Educare come Don Bosco 2012-2103, Meditazione 4 - Speranza

GENNAIO 2013


MEDITAZIONE SULLA SPERANZA


1.- Cosa possiamo aspettare?


L’esortazione apostolica postsinodale Ecclesia in Europa, nella quale Giovanni Paolo II riprendeva i lavori e le conclusioni del Sinodo dei Vescovi in preparazione al grande Giubileo del Duemila, dice: “Lungo il Sinodo, man mano si è resa evidente una forte tensione verso la speranza. Pur facendo proprie le analisi della complessità che caratterizza il continente, i padri sinodali hanno colto come l’urgenza forse più grande che lo attraversa, a Est come ad Ovest, consiste in un accresciuto bisogno di speranza, così da poter dare senso alla vita e alla storia e camminare insieme” (EiE, n. 4).

Il Magistero pontificio più recente ha preso proprio la speranza come tema centrale. L’Enciclica di Benedetto XVI “Spe Salvi” offre preziosi elementi per arricchire la nostra riflessione su questa virtù teologale ed è chiaro che, tra altre intenzioni, una delle più importanti è quella di offrire una risposta, dalla prospettiva dell’identità cristiana, a questo bisogno che non è soltanto europeo, ma mondiale. Un testo fra tanti: “Così ci troviamo nuovamente di fronte alla domanda: che cosa possiamo sperare? È necessaria un’autocritica dell’età moderna in dialogo col cristianesimo e con la sua concezione della speranza” (Spe Salvi, 22); anche se precisa: “bisogna che nell’autocritica dell’età moderna confluisca anche un’autocritica del cristianesimo moderno” (ibidem).

Guardando la Congregazione a livello mondiale, non possiamo negare che questo “accresciuto bisogno di speranza” si costata anche nei nostri ambienti: certamente in maniera diversificata. La scarsità delle vocazioni, tranne in qualche regione della geografia salesiana; la fragilità formativa delle nuove generazioni; la problematica della gioventù odierna, stimolata ancor di più da fattori esterni come la violenza, la droga, le antiche e nuove povertà; e, ancor più in profondità, l’indebolimento della passione apostolica e l’assunzione di modelli di vita religiosa non sempre secondo l’ideale evangelico, sono alcuni degli elementi che non ci permettono di vedere con molta chiarezza ed entusiasmo il futuro.

L’insistenza della Congregazione nel “ripartire da Don Bosco per risvegliare il cuore di ogni salesiano” attorno all’identità carismatica e la passione apostolica, presuppone questa problematica e vuole metterci in allerta di fronte ad essa.

Sappiamo bene che la speranza è generata dalla fede e sostiene l’amore. Ciò nonostante, può anche succedere che la fede, proprio perché si fonda su una realtà storica concreta, paradossalmente può bloccarsi di fronte alla speranza, chiudendosi nel dolore del ricordo.


Mi sembra che questa situazione sia chiaramente “dipinta” nel racconto biblico della vocazione di Gedeone:

Ora l’angelo del Signore venne a sedere sotto il terebinto di Ofra, che apparteneva a Ioas, Abiezerita; Gedeone, figlio di Ioas, batteva il grano nel tino per sottrarlo ai Madianiti. L’angelo del Signore gli apparve e gli disse: “Il Signore è con te, uomo forte e valoroso!”. Gedeone gli rispose: “Signor mio, se il Signore è con noi, perché ci è capitato tutto questo? Dove sono tutti i suoi prodigi che i nostri padri ci hanno narrato, dicendo: il Signore non ci ha fatto uscire dall’Egitto? Ma ora il Signore ci ha abbandonati e ci ha messi nelle mani di Madian”. Allora il Signore si volse a lui e gli disse: “Va’ con questa tua forza e salva Israele dalla mano di Madian; non ti mando forse io?”. Gli rispose: “Signor mio, come salverò Israele? Ecco, la mia famiglia è la più povera di Manasse e io sono il più piccolo nella casa di mio padre”. Il Signore gli disse: “Io sarò con te e tu sconfiggerai i Madianiti come se fossero un uomo solo” (Gdc 6, 11-16).

È evidente che Gedeone ha fede, cioè è convinto dell’intervento di Dio a favore del Suo popolo… nel passato! Manca però la speranza, la certezza che Dio non l’ha abbandonato, ma continua ad essere “Dio-con-noi” consentendoci di guardare con fiducia il futuro. Per questo Gedeone viene invitato a collaborare con Dio e a non lamentarsi della Sua apparente “assenza”.

Oppure possiamo sentirci come il Popolo d’Israele in esilio mentre ricorda le meraviglie divine del passato:

O Dio, con i nostri orecchi abbiamo udito, i nostri padri ci hanno raccontato l’opera che hai compiuto ai loro giorni, nei tempi antichi (…) Ma ora ci hai respinti e coperti di vergogna, e più non esci con le nostre schiere (…) Tutto questo ci è accaduto e non ti avevamo dimenticato, non avevamo tradito la tua alleanza. Non si era volto indietro il nostro cuore, i nostri passi non avevano lasciato il tuo sentiero (Salmo 44, 2. 10. 18-19).



2.- La Speranza di fronte alla “Postmodernita’”


La situazione attuale a livello mondiale, soprattutto nella “cultura giovanile”, non facilita la speranza.

Dal punto di vista fenomenologico possiamo sottolineare, tra gli altri, tre tratti fondamentali della speranza, come atteggiamento umano:

* tende verso il futuro, mostrando così il dinamismo proprio dell’essere umano, sempre proteso in avanti: “finché c’è vita, c’è speranza”! Senza dimenticare il mito “del vaso di Pandora”, possiamo dire con Aristotele che la speranza è “il sogno dell’uomo sveglio”;

* pone sempre di fronte un orizzonte positivo: non tutto quello che verrà è “degno di speranza”; potrebbe anche essere motivo di paura o di angoscia;

* include un elemento di “passività” (attesa), ma anche un atteggiamento di fiducia nel vivere questa attesa (sperare) 1.


Dobbiamo riconoscere che, insieme a questa dinamica di futuro, insita nel più profondo dell’essere umano, c’è anche un pericolo: non vivere, nel senso più positivo, il momento presente. A questo proposito, dice Pascal:

Non ci atteniamo mai al presente; noi anticipiamo il futuro come se esso fosse troppo lento ad arrivare, come se volessimo accelerarne il corso; ricordiamo il passato per trattenerlo come se fosse troppo veloce a scomparire; siamo così stolti che vaghiamo in tempi che non sono nostri e trascuriamo l’unico che ci appartiene, e siamo così fatui che pensiamo a quelli che non sono nulla e lasciamo passare senza porvi mente l’unico che esiste… Non pensiamo quasi mai al presente, e se lo facciamo è soltanto per ricavarne una luce per poter disporre del futuro. Il presente non è mai il nostro scopo; passato e presente sono i nostri mezzi, ma soltanto il futuro è il nostro scopo. Perciò non viviamo mai, ma speriamo di vivere, ed è quindi inevitabile che, preparandoci sempre a essere felici, non lo siamo mai” (Pensieri, n. 172) 2.


Purtroppo nella postmodernità l’esperienza umana della temporalità è diventata particolarmente problematica.

Il Rettor Maggiore, nella sua conferenza ai Superiori Generali, faceva quest’analisi:


L’essere umano, pur vivendo sempre al presente (è una verità lapalissiana), è un "essere di futuro" (E. Bloch, W. Pannenberg): per natura propria, è collocato di fronte all’utopico, a quello che ancora non "ha luogo" nel nostro mondo e nella storia. Questo si può dire, a fortiori, delle generazioni giovani, che portano questo orientamento verso il futuro nella loro stessa identità psicosomatica, iscritto fin nella cellula più “umile”.

Perciò constatiamo nella situazione postmoderna una tragedia: la minaccia del futuro, che incombe sull'umanità, colloca soprattutto la generazione dei giovani davanti ad una contraddizione esistenziale: da un lato essa avverte un'esigenza irresistibile di un orizzonte di futuro e dall’altro soffre per la carenza di questo orizzonte. Se a questo aggiungiamo il rifiuto del passato da parte della cultura giovanile attuale, possiamo capire la sua sensazione di essere “rinchiusa” nello spazio minimo che gli permette il presente, senza altra soluzione che tentare di "vivere l'istante che fugge" (l'attimo fuggente).

Questa minaccia si manifesta su due fronti. Da un lato c’è quella che J. Moltmann ha chiamato “la perdita dell'innocenza atomica". Sappiamo – e le notizie più recenti ce lo ricordano ancora – che da alcuni decenni, per la prima volta nella storia del mondo e dell’uomo, esiste la possibilità reale che l’umanità intera sparisca, come conseguenza di una conflagrazione nucleare decisa da poche persone. Il fatto che i capi delle nazioni giungano ad eventuali accordi su questo tema non elimina il pericolo. Come dice lo stesso Moltmann, non recupereremo mai l'innocenza perduta. "L'epoca in cui viviamo è, anche se dovesse durare all’infinito, l'ultima epoca dell'umanità... Viviamo nel tempo della fine, e cioè di quella epoca in cui ogni giorno possiamo provocare la sua fine".

Dall'altro – e non totalmente slegata dalla precedente - troviamo la minaccia del degrado ecologico, universale e irreversibile: pensiamo all'inquinamento dell'aria, alla diminuzione dell'acqua dolce, alla distruzione dei boschi, al vertiginoso sfruttamento di energetici non rinnovabili. Come dice sempre Moltmann, "tutti siamo uguali... di fronte al buco dell’ozono."

Questa "soppressione dal di fuori" dell'orizzonte di futuro è un fattore tipico del nostro tempo ed è fondamentale per comprendere l’ossessivo attaccamento al presente, il bisogno di “soddisfazioni” immediate che caratterizza l'era postmoderna. Non è la stessa cosa "voler vivere l'oggi” nella prospettiva del domani oppure doversi ancorare nell'oggi perché forse il domani non ci sarà ... Qualche giorno fa un giornale, recensendo un libro del Premio Nobel della Letteratura, lo scrittore ungherese Imre Kertész, poneva questo interrogativo: “È possibile avere figli dopo Auschwitz?”, evocazione della celebre frase: “È possibile credere in Dio dopo Auschwitz?”. È la domanda che oggi si pongono tanti giovani di fronte al matrimonio e alla famiglia: non con un’illusione d’altri tempi, bensì con l'angoscia di fronte al futuro nel quale toccherà loro vivere; vale dunque la pena portare nuovi esseri al mondo?

È indubbio che questa "privazione di futuro", in un senso molto diverso, colpisce anche la vita consacrata, in particolare le nuove generazioni” (Per una vita consacrata fedele. Sfide antropologiche alla formazione, USG maggio 2006, 21-23).

La “modernità”, a questo riguardo, potrebbe essere descritta come l’atteggiamento di chi, rifiutando il passato, si proietta verso il futuro, e mette tutte le sue aspettative nel futuro; la postmodernità, invece, sarebbe una reazione di fronte all’ingenuo ottimismo moderno: come un ubicarsi, il più serenamente possibile, nel presente, e vivere il “carpe diem”. Uno dei testi biblici più “attuali”, secondo me, è la testimonianza dell’anziano Eleàzaro, durante la guerra maccabea:


Non è affatto degno della nostra età fingere, con il pericolo che molti giovani, pensando che a novant’anni Eleàzaro sia passato agli usi stranieri, a loro volta, per colpa della mia finzione, durante pochi e brevissimi giorni di vita, si perdano per causa mia e io procuri così disonore e macchia alla mia vecchiaia (…) Perciò, abbandonando ora da forte questa vita, mi mostrerò degno della mia età e lascerò ai giovani nobile esempio, perché sappiano affrontare la morte prontamente e generosamente per le sante e venerande leggi”. Dette queste parole, si avviò prontamente al supplizio (…) In tal modo egli morì, lasciando non solo ai giovani ma alla grande maggioranza del popolo la sua morte come esempio di generosità e ricordo di fortezza” (2 Mac 6, 24-25. 27-28. 31).



3.- La Speranza nella Rivelazione Biblica


A differenza di altre concezioni della vita e della storia, l’esperienza di Israele plasmata nella Bibbia presenta Dio come un “Dio di esodi”, che fa uscire sempre dalla sicurezza del presente verso un futuro promettente (nel senso più pieno della parola, in quanto oggetto della promessa), ma sempre insicuro: se non c’è la fede, non ha senso neanche questo dinamismo di futuro e di esodo. “Se avessero pensato a quella (patria) da cui sono usciti, avrebbero avuto possibilità di ritornarvi; ora invece aspirano a una migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non disdegna di chiamarsi loro Dio: ha preparato infatti per loro una città” (Eb 11, 15-16).

Tutta la storia di Israele può essere vista, per la fede in Dio, come una tensione costante verso il futuro, con una configurazione chiara: fiducia nel compimento delle promesse del Dio fedele (fides – fidelitas – fiducia – spes), centrata nell’Alleanza.

La mancanza di fede si traduce, simmetricamente, nella disperazione, le due facce opposte della stessa moneta e, di conseguenza, nel voler ritornare verso il passato: “Fossimo morti per mano del Signore nel paese d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatti uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine” (Es 16, 3 et passim).

L’intera storia del Popolo di Israele è “attraversata” dalla promessa di Dio. Malgrado l’infedeltà e l’ingratitudine degli israeliti, i profeti pre-esilici, soprattutto Geremia, pur minacciando il castigo di Dio e la distruzione dell’Alleanza a causa dell’infedeltà (cfr. Ger 13; 19), annunciano sempre una Nuova Alleanza (Ger 31, 31ss.; Ez 36, 24ss; Deuteroisaia…).

Nella straordinaria visione di Ez 37 le ossa inaridite sono il simbolo più eloquente: “Figlio dell’uomo, queste ossa sono tutta la gente d’Israele. Ecco, essi vanno dicendo: Le nostra ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti. Perciò profetizza e annunzia loro: Dice il Signore Dio: Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nel paese d’Israele” (Ez 37, 11-12).

Nel Nuovo Testamento, invece, più che in una citazione puntuale si può cercare il compimento definitivo (“escatologico”) della promessa di Dio nell’avvenimento stesso di Cristo. Certamente dalla morte di Gesù ci accorgiamo, drammaticamente, che i pensieri di Dio non sono i pensieri umani (cfr. Is 55, 8ss.).

Per chi crede nel “Dio di Gesù Cristo”, “la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito (…) Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rom 5, 5-6). Per questo, “Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo; nella sua grande misericordia egli ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi, che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, per la vostra salvezza, prossima a rivelarsi negli ultimi tempi” (1 Pt 1, 3-5).


Significativamente troviamo i tre tempi: il passato della fede, il futuro della speranza, e il presente della fedeltà di Dio e del nostro impegno nell’amore (cfr. i seguenti versetti, 1 Pt 1, 6-9).

Uno degli scritti del NT che più chiaramente sviluppa il rapporto tra le tre virtù teologali è la Lettera ai Romani. Sulla speranza, in concreto, si trovano alcuni testi fondamentali:

* In primo luogo, ci presenta la figura di Abramo sotto questa prospettiva: “Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli” (Rom 4, 18).

* Il secondo testo presenta una concatenazione, in certo senso “dal rovescio”, di diverse virtù tipiche del cristiano: “La tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rom. 5, 3b-5).

* Il capitolo 8 ricorda che la speranza guarda verso il futuro: “Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza” (Rom 8, 24-25).

* Verso la fine, nel capitolo 15, ci sono due testi molto belli a questo riguardo: “Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché in virtù della perseveranza e della consolazione che ci vengono dalle Scritture teniamo viva la nostra speranza” (Rom 15, 4). E infine: “Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo” (Rom 15, 13).

Un altro libro del Nuovo Testamento, assai ricco sul tema della speranza, è la lettera agli Ebrei. Il Papa approfondisce nella sua Enciclica soprattutto due testi: 10, 34 e 11,1, dedicando a quest’ultimo un’ampia esegesi (Spe Salvi, nn. 7-9).

Vorrei finire questa piccolissima riflessione biblica con una espressione molto bella di san Paolo: “La carità è paziente (…) tutto spera” (1 Cor 13, 4. 7). Ci ricorda che l’amore va più in là della speranza, proprio perché … è l’unico che può sperare tutto e sempre. In questo senso, possiamo dire, parafrasando Hans Urs von Balthasar, che “soltanto l’amore è degno di speranza”.


4.- Don Bosco, uomo di speranza

È molto significativo costatare che, nella nostra Regola di Vita, troviamo un’inclusione linguistica: abbraccia le Costituzioni nel loro insieme. L’articolo 1 ci indica come certezza di fede che la nostra Missione non è soltanto opera umana, ma anzitutto Volontà di Dio e costituisce “il sostegno della nostra speranza” (Cost. 1). E l’ultimo articolo non parla dell’iniziativa di Dio, ma della nostra collaborazione con Lui, nella realizzazione della Missione a noi affidata: la nostra fedeltà diventa “pegno di speranza per i piccoli e i poveri” (Cost. 196).

Anche se non viene esplicitamente menzionata, la speranza è molto presente nella sezione che delinea l’identità e lo spirito salesiano, soprattutto negli articoli 17-19. Nel contesto dei consigli evangelici la loro presentazione globale viene conclusa con una frase che include, allo stesso tempo, la visione di fede e l’impegno presente: il salesiano è “un educatore che annuncia ai giovani ‘cieli nuovi e terra nuova’, stimolando in loro gli impegni e la gioia della speranza” (Cost. 63).

Così manifestiamo la nostra “figliolanza” rispetto a Don Bosco, un uomo di una straordinaria “capacità di speranza”; o meglio, un uomo che ha saputo integrare alla perfezione le tre dimensioni dell’atteggiamento teologale del cristiano: fede – speranza - carità.

Per non essere generico, richiamerò tre aspetti del modo con cui Don Bosco visse la speranza: “temperamentale” - educativo - teologale.

- Cercando l’unione tra la natura e la grazia (cfr. Cost. 21), senza dimenticare che tutte e due sono doni di Dio, maturò una tendenza temperamentale verso la speranza. Don Bosco dimostra una capacità straordinaria di trasformare le difficoltà in sfide che lo stimolano e lo spingono ad andare avanti; si trova in lui, fino all’ultimo momento della sua vita, l’entusiasmo che deriva da un amore appassionato e apostolico verso i giovani. Egli non è vissuto in tempi facili (in nessun senso); nonostante ciò, non si è mai lamentato, né ha ricordato con nostalgia il tempo passato (cfr. Cost. 17).

- In Don Bosco la speranza è una virtù educativa: chi lavora con ragazzi e i giovani ha bisogno, forse più di tutti, della speranza. Ripercorre infatti l’esperienza menzionata nel salmo 126:

Nell’andare, se ne va e piange, portando la semente da gettare;

ma nel tornare, viene con giubilo, portando i suoi covoni (v. 6).

Ma nell’educazione questo “tornare” accade non dopo alcuni giorni o mesi, ma, nel migliore dei casi, dopo molti anni … Perciò nel lavoro educativo è indispensabile l’attesa e la speranza.

Troviamo di nuovo il rapporto tra la speranza e l’amore: soltanto chi ama può sperare nella persona amata: risuona l’eco della frase paolina: “l’amore tutto spera” (1 Cor 13, 7). Mi piace sottolinearlo con una frase che non è un semplice gioco di parole, ma che esprime una meravigliosa realtà: soltanto chi ci ama può crederci migliori di quel che siamo ed è capace di “sperare” in noi; ma possiamo essere migliori di quel che siamo, soltanto se qualcuno ci ama … Don Bosco fece questo in maniera straordinaria.

- Infine, e non poteva essere altrimenti in un santo come lui, troviamo in Don Bosco una speranza che non si limita a questo mondo e a questa vita. Essa non gli impediva di vivere intensamente il presente: con lo sguardo fisso verso il cielo, procedeva con i piedi ben fissi sulla terra. Sembrano ispirate all’esempio del nostro Padre le parole di Giovanni Paolo II nell’Esortazione Apostolica Vita Consecrata: “Occorre confidare in Dio come se tutto dipendesse da Lui e, al tempo stesso, impegnarsi generosamente come se tutto dipendesse da noi” (VC, n. 73).

Nel suo Testamento spirituale troviamo parole commoventi: “Addio, o cari figliuoli, addio. Io vi attendo al cielo (…) Io vi lascio qui in terra, ma solo per un po’ di tempo. Spero che la infinita misericordia di Dio farà che ci possiamo tutti trovare un dì nella beata eternità. Colà io vi attendo” (Costituzioni, Appendice, pp. 257-8). Anche qui troviamo la dimensione comunitaria della vita eterna, nella quale insiste tanto il Santo Padre: “La nostra speranza è sempre essenzialmente anche speranza per gli altri; solo così essa è veramente speranza anche per me” (Spe Salvi, n. 48).


5.- Conclusione

Ho trovato un racconto molto semplice, ma simpatico e significativo. Una signora anziana si trovava ormai di fronte alla morte, pienamente lucida. La sua più grande amica, che le stava sempre accanto, le chiede: ‘Vuoi qualche cosa di speciale, da conservare con te dopo la morte?’ Lei rispose: ‘Vorrei che mi seppellissero con una forchetta tra le mani. ‘Una forchetta?’ - domandò con stupore l’amica. ‘Sì, una forchetta. Quando andavo a qualche banchetto, terminati i primi piatti conservavo sempre la forchetta perché sapevo che mancava ancora il meglioCosì, a tutti quelli che verranno a pregare e vedere la mia salma, quando domanderanno, come te “perché ha la forchetta in mano?” potrai rispondere, a nome mio: Perché lei sapeva che il meglio… stava ancora per arrivare!’

In fondo, è questa anche la motivazione ultima e più profonda della nostra vita e del nostro lavoro (quello che Don Bosco chiamava, con incantevole semplicità, il “pezzo di paradiso” nel giardino salesiano): “Per il salesiano, la morte è illuminata dalla speranza di entrare nella gioia del suo Signore” (Cost. 54).


1 Praticamente tutte le lingue occidentali conservano questa dualità dell’attesa-speranza: wait-hope, espera-esperanza, warten-hoffen, attendre-espérer…

2 Citato da: JÜRGEN MOLTMANN, Teologia della Speranza, Brescia, Queriniana, 1977, p. 20.

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