto prigioniero da una potenza affettiva che mi alimentava i pensieri, le parole e le azioni ... Sentivo d’essere amato in un modo non mai provato prima, che non aveva nulla da fare neppur con l’amore vivissimo che mi portavano i miei indimenticabili genitori.

L’amore di D. Bosco per noi era qualcosa di singolarmente superiore a qualunque altro affetto: ci avvolgeva tutti e interamente quasi in un’atmosfera di contentezza e di felicità, da cui erano bandite pene, tristezze, malinconie: ci penetrava corpo e anima in modo tale, che noi non si pensava più né all’uno né all’altra: si era sicuri che ci pensava il buon Padre, e questo pensiero ci rendeva perfettamente felici.

Oh! era l’amore suo che attirava, conquistava e trasformava i nostri cuori! Quanto è detto a questo proposito nella sua biografia, è ben poca cosa a paragone della realtà. Tutto in lui aveva per noi una potente attrazione: il suo sguardo penetrante e talora più efficace d’una predica; il semplice muover del capo; il sorriso che gli fioriva perenne sulle labbra, sempre nuovo e variatissimo, e pur sempre calmo; la flessione della bocca ... Tutte queste cose operavano sui nostri cuori giovanili a mo’ di una calamita a cui non era possibile sottrarsi; anche se l’avessimo potuto, non l’avremmo fatto per tutto l’oro del mondo, tanto si era felici di questo suo singolarissimo ascendente sopra di noi, che in lui era la cosa più naturale, senza studio né sforzo alcuno.

E non poteva essere altrimenti, perché da ogni sua parola ed atto emanava la santità dell’unione con Dio, che è carità perfetta. Egli ci attirava a sé per la pienezza dell’amore soprannaturale che gli divampava in cuore, e colle sue fiamme assorbiva, unificandole, le piccole scintille dello stesso amore suscitate dalla mano di Dio nei nostri cuori. Eravamo suoi, perché in ciascuno di noi era la certezza esser egli veramente l’uomo di Dio, homo Dei, nel senso più espressivo e comprensivo della parola”.1



Come vedete, in queste espressioni si ritrovano rappresentati i tratti principali della paternità di Don Bosco, ma anche alcune accentuazioni idealizzanti e didascaliche dovute all’impasto di emozionanti memorie personali, di sforzo per delineare le caratteristiche del modello pastorale-educativo salesiano e di preoccupazioni dettate dal delicato momento storico in cui Don Albera rivolgeva ai confratelli le sue esortazioni all’amorevolezza educativa.



Il secondo testo è del padre francescano Girolamo Moretti (1879-1963), fondatore in Italia della grafologia come scienza sussidiaria alla psicologia. In un libro sui Santi dalla loro scrittura2, egli descrive la struttura psicologica di Don Bosco a partire dall’analisi della sua calligrafia. L’esito della perizia presenta molti aspetti che ci sono noti. Ma lo psicologo rivela anche alcune tendenze profonde, dal punto di vista dell’intelligenza e del sentimento. Nonostante le riserve sulla scientificità e l’attendibilità di questo strumento di analisi, credo utile riprendere alcuni stralci della relazione di Moretti come spunto di riflessione.

Innanzitutto vengono delineati i caratteri fondamentali della sua intelligenza: «quantitativamente sopra la media; qualitativamente produttrice e non riproduttrice, atta per scrutare le anime e abile nel piegarle essendo munita di circospezione nel trattarle, di affettività, di altruismo, di noncuranza delle proprie esigenze dell’“io”, di arte (credo significhi “abilità diplomatica”), di generosità per cui il soggetto è disposto a mettere da parte l’attaccamento al proprio modo di vedere». Di conseguenza, continua il padre Moretti, Don Bosco appare «alieno da ogni ipercritica e da ogni sofisticheria», e aggiunge che egli «ha la spinta alla organizzazione in un vasto raggio di attività ..., ma che procede senza sforzo in modo dimesso”; che “per ottenere lo scopo prefisso, tende ad utilizzare tutto», e che «la sua attività non perde mai di vista lo scopo da raggiungere».

Poi l’autore prova a definirne il carattere che, a suo parere, «deve essere ascritto principalmente ai temperamenti di cessione, ma nello stesso tempo ha qualità che rientrano nei temperamenti di attesa e, per qualche particolarità, anche di resistenza e di assalto. È un carattere che lascia correre, per poi cogliere meglio il frutto della sua apparente noncuranza. Sa farsi amico l’avversario allo scopo di conquiderlo quando se ne presenta l’occasione propizia. Ha l’arte di raccogliere tutto, buono e cattivo, con l’idea di utilizzare l’uno e l’altro. Tiene dentro di sé lo scopo che si prefigge guidato dalla intuizione psicologica», per cui «gli animi più ostili si danno a lui, lusingandosi di non essere disturbati nelle cose cui sono attaccati. Quando questi sono conquisi dal suo modo di fare che nasconde lo scopo prefisso da raggiungere, allora egli si dà alla conclusione pratica di indurli ai propri sentimenti»3.

Da queste premesse, il grafologo trae alcune conclusioni che ci sgomentano:

«Ora tutto questo complesso, che impronta la sua condotta, è certamente fondato sulla scaltrezza che può sfociare nel bene, ma che può sfociare anche in un gran male a seconda della moralità di cui il soggetto è informato. E non è cosa facile che egli sia morale, poiché per questo ha bisogno di sottoporsi a parecchie rinunce alle quali si ribellano le sue tendenze innate. Deve rinunziare del tutto alla voglia di vedersi segnare a dito come uomo di azione, desiderio in lui piuttosto prepotente; deve sopportare con pazienza gli avversari e vincere perciò la tendenza all’impazienza che lo porta ad imbastire una riscossa atta a confondere gli avversari, per la quale è adattissimo. ...

Insomma il carattere del soggetto tende ad essere dominato da una insincerità così bene architettata da rovinare un’intera generazione ed essere così uno di quegli individui che sarebbe meglio non avessero mai aperto gli occhi alla luce.

Si deve aggiungere che il soggetto ha molta facilità all’intenerimento sessuale, una spinta all’affettività di languore, per cui, col complesso delle qualità descritte, metterebbe in azione ogni sforzo per colpire la vulnerabilità delle anime e piegarle ai suoi intendimenti morbosi»4.



Qui ci troviamo in un’agiografia capovolta: siamo messi di fronte a quella che potrebbe essere stata la vita istintiva di Don Bosco, la sua naturalità latente, connotata da ombre tanto cupe e inquietanti che ci viene spontanea la domanda: la vittoria su una tale natura, quanto gli deve essere costata? Quanta lotta interiore avrà comportato il superamento di sé, quanto distacco, quanta sofferenza? Quanto deve essere stato esigente, nella pratica interiore ed esterna, l’itinerario spirituale che stiamo cercando di intuire e documentare? Ma nello stesso tempo ci è possibile intuire l’efficacia e la potenza della grazia di Dio per la trasfigurazione di una base naturale tanto ambigua: sembra quasi che il Signore abbia bisogno di umanità passionali e tremende per operare i suoi prodigi di grazia.

2 2. Scendere in profondità

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Penso che proprio da qui si debba partire per comprendere in profondità la genesi di una paternità che non va ascritta primariamente all’ordine dei doni naturali, come troppo spesso si è fatto e si continua a fare. La nostra umanità reale, con le sue ombre e le sue luci, è desiderata da Dio perché proprio attraverso di essa egli può agire e operare nella storia della salvezza. A lui dobbiamo offrirla in olocausto, in sacrificio totale, perché egli la possa purificare, rettificare e armonizzare ai fini della sua santa volontà.

Le categorie nelle quali generalmente si esprime la paternità del nostro santo e l’amorevolezza salesiana sono: spirito di famiglia, vicinanza educativa, cura affettuosa, accoglienza tenera, punto di riferimento affidabile, stimolo dolce ed energico insieme, esemplarità umana e spirituale... Don Bosco stesso nei suoi racconti e nei suoi scritti pedagogici favorisce questa accentuazione che, non dobbiamo nascondercelo, risente in parte del clima culturale romantico.

Ci accorgiamo che c’è comunque qualcosa di sostanziale che sfugge, quel qualcosa che potrebbe rivelarsi per noi la chiave interpretativa del “segreto” di Don Bosco e insieme la porta per farci accedere alla stessa dimensione spirituale nel nostro oggi storico.

In questi ultimi trent’anni c’è stato un grande lavoro di ricerca e di riflessione attorno alla figura di Don Bosco. Si è provato a ripercorrere il suo itinerario formativo, a ricostruirne i quadri ambientali e mentali; si è curata l’edizione critica di alcuni dei suoi scritti più significativi; si sono tentate nuove sintesi biografiche, pedagogiche e spirituali... Sono emersi alcuni parametri interpretativi dalla convergenza dei quali è possibile cogliere un dato di fondo: tutta la costruzione e l’articolazione della vita e delle realizzazioni del nostro santo poggia su un duplice fondamento.

Il primo pilastro è costituito dalla forte e continua coscienza di essere chiamato da Dio per una specifica missione di salvezza e di rigenerazione cristiana dei giovani e dei ceti popolari e in questa missione sentirsi da Lui guidato, assistito e sorretto. Don Bosco agisce nella certezza di vivere immerso in una “storia sacra” di cui si sente parte viva, in un mondo di eventi umani nel quale Dio continua ad operare con la sua provvidenza e con la sua grazia salvatrice. Da questa angolatura vengono affrontati tutti i problemi quotidiani, con fiducia, tenacia, chiarezza di intenti e insieme creatività, duttilità, disponibilità al rischio e alla temerità.

In secondo luogo Don Bosco rivela un senso vivissimo della propria identità pastorale: un’identità ben definita, dai tratti robusti ed esigenti, battagliera e fervente (“zelante” e “infuocata”), protesa missionariamente a raggiungere tutti. Lo abbiamo colto nella presentazione del modello formativo del Cafasso, che proponeva e incarnava un tipo di pastore perfino eccessivo nel suo darsi senza misura, costruito sul ceppo della vivace tradizione postridentina, informato sull’esempio luminoso di grandi pastori del passato, ma anche stimolato quotidianamente dalla testimonianza di viventi testimoni operanti nella diocesi di Torino, rinomati per il loro zelo, per la solida pietà e per l’operosità instancabile.

Questi due fondamenti, che contrastano visibilmente con la attuale crisi di identità del prete, con il modello funzionale e progettuale della pastorale e con il diffuso laicismo che tutti ci pervade e sfuma nell’indeterminato e nel relativo di un pensiero debole e di una religiosità tanto più sterile quanto più è gratificante, reggevano una spiritualità esigentissima e un’attività pastorale instancabile. In tale coscienza apostolica si recuperava tutta la tradizione ascetica cattolica e la si orientava in prospettiva operativa con una potenza del tutto adattata alle sfide del momento e del trapasso socio-culturale in cui Don Bosco si trovò a vivere.

Il forte radicamento in Dio, la decisa rottura con ogni compromesso mondano nell’itinerario interiore e il modello sacerdotale integrale vanno da noi penetrati, recuperati e reinterpretati. Qui non si tratta di nostalgia delle forme espressive di un passato che non ritorna, ma di andare al cuore di un’identità e di una coscienza pastorale, antica quanto il cristianesimo, attraverso un cammino interiore e mentale di conversione alla totalità, alla disponibilità senza condizioni. In questo esigente crogiolo spirituale il dato umano viene purificato e quasi trasfigurato.

3 3. Quale carità pastorale?

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Il giovane sacerdote don Giovanni Bosco, negli ardori dei suoi primi anni poteva sembrare un esaltato e forse anche un po’ irresponsabile. La marchesa Barolo ne era preoccupata, come scrive in una lettera al teologo Borel del 18 maggio 1846:

«Quando l’Ospedaletto è venuto a crescere il numero di questi stabilimenti ... Lei scelse l’ottimo D. Bosco e me lo presentò. Piacque anche a me dal primo momento e gli trovai quell’aria di raccoglimento e di semplicità propria delle anime sante. ... Poche settimane dopo che fu stabilito con Lei, M.R.do Sig. Teologo, tanto la Superiora del Rifugio come io, abbiamo veduto che la sua salute non gli permetteva nessuna fatica. Si ricorderà quante volte le ho raccomandato di averne riguardo e lasciarlo riposare ecc. ecc. Non mi dava retta; diceva che i preti dovevano lavorare ecc.

La salute di D. Bosco peggiorò sino alla mia partenza per Roma; intanto egli lavorava, era ammalato, sputava sangue. Fu allora che ricevei una lettera di Lei, Sig. Teologo, dove mi diceva che D. Bosco non era più nel caso di coprire l’impiego confidatogli. Subito risposi che io era pronta a continuare a D. Bosco il suo stipendio, con patto che non facesse più nulla, e son pronta a tenere la mia parola. Ella, Sig. Teologo, crede che non è far nulla confessare, esortare centinaja di ragazzi; io credo che nuoce a D. Bosco, e credo necessario che si allontani abbastanza da Torino per non essere nel caso di stancare così i suoi polmoni. Perché quando stava a Gassino, questi ragazzi andavano a confessarsi da lui ed egli li riconduceva a Torino. ...

Come credo in coscienza che il petto di D. Bosco ha bisogno d’un riposo assoluto, non gli continuerò il piccolo stipendio che egli vuol ben gradire da me, fuorché a condizione che si allontani abbastanza da Torino, per non essere nell’occasione di nuocere gravemente alla sua salute, la quale mi preme tanto più quanto più lo stimo».5

La marchesa aveva ragione. Dopo qualche settimana la salute di Don Bosco crollerà pericolosamente: «Fui preso da sfinimento, portato a letto - ricorda nelle Memorie dell’Oratorio -. La malattia si manifestò con una bronchite, cui si aggiunse tosse e infiammazione violenta. In otto giorni fui giudicato all’estremo della vita. Aveva ricevuto il SS. Viatico, l’Olio santo. Mi sembrava che in quel momento fossi preparato a morire; mi rincresceva di abbandonare i miei giovinetti, ma era contento che terminava i miei giorni dopo aver dato una forma stabile all’Oratorio ... Era un Sabato a sera e si credeva quella notte essere l’ultima di mia vita; così dicevano i medici, che vennero a consulto; così ne era io persuaso, scorgendomi privo di forze con perdite continue di sangue».6 Saranno le preghiere e le offerte generose dei suoi giovani a ottenere la guarigione.

A noi qui interessa far notare che il rischio mortale in cui si è venuto a trovare Don Bosco non è accidentale. In quei due anni di attività pastorale multiforme egli si era logorato in un’attività senza soste: «I molti impegni che io aveva nelle carceri, nell’Opera Cottolengo, nel Rifugio, nell’Oratorio e nelle scuole facevano sì, che dovessi occuparmi di notte per compilare i libretti che mi erano assolutamente necessari. Per la qual cosa la mia sanità, già per se stessa assai cagionevole, deteriorò al punto che i medici mi consigliarono di desistere da ogni occupazione».7

Il movente di questo lavoro era, come abbiamo visto, di natura ben diversa da quello che in genere determina il moderno affaccendarsi ansioso di molti pastori e salesiani: la “carità pastorale”, questo amore totalizzante e ardente per Dio che trabocca in amore per il prossimo e spinge il pastore a dimenticare se stesso protendendosi generosamente nella battaglia per la diffusione del Regno e per la salvezza dei fratelli redenti dal sangue di Cristo.

Negli esercizi spirituali predicati dal suo maestro, Don Bosco aveva meditato sulla conformazione al Cristo apostolo del Padre e si era sentito invitare a non lavorare «solo materialmente o per fini umani e terreni», ma per la gloria di Dio e la salute delle anime.

«Mettete il lavoro di un sacerdote in confronto con quello d’un altro lavorante, apparentemente non vi sarà grande differenza; ma se noi ... avviciniamo raffrontandoli questi due personaggi, noi vi vedremo una distanza massima: uno lavora per la terra, l’altro per il cielo; uno per gli uomini, l’altro per Dio; uno per radunar un po’ di fango, l’altro per far gente pel Paradiso; uno pel secolo presente, l’altro pel futuro; uno per necessità, l’altro per amore; uno per grazia, l’altro per castigo; uno insomma lavora da angelo, da serafino, l’altro da uomo, da servo, e quasi da schiavo. Quale diversità fra essi due! e tutto questo da che cosa proviene? dalla diversità, dalla rettitudine del fine; sicché l’ecclesiastico che non voglia essere confuso col rimanente degli uomini nell’esercizio del proprio ministero tenga gli occhi ben fissi a quello scopo che Iddio gli ha prefisso, e procuri di stamparsi bene in cuore il grande esempio che dà a tutti noi il Divin Maestro. Io non cerco la mia gloria ... sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato (Gv 8,50 e 6,38). Questa rettitudine e purità d’intenzione fu sempre il distintivo degli uomini apostolici. Tutti hanno sempre sprezzato le follie del mondo ed hanno costantemente mostrato che in tutti i loro fatti non avevano altra mira che d’impedire il peccato, salvare le anime, dilatare il regno di Dio, procurarne l’onore e la gloria ... Quand’anche fossimo i sacerdoti più laboriosi del mondo, e restassimo persino vittima delle nostre fatiche, se al nostro lavoro manca questa condizione, Iddio lo calcola per un bel niente».8

Questa prospettiva è presente come elemento dinamico essenziale della mentalità, della spiritualità e delle motivazioni che animano tutta l’incredibile attività di Don Bosco. Essa va tenuta presente sempre, soprattutto quando si considera la sua potentissima amorevolezza, l’affetto sentito, dimostrato e percepito in quella forma di paternità sua inconfondibile. Proprio qui, infatti, si può annidare o il massimo pericolo o la più potente oblatività.

4 4. Un “paternità” da reinterpretare

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Don Albera sapeva molto bene su quale delicato terreno si addentrava con il richiamo alla coinvolgente esperienza emotiva e affettiva di lui ragazzo riproposta ai Salesiani. Così si preoccupò di concludere la sua testimonianza con espressioni inequivocabili:

«Da questa singolare attrazione scaturiva l’opera conquistatrice dei nostri cuori. L’attrattiva si può esercitare talvolta con semplici qualità naturali di mente e di cuore, di tratto e di portamento, le quali rendono simpatico chi le possiede; ma una simile attrattiva dopo un po’ di tempo si affievolisce fino a scomparire affatto, se pure non lascia il posto a inesplicabili avversioni e contrasti.

Non così ci attraeva Don Bosco: in lui i molteplici doni naturali erano resi soprannaturali dalla santità della sua vita, e in questa santità era tutto il segreto di quella sua attrazione che conquistava per sempre e trasformava i cuori. Egli perciò appena si era cattivati i nostri cuori, li plasmava come voleva col suo sistema (proprio interamente suo nel modo di praticarlo), che volle chiamare preventivo in opposizione al repressivo. Però questo sistema - com’egli stesso dichiarava negli ultimi anni di sua vita mortale - non era altro che la carità, cioè l’amor di Dio che si dilata ad abbracciare tutte le umane creature, specie le più giovani ed inesperte, per infondere in esse il santo timor di Dio».9

Già Don Michele Rua aveva più volte portato l’attenzione su questo nucleo spirituale, che traduce efficacemente la paternità di Dio proprio perché libera l’amorevolezza salesiana da ogni possibile fraintendimento trasferendola sul piano della pura oblatività e della morte a se stessi. In una lettera sullo Spirito di Don Bosco del 14 giugno 1905, scrisse: «Quanti conobbero D. Bosco ... avranno senza dubbio dovuto convincersi che egli non viveva che per Dio, che in ogni tempo, in ogni luogo, in ogni benché minima azione era guidato dallo spirito del Signore. Per noi suoi figliuoli pare quasi impossibile rappresentarci D. Bosco se non col volto acceso di santo zelo e colle labbra aperte in atto di ripetere il suo motto prediletto: da mihi animas, caetera tolle ... intento unicamente a procurare la gloria di Dio ed a guidare un gran numero di anime al cielo. ... Sembra che egli con quella fisionomia bonaria e sempre raggiante di carità e dolcezza ci risponda colle parole di S. Paolo: nos autem sensum Christi habemus, quasi volesse dirci che mai non pensò né operò secondo i dettami del mondo, e sempre e dovunque si sforzò di riprodurre in se stesso il divin modello, Gesù Cristo, e così gli venne fatto di compiere la sua missione».10

Si tratta dunque di carità, un amore esigentissimo che genera una capacità affettiva purificata e liberata da ogni captatività e si esprime in un insieme di virtù e di atteggiamenti umani di forte impatto. Quanti vengono a contatto con una tale personalità spirituale e ne sperimentano le cure e le attenzioni, vengono trasferiti in un’atmosfera superiore, si sentono spiazzati nelle loro usuali attese affettive, accolti e amati in modo nuovo e proiettati, nella libertà dello spirito, verso orizzonti vasti, entusiasmanti. È una vera generazione o rigenerazione educativa e spirituale.

Si tratta insomma di un modo peculiare di vivere la castità evangelica.



La nostalgia del padre, che caratterizza la nostra epoca, genera il desiderio di braccia accoglienti e forti, di un modello parentale rassicurante e stimolante. A questo ci invitano i nostri stessi giovani e i tanti amici che vengono a cercarci nei momenti più delicati della loro vita. Hanno fame di attenzione, di caldo affetto, di benevolenza e cercano di instaurare legami amorevoli e gratificanti. La carità ci impone di non tirarci indietro, ma nella coscienza delle sottostanti ambiguità psicologico-spirituali e preoccupandoci di curare in noi quell’atteggiamento interiore che abbiamo contemplato in Don Bosco.

Anche noi ci sentiamo attratti dalla reviviscenza di un sogno-nostalgia che percorre i secoli e si esprime in meditazioni ascetiche, letterarie e pittoriche toccanti e universali sull’abbraccio paterno - come testimonia ad esempio Henri Nowen, il tormentato maestro di spiritualità tanto letto in questi ultimi tempi, folgorato dal quadro di Rembrandt.11

Il volto sorridente di Don Bosco e le suggestive narrazioni e mitizzazioni salesiane di ieri e di oggi ci affascinano potentemente. Sulla scia dell’itinerario spirituale del nostro santo questa paternità ci appare alla luce di una “qualità” ulteriore che sgorga soltanto dal dono sacrificale di sé, da un esigente cammino di purificazione delle intenzioni e del dato temperamentale, nella conformazione al Cristo svuotato e obbediente, ardente, misericordioso apostolo del Padre. Solo secondariamente o conseguentemente si traduce in un metodo, in un linguaggio, in gesti, ambienti e modalità amorevoli e paterne. Dunque il nostro approccio abituale all’amorevolezza educativa e alla paternità spirituale va tenuto sotto vigilanza.

Da questo punto di vista, ad esempio, mi pare che vada riconsiderata attentamente l’antica esigente tradizione formativa applicata dal primo maestro dei novizi scelto da Don Bosco stesso, poi direttore spirituale generale, don Giulio Barberis; una tradizione che ha plasmato le generazioni salesiane dei primi decenni e ha portato al vertice della mistica apostolica personaggi un tempo mal presentati e oggi quasi dimenticati come Luigi Variara, Augusto Czartoryski, Andrea Beltrami e tanti altri.









1 Lettere circolari di D. Paolo Albera ai Salesiani, SEI, Torino 1922, pp. 340-342: lettera del 18 ottobre 1920.

2 G. Moretti, I santi dallo loro scrittura. Esami grafologici. Edizioni Paoline, Alba 1975.

3 Ivi, pp. 300-301.

4Ivi, pp. 301-302.

5 Giulia Falletti di Barolo al teologo Giovanni Borel, in Archivio Salesiano Centrale (Roma), Fondo Don Bosco, microf. 541,B5-8.

6 G. Bosco, Memorie dell’Oratorio di san Francesco di Sales dal 1815 al 1855. Introduzione e note a cura di A. da Silva Ferreira, LAS, Roma 1992, 3,875-880; 3,899-901.

7Ivi, 3,836-840.

8G. Cafasso, Meditazioni per esercizi spirituali al clero, Tip. Fratelli Canonica, Torino 1892, pp. 237-238.

9 Lettere circolari di D. Paolo Albera, o.c., p. 342.

10 Lettere circolari di Don Michele Rua ai Salesiani, SAID, Torino 1910, p. 488.

11 H.J. Nouwen, L’abbraccio benedicente. Meditazione sul ritorno del figlio prodigo, Queriniana, Brescia 199810.

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