Educare come Don Bosco 2012-2103, Lectio biblica mensile

OTTOBRE 2012


EDUCARE COME DON BOSCO

Tracce per la Lectio



«Valete più di molti passeri»

Matteo 6,24-34


In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli:

«Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza.

Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena».




In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli:

24 «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza (lett.: Mamonà).


Con questa parabola il Signore ci insegna che siamo liberi di farci schiavi di uno dei due padroni che dichiarano la loro signoria sull’uomo. Non si dà una terza possibilità di essere cioè indipendenti sia dall’uno che dall’altro. La scelta si esprime nell’intimo dell’uomo ed è segnalata dai verbi: odiare e amare, interessarsi e disprezzare. Amare e interessarsi indicano l’interiore attrazione che si esprime in una scelta di vita a favore di un padrone. La tentazione del credente è quella di mettere sullo stesso piano Dio e l’idolo, saltellando da una parte all’altra (1Re 18,21), facendo affidamento sulla sicurezza mondana e rinnegando in pratica il Signore quale unico Dio, anche se con la bocca lo si proclama tale.

Odiare e disprezzare indicano il rifiuto radicale di servire quel determinato padrone. La scelta avviene nel cuore, anche se talora può celarsi sotto le vesti dell’ipocrisia. Si può infatti dichiarare di servire Dio ma in realtà si serve Mamonà. I due poli di attrazione o di rifiuto ultimi del cuore umano sono dunque Dio o Mamonà. Si tratta di decidere se seguire Dio o l’idolo (Gs 24,14ss).

Il termine Mamonà appartiene alla lingua aramaica e significa dapprima il patrimonio, tutto quello che è valutabile in danaro ed è contrapposto a vita (= anima) e a corpo, beni viventi dell’uomo. In seguito acquista anche un significato negativo come danaro di corruzione.

Sulle labbra del Signore Gesù qui è come personificato per indicare la forza di suggestione esercitata dai beni terreni per rendere schiavo l’uomo di un padrone che si serve di essi per legare a sé gli uomini, nella prospettiva di dare loro non solo il necessario per la vita ma anche potere, ricchezze e gloria. Pertanto sotto questi beni si nasconde il potere del «principe di questo mondo che esercita il suo dominio tramite l’avarizia e la cupidigia», come dice Cromazio. Le passioni infatti generano nei cuori quei ragionamenti che intaccano la fede stessa, attraverso le prove che derivano dalle necessità fisiche e quindi inclinano l’animo ad abbandonare Dio per mettersi a totale servizio “del soldo”; oppure, pur avendo il necessario, sollecitano il cuore alla brama insaziabile di possedere sempre di più e di trattenere quanto è posseduto. In tal modo l’intimo del cuore s’indurisce nei confronti di Dio e del prossimo.

Tale dominio dei beni porta alla cecità spirituale, come dice il salmo 48 (49): «L’uomo nella prosperità non comprende». L’essere schiavi dei beni comporta anche la dissoluzione della vita fraterna, perché prima o poi si preferiranno le sicurezze materiali piuttosto che i fratelli. È interessante come la spiritualità monastica interpreti questo legame fra distacco dai beni e amicizia spirituale. Afferma Cassiano (Conferenze monastiche, II, XVI, 6): «Il primo fondamento dunque della vera amicizia consiste nella noncuranza dei beni di questo mondo e nel disprezzo di quanto possediamo. Sarebbe infatti assai ingiusto ed empio da parte nostra se, dopo aver rinunciato alla vanità del mondo e a tutto quello che vi è in esso, fosse da noi preferito, al preziosissimo affetto del fratello, quel poco così vile che ancora a noi resta».


25 Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito?


La ricerca del vero tesoro, quello celeste (19,21) la luce interiore dell’occhio del cuore (22,23), la scelta di servire Dio possono ancora porre nell’intimo una domanda: «Chi provvederà alle mie necessità se non mi do da fare?». Il Signore risponde ora a questa domanda. La sua attenzione si rivolge ora alle preoccupazioni che generano paura, smarrimento e angoscia negli uomini. Infatti la vita nostra senza la luce evangelica, è dominata dalle «preoccupazioni inerenti alla vita» (Lc 21,34) che sono proprie di questo tempo intermedio (Mc 4,19: le preoccupazioni di questo secolo). Esse s’incentrano sulle tre esigenze fondamentali della vita e del corpo: mangiare, bere e vestirsi. Su queste necessità fondamentali si opera il discernimento tra i figli che servono fedelmente il Padre e coloro che, per paura, amano la schiavitù di Mamonà.

Tali preoccupazioni di questo mondo soffocano il seme della Parola (Mt 13,22 e par.), sicché essa non porta il frutto di pace che le è proprio. Così la vita dell’uomo si trascina nell’ansia che può minacciare anche coloro che accolgono Cristo nella propria vita, sotto l’apparenza di zelo spirituale: come nel caso di Marta che, pur accogliendo Cristo, si preoccupa e si agita per molte cose, tralasciando l’essenziale che è l’ascolto del Signore (Lc 10, 38-42). Questo non significa non compiere l’opera necessaria per venire incontro ai bisogni della vita: infatti «chi non vuole lavorare neppure mangi» (2Ts 3,10), dice l’Apostolo che lascia di sé l’esempio di chi provvede alle necessità con il lavoro delle proprie mani (2Ts 3, 6-12; 1Ts 2,9; 4,10-11). Si tratta di dare priorità alla ricerca del Regno di Dio e della sua giustizia, come si dice più avanti.


26 Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro?


Gli uccelli del cielo non possono seminare, mietere e raccogliere nei granai. Ad essi provvede il Padre celeste che ha compassione di tutte le sue creature: Apri la tua mano e sazi la fame di ogni vivente (Sal 145,16). Se Dio ha cura delle sue creature, quanto più provvede ai suoi figli! Infatti anche gli uomini non possono, con il lavoro delle loro mani, rendersi così autonomi da non avere bisogno di Dio: possono procurarsi il necessario per vivere, ma questo a che serve se poi perdono se stessi? (cfr. Mt 16,26 e par.). I figli di Dio lavorano e si affaticano senza affanno e preoccupazione sapendo che sono nutriti dal loro Padre celeste.


27 E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco (lett.: di un cubito) la propria vita?


Infatti «troppo caro sarebbe il riscatto di una vita: non sarà mai sufficiente per vivere senza fine e non vedere la fossa» (Sal 48(49), 9-10). Il Signore vuole mostrare come sia inutile lo sforzo che deriva da un animo agitato e preoccupato; esso non può varcare certi limiti. Ma poiché la vita segue il suo corso e nemmeno se ne conosce il limite stabilito da Dio, da questa siamo ammaestrati a non affannarci per essa. Il Signore infatti fa’ morire e fa’ vivere, scendere agli inferi e risalire (1Sm 2,6). Per il discepolo la vita non è in mano al fato ma nelle mani del Padre che non ama la morte ma la vita. Egli è infatti amante della vita (Sap 11,26) e ha creato l’uomo per l’immortalità, ad immagine della propria natura (Sap 2,23).

Questo toglie ogni affanno e preoccupazione perché preziosa agli occhi del Signore è la morte dei suoi fedeli (Sal 116,15) ed Egli è chiamato Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, Dio dei vivi e non dei morti perché tutti vivono per lui (cfr. Lc 20,37-38).


28 E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. 29 Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro.


Se la durata della vita non è in nostro potere e a nulla serve preoccuparsene perché Dio ne ha cura, allo stesso modo Egli provvede al nostro vestito. Il discepolo sa che vi è una precisa volontà del Padre nei suoi confronti: si prende cura di lui e provvede a quanto gli è necessario. Non è una legge generale della natura, è un atto preciso della sua volontà paterna. Mentre ai gigli del campo provvede una legge generale, che ha posto nella natura, ai suoi provvede il suo amore paterno. Se per una legge generale Egli veste i gigli del campo con uno splendore superiore a quello di Salomone nel massimo splendore del suo regno, quanto più nel suo amore riveste i suoi figli. Se rivestì Adamo ed Eva dopo il peccato (Gn 3,21), maggiormente ci riveste ora che siamo riconciliati per mezzo della morte del Figlio (cfr. Rm 5,10) e rivestiti di lui (Rm 13,14; Gal 3,27; Ef 4,24; Col 3,10). Se all’esterno ci riveste in modo modesto, all’interno ci riveste del manto della giustizia e delle vesti dell’esultanza (cfr. Is 61,10) nell’attesa che il nostro corpo mortale venga rivestito di incorruttibilità e d’immortalità (1Cor 15,54). Chi è rivestito di Cristo nell’intimo viene rivestito all’esterno di quanto è necessario.


30 Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede?


Ai ragionamenti angosciati che nascono dalle paure, Gesù c’insegna a sostituire quelli che nascono dalla fede. Questi sono più logici, come ci dimostra in questa parola. Infatti il Padre celeste chiede a noi suoi figli la fede. Se questa è poca, vi è la preoccupazione; se invece questa è tale da non dubitare di Lui, il nostro cuore non si allontana dalla ricerca del vero tesoro. La fede non ci toglie dalle necessità, ma ci dà la forza di affrontarle con la pazienza, che deriva dalla fiducia incrollabile nel Padre, che ha come fondamento l’amore. La fede non elimina la prova, anche quella relativa alle necessità della vita, ma ci dona la forza di affrontarla con la pace che viene da Dio solo.


31 Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”.


La fede evita questa conclusione, che nelle labbra del credente è simile alla mormorazione del popolo nel deserto, come è scritto: E mormorò il popolo contro Mosè dicendo: «Che cosa berremo?» (Es 15,24). È la mancanza di ciò che è necessario che porta a dimenticare tutti i benefici precedenti e mette il cuore in agitazione e lo incita alla ribellione. Tale tentazione si vince con la fiducia nel Padre sapendo che «non di solo pane vivrà l’uomo ma di ogni Parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4 par.).

Questo non significa minimizzare la portata della prova o sminuire la tribolazione di chi deve provvedere per sé e i propri cari. Significa vivere tale combattimento, che riguarda sì le necessità materiali che accompagnano la vita dell’uomo in tutta la sua esistenza (Gb 7,1), ma attiene alla fede, sapendo che nella lotta siamo nelle mani del Forte, il Padre che non lascia i suoi figli soli nella prova.

Don Bosco ha appreso dalla madre sua tale atteggiamento di fiducia nel Padre che ci sostiene nella dura lotta per le necessità materiali affinché non soccombiamo perdendo la fede; lo ha vissuto personalmente come intervento continuo della Provvidenza; lo ha insegnato ai suoi figli che ha educato a vivere da poveri, ossia fiduciosi nell’intervento del Padre.



32 Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno.


I pagani (lett.: le genti), che non conoscono Dio, ricercano avidamente e con agitazione il nutrimento e il vestito e lo trattengono avaramente affamando gli altri. Anche noi abbiamo bisogno di tutto finché siamo in questa condizione mortale. Noi sappiamo che il Padre nostro celeste sa: questo ci basta. Qui sta l’amore e questa è la sapienza celeste. Chi crede non dubita perché si fonda nell’amore di Dio che è stato riversato nei nostri cuori mediante lo Spirito che ci è stato dato (Rm 5,5). Questo rapporto filiale resta inalterato di fronte a ogni prova e resta saldo in quello che solo è necessario, come subito dice:


33 Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta.


Al cercare con affanno, proprio delle genti, si contrappone il cercare il Regno del Padre e la sua giustizia. Gesù dice: Cercate prima, al di sopra di tutto e senza limiti, facendone l’unico scopo della vita. Infatti il Regno, già presente, è il primo ed assoluto bene, il vero tesoro, verso il quale indirizzare tutta la propria ricerca. Al Regno Gesù associa la giustizia di Dio, facendone la caratteristica fondamentale del Regno. Essa consiste nella retta relazione con Dio e con i fratelli, in sostanza è la fedeltà all’alleanza per cui si accetta la sovranità di Dio nella nostra vita. Il giusto è colui che sa relazionarsi con Dio e con i fratelli. Il popolo è giusto quando si mantiene fedele (Is 26,2) e tale fedeltà diventa giustizia che significa soprattutto attenzione ai deboli.

Questa ricerca del Regno toglie l’ansia dannosa che è propria di chi, spinto dalle necessità della vita, si mette in ricerca del vitto e del vestito. Infatti il discepolo sa che tutte queste cose gli saranno poste innanzi dall’amore del Padre, che non fa mancare ai suoi figli quello di cui hanno bisogno.


34 Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena».


Nella misura in cui cercate il Regno e la giustizia di Dio cessate dal preoccuparvi per il domani. Il cuore è talmente preso dalla gioia dell’Evangelo che cessa di essere angosciato per il domani. Con la forza, che gli viene dalla fede nell’Evangelo, il discepolo affronta il male di ogni giorno senza preoccuparsi di quello del giorno dopo. La situazione presente non cessa di pesare sui discepoli come su tutti gli uomini per cui il giorno riserva a tutti il suo male. Infatti dice il Qohelet: «Chi sa quel che all’uomo convenga durante la vita nei brevi giorni della sua vana esistenza che egli trascorre come un’ombra?» (6,12). Non cessa il peso e la vanità di quest’esistenza, ma in essi è apparsa la luce del Vangelo e la giustizia che proviene dalla fede per concentrare tutte le energie dell’uomo nella ricerca del Regno, anche se egli viene tentato dalle preoccupazioni per le necessità della vita. Solo la fede in questa parola evangelica può rendere il suo animo saldo sul male di ogni giorno.



Per la riflessione


  • Vivi nell’affidamento al Signore, sperimentando che sei nelle mani di un Padre buono che provvede ai suoi figli? Oppure sei schiavo di idoli in cui riponi le tue sicurezze?

  • Pensi che nella tua comunità si viva questa fiducia nella Provvidenza, oppure si vive nell’ansia di cercare sostegni umani anche scendendo a compromessi contrari al Vangelo?

  • Testimoniamo personalmente e comunitariamente la povertà evangelica come segno per il mondo di fiducia in Dio e di libertà interiore dalle paure?

  • La fede in Dio che ama ogni persona, quindi anche ogni giovane, e accompagna tutti passo dopo passo incide sul modo di avvicinare i destinatari della missione?


NOVEMBRE 2012


«Accoglie me»

Mt 18, 1-7


In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: «Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?». Allora chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli. E chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me.

Chi invece scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, gli conviene che gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare. Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che vengano scandali, ma guai all’uomo a causa del quale viene lo scandalo».


In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: «Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?».


In quell’ora: è un’indicazione solenne, che segna un passaggio e l’inizio del discorso alla comunità. In Matteo l’espressione è usata in episodi di guarigione (8,13; 9,22; 15,28; 17,18) e ha segnalato il momento della persecuzione (10,19).

I discepoli vengono ora ammaestrati sullo stile dei rapporti che devono stabilirsi tra i fratelli nella fede. Lo spunto è dato dalla domanda dei discepoli che suona stridente dopo il secondo annunzio della Passione che provoca la grande tristezza dei discepoli (17,22-23). In questa domanda si rivela il rifiuto di passare per la porta stretta della croce (7,13) e una mancata comprensione di cosa significhi essere discepoli del Regno. La tentazione è quella di amare la gloria secondo gli uomini e non quella che proviene da Dio solo (Gv 5,41-44; 12,43), e che si rivela nel Crocifisso, nell’umanità sofferente e glorificata di Cristo. Spiritualmente la ricerca della grandezza mondana rivela un cedimento alla fragilità per cui ci si sente spinti ad un confronto con l’altro nel timore di risultare sminuiti. Solo chi si sente amato dal Signore ed è reso capace di ricambiare vive nella pace, perché sa che deve rispondere solo a Lui e al suo amore.

La tentazione della grandezza secondo il mondo sarà sempre presente nella Chiesa, nei singoli e nelle comunità, ed è per questo che occorre esercitare grande vigilanza sostenuta da un continuo ascolto della Parola. Quanto dice Cristo subito dopo è insegnamento paziente e ammonimento per i discepoli di tutti i tempi.


Allora chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli».


Chiamò a sé: è un gesto che ha la valenza di quelli compiuti dai profeti e, come quelli, ha lo scopo di suscitare la conversione. Se in Marco 9,36 il Signore abbraccia il bambino, qui lo pone al centro della comunità. È questa l’immagine ideale della fraternità cristiana: il luogo spirituale dove il piccolo è al centro dell’attenzione. È quello che hanno saputo fare i grandi santi, come Don Bosco che si è davvero fatto “rubare il cuore” dai piccoli disprezzati da tutti, esclusi, bisognosi, a rischio di perdersi.

Nelle parole successive di Cristo si rivela qualcosa di ancora più grande. Il bambino diventa modello ideale. È il paradosso cristiano: la gloria di Dio è nel nascondimento della croce (1Cor 2,6-10), la vita divina è nascosta nel Piccolo per eccellenza, il Cristo (Col 3,1-4). Egli è la Via, per cui se si vuole entrare nel Regno bisogna percorrere il suo cammino di umiliazione per entrare nella Gloria (Gv 14,6). Siccome l’uomo è invece preso dall’affermazione di sé, nella tentazione narcisistica che lo accompagnerà fino alla fine, tale sequela di Cristo è possibile solo come percorso di continua conversione. Quello che in Cristo avviene come espressione di amore perfetto, in noi avviene solo come frutto della purificazione del cuore che l’adesione alla Parola di Cristo permette.


Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli.


Nel regno si rovesciano tutte le categorie mondane. Questo è l’elemento proprio del messaggio evangelico e deve essere lo stile della vita fraterna. Nel Magnificat è reso evidente tale ribaltamento delle categorie mondane operato da Dio stesso: «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1,52). La contrapposizione piccolo-grande in cui paradossalmente la piccolezza è segno di grandezza proviene dal fatto che Dio ha scelto ciò che è ignobile e disprezzato per il mondo per ridurre al nulla la potenza di questo mondo (1Cor 1,28). Un sentire carnale non può comprendere la volontà divina, ma i credenti possono per il dono dello Spirito: infatti «noi abbiamo il pensiero di Cristo» (1Cor 2,16).

Quando il discepolo fa sua la piccolezza di Cristo, allora deve gioire ed essere fiero di essere innalzato non dalla piccolezza, ma nella piccolezza. Era questa, per Don Bosco, la via per essere graditi a Dio e agli uomini di buona volontà: «Prendete cura speciale degli ammalati, dei fanciulli, dei vecchi e dei poveri, e guadagnerete la benedizione di Dio e la benevolenza degli uomini» (Ricordi di San Giovanni Bosco ai primi missionari).


E chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me.


Come dirà anche nella parabola dell’ultimo giudizio (Mt 25,31-46), il Signore si identifica con coloro che il mondo ha disprezzato. Misconoscere tale operato di Dio significa traviare il Vangelo: tale Parola sarà quella che ci giudicherà (Gv 12,48). Essa non ci chiede di attribuire ai piccoli una bellezza che l’occhio non vede, ma di agire sapendo che Gesù si è legato a loro fino ad offrire la sua vita per loro.


Chi invece scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, gli conviene che gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare. Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che vengano scandali, ma guai all’uomo a causa del quale viene lo scandalo.


Così si legge nella Filocalia: «È inevitabile che avvengano gli scandali – dice il Signore – ma guai a colui per il quale lo scandalo avviene. Dunque, colui che ha distrutto la pietà e vive nel disprezzo e nella mancanza del timore di Dio in mezzo all’unione dei fratelli, offre scandali a molti dei più semplici, ora con le opere e i comportamenti e i pessimi costumi, ora con le parole e una conversazione corrotta, e corrompe anime e costumi buoni e virtuosi»: Nicola Stethatos, Prima Centuria, 78).

Lo scandalo è una “pietra d’inciampo” messa dinanzi ai piccoli che non permette loro di giungere a Cristo. Si dà scandalo perché si è consentito un processo di corruzione spirituale che all’inizio non è visibile perché nasce nascostamente da un cuore che si distacca da Dio non facendosi custodire dalla Parola (Sal 119(118), 9). Questo porta progressivamente a non riconoscere più la presenza di Dio nei fratelli più piccoli, presenza a cui ci si deve accostare con timore e tremore. Sta scritto infatti: «Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui» (1Cor 3,17). Questo vale in tutte le circostanze in cui con l’opera malefica si allontanano i piccoli dal Signore che invece li vuole con sé: «Lasciate che i piccoli vengano a me».

Se questo vale per tutti i credenti, a maggior ragione riguarda chi ha uno specifico ministero di servizio ai piccoli. Costui deve fare propria, quotidianamente, la Parola del salmo: «Chi spera in te, per colpa mia non sia confuso, Signore, Dio degli eserciti; per causa mia non si vergogni chi ti cerca, Dio d'Israele» (Sal 69(68), 7). Questo è l’atto d’umiltà che permette di sentirci strumento nelle mani del Dio fedele che garantisce la nostra fedeltà e non consente cadute nostre e di coloro che ci vengono affidati. Solo tale affidamento ci rende trasparenti.



Per la riflessione


  • Riconosci che il Signore s’incontra nella piccolezza, oppure ragioni con criteri mondani cercando la gloria nell’apparenza di questo mondo? In comunità si comprende la necessità di farsi piccoli?

  • Ti sforzi di essere segno trasparente dell’amore di Dio attraverso la custodia del cuore? Vigili su te stesso facendo abitare in te la Parola che preserva e salva?

  • Siamo attenti, personalmente e comunitariamente, ai piccoli iniziando dalle nostre comunità? Li poniamo al centro della nostra attenzione?

  • Il nostro modo di operare fra i giovani testimonia la considerazione che abbiamo di loro? Rispecchia l’insegnamento di questa pagina del Vangelo?


DICEMBRE 2012


«Lasciate che i piccoli vengano a me»

Mt 19,13-15


Allora gli furono portati dei bambini perché imponesse loro le mani e pregasse; ma i discepoli li rimproverarono. Gesù però disse: «Lasciateli, non impedite che i bambini vengano a me; a chi è come loro, infatti, appartiene il regno dei cieli». E, dopo avere imposto loro le mani, andò via di là».


Allora gli furono portati dei bambini perché imponesse loro le mani e pregasse; ma i discepoli li rimproverarono.


Il brano si colloca nel contesto più ampio dove si è parlato delle relazioni coniugali. «Bisogna divenire come bambini per entrare nel regno (cf. 18,3-4): ma i discepoli non l’hanno capito, poiché respingono i fanciulli (v. 13) con la stessa noncuranza con cui altri ripudiano la loro sposa (v. 3)» (J. Radermakers, Lettura pastorale del vangelo di Matteo, EDB, Bologna 1997, 274).

Scrive P. Angelo Lancillotti: «Secondo il costume giudaico, i genitori erano soliti di sabato benedire i loro bambini. Nel grande giorno dell’Espiazione (il giorno del solenne digiuno) si usava presentare i bambini agli scribi perché li benedicessero. […] Il bambino non era nel giudaismo oggetto di particolare attenzione: non possedendo la conoscenza della Legge, condizione indispensabile per salvarsi, non meritava considerazione alcuna. I discepoli dunque si comportavano secondo la mentalità corrente» (in Matteo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1986, 263-264). I bambini non possono aver parte nella comunità perché disturbano e non possono comprendere la Parola. Solo a 13 anni, dopo essere stati istruiti, possono diventare “figli del precetto”.

Essi rappresentano gli esclusi perché considerati incapaci e dunque sono disprezzati da coloro che detengono la Legge, pretendono di averne l’esclusivo possesso e considerano lontano da Dio chi è senza voce (Gv 7,49). Anche nella comunità dei discepoli di Cristo può albergare il rifiuto di chi è considerato incapace, obbedendo in tal modo a pregiudizi sociali spesso fondati su motivazioni economiche e di riconoscimento mondano. Nella Chiesa taluni segni esterni di ossequio nei confronti dei grandi di questo mondo si accompagnano a un più o meno larvato disprezzo dei piccoli che così si sentono allontanati dal Signore (Gc 2,1-9). Ma la sua misericordiosa Parola ci richiama a ciò che è giusto.


Gesù però disse: «Lasciateli, non impedite che i bambini vengano a me; a chi è come loro, infatti, appartiene il regno dei cieli». E, dopo avere imposto loro le mani, andò via di là.


È volontà del Signore, il quale mostra il suo amore misericordioso per i piccoli e i poveri, che nessuno di questi vada perduto (Mt 18,14). Egli ammonisce i suoi discepoli a farsi strumento perché Lui li accolga e li benedica. Quando questo non avviene, Marco dice che il Signore si adira, perché quanto fatto ai piccoli è fatto a lui (Mt 25,40.45).

L’opera di Don Bosco è stata proprio questa: fattosi piccolo e avendo vissuto nella condizione di piccolezza propria dei poveri è stato, in virtù della sua radicale obbedienza al Signore e del suo desiderio di imitarlo, uno strumento trasparente affinché i piccoli – specialmente i più a rischio – accorrano al Signore per essere da lui benedetti.

Il Signore impone loro le mani: è un gesto solenne, di frequente richiamato nella Scrittura (sulle vittime sacrificali: Lv 1,4; per trasmettere saggezza e autorità: Dt 34,9; per benedire i figli: Gen 48,14-19; per guarire: Mt 8,3 e par.; su persone per affidare un ministero: At 6,6). E mentre nel cap. 18 si diceva di divenire come i bambini per entrare nel regno, qui si afferma che il regno appartiene a chi è come loro.

Ma chi è come loro? Chi è capace di affidamento, è bisognoso di tutto e confida nel Signore. Questi, come un bambino, brama il puro latte spirituale (1Pt 2,2).



Per la riflessione


  • Accolgo i piccoli nella mia vita come segno della presenza del Signore, sapendo di doverli portare a Lui? Si fa così nella mia comunità?

  • Comprendo che proprio gli esclusi, i senza-voce, sono graditi e benedetti dal Signore? Cosa faccio per far comprendere loro che il Signore li vuole accanto a sé?

GENNAIO 2013


«Un uomo getta il seme sulla terra»

Mc 4,26-29


Diceva: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».


Questo brano è proprio di Marco e presenta alcune difficoltà interpretative che hanno avuto risposte diverse: chi è l’uomo che getta il seme e con apparente noncuranza lascia che produca “automaticamente” (così nel testo)? Cosa indica tale inattività che sembra considerare inutile qualunque opera e qualunque tempo in ordine al dinamismo del seme? In cosa consiste tale dinamismo?

Queste domande ci invitano ad accostarci a tale Parola con umiltà cercando di cogliere il senso complessivo, sapendo che ogni nostra comprensione non è definitiva e riporta a una continua vigilanza e fatica per cogliere, ogni volta, il frutto del seme della Parola.


Diceva: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa.


L’atto del seminare, opera dell’uomo che si procura il sostentamento, è spesso utilizzato nella Scrittura in un contesto dove si parla dell’opera di Dio. Questi benedice il lavoro dell’uomo donandogli il frutto necessario per vivere; ma per l’infedeltà dell’uomo, la fatica rimane senza frutto (Lv 26,16; Ger 12,13; Mi 6,15). Il Signore il frutto «lo darà ai suoi amici nel sonno» (Sal 127 (126), 2). Infatti, «Colui che dà il seme al seminatore e il pane per il nutrimento, darà e moltiplicherà anche la vostra semente e farà crescere i frutti della vostra giustizia» (2Cor 9,10).

Impressiona l’insistenza sul fatto che il seme comunque produce. Non è una giustificazione della passività (l’uomo deve almeno gettare il seme), ma è mettere al centro la potenza del seme. Se il seme – come pare – è la Parola (cfr. poco prima 4,1-19), essa produrrà comunque un frutto, qualunque sia l’atteggiamento dinanzi ad essa, il frutto desiderato da Colui che la invia (Is 55,10-11).

Tale dinamismo impedisce di immaginare come decisiva e necessaria per il Regno l’opera di chiunque: solo Dio è necessario e decisivo. «Siamo servi inutili» (Lc 17,10). L’erba non cresce perché il contadino la tira. È il Signore che somministra il nutrimento e lo dà ai suoi amici nel sonno. Questo ci libera da ogni tentazione di efficientismo religioso che presume di essere protagonista assoluto nell’edificazione del Regno, dimenticando che l’opera che Dio chiede è credere in colui che ha mandato (Gv 6, 28-29). Sant’Ignazio direbbe: «Agisci come se tutto dipendesse da te, sapendo poi che in realtà tutto dipende da Dio».

Come, egli stesso non lo sa. Tale ignoranza è quella relativa ai tempi ultimi che non spetta a noi conoscere (At 1,7; e anche Lc 21,8), ma solo a Dio.



Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».


L’immagine della falce e della mietitura richiama il giudizio (Gl 4,13; Ap 14,15). Alla fine c’è un giudizio e Dio giudica. La Parola inviata non può non produrre il frutto: se accolta (Mc 4,8.20), questo frutto è di salvezza, la condanna è evitata e si passa dalla morte alla vita (Gv 5,24); altrimenti l’esito è il giudizio (Gv 12,47-48).

Tale Parola fa capire come il dinamismo del Regno, per quanto incomprensibile e sottratto all‘operato umano, ha una direzione e un esito. A noi spetta attendere in quell’atteggiamento tipicamente cristiano che si chiama vigilanza, perché il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa (2Pt 2,9).


Nota: nel compito educativo forte è la tentazione di sentirsi indispensabili e decisivi per ottenere risultati pedagogici, dimenticando che è Dio che opera nel cuore dell’uomo e nella storia. I santi come Don Bosco hanno assecondato l’opera della Grazia in se stessi e in coloro che venivano loro affidati, senza volersi sostituire all’opera dello Spirito. Nelle biografie dei tre giovani santi dell’Oratorio, si può contemplare la discrezione spirituale di Don Bosco. Questi, parlando di Domenico Savio nella Vita, scrive: «Conobbi in quel giovane un animo tutto secondo lo Spirito del Signore e rimasi non poco stupito considerando i lavori che la grazia di Dio aveva operato in così tenera età». Tale discernimento spirituale permette all’educatore di comprendere come farsi strumento dell’opera santa di Dio, evitando protagonismi inutili e fuorvianti.



Per riflettere



  • Comprendi che bisogna attendere e assecondare l’opera di Dio, evitando ansia, agitazione e inutili protagonismi? Sei consapevole che è Dio il Signore del Regno e della storia?

  • Sei fiducioso nella vigilanza, sapendo che il Signore verrà e il suo giudizio sarà di misericordia per coloro che lo hanno aspettato con amore?

  • Sai riconoscere l’azione santa di Dio nelle anime che il Signore ti affida? Nel compito educativo, collabori alla sua opera con discrezione spirituale, accogliendo la sua Parola perché porti frutto in te e negli altri?


FEBBRAIO 2013


«Ho ritrovato la mia pecora»

Lc 15, 4 -7


«Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione».


Il brano si colloca nel contesto delle parabole del capitolo 15. Le prime due sono strettamente collegate, la terza è sulla stessa linea, affine per il contenuto, ma si distingue dalle altre oltre che per la grande bellezza per la maggior complessità interna. Per essere rettamente intesa, la parabola della pecora smarrita va vista nella prospettiva complessiva, e non va isolata dal contesto. Già l’introduzione ci avverte quando allude a un’unica parabola in tre quadri .


Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo.

I farisei e gli scribi mormoravano: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro».


Questi versetti d’introduzione c’informano sull’uditorio di Gesù. Notiamo il diverso atteggiamento delle categorie che seguono Gesù: i pubblicani e i peccatori si avvicinano per ascoltarlo, i farisei e gli scribi mormoravano. La parabola è raccontata soprattutto per loro, e ha come scopo la conversione. Come ogni parola profetica, essa ha di mira la contrizione dell’interlocutore, affinché “cambi mentalità” (metanoia) e si apra alla misericordia divina. Questo sarà evidente soprattutto nella parabola del padre misericordioso dove è possibile ravvisare i mormoratori nel fratello maggiore che si rifiuta di partecipare alla festa per il ritorno del minore.

Tutti: sono invitati nella totalità, nessuno è escluso dal banchetto del Regno (Lc 13,29).

Per ascoltarlo: è la relazione primaria con il Signore, quella che permette l’accesso alla salvezza. Poiché è la Parola che purifica (Gv 15,3), accoglierla con cuore sincero è via di salvezza per i peccatori.

Mormoravano: gli scribi, maestri ufficiali del giudaismo, e i farisei, i “separati” dalla massa, sono mormoratori al pari dei loro padri nel deserto (Es 15,24; Sal 78,19; 106,25), perché non riconoscono il modo di rivelarsi di Dio col volto della misericordia. Essi sono idolatri, perché credono all’immagine che loro stessi si sono costruiti e non accettano che Cristo riveli il volto autentico del Padre nella salvezza dei peccatori.


«Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta.


L’immagine del Pastore che guida e va in cerca delle pecore è frequentissima nell’Antico (Gen 48,15; Ger 23,1-6; Ez 34,12-16; Is 40,11; Sal 23(22); Sir 18,13) come nel Nuovo Testamento (soprattutto Gv 10,1-18). Nel Nuovo Testamento è Cristo il Pastore che realizza la promessa di cura del gregge rivolta al popolo d’Israele nel tempo dell’attesa (1Pt 2,25; Eb 13,20). Ancora una volta Cristo rivela il volto del Padre in un modo incomprensibile a chi ha il cuore indurito e non si apre alla misericordia divina. Il comportamento di tale Pastore è paradossale fino all’assurdo di lasciare 99 pecore per cercarne una smarrita.

Chi di voi: il discorso tocca direttamente gli interlocutori di Gesù.

Cento pecore: la grandezza di un gregge oscilla presso i beduini da 20 a 200 capi di bestiame minuto; chi possiede 100 capi ha un gregge di media grandezza, egli basta da solo a curarlo, senza ricorrere a guardiani e, quantunque non sia ricco, è benestante (cfr. J. Jeremias, Le parabole di Gesù).

Nel deserto: la maggior parte del territorio era costituita, specie in Giudea, da aridi contrafforti montuosi e da sterminate lande desertiche.

Va dietro a quella perduta. Il pastore palestinese ha cura di contare il suo gregge la sera quando lo spinge nel recinto: la cifra di 99 sta ad indicare che il conteggio è appena avvenuto; tutti i conoscitori della Palestina sono concordi nell’attestare che è quasi impossibile che un pastore abbandoni semplicemente il proprio gregge al suo destino. Se deve andare alla ricerca di una bestia sperduta, egli affida il gregge ai pastori che condividono con lui il recinto del villaggio oppure lo sospinge dentro una grotta (cfr. J. Jeremias cit.). Viene così sottolineata l’enorme differenza tra i sentimenti dell’uomo e quelli di Dio.

Questo comportamento del pastore interpella la comunità cristiana. Essa è chiamata a sbilanciarsi verso gli smarriti, verso coloro che si sono perduti e che rischiano l’abbandono in nome della custodia degli altri. Don Bosco ha osservato in modo eminente tale Parola, facendosi servo di tutti pur di salvarne qualcuno (1Cor 9,22). La sua attenzione è stata infatti per coloro che, abbandonati e smarriti, stanno per perdersi.

Ma vi è anche un altro aspetto che riguarda la vita spirituale di ciascuno.


Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.


Il testo, in un linguaggio paradossale, esprime il sentire di Dio, ma è anche un richiamo al credente. Annota S. Fausti: «Queste novantanove sono i giusti, esortati a riconoscersi nella pecora smarrita» (Una comunità legge il vangelo di Luca, 534). Se la salvezza non è opera dell’uomo, ma è un lasciarsi ritrovare dal Signore, allora occorre sentirsi smarriti e supplicare il Signore che ci venga a cercare, facendo nostre le parole del salmista: «Mi sono perso come pecora smarrita; cerca il tuo servo: non ho dimenticato i tuoi comandi» (Sal 119 (118),176). Essere discepoli significa non presumersi perfetti, ma bisognosi della misericordia del Signore, che ci porta a usare misericordia nei confronti dei fratelli più deboli. È questo il fondamento del perdono cristiano: la misericordia ricevuta diventa misericordia da usare ai fratelli (cfr. Mt 18,23-35: la parabola è inserita nel contesto del discorso ecclesiale). Si riceve misericordia dal Signore col suo perdono e con l’essere preservati dal peccato.

Qui si ritrova il vero senso della fraternità cristiana: sapere che si è tutti bisognosi di amore e, in tale consapevolezza, sapere vivere la relazione con i fratelli come dono reciproco, segno del dono dall’alto. Il fondamento è la volontà del Padre che non vuole che si perda neanche uno dei piccoli (Mt 18,14).


Nota: «L’attenzione del narratore si concentra sulla gioia di Dio per la conversione del peccatore e non tanto sull’azione del peccatore che si converte; si racconta, cioè, quello che prova Dio, non ciò che il peccatore deve fare. La conversione del peccatore è vista dalla parte di Dio. Dio davanti all’uomo, non l’uomo davanti a Dio: questo è ciò che alle tre parabole importa. Il discorso è teologico, non anzitutto morale. La novità della rivelazione evangelica riguarda, in primo luogo, il comportamento di Dio, non anzitutto le modalità della conversione dell’uomo. La domanda teologica (chi è Dio?) viene prima della domanda morale (cosa devo fare per obbedire a Dio?). Gesù invita a guardare le cose da un punto di vista diverso da quello che è abituale: non dalla parte del peccatore, ma dalla parte di Dio». (www.diaconia.it, Commento alla 27 Domenica del Tempo Ordinario).



Per riflettere


  • Ti sembra che la comunità sia attenta a cogliere la rivelazione evangelica del Dio misericordioso che non vuole che nessuno si perda? Come dimostra tale attenzione?

  • Ti identifichi con lo smarrimento della pecora errante, domandando al Signore che ti venga a cercare per salvarti?

  • Ti fai strumento del Signore che va in cerca degli smarriti? Hai attenzione per coloro che rischiano di perdersi e che il Signore ti fa incontrare?



MARZO 2013


«Offro la vita da me stesso»

(Gv 10, 14–18)


«Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».


14 Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me,


Precedentemente il testo aveva tratteggiato le caratteristiche dei mercenari, ossia di coloro che, intenti unicamente al proprio interesse, lasciano le pecore in balia dei lupi. Qui l’accento è posto sul rapporto tra il pastore e le pecore. Esso è di conoscenza. In senso biblico essa va intesa come relazione profonda, di natura non esclusivamente intellettuale ma intima. Il termine, che ricorre in Gv ben 49 volte (e 21 in 1 Gv) ha valenza fortissima, ed è utilizzato nel linguaggio biblico anche per indicare le relazioni coniugali (Gen 19,8; Gdc 11,39; Mt 1,25; Lc 1,34). Conoscere o non conoscere Dio è il carattere che distingue coloro che appartengono al Signore. In modo particolare tale conoscenza deve riguardare i capi del popolo (Ger 2,8: «Neppure i sacerdoti si domandarono: “Dov’è il Signore?”. Gli esperti nella legge non mi hanno conosciuto, i pastori si sono ribellati contro di me, i profeti hanno profetato in nome di Baal e hanno seguito idoli che non aiutano»; cfr. anche 1Re 22,17; Ger 10,21; 23,1-2). Tale relazione è il fondamento dell’identità di una comunità, oltre che dei singoli credenti. Questo segno identitario impedisce di pensare alla comunione con il Signore in termini di sudditanza irragionevole. La cultura odierna interpreta negativamente l’immagine della pecora riferita all’uomo e parla di “complesso del gregge” e di istinto gregario per indicare condizionamenti sociali che privano della responsabilità e della libertà personale. Ma il legame dei discepoli con il pastore è fondato sulla scelta di averlo come guida. Gli uomini d’oggi, compresi tanti credenti, non comprendono che si possono scegliere solo due pastori. O ci si affida al Signore che ci conduce ai pascoli della vita (Sal 23(22),2), oppure si seguono le proprie vie, si confida solo nel proprio pensare carnale e allora il pastore sarà la morte (Sal 48(47),14-15). Si è discepoli del Signore quando si vive l’esistenza in un continuo desiderio di conoscerlo per amarlo, e ci si sente conosciuti e amati da Lui.

Al contrario del mercenario, Gesù, che è il Buon Pastore, conosce le sue pecore e queste conoscono Lui. Chi appartiene a Gesù lo conosce, cioè ha con Lui un rapporto personale fondato sulla reciproca conoscenza. Gesù ci conosce perché dimora in noi e noi lo conosciamo dal momento che dimoriamo in Lui e siamo suoi.

Il grado della conoscenza è l’amore. Gesù ci conosce perché ci ama e noi più l’amiamo più lo conosciamo, e più lo conosciamo più lo amiamo. È quel rapporto tra fede (relazione di fiducia in Dio) e conoscenza così ben sottolineato da Agostino: «La fede cerca, l’intelligenza trova […] E d’altra parte l’intelligenza cerca ancora Colui che ha trovato» (De Trinitate, XV,2,2). Il mercenario non entra nella dinamica di questa reciproca conoscenza, ne resta fuori perché non gli importa delle pecore (v. 13). Il rapporto tra il Buon Pastore e i suoi è quindi fondato sulla “conoscenza affettiva”.

Questo, sul piano pedagogico, dona una grande luce a coloro che sono impegnati nell’opera educativa. Don Bosco, come discepolo del Signore, si è sentito guidato da lui e inviato alle pecore per costruire una famiglia dove regnano la confidenza e l’amore fraterno: «Negli antichi tempi dell’Oratorio lei non stava sempre in mezzo ai giovani e specialmente in tempo di ricreazione? Si ricorda quei begli anni? Era un tripudio di paradiso, un’epoca che ricordiamo sempre con amore, perché l’affetto era quello che ci serviva di regola, e noi per lei non avevamo segreti», scrive il Santo riportando il dialogo con l’antico allievo dell’Oratorio nella Lettera da Roma. Tale conoscenza reciproca, ad imitazione di Cristo («Gesù Cristo si fece piccolo con i piccoli e portò la nostra infermità. Ecco il Maestro della familiarità»), crea l’ambiente educativo ed edifica la Casa il cui costruttore è il Signore stesso.


15 così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.


La conoscenza reciproca del Pastore e delle sue pecore ha la sua origine nella reciproca conoscenza del Padre e del Figlio. La reciproca conoscenza del Padre e del Figlio si apre alla reciproca conoscenza di Gesù e dei suoi attraverso la morte sacrificale del Figlio.

La morte sacrificale di Gesù non è solo la rivelazione del suo amore per noi, ma è anzitutto la rivelazione del suo amore per il Padre e quindi della sua identità di Figlio. La vita intima di Dio diviene conoscibile e partecipata attraverso la morte sacrificale del Figlio che rivela il volto del Padre. Il suo amore per noi, nell’atto supremo del sacrificio, diviene l’inizio della nostra conoscenza di Lui e in Lui del Padre. Nell’unico atto di conoscenza e di amore del Padre, Gesù include l’amore per noi e la conoscenza di noi, e in quell’unico atto a noi partecipato conosciamo e amiamo sia il Figlio che il Padre. Fulcro di tutto è il sacrificio di Gesù.

Lo sguardo di Gesù ora si rivolge a tutte le Genti, che non appartengono a Israele (“questo recinto”). In mezzo alle Genti ci sono coloro che appartengono a Gesù. Egli non va in cerca di loro perché Gesù è venuto solo per le pecore perdute della Casa d’Israele (Mt 15,24). Coloro che tra le Genti sono suoi devono essere condotti a Gesù attraverso la predicazione apostolica, come Egli stesso dice nella solenne preghiera di santificazione: «Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (17,20-21). In tal modo i due (Israele e le Genti) diventeranno un solo gregge di cui Gesù sarà il Pastore. Infatti per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito (Ef 2,18).

Questo avviene mediante l’annuncio evangelico la cui diffusione va oltre la sua manifestazione visibile. In tal modo si comprende la necessità della predicazione della Parola come via per condurre al Padre i lontani, compresi i nostri giovani che sono ai margini della vita di fede perché non si trova chi annunzia il Signore. Dice infatti l’Apostolo: Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? (Rm 10,14). Ed è per questo che bisogna pregare il Padrone della messe, perché mandi operai nella sua messe (Mt 9,38). Ciò va inteso non in senso quantitativo, ma in riferimento a persone dedite all’annunzio per raccogliere i figli di Dio dispersi (Gv 11,52).

A livello personale tale Parola ci invita a considerare la qualità del nostro ascolto e a verificare se il nostro cuore è pronto a udire la voce del Signore. Solo tale ascolto ci rende discepoli e annunziatori, e non un’appartenenza formale, fosse anche di carattere religioso.


17 Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo.


Gesù riprende ora a parlare della sua morte sacrificale e la rivela come la motivazione (“per questo”) dell’amore del Padre per Lui. Per questo il Padre lo ama, perché pone la sua anima. Porre la propria anima significa consegnarsi volontariamente alla morte sacrificale. Egli non oppone nessuna resistenza (cfr. Is 50,5) al rivelarsi dell’amore del Padre nella sua morte. Ma dal momento che Egli muore immerso nell’amore del Padre, Gesù non è dominato dalla morte, è libero tra i morti (Sal 88,6) e quindi “riprende la sua anima”, cioè libera se stesso dal luogo della morte. Egli pertanto dichiara a coloro che vogliono farlo morire che Egli non muore perché costretto dalle loro insidie, ma perché si consegna alla morte per manifestare che il Padre lo ama come il suo Unigenito, e in Lui come Primogenito il suo amore raggiunge ciascuno di noi.


18 Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».


Nessuno ha il potere di privare il Cristo della sua vita. Il Verbo facendosi Carne ha svuotato se stesso (Fil 2,7), ma nessuno, senza che Egli lo voglia, può prendergli la vita. Egli la pone da se stesso, cioè la consegna liberamente. A differenza di noi uomini, Gesù non perde il potere nel momento della morte e, durante la sua morte, Egli conserva questo suo potere al punto che può riprendere la sua vita. Questo suo potere si fonda sul comando ricevuto dal Padre suo, cioè sul suo essere Dio come Figlio. «Quando infatti si dice che il Figlio ha ricevuto dal Padre ciò che Egli è per la sua sostanza, con le parole: Come il Padre ha la vita in se stesso, così ha dato al Figlio di avere la vita in sé (Gv 10,17-18), in quanto il Figlio stesso è vita, non si diminuisce la sua potestà, ma si rende manifesta la sua generazione» (Agostino, Commento vangelo di Giovanni, XLVII,4).

Quanto dice il Signore ci rivela uno dei caratteri fondamentali dell’amore: la libertà. Il vero amore è libero da costrizioni che ne snaturano il valore. L’educatore, ad imitazione di Cristo e come ha fatto Don Bosco, deve essere libero da condizionamenti che non lo rendono gratuito e dunque credibile: il nostro fondatore ha raccomandato tale dedizione totale perché lui stesso per primo l’ha realizzata: «Ho promesso a Dio che fin l’ultimo mio respiro sarebbe stato per i miei poveri giovani» (Memorie Biografiche XVIII, 258). Tale esempio invita alla vigilanza per essere imitatori di Don Bosco, sfuggendo all’insidia di cercare gratificazioni di varia natura per essere segno trasparente dell’amore gratuito di Cristo.



Per riflettere


  • Ti identifichi nel Buon Pastore che dona la vita, si prende cura del gregge, riconduce le pecore disperse, chiama quelle distanti ad entrare nel recinto del Signore?

  • Sei convinto che solo l’imitazione di Cristo Pastore ti rende pastore dei giovani e di coloro che il Signore ti fa incontrare?

  • Domandi al Signore la libertà spirituale per essere educatore dedito totalmente al suo gregge, senza essere dominato dall’interesse che anima il mercenario?


APRILE 2013


«Nessuno le strapperà dalla mia mano»

Gv 10, 24-30




Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: «Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente». Gesù rispose loro: «Ve l’ho detto, e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me. Ma voi non credete perché non fate parte delle mie pecore. Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».



In quel tempo, 24 i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: «Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente».


La scena si svolge nel Tempio, luogo dell’incontro con Dio del credente che viene a cercare anelante il suo Volto (Sal 27,8-9; 24,6; 105,4). La domanda non è dettata dal desiderio di incontro ma è una malevola messa alla prova come accade diverse volte nella vita del Signore (Gv 8,1-6; Mt 19,3-9 e par.; 23,34-40 e par.). La stessa domanda viene posta durante il processo davanti al Sinedrio (Mt 26,63 e par.). Precedentemente il Cristo aveva già rivelato apertamente la sua identità di Buon Pastore, ma la sua Parola di vita non è stata accolta, anzi è stata interpretata come mortifera (letteralmente il testo dice: «Fino a quando ci toglierai il respiro, la vita?»). La Parola di Cristo, per coloro che gli resistono, è sentita come inquietante. Come detto nel Salmo (22,17), i nemici del Messia lo circondano minacciosamente.

Per colui che vuole intenderlo, Cristo parla sempre apertamente (Gv 16,25.28; 18,20), con parresía, e, imitandolo, anche il credente fa lo stesso quando lo annunzia (At 4,13.29.31).


25Gesù rispose loro: «Ve l’ho detto, e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me. 26Ma voi non credete perché non fate parte delle mie pecore.


Il Signore, conoscendo il cuore dell’uomo, rivela la radice della cecità spirituale: l’incredulità (già prima Gv 9,39-41). Tale mancanza di fede ha diversi modi di manifestarsi ma nasce sempre dal rifiuto di consegnarsi al Signore accettandone la rivelazione senza preclusioni. Vorremmo che Lui si manifestasse a modo nostro, secondo le nostre voglie, secondo l’immagine che noi ci siamo fatti di Lui: il che è idolatria che non ci consente di incontrarlo.

Cristo ha compiuto le opere del Padre, che sono i segni che rivelano la sua identità. La fede dona gli occhi per coglierne il significato e così conoscere l’amore di Cristo (Ef 3,19).


27 Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.


Dopo aver dichiarato ai Giudei che essi non appartengono al suo gregge, Gesù definisce ora chi sono le sue pecore e quali siano i caratteri del credente.

Anzitutto chi gli appartiene ascolta la sua voce. Qui ascoltare significa non semplicemente udire superficialmente, ma avere quell’interiore attenzione che è propria di colui che è dalla verità (cfr. 18,37). Se è vero che ogni uomo è menzogna (Sal 115,11), essere dalla verità deriva da un’interiore mozione dello Spirito che porta ad ascoltare la voce del buon Pastore. I Giudei resistono per non dare l’assenso della fede. Poiché potevano non darlo, non vollero darlo. Essi avevano il potere di darlo, ma, dal momento che erano liberi, scelsero il rifiuto per non dovere accogliere Gesù come il Cristo e consegnargli quella vigna che tenevano più come padroni che come custodi (Mt 21,33-46 e par.).

I suoi invece gioiscono nell’udire la sua voce e nell’essere da Lui conosciuti. Il discernimento spirituale consiste proprio nel riconoscere la voce di Cristo, distinguendola da tutte le altre voci che sono espressioni della voce del Tentatore.

Gesù precede il credente con la sua conoscenza perché, conoscendolo, lo chiama per nome (cfr. 20,16) e lo fa essere suo. Il nostro esistere è l’essere conosciuti e posseduti dal Cristo fin dall’eternità perché a Lui consegnati dal Padre nello Spirito. I suoi, attratti dal profumo dello Spirito, che è versato in forza del nome di Gesù, lo seguono; anzi da Lui attirati, corrono (cfr. Ct 1,3-4) e vengono condotti ai pascoli di vita eterna.

Gesù vuole vincere ogni resistenza dei Giudei che, invece di seguirlo, lo stanno circondando. Egli vuole mostrare loro che è in mezzo a loro come il Pastore in mezzo al popolo del suo pascolo, al gregge della sua mano (Sal 94,7). Ma essi si chiudono in un duro rifiuto.

Commenta André Louf: «Gesù pastore, questa immagine si conferma innanzitutto attraverso il fatto che, secondo l’usanza dei pastori del suo tempo, Gesù cammina sempre davanti al suo gregge. Lo stesso è successo a Pasqua quando ci ha preceduto per primo nella morte, per poi risuscitare dalla morte, anche in questo caso per primo. Tuttavia, questo non basterebbe a spingerci a seguire allegramente le sue orme. C’è di più. Bevendo fino in fondo il calice dello sconforto umano, nella sua morte, Gesù ha creato un legame indistruttibile con ogni essere umano. Infatti la sua morte è stata in primo luogo la nostra e non la sua, talmente nostra che Gesù, da giusto qual era, avrebbe potuto essere dispensato da una simile fine se non avesse scelto liberamente che così fosse per sostenere fino a tal punto il legame che lo teneva unito alla nostra umanità di peccatori: egli si è davvero fatto carico dei nostri errori in questo modo, ha guarito le nostre ferite (Is 53,11) semplicemente con l’amore. Di questa intimità tra lui e ogni sua pecora restano per sempre alcune tracce. Innanzitutto, egli si accerta che le pecore lo sappiano riconoscere, non con la testa, a forza di argomentazioni e di prove, ma, più semplicemente, con un certo presentimento del cuore. Ogni battezzato ha ricevuto questo presentimento, che è più di un sentimento superficiale, al momento del battesimo, come un nuovo senso, un istinto divino, un fiuto spirituale che gli permetterà, ogni volta che sarà necessario, di identificare Gesù pastore ovunque egli si mostrerà, e anche dove si nasconde temporaneamente» (Beata debolezza. Omelie per la domenica. Anno C, Ed. Messaggero, Padova 2000, 124).


28 Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.


Poiché è volontà del Padre che non si perda nessuno di coloro che sono affidati al Cristo (6,39; 17,12; 18,9), il Signore garantisce la sua protezione per cui il credente si sente nelle mani del Forte. Questi infatti porta gli agnellini nel seno e conduce pian piano le pecore madri (Is 40,11). Dicendo “nessuno” vi è soprattutto un riferimento al lupo, l’avversario, che vuole dilaniare il gregge del Signore. Ancora una volta vi è qui una promessa di pace per cui – pur nella tribolazione, nella prova, nella minaccia del Nemico – il credente vive nella sicurezza che Dio lo conduce (Sal 78(77), 52-53) e che niente potrà separarlo da Cristo (Rm 8,35-39).


29 Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre.


Il versetto si presenta di difficile lettura. Va qui rilevato che la custodia delle pecore è frutto della relazione tra il Padre e il Figlio. Si può affermare che sia la stessa relazione trinitaria a custodire il gregge, il che si dovrebbe riflettere nella vita della Chiesa dove i fratelli vigilano vicendevolmente gli uni sugli altri come segno dell’amore trinitario che anima la comunità ecclesiale.


Io e il Padre siamo una cosa sola».


Richiama il vertice della professione di fede (Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno), in cui nella parola Uno vi è sia il Padre che il Figlio. L’Uno imperscrutabile, termine supremo del grido della fede e apice della rivelazione, è a noi rivelato dal Figlio nell’intimo. Il Figlio che è nell’Uno e viene dall’Uno ci rivela il mistero nascosto nell’Uno. Mosè aveva contemplato l’Uno dall’esterno e lo aveva consegnato a Israele come sua professione di fede, il Figlio ci rivela l’Uno dall’interno e ci apre la via perché anche noi diveniamo partecipi della stessa vita divina cioè essere uno, come il Padre e il Figlio sono Uno (Gv 17,11), nella vita fraterna.


Per riflettere


  • Comprendi che il Signore ti fa sentire la sua voce, ti chiama per nome, ti custodisce dal nemico? Oppure ti rifiuti di ascoltarlo, rimanendo schiavo delle tue paure?

  • Sei consapevole del fatto che, in quanto educatore pastore, devi prima essere alla sequela di Cristo che cammina dinanzi a noi per guidarci e salvarci?





MAGGIO 2013


«Qualsiasi cosa vi dica, fatela»

Gv 2, 1-11




Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».

Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora».

Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.



1 Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. 2 Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli.


Il fatto delle nozze è un richiamo alle origini. L’unione tra Dio e il suo popolo è spesso presentata nelle Scritture con immagini nuziali (Os 2,21-25; Ap 19,7; 21,2; 22,17). Le nozze sono il luogo dove si manifesta la gloria del Signore, attraverso il segno. Quindi queste nozze diventano il luogo dove si rivelano le nozze preannunziate dai profeti e che ora si compiono per la presenza di Gesù e della madre sua.

L’Evangelo rileva che è presente la madre di Gesù. Essa è presente in Giovanni nel principio dei segni e ai piedi della croce (19,25-26), ossia in due momenti decisivi di rivelazione della Gloria del Figlio.

L’utilizzo della pericope nella Liturgia del matrimonio ha un legame forte con la presenza di Maria. Commenta Cirillo d’Alessandria: «Quando si celebrano nozze, naturalmente purché siano caste e oneste, di sicuro è presente la Madre del Salvatore, ma lui stesso viene con i suoi discepoli se è invitato, e non tanto per prendere parte al banchetto quanto per compiere il miracolo, e inoltre per santificare il principio stesso della procreazione, che di sua natura è cosa che concerne la carne» (Commento al Vangelo di Giovanni, II).

Maria, come dirà Gesù, è la donna. Quindi su di lei si sposta l’attenzione e sul suo intervento. Questo scaturisce dal mistero sponsale della Chiesa che trova in Maria la sua immagine più pura.

A queste nozze fu chiamato Gesù e con Lui i suoi discepoli, affinché dinanzi a loro riveli la sua Gloria.


3Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino».


Che il vino venga a mancare, è cosa assai grave, se la Madre lo fa notare al Figlio. In Qo 9,7-9 è detto: Va’, mangia con gioia il tuo pane, bevi il tuo vino con cuore lieto, perché Dio ha già gradito le tue opere. In ogni tempo le tue vesti siano bianche e il profumo non manchi sul tuo capo. Godi la vita con la sposa che ami per tutti i giorni della tua vita fugace, che Dio ti concede sotto il sole, perché questa è la tua sorte nella vita e nelle pene che soffri sotto il sole.

La mancanza del vino è segno di tristezza: alla festa nuziale viene tolta una componente essenziale della gioia, perché il vino rallegra il cuore dell’uomo (cfr. Sal 104,15).

Possiamo quindi dire che questa parola esprime la fede della Madre nel Figlio. La sua fede non si esprime chiedendo ma constatando: se avesse chiesto avrebbe obbligato il Figlio, poiché constata lo lascia libero. Tuttavia questo non è indifferenza, al contrario, è un grado più sublime di amore.

Inoltre tale constatazione rivela attenzione nei confronti degli altri: anche se il testo non accentua tale aspetto, in Maria si rivela quella cura dei particolari che è indice di attenzione ai bisogni altrui. È quello che ricordiamo nell’Eucaristia quando domandiamo: «Donaci occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli» (Preghiera eucaristica V/c). “L’occhio di Cana” è la caratteristica distintiva di colui che sa cogliere quando occorre portare la gioia di Cristo. Questo, per un educatore ammaestrato come Don Bosco dalla santa Madre di Dio («Io ti darò la maestra»), è un atteggiamento da imparare da colei che veglia sui figli e li vuole liberi dalla tristezza. Proprio perché vigila sui figli essa è Madre. Così Don Bosco l’ha sempre presentata ai suoi figli nella sua Casa.

Tale “occhio” è anche dei discepoli che devono imitare il Figlio che dice nella moltiplicazione dei pani (Mc 8,2): «Non hanno da mangiare».


4 E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». 5 Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».


«Che c’è tra me e te, o donna? ». Così commenta Agostino: «Gesù nel momento di compiere un’opera divina, sembra non riconoscere le viscere umane, quasi dicesse: Quel che di me compie il miracolo non l’hai generato tu, tu non hai generato la mia natura divina» (Trattati su Giovanni, VIII, 9). La relazione tra il Figlio e la Madre non è fondata su legami parentali (cfr. Mc 3,31-35 e par.), ma sulla fede in quanto Maria genera il Verbo in virtù di una Parola accolta (cfr. Lc 1,38). Se da una parte Cristo con queste parole proclama la sua signoria, dall’altra chiamando la madre Donna le riconosce un ruolo che affonda le sue radici in Gn 3,15 e che trova in Ap 12 la sua attuazione. La Madre di Gesù qui impersona la fede della Chiesa, che supplica la rivelazione della sua Gloria in questo tempo (cfr. Ap 22,17.20); nella mancanza del vino è significata la mancanza della gioia e quindi il momento della tribolazione. Ma la rivelazione del Cristo è determinata dalla volontà del Padre, per questo Egli dice: «Non è ancora giunta la mia ora». Come lo dice alla Madre così lo dice alla Chiesa.

Il fatto che non sia giunta la sua ora non toglie il desiderio dal cuore della Madre e della Chiesa e non impedisce al Cristo di manifestare la sua Gloria nell’economia sacramentale.

Dopo la risposta del Figlio, la Madre si rivolge ai servi (diakonoi), a coloro che amministrano il vino sulla mensa. È questa l’unica parola che per sempre la Santa Madre di Dio rivolge a tutti i discepoli che servono il Figlio: l’invito all’obbedienza. La Madre mette a contatto i servi con Gesù comandando loro di obbedirgli in tutto. Essa li sostiene nella fatica che stanno per compiere perché non vengano meno nell’obbedienza al suo Figlio. La Madre di Gesù è così immagine della Chiesa che, certa di essere esaudita, sostiene con la sua fede la fatica dei suoi ministri perché compiano l’opera del ministero con la fiducia che il loro sforzo non sarà vano.


6 Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri.


Le giare di pietra hanno quindi un carattere sacro: esse contengono acqua ritualmente pura di cui i giudei di quella casa si servono per quelle purificazioni che sono prescritte, come anche ci è riferito in Marco 7,3-4. Ci si può chiedere perché il Signore se ne serva. Vi è in Lui un preciso riferimento al loro uso rituale? Il Signore sceglie recipienti ritualmente puri e già destinati a un uso religioso per compiere il segno. Egli agisce in quanto nato da donna, nato sotto la legge (Gal 4,4). Egli opera sottomettendosi alla Legge per portarla a compimento. L’acqua per la purificazione cede il posto al vino nuovo e il rito antico è sostituito con il bere alla coppa misteriosa. Nella continuità vi è la novità.


7 E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo.


È cosa ammirevole come i servi obbediscano prontamente a Gesù sottoponendosi a questa grande fatica di riempire le sei giare fino all’orlo versandovi circa 400-700 litri d’acqua. L’Evangelo registra la loro pronta e perfetta esecuzione del comando del Signore sostenuti in questo dalla Madre di Gesù.

In questo momento essi agiscono con fede, avvertendo misteriosamente la potenza di colui che comanda tanto da non poter disobbedire.

L’enorme quantità indica la sovrabbondanza dei beni messianici come è detto nel profeta Amos: Dai monti stillerà il vino nuovo e colerà giù per le colline (Am 9,13).


8 Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono.


In questa casa i servi hanno quindi un ruolo importante perché di essi si serve il Signore per compiere il suo segno. Egli non vuole compiere da solo l’opera di Dio, ma cerca anche l’opera nostra. Sua è l’iniziativa, sua è la potenza, ma egli cerca la collaborazione di coloro che lo seguono. È quanto avviene negli episodi in cui Gesù sfama le folle (Gv 6,1-15; Mt 14,13-21; Mc 6, 30-44; Lc 9, 10-17) e invita i discepoli a distribuire il pane da lui donato. Qui avviene per il vino, sicché i discepoli di Cristo (soprattutto coloro che hanno ricevuto un ministero legato all’Eucaristia) sono lo strumento per cui la famiglia di Dio viene sfamata dal pane e dal vino eucaristici. Essi devono chiedere al Signore la docilità all’obbedienza affinché il Signore completi in loro l’opera sua (Sal 138(137),8). Inoltre in ciò si rivela come il dono di Dio sia dato in un contesto comunitario: la Grazia non può essere trasmessa senza la mediazione della Chiesa, Sposa di Cristo.


9 Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo 10 e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora».


Il capotavola, gustando, sa che questo è il vino buono ma non sa donde sia. Il fatto che non ne conosca l’origine serve per la testimonianza: questo è il vero vino. I servi sanno che quel vino viene dalle giare piene di acqua e non da un’altra parte. Lo sanno i servi che hanno assistito Cristo nella sua opera. Coloro che, obbedendo alla sua Parola, compiono l’opera che il Signore comanda, contemplano le sue meraviglie, sono testimoni della sua Gloria.


11 Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.


Questo inizio dei segni fece Gesù. L’espressione richiama l’inizio della Scrittura: In principio Dio fece il cielo e la terra (Gn 1,1). Come all’inizio della creazione stanno il cielo e la terra, così questo inizio dei segni rivela che è lo stesso Signore che ora manifesta la sua gloria a Cana di Galilea. Così commenta Agostino: «Chi in quel giorno, durante le nozze, produsse del vino in quelle sei anfore che aveva fatto riempire d’acqua, è quello stesso che ogni anno fa ciò nelle viti. Ciò che i servi avevano versato nelle anfore, fu cambiato in vino per opera di Dio, come per opera del medesimo Dio si cambia in vino ciò che cade dalle nubi» (Trattati su Giovanni, VIII, 1).

“Segno” ha valore di rivelazione dell’identità di Cristo come Colui che, Sposo atteso dal suo popolo, dona la gioia della presenza di Dio. L’Evangelo è presenza di Cristo nella Chiesa, è infatti potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede (Rm 1,16). Il manifestarsi della potenza di Dio nell’Evangelo richiede la fede, per questo dice che credettero in Lui i suoi discepoli.

Questi, che già si sono posti alla sua sequela, con tale inizio dei segni credono in Lui, iniziano quel cammino che, passando attraverso i segni, li porta a una piena conoscenza di Lui.


12 Dopo questo fatto, discese a Cafarnao insieme con sua madre, i fratelli e i suoi discepoli e si fermarono colà solo pochi giorni.


Dopo questo, dopo l’inizio dei segni in Cana di Galilea, discese a Cafarnao.

Origene fa questa stupenda osservazione: «Nessuno dei tre evangelisti, registrando per la prima volta i prodigi operati a Cafarnao, fa l’osservazione che fa il discepolo Giovanni a proposito della prima azione di Gesù da lui narrata: Questo principio dei segni fece Gesù in Cana di Galilea (2,11). I prodigi operati a Cafarnao non rappresentavano infatti il principio dei segni, perché l’elemento principale dei miracoli del Figlio di Dio è la gioia. Il Logos non manifesta tanto la sua bellezza nel curare i malati (cioè nel porre rimedio a qualcosa di male che – tuttavia - sopravviene agli uomini in modo accidentale) quanto piuttosto nel rallegrare con la bevanda sobria coloro che sono sani e sono, quindi, in grado di dedicarsi alla letizia del banchetto» (Commento al Vangelo di Giovanni, X, 12, 64). La rivelazione raggiunge l’apice nel dono dello Spirito i cui frutti sono amore, gioia e pace (Gal 5,22).





Per la riflessione


•Quale spazio occupa la Santa Madre di Dio nella nostra vita personale e comunitaria? Ci rivolgiamo a lei con fiducia?

•Custodiamo il dialogo con lei tramite la richiesta di pregare per noi, nel Rosario e in altri modi?

•Comprendiamo che è lei la Madre nostra e dei nostri giovani, la custode della Casa?

•Siamo capaci di accogliere il comando che rivolge ai discepoli riguardo al Figlio: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela»?