Educare come Don Bosco 2012-2103, Lectio divina

Profeti della fraternità

Invito a pregare la Parola



La fraternità vissuta in comunità è una forma alternativa di vita, è proposta contro-culturale, è quindi profezia. L’individualismo diffuso, l’esclusione sociale, l’omologazione culturale sono sfide a cui la comunità salesiana risponde, mostrando che è possibile vivere da fratelli, condividere la vita e comunicare in profondità… Vivere insieme in comunità è principalmente vocazione e non scelta o convenienza: siamo convocati da Dio. La fraternità richiede di scoprire la gratuità e la relazionalità. I giovani che si avvicinano alla vita consacrata sono affascinata dal modo di vivere la fraternità… Le diversità costituiscono una ricchezza da riconoscere e accogliere anche nelle comunità educative pastorali, in cui sono coinvolti a vivere e operare insieme diverse vocazioni.1


Affidandoci dei fratelli da amare, Dio ci chiama a vivere in comunità” (Const. 50): la vita comune è, dunque, “per noi salesiani una esigenza fondamentale e una via sicura per realizzare la nostra vocazione” (Const. 49). Con due proposte di lectio G. Zevini ci invita a fare preghiera della vita salesiana e così accoglierla con riconoscimento come dono di Dio e testimoniarla come “profezia in atto” (VC 85), poiché “tutta la fecondità della vita religiosa dipende dalla qualità della vita fraterna in commune”.2


L’analisi di due dei tre sommari relativi alla vita della comunità di Gerusalemme è, logicamente, il primo testo da pregare. Luca ha voluto affermare che nel sorgere del vivere insieme dei discepoli che, poco prima, avevano tradito il suo Signore si può ‘toccare’ la forza – lo Spirito – che ha fatto risorgere Gesù dai morti. Una vita fraterna, tessuta da attenzione ai bisogni altrui e distacco dai beni materiali, e la proba tangibili di una nuova vita e rende particolarmente efficace la proclamazione del Signore Risorto


Lo Spirito è all’origine della vita comune e della sua diversità. Paolo dovette spiegare ai suoi cristiani di Corinto che nella loro comunità unità di vita e molteplicità di doni provengono di una unica fonte, lo Spirito del Signore Gesù. L’abbondanza di carismi e ministeri servono all’unità di fede e di culto. Paolo dà delle norme per vivere in comune i doni dello Spirito, ma non si meraviglia delle difficoltà sorte proprio a causa di questi doni. Dover fare i conti con delle crisi nella comunità potrebbe aprirci gli occhi alla presenza dello Spirito in essa!




I. La vita comune della prima comunità cristiana

(Atti 2,42-44; 4,32-35)




Introduzione


L’atteggiamento di comunione e di condivisione nella fraternità, nell’attuale momento di riflessione ecclesiologica e di impegno pastorale che stiamo vivendo come Famiglia salesiana in preparazione al Bicentenario della nascita di don Bosco, e in particolare, noi salesiani al prossimo CG27, merita una particolare attenzione. Alla luce della Chiesa “mistero di comunione” e in rapporto agli avvenimenti ecclesiali che la caratterizzano con l’Anno della fede e il Sinodo dei Vescovi sulla “Nuova evangelizzazione”, il testo degli At 2,42-45; 4,32-35 appare in tutta la sua viva attualità. In realtà, non c’è comunità religiosa o gruppo ecclesiale che non sia interessato a meditare su questa testimonianza della Chiesa apostolica, che resta normativa per la vita della Chiesa di tutti i tempi.



Il testo biblico


42Erano perseveranti nell'insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. 43Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. 44Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; 45vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno…

32La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un'anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune. 33Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti godevano di grande favore. 34Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto 35e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno.




Lectio, commento esegetico-spirituale


Partiamo dal quadro di riferimento di At 2,42-45 per poi legarlo con At 4,32-35. Il testo biblico presenta un modello di comportamento per ogni comunità cristiana e di vita consacrata. E’ il primo dei numerosi sommari, dove Luca presenta un quadro, un poco idealizzato ma “normativo”, della esistenza ecclesiale. L’evangelista espone cioè una situazione dove sono presenti i punti validi e necessari per la costruzione e la vita spirituale di ogni comunità di fede, ossia lo statuto ontologico delle relazioni dei primi cristiani: “erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna, nello spezzare il pane e nelle preghiere” (v.42). Sono quattro, dunque, le perseveranze su cui ogni comunità religiosa deve necessariamente confrontarsi per rimanere fedele al vangelo e agli insegnamenti di Gesù.


1.Perseverare nell’insegnamento degli apostoli. Sappiamo che la didaké è qualche cosa di diverso del kérygma, dal primo annuncio: essa è un’opera di formazione, di approfondimento, di illustrazione della persona e della missione del Signore Gesù. I cristiani della Chiesa delle origini ascoltavano la predicazione e la parola degli apostoli e, quindi, erano introdotti alla conoscenza del vangelo per giungere da credenti maturi ad una vera esperienza del Signore. Una preoccupazione che spesso ha accompagnato la storia e la vita della Chiesa, e parimenti l’esistenza di varie comunità religiose, è stato la formazione e la conoscenza del mistero di Cristo, legato ad una vita di testimonianza e di fede nei confronti della Parola di Dio.


2.Perseverare nella comunione fraterna. La comunione fraterna (= koinonia) è la vera vita comunitaria intesa come solidarietà sul piano materiale, come unione dei cuori e come partecipazione ai beni spirituali comuni. Luca è molto attento alla fraternità in tutte le sue dimensioni, da quella economica, al distacco dai beni, al mettere in comune le risorse spirituali personali. Significava anche la costatazione che i beni venivano distribuiti “secondo il bisogno di ciascuno” (v.45), un programma costantemente presente e un cammino costruttivo su cui la Chiesa primitiva si è costantemente esercitata.


3.Perseverare nella frazione del pane. E’ il segno caratteristico delle riunioni cultuali dei primi cristiani, dove si rinnovavano i gesti di Gesù durante l’ultima cena. Ma indica pure i pasti di Gesù con i peccatori e poi quelli del Risorto con i discepoli. Siamo di fronte ad una chiara allusione all’Eucaristia. Questa era vissuta nelle case come luogo della vita cristiana, nella consapevolezza che la più povera Eucaristia, se celebrata con verità e ben preparata, era essenziale per la vita dei primi credenti. La vera comunione fraterna era celebrare bene l’Eucaristia, consapevoli di vivere attorno alla mensa del Signore la vita cristiana in pienezza.


4.Perseverare nelle preghiere. Il termine è usato al plurale perché le forme di preghiere erano diverse. Si pregava al tempio, durante i pasti o nel segreto delle proprie case. E qui, Luca aggiunge l’elemento della “perseveranza” (v. 42), perché è uno dei tratti tipici della preghiera, che va fatta “senza mai stancarsi” (1Ts 5,17). Per comprendere questo atteggiamento di rapporto con Dio bisogna inserirlo nell’insegnamento spirituale tradizionale della comunità primitiva che, in modi diversi, perseguiva tale ideale: pregava sempre, “in ogni occasione” (Ef 6,18), “in ogni luogo” e “alzando al cielo mani pure” (1Tm 2,8). Naturalmente la preghiera era legata alla carità tanto che Origene potrà dire: “Prega sempre colui che unisce la preghiera alle opere che deve fare, e le opere alla preghiera. Soltanto così possiamo considerare realizzabile il precetto di pregare incessantemente”.3 Si coglie in queste poche righe degli Atti degli Apostoli un clima di gioia, di freschezza delle origini, che guadagna il cuore di chi assiste a questa “ricostruzione” di un’umanità nuova. Clima che ha sempre incantato i cristiani di tutte le generazioni successive.


Ma il cuore del discorso del testo biblico è espresso nelle parole: “nessuno infatti tra loro era bisognoso” (v.34), perché la comunità “aveva un cuore solo e un'anima sola” (v.32), realtà che la tradizione biblica e la cultura profana avevano sempre sognato. Infatti, la comunità escatologica, quella degli ultimi tempi, sarà caratterizzata dal fatto che “non vi sarà alcun bisognoso in mezzo a voi” (Dt 15,4) e i greci sognavano di avere: “tutte le cose in comune”. Ogni comunità che vuol essere evangelica vive nel cuore il distacco dai beni materiali, premessa indispensabile per la concordia degli spiriti e raggiunge mete di vita spirituale. La comunità di Gerusalemme è la realizzazione di quella definitiva, quella perfetta. In quelle intermedie, le nostre, si realizza la previsione di Gesù: “i poveri li avrete sempre con voi” (Mc 14,7). Infine il testo aggiunge: “con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù”. E’ un inciso che non sembra omogeneo con il resto del contesto. Ma vari esegeti fanno opportunamente osservare che Luca vuole affermare che la forza della testimonianza alla risurrezione del Signore viene proprio dalla vita fraterna. Attenzione ai bisogni altrui e distacco dai beni materiali sono elementi-base per costruire una comunità fraterna, e nello stesso tempo, rendere particolarmente efficace la proclamazione della Parola nel Signore Risorto.



Meditatio, applicata alla vita salesiana


La vicenda della prima Pentecoste con l’esplosione dello Spirito e l’entusiasmo della prima conversione di massa, si concluse in modo inatteso: persone diverse cominciarono a vivere uno stile di vita fraterna. Viene lo Spirito e il sogno irrealizzabile della fraternità è reso possibile: sentirsi fratelli e vivere da fratelli. Di tutti i miracoli, prodigi e segni, questo è il più impressionante: persone che non si conoscono, s’intendono e parlano la stessa lingua della carità, mettendo in comune i loro beni. Qualcosa di grande ha avuto inizio nel mondo: l’amore per gli altri diventa più forte dell’amore verso se stessi. La fraternità, prodigio della Pentecoste, manifesta il vero volto della Chiesa e diventa il motore dell’espansione del vangelo: liberi e schiavi, ricchi e poveri, dotti e ignoranti, tutti riuniti intorno alla stessa mensa, conviviale ed eucaristica, per vivere la nuova realtà profetica dei figli di Dio, in Cristo, nella potenza dello Spirito.


Coltivare la fraternità è il primo e più sicuro apporto alla missione salesiana nella Chiesa, dato che il più sicuro frutto dello Spirito è la costruzione di una comunità fraterna. Un articolo delle primitive Costituzioni scritte da don Bosco recitava: “Tutti i congregati tengono vita comune stretti solamente dalla fraterna carità e dai voti semplici che li stringano a formare un cuore solo e un’anima sola per amare e servire Iddio”.4 Il modo di vivere delle comunità nate dagli apostoli è stato visto sempre come punto di riferimento degli Ordini e Istituti religiosi e di noi salesiani. Anche oggi questo alto ideale affascina, anche se non mancano gli scettici nei confronti della possibilità di vivere questa fraternità. Eppure la fraternità cristiana è il primo segno da porre per l’evangelizzazione del mondo e dei giovani. Non solo è segno di riconoscimento che siamo discepoli del Signore Gesù (Gv 13,35), ma è anche segno che il Signore Gesù è l’inviato del Padre (Gv 17,21), non uno dei profeti, ma il Profeta, il Figlio.


La comunità salesiana si fonda in Dio che ne è il modello: “Dio ci chiama a vivere in comunità, affidandoci dei fratelli da amare” (Cost 49c). La vita comune in fraternità, che nell’ottica salesiana ha come fine l’amore e il servizio di Dio, si realizza nella missione verso i bisognosi, specie i giovani poveri ed emarginati dalla società. Questa vita esige affetto fraterno, condivisione e unione spirituale come è detto nella nostra Regola di vita: “Ci riuniamo in comunità, nelle quali ci amiamo fino a condividere tutto in spirito di famiglia e costruiamo la comunione delle persone” (Cost. 49b). Avere un cuore solo vuol dire per noi salesiani avere una sola volontà e gli stessi obiettivi. Don Bosco a un chierico salesiano diceva: “Tu puoi e devi studiare il modo di infiammare di santo amor di Dio tutti i fratelli della nostra Società, e non arrestarti se non quando di tutti sarà fatto un cuor solo ed un’anima sola per amare e servire il Signore con tutte le nostre forze in tutto il corso della nostra vita. Certamente tu ne darai l’esempio verbo et opere».5


Quanto più l’individualismo avanza, tanto più la comunità nelle sue varie realizzazioni non può non presentarsi come fraternità. Fraternità da costruire con l’impegno personale e con l’annuncio gioioso del vangelo, fatto di testimonianza e di vita. L’unico modello ecclesiale che viene dal testo biblico è il modello della fraternità: modello non solamente teologico, ma modello comunitario da realizzare, come premessa di ogni altra realizzazione. Solo la bellezza di una comunità fraterna, ridarà spinta e incisività alla missione salesiana. E se questo è vero, quel modello non può essere accantonato come utopico o poetico o troppo vago, come a volte si sente dire. Sarebbe il trionfo di una ecclesiologia materialistica che, in nome del realismo, non riesce a vedere il mistero della fraternità, la grande novità cristiana nella nostra società.



Oratio, da personalizzare


Signore, il testo della Pentecoste ci ricorda anzitutto che solo lo Spirito Santo è il fondamento dell’unità e della concordia della comunità salesiana, è il criterio della comunione nella vita comunitaria e personale. Siamo consapevoli che egli prosegue l’opera di Gesù nella storia, ispirando l’ermeneutica esistenziale della vita cristiana: impegna la comunità ecclesiale, la vita religiosa, l’esistenza di ogni salesiano in un continuo compito di riforma. Questa consiste nella fedeltà creativa e responsabile allo Spirito di Cristo e di don Bosco che ci vivifica.


Solo così la comunità salesiana può divenire spazio di vita, quando lo Spirito arriva a liberare le energie di intelligenza, di carità, di libertà, di creatività di ciascuno e a scompaginarle nella comunità e nella vita insieme con gli altri. Allora la comunità salesiana manifesta la sua vocazione profetica: quella di essere segno di speranza, capace di aprire orizzonti di senso e di vivibilità ai giovani, di indicare vie di comunione fraterna e di comunicazione con le differenze culturali e religiose. La riscoperta della centralità della Parola di Dio e del volto dell’altro, soprattutto del povero, del diverso, del non credente, dell’appartenente a un’altra religione, ricordano ad ogni salesiano la sua vocazione all’ascolto del mondo e dei volti dei giovani, in cui lo Spirito Santo si personalizza ed è contemplabile nei frutti che produce, che sono i frutti della santità (Gal 5,22).




II. Vita comune e varietà dei doni dello Spirito

(1 Cor 12, 3-13)




Introduzione


Ci introducono nella lectio divina le parole di H. Urs Von Balthasar: “Il moto d’amore tra cielo e terra è guidato dallo Spirito Santo, ed egli dà, così, compimento al rapporto, annodato in Cristo, con la Sposa Sion-Maria-Ekklesia. Il cristiano vive nel centro di questo evento, che vuole farsi realtà anche in lui e per lui, attraverso la sua dedizione amorosa all’amore. La sua esistenza dev’essere sempre traduzione creativa, futuro di Dio perennemente nello Spirito Santo”.6 Ed inoltre le parole della nostra tradizione salesiana che definisce lo spirito salesiano “il nostro proprio stile di pensiero e di sentimento, di vita e di azione, nel mettere in opera la vocazione specifica e la missione che lo Spirito non cessa di darci. Oppure, più dettagliatamente, lo spirito salesiano è il complesso degli aspetti e dei valori del mondo umano e del mistero cristiano (Vangelo anzitutto, Chiesa, Regno di Dio…) ai quali i figli di Don Bosco, accogliendo l’ispirazione dello Spirito Santo e in forza della loro missione, sono particolarmente sensibili, tanto nell’atteggiamento interiore quanto nel comportamento esteriore” (ACGS n. 86).





Il testo biblico



3Fratelli, nessuno può dire: “Gesù è Signore!”, se non sotto l'azione dello Spirito Santo. 4Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; 5vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; 6vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. 7A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: 8a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; 9a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell'unico Spirito, il dono delle guarigioni; 10a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l'interpretazione delle lingue. 11Ma tutte queste cose le opera l'unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole. 12Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. 13Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito.



Lectio, commento esegetico-spirituale


L’esperienza della fraternità vissuta in comunità e quella dello Spirito sono una costante nel Nuovo Testamento, ma le forme di queste esperienze sono molteplici. Esse sono all’origine della Chiesa, e la Parola di Dio mostra chiaramente come la presenza dello Spirito Santo agisce nella vita della comunità religiosa e vi imprime una nota di unità e di missionarietà.


La lingua dello Spirito è la Parola di Dio che scende verso l’uomo e che porta la comunità di fede non a imporre il proprio linguaggio, ma a entrare nel linguaggio degli altri uomini, a “dire Dio” e ad annunciare il vangelo secondo le possibilità e le modalità di comprensione dell’altro. Questo significa che san Paolo nella sua missione ha visto nei destinatari dell’annuncio non un semplice recettore passivo, ma un soggetto teologico la cui cultura determina forme e modalità della missione stessa. Ovviamente, tutto ciò ha importanti ricadute a livello di vita comunitaria e di relazioni interpersonali: amare l’altro significa ascoltarlo, assumerlo nella sua diversità, nella sua alterità, entrare nella sua sensibilità per poter comunicare con lui non con violenza, cioè imponendoci a lui, ma nella carità e nella verità, cioè aprendoci positivamente alla sua differenza. Questa azione, per Paolo, è azione pneumatica, opera dello Spirito che scende dall’alto, viene da Dio. Di questo Spirito san Paolo dice che si oppone alla “carne” (cfr. Gal 5,16-17), cioè alla tendenza egoistica dell’uomo, alla chiusura in sé, al rifiuto dell’incontro e della comunione con l’altro.


Le prime comunità cristiane, infatti, sperimentarono con gioia e vivacità la presenza dello Spirito e riconobbero la varietà e la ricchezza delle sue manifestazioni e dei suoi doni. Ma si accorsero anche che le manifestazioni dello Spirito non sono esenti da ambiguità. Così la certezza della presenza dello Spirito nella comunità non chiude il discorso all’interno della comunità, ma ne apre uno nuovo ed importante, quello degli strumenti necessari per garantire ai vari doni presenti nella comunità la fedeltà alla tradizione e la capacità di edificazione comune.


Questa è stata l’esperienza della comunità di Corinto. La comunità era ricca di carismi e ministeri, ma anche di tensioni e contrasti. Intervenendo, Paolo afferma, anzitutto, che la varietà dei doni viene dallo Spirito, che è ricco e non può manifestarsi in un modo solo. L’uniformità non è mai segno dello Spirito. Ma perché la varietà dei doni sia segno della sua presenza e della sua azione occorrono tre condizioni.


La prima condizione è la fede che trova il suo centro nell’affermazione: “Gesù è il Signore” (v.3). Chi afferma che Gesù è il Signore, viene dallo Spirito; chi afferma il contrario, non può venire dallo Spirito. Ma che cosa significa proclamare “Gesù Signore”? Anzitutto che Gesù di Nazareth, il Crocifisso è Risorto; che è presente ed agisce ora nella comunità; che la sua strada, quella della Croce, è la strada che va percorsa anche dal discepolo.


La seconda è che la varietà dei doni trovi il punto di convergenza nell’edificazione comune. Dietro la varietà dei doni di ciascuno c’è la carità, il carisma migliore e comune. Solo a questa condizione si può parlare di presenza dello Spirito.


C’è un terzo criterio per discernere lo Spirito: il carisma si concepisce come funzione, come servizio, non come dignità. Il carisma non fonda una dignità, una grandezza da far valere, ma un compito da svolgere, un servizio per gli altri. Questa è l’affermazione centrale, rivoluzionaria, che Paolo sviluppa mediante l’allegoria del corpo e delle membra. Un dono che venisse concepito come dignità, come un per sé, da usare a vantaggio proprio, cesserebbe di essere carisma che viene dallo Spirito. Lo Spirito è presente là - e soltanto là – dove il dono diventa servizio e apertura verso i fratelli.



Meditatio, applicata alla vita salesiana


La Chiesa è una comunità-comunione ricca di vari carismi. Don Bosco fondatore, nel suo tempo, ignorava e non parlava di carismi, di cui tuttavia non era privo. Egli implorava da Dio e dall’Ausiliatrice grazie particolari, che erano in realtà dei carismi. Basti pensare al dono della parola che egli domandò ed ottenne il giorno della sua ordinazione sacerdotale. A riguardo don Ceria riporta una frase assai significativa: “la grazia delle guarigioni, il discernimento degli spiriti, lo spirito di profezia sono carismi che abbondarono nella vita del nostro Santo, né ci stancheremo noi di registrare i fatti, mano a mano che ne incontreremo di accertati”.7 Con san Paolo noi chiamiamo carismi i doni di natura e di grazia che sono al servizio della Chiesa e per l’edificazione della comunione fraterna. A noi salesiani, come ad ogni istituto religioso, “è richiesta la fedeltà al carisma fondazionale e al conseguente patrimonio spirituale”.8


Parlando del carisma di don Bosco fondatore, don E. Viganò lo riconosceva nell’esperienza fontale del “dono nuovo di Valdocco”, arricchita da elementi comuni della santità cristiana e dallo zelo apostolico, generatore di posterità spirituale. Questi gli elementi essenziali del patrimonio salesiano: una scelta originale di alleanza ed unione con lo Spirito di Dio; una collaborazione attiva e affettiva alla missione della Chiesa con un particolare stile di vita spirituale; una forma tipica di vita evangelica in stile familiare di rapporti che sappia portare i giovani a Cristo. “Don Bosco è stato ispirato dall’Alto a volere per noi una determinata forma di vita evangelica, duttile e adattata ai tempi, agile e disponibile per la missione tra la gioventù, di armoniosa permeazione tra autenticità religiosa e cittadinanza sociale, tra fedeltà alla sequela del Cristo e duttilità ai segni dei tempi”.9


Lo Spirito e la Parola di Dio appaiono pertanto gli elementi che presiedono all’armonia della comunità fraterna al suo interno e nel mondo. Specie tra i giovani la comunità salesiana è posta dallo Spirito come testimone del Cristo, chiamata ad annunciare il Vangelo e l’opera di Dio nell’oggi. Al suo interno la comunità è situata nella feconda dialettica dell’unità nella diversità: unico è lo Spirito, ma si personalizza in ciascuno. Paolo afferma che l’unicità dello Spirito si accompagna alla diversità delle manifestazioni, dei carismi (cfr. 1Cor 12, 4-11). E tutto questo è in continuità con la testimonianza del Cristo, la cui presenza e la cui parola hanno suscitato sia reazioni di accoglienza sia reazioni di rifiuto.


Lo spirito salesiano rifiuta la monotonia delle cose prefabbricate e standardizzate; egli dona a ciascuno vocazioni e doni diversi, secondo la personalità di ognuno. Queste diversità possono condurre ad un pericolo anche noi salesiani, oggi come ai tempi di san Paolo, quello cioè di catalogarsi, di opporsi gli uni agli altri, di affrontarsi in accesi confronti. Lo Spirito esige unità pur nella diversità, conservando ciascuno la propria personalità. Doni e carismi personali sono a beneficio del bene della comunità, le cui condizioni che regolano tali carismi sono vivere la fede in Gesù Cristo, produrre frutti dello Spirito, come la carità, la pace, la gioia (Gal 5,22), praticando la regola d’oro dell’edificazione comune (1Cor 14,26), fatta di unione con Dio e comunione fraterna. Tutto questo vale per il dono della “profezia” che consiste nel parlare a nome di Dio, il quale suscita nel cuore del credente parola profetiche destinate a promuovere la crescita e la riforma della comunità religiosa.


Il carisma di don Bosco è un’esperienza dello Spirito, trasmessa ai propri discepoli per essere da questi vissuta, custodita, approfondita e costantemente sviluppata in sintonia con il Corpo di Cristo in perenne crescita… con una indole propria che comporta anche uno stile particolare di santificazione e di apostolato”.10 Per noi salesiani oggi la vita comune in fraternità ha una convinta adesione e piena valorizzazione, consapevoli che vivere questo aspetto significa far crescere i nostri carismi.



Oratio, da personalizzare


Lo Spirito Santo è il dono che viene nel cuore dell’uomo insieme con la preghiera. In questa egli si manifesta prima di tutto e soprattutto come il dono “che viene in aiuto della nostra debolezza”. È il magnifico pensiero sviluppato da san Paolo nella lettera ai Romani (8,26) quando scrive: “Noi nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili”. Dunque lo Spirito Santo non solo fa sì che preghiamo, ma ci guida “dall’interno” nella preghiera, supplendo alla nostra insufficienza, rimediando alla nostra incapacità di pregare: egli è presente nella nostra preghiera e le dà una dimensione divina. Così “colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio” (Rm 8,27). La preghiera per opera dello Spirito Santo diventa l’espressione sempre più matura dell’uomo nuovo, che per mezzo di essa partecipa alla vita divina.


«La nostra difficile epoca ha uno speciale bisogno della preghiera. Se nel corso della storia – ieri come oggi – numerosi uomini e donne hanno dato testimonianza dell’importanza della preghiera, consacrandosi alla lode di Dio e alla vita di orazione soprattutto nei monasteri con grande vantaggio della Chiesa, in questi anni va pure crescendo il numero della persone che, in movimenti e gruppi sempre più estesi, mettono al primo posto la preghiera e in essa cercano il rinnovamento della vita spirituale. È questo un sintomo significativo e consolante, giacché da tale esperienza è derivato un reale contributo alla ripresa della preghiera tra i fedeli, che sono stati aiutati a meglio considerare lo Spirito Santo come colui che suscita nei cuori un profondo anelito alla santità”.11


Giorgio Zevini, SDB


1 Traccia di riflessione e lavoro sul tema del CG27, ACG 413 (2012) 65.

2 Giovanni Paolo II, Discorso alla Plenaria della CIVCSVA (20-11-1992), in OR 21.11.1992, n.3.


3 De oratione 12, PG 11,452.

4 Costituzioni primitive, ms. in ACS 022 (1), c. I Forma, art. 1.

5 Epistolario. Introduzione, testi critici e note. A cura di F. Motto, Roma, LAS,1999, II 174

6 Spiritus Creator. Saggi teologici III, Morcelliana, Brescia 1972, 328.

7 MB XIII 572.

8 VC 36b.

9 E. Viganò, Lettera ai salesiani, 14 maggio 1981, in ‘Lettere circolari’, 309-310.

10 E. Viganò, Lettera ai salesiani, 8 febbraio 1995, in “Lettere circolari”, 1557.

11 Giovanni Paolo II, Dominum et vivificantem, 18 maggio 1988, n. 65.

Profeti della fraternità

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