1985_BrocardoP_Don_Bosco_Profondamente_uomo_santo


1985_BrocardoP_Don_Bosco_Profondamente_uomo_santo

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STUDI DI SPIRITUALITÀ
A cura dell'Istituto di Spiritualità della Facoltà di Teologia
dell'Università Pontificia Salesiana
5

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PIETRO BROCARDO
DON BOSCO
profondamente uomo · profondamente santo
LAS-ROMA

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«Soltanto un santo in veste moderna
e non un partito
né una concezione del mondo
sarà la scaturigine
della bramata trasformazione della vita».
(W. NIGG)
Seconda ristampa: novembre 1986
Con approvazione ecclesiastica
© Luglio 1985 by LAS - Libreria Ateneo Salesiano
Piazza dell'Ateneo Salesiano, 1 - 00139 ROMA
ISBN 88-213-0112-5
Fotocomposizione: LAS o Stampa: Abilgraf • Roma

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PRESENTAZIONE
Il contenuto di questo volumetto può apparire forse a°lquanto giorna-
listico. Ma non è che una prima impressione.
Con stile rapido ed incisivo l'Autore cerca di evidenziare alcuni tratti
fra i più caratteristici della santità di Don Bosco. Quanti si attendevano
una filiale commemorazione nel cinquantesimo della Canonizzazione
(1934-1984) del grande Educatore del XIX secolo, potranno essere ricono-
scenti al Brocardo per avercela offerta in quest'opera.
In essa non è però dipinta soltanto la figura spirituale di Don Bosco,
«profondamente uomo - profondamente santo». Come in filigrana si sco-
prono le componenti essenziali di ogni santità cristiana, che la rendono
sempre attuale, in aderenza fedele e attenta alla chiamata di Dio, no.n
meno che alle svariate situazioni in cui ciascuno viene a trovarsi.
A buon conto, quindi: si può riconoscere in questo libro un breve sag-
gio di spiritualità, in cui confluiscono intuizione ed esperienza, competenza
e amore.
Pietro Brocardo ci offre in esso il risultato di una vita: un frutto matu-
rato anche in molti anni di studio e di riflessione, di osservazione e di inse-
gnamento presso la nostra Facoltà di S. Teologia, nonché di apprezzata
guida spirituale di molti Confratelli che si sono preparati al Sacerdozio e
alla vita salesiana.
Come espressione di doverosa riconoscenza, abbiamo voluto inserire
questo stimolante volumetto nella serie degli «Studi di Spiritualità».
Roma, 31 gennaio 1985
]VAN PICCA
Direttore dell'Istituto di Spiritualità
della Facoltà di S. Teologia dell'UPS

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SOMMARIO
Presentazione .,.........................................................................................
5
Premessa..................................................................................................
7
INTRODUZIONE .................................................................................
8
Parte Prima: LINEAMENTI ............................................................ .....
17
Capitolo I: La fatica di farsi santo ..............:..........................................
19
Capitolo II: Profondamente uomo .........................................................
30
Capitolo III: Pienamente santo ...............................................................
39
Capitolo W: Taumaturgo che non fa paura ..........................................
45
Capitolo V: Un santo fondatore.............................................................
50
Capitolo VI: Un santo furbo ..................................................................
61
Capitolo VII: Santo allegro .....................................................................
65
Capitolo VIII: Santo con qualche ombra? ............................................. 72
Parte Seconda: DIMENSIONI ESSENZIALI .............................. ........
79
Capitolo I: La mistica del «Da mihi animas» ....................................... 81
Capitolo II: Il lavoro colossale ...............................................................
88
Capitolo III: La vita di preghiera ...........................................................
96
Capitolo N: L'ascesi della temperanza e della mortificazione ............. 107
Capitolo V: Lavoro a due ....................................................................... 117
Capitolo VI: Lavorare «con fede, speranza e carità» ........................... 125
Capitolo VII: L'azione «luogo di incontro spirituale» con Dio ........... 132
Capitolo VIII: Doni superiori ........................................ ......................... 139
CONCLUSIONE .................................................................................... 144
Nota Bibliografica .................................................................................... 145
Indice ...................................................................................................... 147

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PREMESSA
Queste pagine vengono incontro al desiderio di amici che le hanno
richieste con certa insistenza.
Sono dirette ai membri della Famiglia salesiana, ma anche a quanti
si sentono, in qualche modo, attratti dalla figura di Don Bosco.
I contenuti vertono sulla straordinaria umanità e santità di Don
Bosco, più accennata che sviluppata, data la modesta dimensione del
lavoro.
Il testo si articola in due parti: la prima prende in considerazione
alcuni lineamenti della sua persona; la seconda segnala alcune dimen-
sioni maggiori della sua santità.
La compilazione - perché di compilazione si tratta - attinge, con
grande libertà, un po' dovunque; à fonti processuali, a qualche docu-
mento di archivio, a documenti ufficiali della Società salesiana, alla vasta
letteratura su Don Bosco, di cui offro, a parte, alcune indicazioni.
Non ho messo - per non appesantire la lettura - le note a pie' di
pagina per segnalare le &asi di Don Bosco o brani di altri autori di cui
faccio cenno. Il lettore sappia però che tutto ciò che viene riferito tra
«virgolette» ha fedele riscontro nei testi. Qualche insignificante ritocco
di stile non altera il significato della frase: la rende, semmai, più perspi-
cua.
Mi auguro che questo scritto possa arrecare qualche vantaggio, ma
soprattutto stimolare ad accedere direttamente ad opere di più vasto
respiro per una conoscenza approfondita e stimolante di Don Bosco,
personaggio più che mai vivo nella storia del nostro tempo.

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INTRODUZIONE
Santo da cinquantanni
Don Bosco è stato proclamato «Santo» da Pio XI il 1° aprile 1934,
Pasqua di risurrezione e chiusura del Giubileo straordinario della
redenzione. A mezzo secolo da questo evento, che ha fatto storia, una
riconsiderazione e rilettura della sua vita, sotto il profilo della santità,
sembra non solo opportuna, ma necessaria.
In questa epoca di transizione, dalle dimensioni planetarie, caratte-
rizzata da una nuova visione dell'uomo, del mondo, della storia, dai pro-
cessi di personalizzazione, socializzazione, secolarizzazione, liberazione,
il discorso sulla santità sembra destinato ad avere scarsa udienza. Resta
comunque difficile se pensiamo, come scrive E. Viganò Rettor Maggiore
dei Salesiani, che la stessa parola santità «può essere mal compresa da
una mentalità sfasata, abbastanza comune e frutto di un ambiente che
oppone una specie di blocco culturale ai contenuti genuini del suo
significato. Potrebbe venire identificata con uno spiritualismo d'eva-
sione dal concreto, con un ascetismo per eroi d'eccezione, con un s.en-
timento d'estasi dal reale che disistima la vita attiva, con una coscienza
antiquata circa i valori dell'attuale svolta antropologica. È da lamentare
fortemente una simile caricatura».
Eppure, tutte le volte che ci si confronta con un santo autentico,
questa rappresentazione confusa, distorta e persino caricaturale, si dis-
solve nel nulla. «I santi - ha scritto Pas~al - hanno il loro proprio
regno, il loro splendore, le loro vittorie e la loro maestà».
Il mistero dei santi ha un tale fascino da imporsi spesso - come è
avvenuto ed avviene per Don Bosco - agli stessi increduli.
Sulla santità si è detto e scritto moltissimo. Lasciando da parte le
discussioni di scuola diremo, molto semplicemente, che la santità, dono
di Dio e impegno dell'uomo, altro non è che la «vita trasfigurata in Cri-
sto» (Rm 8,29) - il «solo santo», il «santo di Dio» (Mc 1,24) -
mediante il suo Spirito ed il dinamismo delle virtù teologali. Santità è
la vita di Dio-Trinità in noi e di noi in Dio. Per sé tutti i battezzati
viventi in grazia sono, a pieno titolo, «santi», ma non allo stesso grado
e livello.

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Introduzione 9
Quando diciamo che Don Bosco è «santo» intendiamo affermare
che egli, distaccandosi dalla schiera dei comuni cristiani, ha vissuto la
vita battesimale con maggiore determinazione e intensità; che ha rag-
giunto la meta che la Costituzione dogmatica Lumen Gentium addita a
tutti i fedeli: la «pienezza di vita cristiana», la «perfezione della carità,
cuore e compendio della legge», la «perfetta unione a Cristo» (nn. 40,
50).
Tale pienezza comporta un vero e proprio martirio o eroismo cristia-
no, di cui è archetipo il martire divino. Dopo di Lui ed in comunione
con Lui vengono gli altri martiri, i quali con l'effusione del proprio san-
gue hanno data la suprema testimonianza della fede e carità.
Tuttavia, secondo concetti e criteri ampiamente elaborati nei pro-
cessi di Beatificazione e Canonizzazione, viene, da secoli, riconosciuto
come eroe anche il fedele - pensiamo a Don Bosco - il quale ha pra-
ticato, almeno per un lungo periodo prima della morte, le virtù teolo-
gali e morali in grado sommo, cioè in misura superiore al modo di agire
dei comuni cristiani, anche in situazioni ardue e difficili. Oggi si rico-
nosce che la pratica perfetta, fedele e perseverante dei doveri inerenti alla
propria condizione e al proprio stato comporta un vero eroismo ed è
perciò criterio di santità. «Anche le cose più comuni possono diventare
straordinarie quando sono compiute con la perfezione della virtù cristia-
na» (Pio XI). Don Bosco è santo, perché la sua vita è stata pienamente
eroica.
La seconda vita di Don Bosco
La canonizzazione non è soltanto la suprema glorificazione di un
fedele, è ancora l'inizio di una sua seconda vita nella storia della Chiesa
e del mondo. Infatti «dalla santità - afferma il Vaticano II - è pro-
mosso nella città terrena un tenore di vita più umano» (Lumen Gentium
n. 44).
La seconda vita di Don Bosco, in realtà, era cominciata subito dopo
la sua morte, non però con la pienezza ed universalità conferitegli dalla
canonizzazione.
Da allora Don Bosco vive nel culto. La canonizzazione sbocca infatti
immediatamente nel culto. «A onore della santa e indivisibile Trinità -
recita la formula della Canonizzazione - [...] decretiamo e definiamo
che il Beato Giovanni Bosco è Santo e nel novero dei Santi lo inseriamo,
stabilendo che dalla Chiesa universale se ne onori devotamente la
memoria». È vero, non si festeggiano tutti i santi, ma non si festeggiano

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10 Introduzione
che santi canonizzati. La venerazione dei santi - e quindi di Don Bosco
- nel pensiero della Chiesa ha più importanza del loro esempio, perché
ci aiuta a vivere in mistica comunione con loro.
«Noi veneriamo - scrive Lumen Gentium - la memoria dei santi
non solo per il loro esempio, ma più ancora perché l'unione della Chiesa
nello Spirito sia consolidata dall'esercizio della fraterna carità. Poiché
come la cristiana comunione tra i viatori ci porta più vicino a Cristo,
cosl il consorzio con i santi ci congiunge a Cristo, dal quale... promana
ogni grazia» (n. 50).
Dalla Pasqua del 1934 Don Bosco vive dunque nella liturgia della
Chiesa, che ne celebra la memoria universale: vive nella coscienza di
quanti, attirati dal suo fascino e dal suo carisma, lo pregano, lo venera-
no, lo invocano come intercessore potente presso Dio. Le feste in suo
onore hanno ampia risonanza in molte chiese locali. Si distinguono per
la grande affluenza ai sacramenti della Riconciliazione e dell'Eucaristia,
da Don Bosco tanto inculcata. Sono un autentico passaggio del Signore
nei cuori.
Si caratterizzano soprattutto come «incontri festosi della gioventù»
che oggi, come ieri, lo acclama e invoca «Maestro», «Guida», «Amico»
e «Padre». Il tributo di amore reso a Don Bosco è sempre, in definitiva,
un tributo di amore reso a Dio. Nel culto dei santi, ogni attestazione di
amore infatti ha come suo termine «Cristo», «corona di tutti i santi»,
e per Lui Dio (Lumen Gentium n. 50).
Don Bosco vive come modello di vita cristiana. Canonizzandolo la
Chiesa ha riconosciuto ufficialmente l'esemplarità della sua esistenza
terrena e lo ha proposto come «archetipo» e «modello» all'imitazione
dei fedeli.
L'imitazione dei santi ha una grande importanza per la Chiesa, per-
ché i santi personificano un ideale di vita cristiana ed indicano agli
uomini con quali mezzi può essere raggiunto. Anche la vita di Don
Bosco è, a suo modo, un quinto vangelo che stimola il desiderio di avvi-
cinarsi a Dio quanto è possibile. Di molti Padri del deserto è stato detto
che la loro vita èra «Parola»; lo stesso deve dirsi di Don Bosco, la cui
esistenza è stata veramente un «segno» tangibile delle mirabili trasfor-
mazioni che lo Spirito Santo opera nel cuore degli uomini. Una vita,
dunque, nella quale possono riconoscersi gli uomini di oggi, per i quali
non contano le parole, ma i «fatti», la «testimonianza». Essi infatti,
come già rilevava}. Maritain, «appellano a segni: hanno bisogno difatti,
anzitutto dei segni sensibili della realtà delle cçse divine. La fede deve
essere una fede viva, reale e pratica. Credere in Dio deve significare

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Introduzione 11
vivere in maniera tale che la vita non potrebbe essere vissuta se Dio non
esistesse».
La santità di Don Bosco, la sua fede intatta che sembrava creare le
cose dal nulla, è una risposta a questo appello.
Don Bosco vive, infine, più che mai nella sua missione e nelle sue
istituzioni nelle quali si incarna. La morte non aveva, senza dubbio,
arrestato l'espansione meravigliosa delle opere di Don Bosco, ma le
mancava, in certo modo, il sigillo della santità. Nella vita di una Fami-
glia religiosa la canonizzazione del fondatore ha più importanza eccle-
siale dell'approvazione delle regole, perché il fondatore acquista una
autorità incontestabile.
La canonizzazione di Don Bosco rappresenta perciò un evento di
portata straordinaria. Riconoscendo l'iniziativa dello Spirito del Signore
nella sua missione di fondatore la Chiesa l'ha ufficialmente inserita come
porzione eletta nel patrimonio universale del Popolo di Dio; ne ha
autenticato la validità; ha implorato ed implora da Dio che essa, al di
là delle coordinate dello spazio e del tempo, prosegua il suo cammino
benefico nella storia.
E questo significa, come si è espresso Pio XI, «migliaia e migliaia di
chiese, di cappelle, di ospizi, di scuole, di collegi, con migliaia, anzi cen-
tinaia di migliaia, ma molte centinaia di migliaia, di anime avvicinate a
Dio, di gioventù raccolta in asili di sicurezza e chiamata al convito della
scienza e della prima cristiana educazione». C'è dell'enfasi in queste
parole, ma oggi esse sono semplicemente vere.
Figura rappresentativa della «Scuola della santità torinese»
La santità non è quantificabile: Dio solo ne conosce la profondità ed
il segreto. Ci sono però dei santi il cui destino sembra sia stato quello
di rimanere piuttosto nell'ombra ed altri che, per i grandi servizi resi alla
Chiesa ed alla società, si sono imposti e si impongono all'attenzione dei
fedeli. Tra questi è Don Bosco. Mons. Giuseppe De Luca, erudito e let-
terato insigne, conoscitore profondo della religiosità italiana, ha scritto
di lui: «Nella storia dell'ottocento italiano Giovanni Bosco è nella san-
tità non meno di quello che Alessandro Manzoni è nella letteratura o
Camillo di Cavour nella politica: vale a dire "un sommo"».
Si petrà discutere questo confronto, resta però vero che Don Bosco
è una delle figure più rappresentative di quella che è stata chiamata la
«Scuola della santità torinese». Una scuola, che nel giro di un secolo o
poco più, ha visto fiorire oltre sessanta Santi, Beati, Servi di Dio, inter-

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12 Introduzione
dipendenti e diversi, il cui anelito comune sembra potersi racchiudere
in queste due parole: pregare e fare. Una scuola che, a giudizio dei com-
petenti, si. è caratterizzata per il suo sincretismo, frutto di pragmatismo
molto connaturale al temperamento piemontese; per il suo equilibrio
pratico fatto di buon senso; per il suo atteggiamento di prudenza e di
non allineamento politico; per il suo tradizionalismo che non esclude,
soprattutto in Don Bosco - il più esposto di tutti per le coraggiose
prese di posizione contro l'anticlericalismo liberale dominante - auda-
cia creatrice, grande spirito di iniziativa, capacità di aprire costruttiva-
mente alle necessità della Chiesa le frontiere dei tempi nuovi. I prota-
gonisti di questa scuola sono, per lo più, sacerdoti. Paolo VI, nel
discorso pronunziato per la Beatificazione di Leonardo Murialdo, ne ha
tracciato un lucido profilo. «La scuola di santità torinese del secolo
scorso ha dato alla Chiesa un tipo di ecclesiastico santo, fedelissimo alla
dottrina ortodossa e al costume canonico, uomo di preghiera e di mor-
tificazione, perfettamente aderente allo schema abituale della vita pre-
scritta ad un sacerdote, il quale, però, proprio per questa generosa ed
intima aderenza sente salire nella sua anima energie nuove e potenti, e
si avvede che d'intorno a lui bisogni gravi e urgenti reclamano il suo
intervento. Non cercheremo in lui novità di pensiero, troveremo invece
in lui novità di opere. L'azione lo qualifica. Spinto dal di dentro del suo
spirito, chiamato al di fuori da nuove vocazioni di carità, questo Sacer-
dote ideale si concede ai problemi pratici del bene a lui presente; e ini-
zia cosi, senza altre previsioni che quella dell'abbandono alla Provviden-
za, la impensata avventura, la novità, la fondazione cioè d'un nuovo isti-
tuto, modellato secondo il genio di quella fedeltà iniziale, e secondo le
indicazioni sperimentali delle necessità umane, che l'amore ha rese evi-
denti e imploranti. Cosi il Cottolengo cosi il Cafasso, già dichiarati San-
ti, cosi il Lanteri, cosi l'Allamano, che ne seguono le orme, cosi special-
mente Don Bosco, di cui tutti conosciamo la grande e rappresentativa
figura. E cosi il Murialdo».
L'aria di famiglia che si respira nella scuola torinese, le molte con-
vergenze che accomunano i Servi di Dio fra di loro, non sono indice di
uniformità. Ogni santo ha il suo volto, il suo stile, la sua indole, esercita
una propria missione, è uguale e diverso. Don Bosco, ad esempio, non
è il Cafasso, sia per le doti personali e storiche, sia perché è fondatore.
E l'essere fondatore comporta una diversa configurazione della santità
e uno speciale carisma. Un «dono nuovo» cioè alla Chiesa consistente
in una tipica «esperienza di Spirito Santo trasmessa ai propri discepoli
per essere da questi vissuta, custodita, approfondita e costantemente

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Introduzione 13
sviluppata in sintonia con il Corpo di Cristo in perenne crescita» (Mu­
tufE Relationes n. 11), che il Cafasso non aveva.
Memoria e profezia
Don Bosco è insieme santo del passato e profezia viva di ciò che Dio
vuole nella storia. Va quindi avvicinato sia in chiave storica che profe­
tica. In chiave storica, perché solo il versante della storia è in grado di
risuscitare il passato, in quanto tale, senza deformarlo. Da questo punto
di vista Don Bosco è e sarà per sempre un tipico santo piemontese del­
l'Italia risorgimentale, come S. Ignazio di Loyola è un tipico santo basco
della Spagna del sec. XVI. Sensibile ai valori della cultura emergente
bisognosa di lievitazione evangelica, sensibile ai disvalori, alle ambiguità,
ai mali da combattere, arginare, prevenire; sensibilissimo ai nuovi biso­
gni della vita religiosa e della Chiesa del suo tempo aspramente combat­
tuta nel suo Capo e nelle sue istituzioni. L'approccio a Don Bosco deve
approdare alla conoscenza del «Don Bosco totale», quale lo hanno fatto
i settantadue anni e mezzo della sua vita ed il lavorio operato su se stes­
so. Si comprenderà allora, ad esempio, come egli sia nutrito della teo­
logia e della spiritualità del suo tempo, come sia partecipe della
coscienza che la Chiesa aveva di sé sotto il pontificato di Pio IX, come
certi suoi atteggiamenti siano il riflesso della sua formazione ecclesiastica
avvenuta iQ tempo di restaurazione.
Ma la memoria non è archeologismo; per essere significativa e fedele
al Dio della storia deve leggere il passato anche in chiave profetica, por­
tatrice di futuro, di valori intramontabili e perenni. Tra questi valori
vanno ricordati: le intenzioni permanenti di Dio sulla sua vita, gli ele­
menti essenziali della sua indole e del suo spirito, dinamicamente aperto
sul futuro, la realtà vitale ed essenziale della sua missione, le valenze posi­
tive del suo secolo - la Chiesa si è sempre appropriata di quanto c'è
di buono nella vita dei popoli - rilanciate come profezia nella nostra
cultura. «I principi umani e cristiani nei quali si basa la sapienza edu­
catrice di Don Bosco portano in sé valori che non invecchiano» - dice
Paolo VI -, perché «tale incomparabile esempio di umanesimo peda­
gogico cristiano... affonda le sue radici nel Vangelo».
Il discernimento tra memoria e profezia non è facile. Impegna l'au­
torità dei Successori di Don Bosco e dei Capitoli generali; garante
suprema è però sempre, in ultima istanza, l'autorità della Chiesa, vigile
custode dei carismi che Dio fa sbocciare nel suo seno.
Le pagine che seguono si propongono di evidenziare alcuni elementi

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14 Introduzione
perenni della santità di Don Bosco, con particolare sottolineatura del
suo dinamismo apostolico e della «grazia di unità» con cui ha saputo
unire vitalmente orazione e azione. Don Bosco infatti è stato innegabil­
mente un santo attivo.
Santo attivo
A distanza di anni possiamo costatare che Don Bosco è all'origine,
non solo di una numerosa posterità spirituale, ma anche di una vera e
propria «co"ente spirituale» nella Chiesa, che sta permeando il mondo,
e di una autentica «scuola di spiritualità», come ricerche in atto stanno
dimostrando. Una spiritualità apostolica però, o, come si ama dire, del­
l'azione.
La spiritualità dell'azione nell'attuale contesto culturale può pre­
starsi a non poche ambiguità. Sono infatti molti a pensare che l'azione
sia l'unica categoria con la quale l'uomo si interpreta e agisce su se stes­
so, sugli altri, sul mondo. Prassi e ortoprassi sono sempre un punto
caldo della teologia della spiritualità, che è scienza dell'agire umano
vivificato dallo Spirito.
La Chiesa non è nuova a questi problemi come dimostra la storia dei
grandi apostoli dei secoli passati. In un mondo che enfatizza fortemente
le parole prassi, lavoro, attività, azione, la vita di Don Bosco, dominata,
per cosl dire, dalla vertigine dell'azione, può riuscire paradigmatica per
quanti vogliono impegnarsi costruttivamente nella edificazione di un
mondo a misura d'uomo fermentato dal Vangelo, essendo il suo agire
inestirpabilmente vincolato e dipendente da quello salvifico di Dio. L'a­
gire è una nozione primaria dell'esistenza: non si lascia circoscrivere in
una definizione rigorosa.
Possiamo però distinguere in esso un doppio movimento: quello
immanente che giustifica e comanda le azioni e le opere esterne, e quello
direttamente volto alla trasformazione delle cose. Solo il primo è vera­
mente perfettivo della persona e dei suoi valori. Don Bosco vale per ciò
che fa o fa fare, ma immensamente di più per ciò che è e che vuole. È
questo il modo corretto di considerarlo.
L'asse della vitalità spirituale
Il cristiano di oggi, tentato dalla difficoltà di congiungere in unità
vitale l'essere e l'agire, l'amore a Dio e l'amore al prossimo, la preghiera
ed il lavoro, l'azione e la contemplazione, troverà in Don Bosco un

2.7 Page 17

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Introduzione 15
modello concreto di unità spirituale vissuta nel vortice della vita attiva.
In lui nessuna dicotomia o lacerazione interiore, ma una perfetta
«grazia di unità»: Dio è veramente il sole, l'asse portante della sua vita.
Santo dell'azione, egli non mette di certo il silenziatore sulla preghiera,
ma sa fare dell'azione il «luogo abituale» del suo incontro con Dio;
valorizza la ricchezza perfettiva dell'orazione, ma considera perfettiva
anche l'azione. Il suo modo sacramentale di essere chiesa consiste esat-
tamente nell'impegno ad «agire come chiesa». Sa che tra preghiera e
lavoro corre un costante rapporto dialettico: l'una manda all'altro e
viceversa; ma sa anche che questo rapporto è regolato dalla volontà di
Dio, norma suprema. Ne parleremo a suo tempo.
Santo di sempre
Per la sua radicale unione a Cristo che è di «ieri, oggi e sempre»,
Don Bosco è anche santo intemporale, santo di tutti i tempi. Senza dub-
bio il santo di domani avrà tratti e modulazioni inedite, sarà diverso da
quello del passato. Ma una cosa è assolutamente certa: questa diversità
non sarà mai di sostanza. Con il Card. De Lubac possiamo dire, a colpo
sicuro, che il santo di domani, come quello di ieri, sarà «povero, umile,
spoglio di sé. Avrà lo spirito delle beatitudini. Non maledirà né lusin-
gherà. Amerl prenderà il Vangelo alla lettera, cioè, nel suo rigore. Una
dura ascesi lo avrà liberato da se stesso. Erediterà tutta la fede di Israele,
ma si ricorderà che essa è passata attraverso Gesù Cristo. Prenderà su
di sé la croce del Salvatore e cercherà di seguirlo».
I santi non invecchiano, ha detto Giovanni Paolo II: «Sono sempre
gli uomini e le donne di domani, gli uomini dell'avvenire evangelico del-
l'uomo e della Chiesa, i testimoni del mondo futuro». Il fatto che Don
Bosco avvinca ancora ed attiri a sé, potentemente, schiere di giovani e
di fedeli, dimostra che egli possiede in sé qualcosa che sfida i secoli.
Quanti vivono nella sua orbita o si sentono comunque desiderosi di
entrare in familiarità con lui, possono raccogliere, senza tema, il messag-
gio della sua santità, semplice e profonda, accattivante e simpatica, se
pure molto esigente. Don Bosco, cosl amabile e comprensivo, ci vuole
infatti «non mondani anche se nel mondo; non estranei ma con una
propria identità; non antiquati ma odierni profeti della realtà escatolo-
gica della Pasqua; non facili imitatori della moda, ma coraggiosi cultori
di un rinnovamento esigente; non disertori delle vicissitudini umane, ma
protagonisti di una storia di salvezza. La nostra sequela di Cristo
secondo lo spirito di Don Bosco utilizza tutte le circostanze, gli eventi

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16 Introduzione
e i segni dei tempi, anche le situazioni più negative e ingiuste, per cre-
scere e far crescere nella santità» (E. Viganò). Il dono più grande di noi
agli altri è la nostra santità.

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PARTE PRIMA
LINEAMENTI
2

2.10 Page 20

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3 Pages 21-30

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3.1 Page 21

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Capitolo I
LA FATICA DI FARSI SANTO
Che cosa vogliamo sapere di un beato, di un santo?, si domanda
Paolo VI nel discorso, già ricordato, letto per la beatificazione di Leo-
nardo Murialdo. E risponde: «Se la nostra mentalità fosse quella della
curiosità esteriore, di certa ingenua devozione medioevale ci potremmo
proporre di ricercare nell'uomo esaltato in modo tanto straordinario i
fatti straordinari: i favori singolari, [...] i fenomeni mistici e i miracoli;
ma oggi siamo meno avidi di queste manifestazioni eccezionali della vita
cristiana. A noi piace conoscere la figura umana piuttosto che la figura
mistica o ascetica di lui: vogliamo scoprire nei santi ciò che a noi li acco-
muna, piuttosto che ciò che da noi li distingue; li vogliamo portare al
nostro livello di gente profana e immersa nell'esperienza non sempre
edificante di questo mondo; li vogliamo trovare fratelli della nostra
fatica e fors'anche della nostra miseria, per sentirci in confidenza con
loro e partecipi d'una comune pesante condizione umana».
La vita di Don Bosco trabocca di soprannaturale e di fatti meravi-
gliosi - e lo vedremo - ma a noi piace anzitutto considerarlo nella sua
creaturalità, «uomo come noi», quasi uno di noi, seppure immensa-
mente più grande. Perciò segnato dalle incompiutezze della natura e
dalle sue pesantezze, tentato dal mondo del peccato e dal maligno.
Questa prospettiva, nella quale si confrontano limitatezza umana e
grazia divina corrisposta, è già un incoraggiamento alla nostra debo-
lezza.
Don Bosco, come tutti, non era nato santo; lo è diventato abbando-
nandosi alla potenza dello Spirito Santo, e contraddicendo se stesso,
scalando passo passo la vetta della santità.
Di questa sua fatica per diventare santo diamo, qui, solo alcune
rapide sequenze.
Non era un temperamento facile
Benché dotato di splendide qualità umane - lo vedremo poco oltre
- Don Bosco non era, per natura, l'uomo paziente, mite e dolce che
conosciamo. Dei due figli di Mamma Margherita, Giuseppe e Giovanni,
si sarebbe detto che il più salesiano era il primo, non il secondo. Giu-

3.2 Page 22

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20 Parte I: Lineamenti
seppe infatti è ricordato come un fanciullo mite, affettuoso, docile e
paziente: tale resterà per tutta la vita. Correva incontro agli ospiti,
discorreva volentieri con loro e si faceva subito voler bene. Antiche
testimonianze descrivono invece Giovannino come un fanciullo piutto-
sto serio, un po' taciturno, quasi diffidente; non concedeva familiarità
ad estranei, non si lasciava accarezzare, parlava poco, era già attento
osservatore.
«Ero ancora piccolino assai - scrive nelle sue Memorie dell'Orato-
rio - e studiava già il carattere dei miei compagni. Fissando taluno in
faccia ne scorgevo i progetti che quello aveva in cuore».
Nel sogno fatto dai nove ai dieci anni si manifesta certamente già un
fanciullo riflessivo e generoso, sensibile e zelante nel difendere i diritti
di Dio, ma rivela anche un temperamento focoso, impulsivo e persino
violento, quando si avventa con impeto sui piccoli bestemmiatori per
farli tacere a «colpi di pugni».
Provava anche - è una sua confessione - «grande ripugnanza ad
ubbidire, a sottomettersi»; tendeva per natura a difendere con tenacia
i suoi punti di vista volendo «sempre fare i miei fanciulleschi riflessi a
chi mi comandava o mi dava buoni consigli».
Alla superbia lo inclinavano naturalmente le sue belle qualità: l'ener-
gia della volontà, l'intelligenza superiore, la buona memoria, la stessa
vigoria fisica, qualità che gli consentivano d'imporsi facilmente ai suoi
coetanei. Nelle sue Memorie è registrata questa compiaciuta affermazio-
ne: «lo da tutti i compagni, anche maggiori di età e di statura, ero
temuto per il mio coraggio e per la mia forza gagliarda».
Le testimonianze dei processi mettono in luce le sue belle qualità ma
anche alcuni tratti di fondo non del tutto positivi. Il suo parroco, il
Teol. Cinzano, lo dice «stravagante e testardo»; il Card. Cagliero
ricorda il suo temperamento «focoso ed altero» tale da non «poter sof-
frire resistenze»; il suo compagno Don Giacomelli attesta: «Si capiva
come senza virtù si sarebbe lasciato soppraffare dalla collera. Nessuno
dei nostri compagni, ed erano molti, inclinava come lui a tale difetto».
«Credo vero - conferma Mons. Bertagna moralista insigne e grande
amico di Don Bosco - che il Servo di Dio avesse un naturale facil-
mente accendibile e insieme molto duro e niente pieghevole [...] ai con-
sigli che gli erano dati quando questi non erano conformi ai suoi disegni
e alle sue viste».
Don Cerruti mette in evidenza la «tendenza forte all'ira e all'affetto;
[...] era portato ad essere altero». «È inutile - dirà a sua volta Don
Cafasso - vuol fare a suo modo; eppure bisogna lasciarlo fare; anche

3.3 Page 23

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Cap. I: La fatica di farsi santo 21
quando un progetto sarebbe da sconsigliare, a Don Bosco riesce»; risen-
tita per non averlo guadagnato alla sua causa la Marchesa Barolo lo tac-
cerà di «cocciuto, ostinato, superbo».
Il Dott. G. Albertotti, che ebbe in cura Don Bosco dal 1872 fino alla
morte, sottolinea anche lui, nella sua breve biografia del Santo, «l'innata
vivacità piuttosto impetuosa» del suo cliente, il suo carattere «pronto e
focoso» e la «profonda convinzione dei suoi concetti».
P. Girolamo Moretti, pioniere della grafologia che sta diventando un
ramo delle scienze umane, riconosce, nel suo noto libro: I santi dalla
scrittura, che il temperamento di Don Bosco è «non poco arduo ad
essere definito». È un santo che per essere morale «ha bisogno di sot-
toporsi a parecchie rinunzie alle quali si ribellano le sue tendenze inna-
te», le quali vogliono e pretendono l'azione senza inciampi... «È- con-
clude - un condottiero, senza dubbio, che per far del bene ha bisogno
di contraddire se stesso al massimo grado per incanalarsi nella rettitu-
dine delle intenzioni e delle opere».
Queste testimonianze non rendono, ovviamente, l'immagine com-
piuta di Don Bosco. Lasciano infatti fuori troppi altri aspetti della sua
personalità ricchissima; ne colgono tuttavia elementi di fondo come:
l'inclinazione all'ira ed alla impetuosità; la tendenza all'autonomia, al
forte sentire di sé, all'ostinata affermazione dei propri convincimenti,
ecc. Per poco che si fosse lasciato andare, sarebbe stato un uomo fallito
e un santo mancato. «Se il Signore non mi incamminava per questa via
[degli Oratori] io temo che sarei stato in gran pericolo di prendere una
via storta».
Eppure senza queste forti tendenze non avremmo lo spessore della
santità di Don Bosco. Le inclinazioni naturali, in sé, non sono né buone,
né cattive; non sono i vizi, non sono le virtù. La moralità degli atti
dipende infatti dalla intenzionalità del soggetto, dall'uso buono o cattivo
che fa delle proprie energie. Nessun dubbio che egli non abbia piegato
al meglio le sue qualità native, ma Dio solo sa a prezzo di quali sforzi
e di quali lotte vittoriose. È l'aspetto che ora vogliamo sottolineare.
Cammino in salita
Della vita di S. Francesco di Sales è stato detto che essa appare nel
suo corso, nel suo perfezionamento e nella sua compiutezza un vero
capolavoro, al quale lo scultore lavorò lentamente con riflessione, sicu-
rezza e gioia, sino a conseguire un'intangibile bellezza, quale è propria
solo a poche opere insigni.

3.4 Page 24

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22 Parte I: Lineamenti
Lo stesso si può dire di Don Bosco: senso della misura, gradualità,
armonia caratterizzano infatti anche il suo itinerario verso la santità. Ma
non bisogna misconoscere la dura strada da lui percorsa, l'assiduo
lavoro su se stesso affrontato con tenacia e perseveranza.
I primi passi nella virtù il piccolo Giovanni li impara alla scuola della
madre, donna illetterata ma ricca di sapienza divina. Mamma Marghe-
rita sapeva infatti giungere al cuore della sua creatura con delicatezza
materna, ma anche con irremovibile fermezza. Assecondava la sua
indole in quello che poteva; più tardi, quando lo vedrà impegnato a far
del bene ai suoi piccoli amici, sarà larga di incoraggiamenti e di aiuto.
Ma, al momento opportuno, di &onte alle sue impennate, sapeva cor-
reggerlo con interventi 'decisi, però ragionati e motivati da pensieri di
fede.
L'amore a Dio, a Gesù Cristo, a Maria Vergine; l'orrore al peccato,
il timore dei castighi eterni, la speranza del paradiso, Don Bosco li
apprese dalle labbra materne. Nella casetta dei Becchi la religione era
natura; il male si aborriva per istinto e per istinto si amava il bene. Il
monito ricorrente: «Ricordati che Dio ti vede», penetrava profonda-
mente nell'animo sensibilissimo di Giovannino. Non si stancherà, a sua
volta, di ripeterlo ai giovani. L'amore materno che ha allietato ed edu-
cato la sua infanzia rimane per tutta la vita una di quelle profonde radici
di cui il Signore si è servito per farlo santo. Si deve all'educazione
materna se la personalità di Don Bosco ha potuto espandersi in pienezza
senza complessi o ansietà di sorta.
«Nei trentacinque anni nei quali vissi al suo fianco - afferma il
Card. Cagliero - non udii mai l'espressione di un timore o dubbio; non
lo vidi mai agitato da alcuna inquietudine circa la bontà e la miseri-
cordia di Dio verso di lui. Non apparve mai turbato da angustie dico-
scienza».
Domandiamoci: quando il piccolo Giovanni si è convertito alla san-
tità? quando ha detto a se stesso come S. Domenico Savio: «Voglio
farmi santo e presto santo»? È il suo segreto. Una antica tradizione sale-
siana lo vuole però santo in tutte le fasi della sua vita: santo giovane,
santo chierico, santo sacerdote, santo educatore. Avrebbe cosl insegnato
una via di «santità giovanile» da lui già collaudata e vissuta. La sua
prima giovinezza è comunque esemplare: la caratterizzano il profondo
senso del divino e della preghiera, l'attività apostolica tra i suoi coetanei,
la capacità di autodominio, il coraggio nell'affrontare i disagi della
povertà, le pretese del fratellastro Antonio, l'umiliazione di dover tra-
scorrere, in qualità di servo, due anni alla cascina Maglia.

3.5 Page 25

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Cap. I: La fatica di farsi santo 23
La parola piemontese «'ndé da seroito» ha sapore amaro. Evoca
lavoro nero, superiore alle forze; maltrattamenti, lontananza dal nido
familiare. Vi erano costretti, per sopravvivere, ragazzi e ragazze di fami-
glie numerose e povere. Sappiamo che Giovanni Bosco fu trattato bene
dai suoi padroni, cristiani convinti, ed anche ammirato per le sue virtù.
Nelle sue Memorie egli però non accenna a questo periodo della sua
vita; forse per rispetto alla mamma. Gli anni trascorsi presso i Moglia
furono, come rileva opportunamente P. Stella, «anni non inutili, non di
parentesi, nei quali si radicò più profondo in lui il senso di Dio e della
contemplazione, a cui potè introdursi nella solitudine o nel colloquio
con Dio durante il lavoro dei campi. Anni che si possono definire di
attesa assorta e supplichevole: di attesa da Dio e dagli uomini; anni in
cui forse è da collocare la fase più contemplativa dei suoi primi lustri
di vita, quella in cui il suo spirito dovette essere più disposto ai doni
della vita mistica sgorgante dallo stato di orazione e di speranza».
Alla scuola di Don Calosso (novembre 1829 - novembre 1830) Gio-
vannino, ormai adolescente, fa nuovi progressi nella virtù. Il santo sacer-
dote gli proibisce alcune penitenze non adatte alla sua età, rivelatrici
però di una reale tensione verso la santità; lo inizia alla meditazione
metodica, se pure breve, e alla lettura spirituale; lo incoraggia alla fre-
quenza dei sacramenti. «Da allora - scrive nelle sue Memorie - ho
cominciato a gustare che cosa sia vita spirituale». «Gustare» non è solo
conoscere teoricamente Dio e le cose divine, ma assaporarle, farne espe-
rienza; è l'effetto del dono della sapienza, il più perfetto dei doni dello
Spirito Santo perché perfeziona la carità compendio di tutte le virtù;
comprende l'intelligenza, ma soprattutto l'amore che va più lontano e la
supera. E per un adolescente di quindici-sedici anni non è davvero
poco.
Studente a Chieri, Giovanni stringe ùna forte amicizia con Luigi
Comollo, perla di giovane e poi di chierico, deceduto prematuramente
e di cui Don Bosco scriverà una breve biografia. L'amicizia con il
Comollo segna una svolta nella vita spirituale del Santo. Segna l'inizio
di una intensa emulazione, di un autentico cammino verso la santità
sacerdotale. Di essi si poteva veramente dire con K. Gibran: «Ogni
aurora non li trovava mai dove li aveva lasciati il tramonto». Erano fatti
per integrarsi e completarsi; sul piano spirituale anzitutto, ma non solo
su questo.
«L'uno - scrive Don Bosco - aveva bisogno dell'altro. Io di aiuto
spirituale, l'altro di aiuto corporale», cioè di difesa. Vi erano infatti stu-
denti maldestri i quali, approfittando della timidezza e della bontà di

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24 Parte I: Lineamenti
Comollo, lo maltrattavano; Giovanni fremeva. Un giorno alcuni prepo-
tenti mollarono due schiaffi sonori sul volto pallido ed impaurito del
povero Comollo, che subl l'affronto senza reagire e perdonando in cuor
suo. Ma era presente il Bosco il quale, davanti a quella scena, non ci
vide più; il sangue gli ribolll nelle vene e compl, come lui stesso raccon-
ta, una mezza strage: «In quel momento io dimenticai me stesso ed ecci-
tando in me non la ragione ma la forza brutale, non capitandomi tra
mano né sedia né bastone, strinsi con le mani un condiscepolo colle
spalle e di lui mi valsi come di un bastone a percuotere gli avversari.
Quattro caddero stramazzoni a terra, gli altri fuggirono gridando».
L'amico non lo approvò: «La tua forza - gli disse - mi spaventa.
Dio non te la diede per massacrare i compagni. Egli vuole che ci amia-
mo, ci perdoniamo».
L'influenza del Comollo su Don Bosco fu notevolissima come si
ricava dalle sue Memorie. Lo «sbalordiva» quell'«idolo di compagno»
e quel «modello di virtù», dal quale egli aveva appreso «a vivere da cri-
stiino», vivere cioè una vita di forte impostazione sacramentale e maria-
na, di intenso esercizio della carità, di senso del dovere e di alta tensione
verso l'ideale del sacerdozio. Un ideale ritagliato sul modello di prete
della riforma tridentina e della restaurazione, più liturgo che apostolo,
più ritirato che immerso nella realtà umana, uomo dell'eterno e meno
del temporale. Il sacerdote è certamente tutto questo, ma più di questo.
In realtà Don Bosco sarà un prete diverso; porterà però sempre con
sé la coscienza acuta e mordente dell'alta dignità e responsabilità sacer-
dotale che gli era stata inculcata in seminario. Considererà sempre la
condizione del sacerdote non come un privilegio, ma come un ministero
rischioso nel quale, per poco che si trascurino i propri doveri, si rischia
il destino eterno. «Purtroppo è certo - predicava il Cafasso - che
qualcuno tra i sacerdoti andrà a perdersi e ognuno di noi può correre
questo grave pericolo se non stiamo bene in guardia».
«Il prete - dirà a sua volta Don Bosco - o muore per il lavoro,
o muore per il vizio». È un fatto che egli entra in seminario col disegno
di mutare «radicalmente» vita: «La vita fino allora tenuta doveva essere
radicalmente riformata». Di qui il proposito di rinunziare ai «pubblici
spettacoli», ai «giuochi di prestigiatore, di destrezza» che reputa «con-
trari alla gravità e allo spirito ecclesiastico». Vivrà «ritirato e temperan-
te»; combatterà «con tutte le sue forze» quanto anche lontanamente
possa offuscare la «virtù della castità»; si darà alla preghiera e all'apo-
stolato tra i compagni. In una parola contraddirà se stesso anche nelle
tendenze per sé legittime, dandosi, come si esprime P. Stella, a quel

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Cap. I: La fatica di farsi santo 25
continuo «sforzo ascetico che lo spingeva sulla via dei digiuni, delle asti-
nenze e delle collere con se stesso allorché si sorprendeva talvolta indul-
gente con le antiche sue abilità secolaresche, come l'esibirsi in virtuosi-
smi di agilità o nel suonare il violino; tensione ascetica che contribui a
portare il suo amico Comollo alla morte e Don Bosco stesso all'estremo
limite di forze».
Che la violenza fatta a se stesso negli anni del seminario sia causa,
non ultima, del deperimento organico che lo colse e della malattia mor-
tale che ne è seguita, trova conferma nella testimonianza del Dott.
Albertotti, il quale scrive: «Avvedutosi della sua impetuosità come di un
male, fece tali sforzi, come già aveva fatti per il passato nel corso gin-
nasiale per correggersi che, come poi narrava a quando a quando ai suoi
discepoli, gli si rivoltò il sangue addosso e cadde ammalato con pericolo
di morire».
Questo episodio della vita di Don Bosco dà la misura del duro corpo
a corpo ingaggiato per rettificare le tendenze devianti della natura, per
essere padrone di sé, tutto di Dio e degli altri, specialmente dei giovani.
«Ogni vita compiuta in bellezza, o Signore, dà testimonianza di Te; ma
la testimonianza del santo è come strappata con tenaglie infocate dal
corpo vivo». Con questa immagine, che ricorda l'inferno dantesco, Ber-
nanos esprime una legge vera della santità cristiana. Don Bosco l'ha vis-
suta sulla sua pelle.
Nei tre anni trascorsi al Convitto Ecclesiastico di S. Francesco di
Assisi in Torino (1841-1844) Don Bosco plasma e riplasma ancora se
stesso, il suo sacerdozio, in linea però pastorale e pratica: «Qui si
impara ad essere preti». Il Teol. Luigi Guala e Don Giuseppe Cafasso,
«due celebrità in quel tempo», il convittore Felice Golzio sono i «tre
modelli che la divina Provvidenza mi porgeva e dipendeva solamente da
me seguirne le tracce, la dottrina, le virtù».
Don Cafasso diventa suo confessore e guida spirituale. Scrive nelle
sue Memorie: «Se ho fatto qualche cosa di bene, lo debbo a questo
degno ecclesiastico nelle cui mani riposi ogni mia deliberazione, ogni
studio, ogni azione della mia vita». Tenace e quasi cocciuto nelle sue
idee, «ubbidi sempre - riferisce Mons. Bertagna - e senza discussione
a Don Cafasso». E per «ubbidienza a Don Cafasso - dirà ai suoi figli
- che mi fermai a Torino, è dietro suo consiglio e direzione che presi
a radunare ogni di festivo i monelli di piazza per catechizzarli; fu
mediante il suo appoggio ed aiuto che incominciai a raccogliere nell'O-
ratorio di S. Francesco di Sales i più abbandonati perché fossero pre-
servati dal vizio e formati alla virtù. Ricordatelo! »

3.8 Page 28

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26 Parte I: Lineamenti
La virtù di Don Bosco, giovane prete, brilla di luce nuova nella fon-
dazione e conduzione dell'Oratorio festivo al Convitto (1841-1844), poi
al Rifugio e finalmente nella sede fissa di Valdocco, dove si insedia il 12
aprile 1846, Pasqua di risurrezione. Qui il Santo dovette affrontare diffi-
coltà immani di vario genere. Difficoltà esterne: angustie della povertà,
abbandono dei suoi collaboratori, vessazioni da parte delle autorità
municipali; difficoltà interne determinate dalla eterogeneità o dall'indole
stessa degli oratoriani provenienti dai quartieri poveri della città o giro-
vaghi senza lavoro, veri cani senza collare intolleranti di ordine e di
disciplina. Occorrevano nervi saldi e tanta, tanta pazienza.
Un'idea di che cosa fosse l'Oratorio di Valdocco in quei lontani pri-
mordi, l'abbiamo in questa realistica, tardiva evocazione di Don Bosco.
«Quando il mio pensiero confronta i tempi presenti coi tempi passati,
la mia immaginazione ne resta schiacciata. Trentacinque o trentasei anni
fa che cosa c'era [qui a Valdocco]? Nulla, proprio nulla. Io correva qua
~ là dietro ai giovani più discoli, più dissipati; ma essi non volevano
saperne di ordine e di disciplina, si ridevano delle cose di religione,
delle quali erano ignorantissimi, bestemmiando il nome santo di Dio, ed
io non ne poteva far nulla. Quei giovani erano proprio di trivio e di
piazza ed accadevano battagliuole a sassi, e risse continue. Le cose allora
erano più nei pensieri che nei fatti».
A «stare con Don Bosco» verranno in seguito giovani splendidi
come Michele Rua, Battista Francesia, Giovanni Cagliero, Domenico
Savio ed altri, ma quanta violenza egli dovrà imporre a se stesso, trat-
tando con elementi ostinati e difficili, per restare fedele al programma
della sua prima messa: «La carità e la dolcezza di S. Francesco di Sales
mi guidino in ogni cosa».
Il salesiano deve avere - era una delle sue massime - «la dolcezza
di S. Francesco di Sales e la pazienza di Giobbe». Una «dolcezza» non
languida, non debole; ma frutto della carità pastorale che è «benigna e
paziente; tutto soffre, tutto spera, tutto sopporta». Per conservarla «si
dovrà sudare e sudare molto e talvolta spargere persino il sangue»: è
l'ammonimento che nel cosiddetto «Sogno delle confetture» viene
rivolto a tutti i salesiani e che ha già avuto il suo collaudo nella espe-
rienza viva di Don Bosco.
Un giorno l'amico Don Giacomelli scende a Valdocco mentre Don
Bosco, rosso in viso, rincorre un gruppetto di ragazzi i quali, giunto il
momento delle orazioni, cercavano di svignarsela: «È la seconda volta
che ti vedo alterato», gli dice. «Questi benedetti ragazzi!» fu tutta la sua
risposta; ma quanto eloquente. Accadeva anche che lo sorprendesse nel-

3.9 Page 29

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Cap. I: La fatica di farsi santo 27
l'atto di percuotere ragazzi in lite &a di loro, ma le mani restavano ferme
a mezz'aria. Non percuoteva i giovani, anche se un certo costume por-
tava allora a fare cosl in parecchi casi e non tollerava che altri si com-
portassero in questo modo. Sappiamo dalla testimonianza di Don Rua
e del Card. Cagliero che qualche schiaffo scappò pure dalle mani di
Don Bosco quando non era ancora avanti negli anni. Ma si tratta di casi
che stanno sulla punta delle dita di una mano e che si riferiscono a situa-
zioni del tutto particolari. A cose fatte non ne restava però contento.
Sapeva invece essere comprensivo, tollerante, paziente anche quando si
sentiva «ribollire» il sangue nelle vene. La bestemmia, in particolare, lo
feriva profondamente come dimostra questo episodio, che non è entrato
nelle Memorie Biografiche, perciò poco noto. Ambré Roda, antico com-
pagno di Domenico Savio, quando fu proclamata l'eroicità delle virtù
del Servo di Dio, venne a Roma e fu ricevuto in udienza dal Pontefice
Pio XI. Si evocarono i tempi lontani; il Roda, ormai ultra novantenne,
confidò, tra l'altro, al S. Padre questa sua avventura. «Un giorno,
durante la ricreazione, scusate Santo Padre, mi sfuggl una brutta parola;
mi diedi un colpo con la mano sulla bocca, ma era scappata. I compagni
l'avevano sentita. Domenico mi si avvicinò e disse: "Ti sei dimenticato
dei nostri proponimenti di non far cattivi discorsi? Va' subito da Don
Bosco, raccontagli la disgrazia che ti è capitata. È tanto buono; vedrai
che aggiusterà tutto. lo intanto andrò a pregare per te". Non feci il nif-
folo, andai di filato. Ma dove trovare Don Bosco? Era in parlatorio
attorniato da alcuni signori. Da maleducato che ero, m'intruffolai nel
crocchio. Don Bosco sorpreso, mi disse: "Vedi, sono tanto occupato,
non potresti aspettare un momentino?". Quelle persone credettero
avessi una commissione d'urgenza, si misero in disparte e: "L'ascolti,
Sig. Don Bosco; noi aspetteremo". Allora mi alzai in punta di piedi e
dissi all'orecchio del buon Padre: " Savio mi manda da Lei, ho detto una
bestemmia". Tremavo come una foglia. Don Bosco non mi sgridò; ma
vidi sul suo volto disegnarsi una pena tanto profonda! Capii la gravità
della mia colpa. Quegli occhi perforavano il cuore. "Non farlo più, caro
figliuolo, non farlo mai più. E un'offesa di Dio, sai! Il Signore non ci
benedirebbe. Andrai in chiesa e dirai tanti Padre Nostro e farai tre segni
di croce con la lingua per terra". Corsi dinanzi all'altare, recitai i Padre
Nostro, spolverai il suolo, girai lo sguardo intorno, poi, lesto, feci i tre
segni di croce con la lingua sul pavimento. Scappai via di corsa, alleg-
gerito come se mi avessero tolto un piombo dallo stomaco. Dimenticai
il numero di Padre Nostro, ma le tre croci e lo sguardo di Don Bosco
mai» (S. Giovanni Bosco nei ricordi e nella vita degli Ex-allievi, Torino

3.10 Page 30

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28 Parte I: Lineamenti
1953). È un fioretto che ha tutto il sapore del tempo antico; respira il
clima di confidenza e di famiglia che si viveva a Valdocco sotto lo
sguardo di Don Bosco; si coglie anche l'acuta sofferenza che l'offesa di
Dio destava nell'animo del santo. La singolare penitenza, che mira a
destare un forte disgusto del peccato e il sentimento di una degna ripa-
razione è senz'altro un fatto eccezionale nella prassi di Don Bosco.
Costa anche a me
Nella piena maturità e nella terza età Don Bosco possiede realmente
un eroico e sicuro dominio di sé; una pazienza e calma superiori ad ogni
elogio e una dolcezza di tratto senza pari. È l'artista che ha sbozzato il
suo capolavoro e lo rifinisce con cura. Ma il «fondamento che natura
pone», domato, non estinto, ha ancora i suoi sussulti: «Non crediate -
disse la mattina del 18 settembre 1876 agli esercitandi riuniti a Lanzo
Torinese - che non costi anche a me, dopo di aver incaricato qualcuno
di un affare, o dopo avergli mandato qualche incarico d'importanza o
delicato o di premura e non trovarlo eseguito a tempo o mal fatto, non
costi anche a me il tenermi pacato; vi assicuro che alcune volte bolle il
sangue nelle vene, un formicolio domina tutti i sensi. Ma che?... impa-
zientirci?... Non si ottiene che la cosa non fatta sia fatta, e neppure si
corregge il suddito con la furia».
Cosi faceva, cosi insegnava: «Quando siete adirati o agitati astene-
tevi sempre dal fare riprensioni o correzioni». Aggiungeva: «Ci saranno
casi in cui si sarà costretti "a gridare un po'"; si faccia, ma si pensi un
momento: in questo caso S. Francesco di Sales come si comporterebbe?
Posso assicurarvi che se faremo cosi, si otterrà quanto disse lo Spirito
Santo: In patientia vestra possidebitis animas vestras».
Il suo primo biografo ha fatto al riguardo questa penetrante sotto-
lineatura: «Don Bosco quando sentiva in sé qualche contrasto di pas-
sione allora pareva che la natura si lamentasse e il suo accento aveva
qualcosa di cosi dolce ed affettuoso che piegava al suo volere chi lo
ascoltava».
Un riflesso della sua capacità di autocontrollo è la corrispondenza
numerosissima e varia. Un animo che non fosse abitualmente unito a
Dio difficilmente avrebbe resistito alla tentazione di rispondere ad armi
pari a certe lettere provocatorie ed ingiuriose. Sapeva invece essere con-
ciliante e delicato. Era sua legge non rispondere quando si sentiva agi-
tato dalla passione: pregava, lasciava passare ore e giorni finché non
fosse ritornata in lui la calma assoluta.

4 Pages 31-40

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4.1 Page 31

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Cap. I: La fatica di farsi santo 29
«Più volte - scrive ad esempio al Teologo Valinotti riguardo alla
sofferta vertenza sulle Letture Cattoliche - ieri mi provai per risponde-
re, ma l'agitazione me l'ha sempre impedito. Questa mattina soltanto
dopo aver celebrato il sacrificio della S. Messa e raccom'andato ogni
cosa al Signore, rispondo semplicemente narrando le cose nel reale loro
aspetto... ».
Il Card. Cagliero ha evocato nei processi canonici un episodio della
vita del Santo che dà la misura della sua eroica capacità di reagire con
calma alle contrarietà. Si era nel gennaio del 1875: Don Bosco pranzava
tranquillamente con i confratelli, quando gli si avvicina Don Rua e gli
comunica che deve versare la somma di L. 40.000 - cifra ingente per
quel tempo - per avallo di una cambiale firmata in favore di un amico
morto improvvisamente e che gli eredi si rifiutavano di pagare. Quale fu
la sua reazione? «Stava mangiando la minestra - racconta il teste-:
vidi che tra un cucchiaio e l'altro, si era in gennaio e la sala non era
riscaldata, gli cadevano dalla fronte nel piatto gocce di sudore, ma senza
affanno e senza interrompere la modesta refezione».
C'è tanta verità in questa affermazione del Teol. Savio Ascanio:
«Aveva saputo dominare talmente il suo carattere bilioso da parere
flemmatico; e cosl mansueto da accondiscendere sempre ai suoi alunni,
purché non ne andasse di mezzo la gloria di Dio o il bene delle anime».
La fatica sostenuta da Don Bosco per farsi santo è stata davvero
grande, benché non conclamata e poco manifesta. Riferendosi alla pie-
nezza della sua santità, Pio XI, nel discorso del 17 giugno 1932 agli
alunni dei Pontifici Seminari Romani, l'ha come sintetizzata in queste
vigorose affermazioni: «La sua vita di tutti i momenti era una immola-
zione continua di carità, un continuo raccoglimento di preghiera; è que-
sta l'impressione che si aveva più viva della sua conversazione [...]. Si
sarebbe detto che non attendeva a niente di quello che si diceva intorno
a lui; si sarebbe detto che il suo pensiero era altrove, ed era veramente
cosl; era altrove: era con Dio in spirito di unione. Ma poi eccolo a
rispondere a tutti e aveva la parola esatta per tutto e per se stesso, cosl
proprio da meravigliare: prima infatti sorprendeva e poi meravigliava.
Questa vita di santità e di raccoglimento, di assiduità alla preghiera il
Beato menava nelle ore notturne e fra tutte le occupazioni continue ed
implacabili delle ore diurne».

4.2 Page 32

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Capitolo II
PROFONDAMENTE UOMO
«Se Dio vuol fare dei santi - scrive Bossuet - qualche cosa che sia
degno di lui, bisogna che li rivolga da tutti i lati per plasmarli intera-
mente a suo modo, e che abbia riguardo alle loro disposizioni naturali
solo quel tanto che sarà necessario per non far loro violenza».
Nella santità tutto è dono di Dio, anche la risposta eroica alla sua
chiamata. Ma Dio è infinitamente rispettoso della personalità dei santi
e più di quanto non lasci intendere Bossuet. La sua grazia, cioè la sua
azione divina in noi, attraversa la natura e la rispetta, non la limita. Di
certo Dio può fare cose grandi in creature limitate. È il caso, ad esem-
pio, di S. Giuseppe da Copertino; privo di elementari risorse umane,
Dio ne ha fatto un vaso di elezione che non ha riscontro nelle raccolte
dei Bollandisti. Ma i grandi capolavori della grazia sorgono normal-
mente in creature molto dotate, come nel caso di Don Bosco, che Jrer-
gensen definisce, non senza enfasi: «uno degli uomini più completi e più
assoluti che abbia conosciuto la storia». È del resto la forte impressione
riportata da Pio XI nei tre giorni trascorsi a Valdocco con il Santo
(1883): «Noi l'abbiamo veduta da vicino questa figura, in una visione
non breve, in una conversazione non momentanea; una magnifica figu-
ra, che l'immensa, l'insondabile umiltà non riusciva a nascondere... una
figura di gran lunga dominante e trascinante: una figura completa, una
di 'quelle anime che, per qualunque via si fosse messa, avrebbe certa-
mente lasciato grande traccia di sé, tanto egli era magnificamente attrez-
zato per la vita>>.
Anche L. Hertling, storie.o riconosciuto di storia della Chiesa, asso-
cia il nome di Don Bosco a quello degli spiriti umanamente più dotati:
«Agostino, - scrive - Francesco, Caterina da Siena, Don Bosco,
vanno annoverati tra i fiori e i culmini dell'umanità».
Ciò che di primo acchito colpiva in Don Bosco era l'uomo, prima
che il santo. Se la sua profonda unione con Dio non poteva essere
·oggetto diretto di osservazione, lo erano invece le sue splendide qualità
umane attraversate e sublimate dalla grazia. Ed erano davvero tante;
contrarie e complementari, concatenate ed armonicamente fuse tra di
loro.

4.3 Page 33

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Cap. Il: Profondamente uomo 31
Di Don Bosco si poteva dire infatti che era insieme: gioioso e auste-
ro, schietto e rispettoso, esatto e libero di spirito, umile e magnanimo,
tenace e duttile, tradizionale e moderno, ottimista e previdente, diplo-
matico e sincero, povero e fa la carità, coltiva l'amicizia ma non fa pre-
ferenze, rapido nelle concezioni prudente nell'esecuzione, ama le cose
fatte bene ma non è perfezionista, vede in grande ma ha il genio del
concreto, audace fino alla temerità avanza con circospezione, sa farsi
amico l'avversario ma non abdica ai suoi principi, dinamico non estro-
verso, coraggioso non temerario, volge tutto ai suoi fini ma non mani-
pola le persone, educa prevenendo e previene educando, fugge col
mondo - vuole essere all'avanguardia del progresso - ma non è del
mondo.
Queste ed altre antinomie positive danno la misura della vera gran-
dezza di Don Bosco: «Per misurare l'apertura delle ali dell'aquila biso-
gna distenderle e notare le opposte estremità, allora si può giudicare
della loro forza: lo stesso avviene delle virtù dei santi, delle quali non
si può valutare la grandezza che opponendole tra di loro» (H. Petitot).
Le antinomie positive che stagliano la figura umana di Don Bosco,
trasfigurate dalla carità pastorale, sono uno splendido accordo di natura
e di grazia. La sua ricchezza umana, è stato rilevato opportunamente,
era cosl integrata nella santità, che ne diventava quasi il sacramento, e
i doni di grazia, quando si manifestavano, erano come una glorificazione
della sua umanità.
La natura è anzitutto la forma che Dio ha dato alla sua grazia e,
quando l'uomo corrisponde, risplende anche all'esterno. «Tutto è
umano in Don Bosco - ha detto Daniel Rops - e nello stesso tempo
tutto sprigiona misteriosamente una luce soprannaturale».
Tra le antinomie positive della sua esistenza vogliamo qui sottoli-
nearne brevemente tre: la volontà indomita e.flessibile; la bontà paterna
ma esigente; la sensibilità profonda unita a grande fortezza di animo.
Volontà indomita ma flessibile
Don Bosco fu nel suo secolo, a giudizio di Huysmans, «un inaudito
agente d'affari di Dio», È difficile non convenire su questo giudizio che
esalta il talento organizzativo e realizzatore del Santo e, implicitamente,
la sua volontà di ferro «indomita ed indomabile» (Pio XI). È il marchio
di fabbrica della .gente astigiana e langarola; ma lui l'aveva ereditata in
misura non comune.
La portava, a cosl dire, scritta nel vigore della sua mente e dei suoi

4.4 Page 34

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32 Parte I: Lineamenti
muscoli, nella innata capacità di azione, nella forte sicurezza di sé; una
volontà che non sembrava conoscere la parola «impossibile». L'aveva
esercitata da piccolo nel rude lavoro dei campi, nel travolgere gli osta-
coli che si opponevano ai suoi studi e alla sua vocazione; la eserciterà
in grande da adulto. Portato all'azione, rifuggiva dalle astrazioni di
scuola. «Monsignore - dirà un giorno al Vescovo di Casale Mons.
Ferré che voleva trascinarlo in una disputa filosofica - io non ho tempo
per occuparmi di queste cose perché il campo assegnatomi da Dio è non
delle idee, ma delle opere e sebbene sia vero che dal retto pensare viene
il retto operare, per rettamente operare basta il pensare e il sentire con
il Papa».
Forte nel volere, era lento nel deliberare. Meditava a lungo i suoi
progetti, li confrontava con la sua esperienza, domandava consiglio,
interrogava il Signore nella preghiera assidua, ma quando aveva preso
una decisione, più nessun ostacolo sembrava fermarlo. «Don Bosco -
diceva - non è un uomo da arrestarsi a mezza via quando ha messo
mano ad un'impresa». E ancora: «Quando incontro una difficoltà faccio
come chi camminando trova impedito il passo da un macigno. Cerco
prima di allontanarlo, ma se non riesco o lo scavalco o gli giro intorno.
Cosi, quando ho incominciato a fare una cosa, se mi si para innanzi un
ostacolo, la sospendo, per mettere mano a un'altra; ma la tengo sempre
d'occhio. Ed intanto le nespole maturano e le difficoltà si appianano».
L'essersi costantemente ispirato al «criterio del possibile» non
significa che egli sia stato un pragmatista puro e che abbia fatto della
pura prassi la legge della sua vita. La sùa azione infatti è sempre vista
alla luce di saldi principi soprannaturali e di meditate convinzioni reli-
giose. Il suo schietto ottimismo - altro criterio di azione - affonda in
regioni superiori. Sa e sente che Dio è con· lui.
Volitivo al massimo Don Bosco è però anche flessibile ed arrende-
vole, non solo nel perseguire «a piccoli passi» le mete che si prefigge,
ma anche nell'esercizio stesso del suo volere e non volere. Il suo «si-
stema pedagogico» è un capolavoro di «ragionevolezza, amorevolezza,
religiosità»; non c'è spazio per la volontà d'impegno, per la legge del-
l'inflessibilità. Sulla «freddezza del regolamento» devono prevalere le
ragioni della bontà e del cuore.
L'educazione per Don Bosco è infatti «cosa di cuore». Sapeva, per
collaudata esperienza, che l'animo dei giovani «è una fortezza chiusa
sempre al rigore ed all'asprezza»; se ne diventa padroni solo passando
per le vie del cuore e del libero consenso.
In lui nulla di rude o di duro, come il suo temperamento volitivo

4.5 Page 35

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Cap. II: Profondamente uomo 33
potrebbe far pensare, bensl un comportamento paterno, amabile,
capace di comprendere ed adattarsi ai gusti dei piccoli, per indurli ad
amare le cose che amano i grandi, anche quando non piacciono.
Ma, al di di quanto ha esplicito riferimento al sistema preventivo,
c'è il vasto campo dell'ubbidienza che Don Bosco non ha mai rifiutato
né alle autorità religiose né alle disposizioni legittime delle autorità civi-
li. Temperamento di «resistenza o di assalto», come qualcuno lo ha defi-
nito, non era naturalmente portato alla sottomissione. Canonizzandolo,
la Chiesa ha proclamato che la sua ubbidienza è stata eroica, come
dimostra, ad esempio, l'accettazione incondizionata della famosa «Con-
cordia» fatta preparare dalla S. Sede per appianare i malintesi che si tra-
scinavano da anni tra lui e il suo Arcivescovo. Il documento imponeva
a Don Bosco pesanti e non motivate ritrattazioni. Quando lesse il testo
del documento al suo Consiglio fu una costernazione generale: tutti,
eccetto il Cagliero, lo consigliarono a prendere tempo, a far valere le sue
buone ragioni. Ma Roma aveva parlato e per il Santo era causa finita:
la «Concordia» fu accettata ed integralmente osservata.
Don Bosco più tardi confiderà che quell'ubbidienza gli era costata
moltissimo. Il Sommo Pontefice aveva calcato la mano su di lui perché
sapeva di poter contare sulla sua virtù. All'interno della volontà di Don
Bosco energia di volontà e flessibilità si complementavano.
Paternità amabile ed esigente
«Nessuna delle grandi realtà della vita umana - ha scritto R. Guar-
dini - è balzata dal puro pensiero: tutte dal cuore e dal suo amore».
Non è possibile pensare a Don Bosco e alla sua opera senza evocare la
sua dolce bontà patema, il suo grande «Cuore oratoriano», fondamento
della sua pedagogia.
Non il cuore «monumentale dei filantropi - precisa Don A. Cavi-
glia - che è marmo e bronzo», ma il cuore in cui vibra la «bontà
patema e la tenerezza materna per i piccoli e per i poveri tra i piccoli».
Diceva: «Mi fanno tanta pena questi poveri ragazzi, che se fosse possi-
bile darei loro il mio cuore in tanti pezzi». Era la reale immagine di
quella che S. Gregorio di Nissa chiama la «filantropia di Dio».
La liturgia lo saluta «Padre e Maestro dei giovani»; maestro perché
padre. Gli era caro questo nome perché racchiudeva una aspirazione e
preoccupazione costante della sua vita: costruire una famiglia dei «senza
famiglia» intorno al padre.
«Don Bosco più che una società- attesta Don Filippo Rinaldi, suo
3

4.6 Page 36

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34 Parte I: Lineamenti
terzo successore - intendeva formare una famiglia fondata quasi uni-
camente sulla paternità soave, amabile, vigilante del superiore e sull'af-
fetto 6liale, fraterno dei sudditi; anzi pur mantenendo il principio del-
l'autorità e della rispettiva sudditanza, non desiderava distinzioni, ma
uguaglianza fra tutti in tutto».
Godeva nel sentirsi chiamare padre: «Chiamatemi sempre padre e
sarò felice». Il sentire la paternità e la famiglia era una caratteristica del
suo tempo, che è anche tempo di paternalismo. La centralità del padre
e il rispetto dei figli era insieme fatto di cultura e atto virtuoso.
Le ideologie del nostro tempo, che hanno messo pesanti ipoteche
sulla figura paterna, sono oggi in difficoltà. Assistiamo infatti ad un
riflusso verso il padre, non più continente nero da rimuovere, ma figura
centrale e necessaria alla crescita armonica, equilibrata dei figli, sia pure
con modalità di presenza e forme nuove.
Un padre più autorevole che autoritario, più vicino al modello che
alla legge, più amico e fratello che personaggio. Da questo punto di
vista Don Bosco, al di là di certi modi espressivi propri del suo ambien-
te, si rivela un nostro contemporaneo: tanto il suo modo di essere padre
è in sintonia con le aspirazioni moderne. Lui che raccomandava ai suoi
direttori: «Più che superiori siate padri, fratelli, amici». Senza dubbio
il suo essere padre trova la sua più essenziale ragione di essere in quella
paternità nella fede di cui parla spesso S. Paolo (1Ts 2,7-8.10-11). Una
paternità tuttavia alla quale non manca lo splendore umano.
Questo orfano di padre a due soli anni, ebbe del padre naturale -
eccettuata la carne e il sangue - si può dire tutto: l'amore tenero e forte
verso i figli di adozione, la resistenza alle fatiche e ai dolori propria del
padre, l'acuto senso di responsabilità del capo di famiglia e quella dedi-
zione senza limiti che ha riscontro solo nell'eroismo materno. Tutta la
sua vita lo prova; e lo provano affermazioni di una sincerità estrema
come quest.e: «In qualunque giorno, in qualunque ora fate pure capitale
sopra di me, ma specialmente nelle cose dell'anima. Per parte mia vi do
tutto me stesso: sarà cosa meschina, ma quando vi do tutto vuol dire che
non riservo nulla per me».
Ai superiori e giovani del Collegio di Lanzo scrive: «La vostra let-
tera segnata da 200 mani amiche e carissime ha preso possesso di tutto
questo cuore, cui nulla più è rimasto se non un vivo desiderio di amarvi
nel Signore, di farvi del bene, salvare l'anima di tutti».
Espressione sublime di tenerezza paterna è la famosa lettera da
Roma del 1884 ai suoi «carissimi figliuoli». C'è la sintesi del suo spirito,
della sua esperienza pedagogica, della sua spiritualità, c'è, sopra tutto,

4.7 Page 37

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Cap. Il: Profondamente uomo 35
il suo «cuore». Riportiamo solo due &asi: «La mia lontananza da voi,
il non vedervi, il non sentirvi, mi cagiona pena, quale voi non potete
immaginare». «Chi vuole essere amato bisogna che faccia vedere che
ama». In che modo? Con la «familiarità», la «dolcezza», la «carità», la
«confidenza», la «fiducia». Una bella testimonianza di questo suo «sa-
per farsi amare» è resa dal suo giovane segretario, il Ch. C. Viglietti.
La curiosità lo aveva spinto a leggere anche alcune lettere riservate;
ne sentl rimorso e lo disse a Don Bosco. Quale fu la reazione del Santo?
«Mi strinse commosso al cuore, raccolse quante lettere aveva sul tavolo
confidenziali o no, e me le diede tutte».
Questa «bontà eretta a sistema» andava diritta al cuore dei giovani
e lasciava, nei più sensibili, tracce indelebili.
Con verità S. Leonardo Murialdo ha potuto attestare: «La carità che
Don Bosco aveva verso i giovani faceva sl che essi pure lo riamassero di
sincero affetto ed in tal grado che non si saprebbe trovare altro esempio
da mettere al confronto».
Evocando il tempo passato con Don Bosco, Don Orione oserà dire:
«Camminerei su carboni ardenti per vederlo ancora una volta per dirgli
grazie».
Splendida la testimonianza di Don Paolo Albera suo secondo suc-
cessore: «Bisogna dire che Don Bosco ci prediligeva in modo unico
tutto suo: se ne provava il fascino irresistibile. Io mi sentivo come fatto
prigioniero da una potenza affettiva che mi alimentava i pensieri, le
parole e le azioni. Sentivo di essere amato in modo non mai provato pri-
ma, singolarmente, superiore a qualunque affetto. Ci awolgeva tutti e
interamente quasi in una atmosfera di contentezza e di felicità. Tutto in
Lui aveva una potenza di attrazione, operava sui nostri cuori giovanili
a mo' di calamita a cui non era possibile sottrarsi e, anche se l'avessimo
potuto, non l'avremmo fatto per tutto l'oro del mondo, tanto si era felici
di questo singolarissimo ascendente sopra di noi, che in lui era la cosa
più naturale senza studio e senza sforzo alcuno; e non poteva essere
altrimenti, perché da ogni sua parola e atto emanava la santità dell'u-
nione con Dio che è carità perfetta. Egli ci attirava a sé per la pienezza
del!'amore soprannaturale che gli divampava in cuore. Da questa singo-
lare attrazione scaturiva l'opera conquistatrice dei nostri cuori. In lui i
molteplici doni naturali erano resi soprannaturali dalla santità della sua
vita».
«Sempre padre», Don Bosco non fu però mai un padre permissivo
ed imbelle; non dimissionò mai dalle sue responsabilità. Le parti odiose
le lasciava ai suoi collaboratori; tutti però sapevano che era intransigente

4.8 Page 38

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36 Parte I: Lineamenti
e fermo, specialmente in fatto di furto, di bestemmia e di scandalo.
«Don Bosco - asseriva - è il più gran bonomo che vi sia sulla ter-
ra: rovinate, rompete, fate biricchinate, saprà compatirvi; ma non state
a rovinare le anime, perché allora egli diventa inesorabile». Racconta il
Card. Cagliero: «Durante il mio chiericato un giovanetto semplice e
innocente era stato vittima di scandalo da parte di un adulto. Don
Bosco non appena lo venne a sapere ne senti un estremo dolore, si
turbò e pianse alla mia presenza. Con paterna dolcezza riparò l'inno-
cenza tradita, ma con pari fermezza procurò che fosse subito allontanato
il colpevole».
Anche in simili casi non veniva però meno la sua grande paternità.
Non castigava il colpevole ma lo chiamava a sé, gli faceva comprendere
la gravità del male fatto; lo esortava a pentirsi, poi, sempre a malincuo-
re, lo rimetteva ai parenti o ai benefattori; gli restava tuttavia ancora
amico. La disobbedienza voluta, ostinata lo trovava particolarmente
severo. Sciolse, su due piedi, nel 1859 la banda musicale, orgoglio del-
l'Oratorio, perché si era contravvenuto alle sue ripetute e ferme dispo-
sizioni; tutti i componenti, eccetto quattro, furono mandati via dalla
casa.
Paterno, ma intransigente, anche con i suoi diretti collaboratori.
Don Celestino Durando, Consigliere scolastico, contravvenendo ad un
suo ordine, aveva cambiato il programma della cosiddetta «scuola di
fuoco»; i più deboli si erano scoraggiati e ritirati. Don Bosco, dispiaciu-
to, manifestò il suo disappunto. «Se si fosse fatta l'obbedienza, questo
sconcio non sarebbe avvenuto». L'interessato tentò di dare uno schia-
rimento: «Non è questa la questione - interruppe recisamente Don
Bosco -; la questione è che eravamo intesi cosi e che l'obbedienza por-
tava a fare cosi». Da chi era obbligato a maggior perfezione il Santo la
esigeva.
Non finiremo mai di esplorare lo spessore della bontà paterna di
Don Bosco: ma se al suo interno non trovassimo unite, in positiva com-
plementarità, dolcezza e fermezza, bontà e severità, non saremmo più di
fronte a vera paternità.
Sensibile e forte
È la terza antinomia positiva sulla quale vogliamo richiamare l'atten-
zione. Don Bosco era un uomo di sensibilità squisita e profonda, capace
di intensa vibrazione; un uomo anche facile alla commozione e all'inte-
nerimento affettivo, capace di gioire e di soffrire con gli altri. Il suo

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Cap. Il: Profondamente uomo 37
medico conferma di essere stato colpito, nei colloqui intimi che aveva
frequentemente con Don Bosco, dalla sua «sensibilità estrema propria
dei geni più sublimi» mai disgiunta dalla «eccezionale squisitezza della
sensibilità morale». Una sensibilità innata che aveva in sé qualcosa di
tenero e di materno attinto alla scuola di Mamma Margherita e di Maria
SS.ma, presenza sempre attiva nella sua vita.
Questa sensibilità, che si affinerà con gli anni, ha già chiare manife-
stazioni nella sua giovinezza.
Tutti i fanciulli sono facili al pianto, ma dimenticano facilmente.
Giovannino invece piange la morte del suo piccolo merlo e ne soffre per
più giorni. Più tardi la morte improvvisa di Don Calosso e poi quella
dell'amico Comollo lo gettano in una costernazione duratura e profon-
da. Giovane sacerdote si commuove profondamente alla vista dei gio-
vani abbandonati che incontra nei viali e nelle piazze di Torino, e dietro
le sbarre della prigione. Non regge all'agonia della madre; deve ritirarsi
a pregare nella stanza vicina. Leggendone più tardi la vita scritta da Don
Lemoyne non riusciva a trattenere le lacrime. Anche il semplice ricordo
di Domenico Savio lo commuove: «Ogni volta che correggo queste
bozze mi tocca pagare il tributo delle lacrime».
Partecipa con intensità alle sofferenze dei suoi giovani in caso di
malattie, di morte di parenti, di disgrazie. Lo commuovono le più pic-
cole attestazioni di affetto, i ricevimenti dopo le lunghe assenze dall'O-
ratorio, i gesti di bontà dei benefattori, degli amici.
L'intenerimento si fa più forte nella terza età. Si commuove al sem-
plice pensiero dei missionari lontani: «Voi siete partiti e mi avete stra-
ziato il cuore». Lacrime spuntano sui suoi occhi quando gli si dice che
non ha bisogno di preghiere: «Ne ho molto bisogno!». Piange alla pre-
dica di Don Rua sull'amore di Dio.
Al di là dell'intenerimento naturale, Don Bosco ebbe anche il
«dono» spirituale delle lacrime, come si legge di altri santi. Oggi si è
poco sensibili di fronte a questo aspetto dell'ascesi cristiana, perché l'u-
manità si è fatta più adulta. Eppure, a ben considerare, il «dono» delle
lacrime, quando è vero, è indice di grande santità. Nasce nell'anima
colma di Dio, quando ne considera, con stupore, l'infinita grandezza,
quando contempla il suo amore salvifico, la sua misericordia, la sua
bontà e la sua giustizia; quando medita sulla passione del Signore, sulla
gravità del peccato, sul danno eterno ed in generale sui misteri della
nostra fede.
Il Card. Cagliero, la cui testimonianza è sempre molto affidabile, ha
potuto asserire: «Mentre Don .Bosco predicava sull'amor di Dio, sulla

4.10 Page 40

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38 Parte I: Lineamenti
perdita delle anime, sulla Passione di Gesù Cristo nel Venerdi Santo,
sulla SS.ma Eucaristia, sulla buona morte e sulla speranza del paradiso,
lo vidi io più volte, e lo videro i miei compagni, versare lacrime, ora di
amore, ora di dolore, ora di gioia; e di santo trasporto quando parlava
della Vergine SS.ma, della sua bontà e della sua immacolata purità».
La sensibilità di Don Bosco era cosi intensa che avrebbe potuto
rompere i delicati equilibri interni qualora non avesse posseduto, come
virtù complementare, il pieno dominio dei suoi sensi, delle sue facoltà
superiori ed una fortezza d'animo a tutta prova.
È nota, nei grandi sensitivi, l'estrema vulnerabilità dell'amor pro-
prio, l'alternanza di umore, l'irritabilità ed il turbamento per cose da
nulla, la facilità a lasciarsi andare sfrenatamente.
Abbiamo già ricordato con quale eroismo Don Bosco abbia saputo
dominare e volgere al bene gli aspetti devianti del suo temperamento
che avrebbero potuto fame un uomo funesto ed un santo fallito. Non
ci ripetiamo. Ricordiamo solo che senza la sua profonda sensibilità
sarebbe mancata all'«amorevolezza» salesiana, che è capacità di amare
e di farsi amare attraverso segni visibili, qualcosa di essenziale. Ma que-
sto non sarebbe stato possibile senza la sua illibata purezza, senza il
rispetto sommo portato alla personalità del giovane. Non accarezzava,
non baciava i giovani come fanno le mamme.
Per dare un premio o un segno di benevolenza si limitava a mettere
loro, per un istante, la mano sul capo o sopra una spalla o sulla guancia
appena appena sfiorata con le dita. «In questi atti - attesta il Teol.
Reviglio - vi era un non so che di puro, di cosi castigato, di cosi
paterno che pareva infonderci lo spirito della sua castità a segno che noi
ci sentivamo rapiti».
Anche qui «sensibilità» e «dominio di sé», «tenerezza» e «fortezza»
sono virtù complementari: non è possibile circoscriverne una senza
imbattersi nell'altra.
·

5 Pages 41-50

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5.1 Page 41

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Capitolo ID
PIBNAMENTE SANTO
Quando il giornalista inglese Douglas Hyde manifestò ad Ignazio
Silone il proposito di scrivere una vita di Don Orione, la risposta del
narratore, che più ha contribuito a far conoscere la letteratura italiana
di oggi nel mondo, è stata questa: «Qualunque cosa facciate, quando
scriverete di lui, vi supplico di non trasformare Don Orione in una spe-
cie di Beveridge cattolico (noto economista inglese). Sarebbe uno smi-
nuirne la statura. Certo Don Orione si occupò di opere caritative come
molti altri, e ancora di giustizia sociale. La sua forza eccezionale è riposta,
però, nel fatto che in tutto ciò che faceva egli contava unicamente e com-
pletamente su Dio».
Non altrimenti si deve pensare di Don Bosco. La sua esistenza si
spiega solo con Dio; solo alla luce della sua santità che è insieme nasco-
sta e manifesta.
Santità nascosta
Durante la sua vita terrena Don Bosco ha occultato più che mani-
festato la sua santità. Molti gli passarono accanto senza avvedersene; ed
anche quando la sua fama di «santo» aveva già varcato i confini d'Italia
e di Europa, vi fu sempre chi lo ritenne, paradossalmente, più intrigante
che virtuoso. «Don Bosco! Don Bosco è un bugiardo - parla il Card.
Ferrieri - un impostore, un prepotente che vuole imporsi alla S. Con-
gregazione[...]. Ma insomma che cosa vuole Don Bosco? Non ha scien-
za, non ha santità. Avrebbe fatto meglio a stare alla direzione di un
Ordinario, senza ostinarsi a voler fondare una congregazione». Lo si
considerava troppo «furbo», troppo «ostinato», troppo «avido di dena-
ro», troppo facile a «parlare e far parlare di sé».
Nel mondo dei santi vige la legge della gravitazione: i santi si atti-
rano reciprocamente, si comprendono subito. Eppure S. Leonardo
Murialdo, che conobbe Don Bosco verso il 1851, confessa di aver sten-
tato a credere alla sua santità. Cambiò idea solo più tardi quando «prese
ad entrare in confidenza con lui», quando si avvide che in suo favore
parlavano «le sue opere che rivelavano l'uomo non ordinario».

5.2 Page 42

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40 Parte I: Lineamenti
La fama di santità si era invece affermata nell'ambiente dell'Oratorio
molto per tempo. La Commissione, intesa a registrare fatti e parole di
Don Bosco che rivelassero in lui «qualcosa di soprannaturale», risale al
1861, quando egli aveva superato di poco i quarantanni. Ma anche a
quelli che vissero con lui, fin dal principio, la sua «vita - avverte il
Card. Cagliero- sembrava ordinaria e comune come quella di qualun-
que sacerdote esemplare».
Ha scritto E. Ceria: «Pochi uomini furono così straordinari sotto
così ordinarie apparenze. Nelle cose grandi come nelle piccole, sempre
la medesima naturalezza, che di primo tratto non rivelava in lui nulla
più di un buon prete».
Un «buon prete» certamente, ma non tale da far pensare alla grande
santità, alla santità canonizzabile. «Vedevo e sapevo - confidava Don
Gresino - che Don Bosco era un ottimo prete, che lavorava solo per
noi ed era benvoluto da tutti. Ma l'idea di possibili processi o di santità
canonica non mi sfiorava la mente».
Così Filippo Rinaldi, così altri. L'essenza più vera della sua santità
rimaneva nascosta dal suo fare semplice, bonario e del tutto naturale.
Era volontà di non manifestare ad altri il segreto di Dio, era senso pro-
fondo dell'umiltà, ma era anche natura. Il temperamento piemontese
rifugge, generalmente, dalle effusioni intimistiche. Quando il marito,
ancora oggi, si rivolge alla moglie, è difficile che la chiami per nome. Le
dice semplicemente «ti». Ma un «ti» detto nell'astigiano o «là sull'alta
Langa - scrive F. Piccinelli - significa: "ascolta", significa legami
veri».
Don Bosco ha sempre parlato molto dei suoi progetti, delle sue ope-
re; si è sempre confidato con semplicità coi suoi figli: «Con voi non ho
segreti»; ma la sua vita intima non la manifestava a nessuno. «Le sue
pagine autobiografiche - scrive P. Stella-, i suoi ricordi personali non
sono come quelli di S. Teresa di Avila, e nemmeno come quelli di
Teresa di Lisieux. Sono in gran parte tardivi e rarissimamente - fuga-
cissimamente - si riesce a sorprendere Don Bosco a esprimere intimi
sentimenti religiosi, le motivazioni del suo agire».
Non era in gioco solo il temperamento: chi guardava Don Bosco dal
di fuori restava colpito, prima che dalla autentica santità, dalla sua atti-
vità incessante, dal suo talento organizzativo, dall'imponenza delle ope-
re. La facciata esterna poteva così nascondere le profondità interiori,
come bene rileva E. Ceria: «Diremo che negli anni della massima atti-
vità non tutti s'avvidero che uomo d'orazione fosse Don Bosco; anzi
oseremmo aggiungere che non sempre neppure coloro che scrissero

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Cap. ill: Pienamente santo 41
delle cose sue penetrarono a fondo il suo intimo spirito di preghiera,
sollecitati di narrarne i fatti grandiosi».
Anche l'apparente disordine che regnava nelle case di Don Bosco,
nei loro difficili inizi, non deponeva a favore della sua santità. Chi non
conosceva la vita di famiglia che si viveva a Valdocco, dove fraternizza-
vano superiori ed alunni, dove regnavano sovrani il timor di Dio e la
carità evangelica; chi aveva in mente altri modelli educativi, poteva
anche dubitare che quello adottato dal Santo fosse veramente valido e
formativo. «Se Don Bosco avesse realmente spirito di pietà- diceva tra
il futuro Card. Parocchi molestato dal brusio che facevano i ragazzi
in sacrestia - dovrebbe impedire simili disordini».
Mons. Tortone, incaricato ufficiale della S. Sede presso il governo,
nel suo rapporto, inviato il 6 agosto 1868 alla S. Congregazione dei
Vescovi e Regolari, sull'andamento dell'Oratorio non nasconderà la
«penosa impressione» provata nel vedere, in tempo di ricreazione, chie-
rici e giovani «correre, giocare, saltare ed anche regalarsi qualche scap-
pellotto, con poco decoro per parte degli uni e con poco o niun rispetto
da parte degli altri. Il buon Don Bosco, pago che i chierici stiano con
raccoglimento in chiesa, poco si cura di formare il loro cuore al vero spi-
rito ecclesiastico».
Di certo Don Bosco amava le cose fatte bene, ma non fu mai per-
fezionista. Tollerava con bontà e pazienza le esuberanze giovanili dei
suoi collaboratori, pago di scorgere in essi spirito di vera pietà, amore
al lavoro, moralità a tutta prova. Nessuno più di lui era convinto che le
cose non nascono né perfette né adulte; lo diventano solo col tempo.
«Le opere di Dio - era sua massima - si compiono ordinariamente
poco a poco». I fatti gli davano ragione: le sue imprese cominciavano
generalmente con un certo disordine, ma finivano nell'ordine.
Diceva nel 1875: «Nei primi tempi dell'Oratorio avvenivano non
pochi disordini esteriori [...]. Io vedeva quei disordini, avvertiva chi ne
aveva bisogno, ma lasciava che si andasse avanti come si poteva, perché
non si trattava di offesa di Dio. Se avessi voluto togliere i vari inconve-
nienti in una volta, avrei dovuto mandar via tutti i giovani e chiudere
l'Oratorio, perché i chierici non si sarebbero adattati ad un nuovo regi-
me. Spirava sempre una certa aria di indipendenza che metteva in uggia
ogni pastoia».
Don Bonetti avrebbe voluto che nel suo collegio tutto andasse a per-
fezione. Don Bosco gli scriveva: «L'ottimo è quanto cerchiamo», ma
soggiungeva realisticamente: «Purtroppo dobbiamo accontentarci del
mediocre, in mezzo a molto male». Al Cafasso che insisteva: «Il bene

5.4 Page 44

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42 Parte I: Lineamenti
va fatto bene», rispondeva convinto: «Talora il bene basta farlo alla
buona in mezzo a tante difficoltà».
La sua ricorrente affermazione: «L'ottimo è nemico del bene»,
interpreta realmente una delle convinzioni più radicate della sua vita. La
smania del perfetto non paralizzò mai le sue iniziative benefiche. Sem-
pre ritenne più utile alla causa del Regno fare il bene anche «alla buo-
na», anziché differirlo in vista di un futuro ipotetico «meglio». Anche
con un limone di scarto si può ancora fare una limonata passabile. Con
mezze personalità il Santo sapeva fare miracoli.
Diremo infine che certi modi di fare del Santo, arguto e disinvolto,
il suo stesso modo di presentarsi al pubblico non erano sempre tali da
dare la misura esatta della sua santità.
La signora Beaulieu di Nizza, avendo conosciuto il S. Curato d'Ars,
era corivinta di essersi fatta una giusta idea della santità. Rimase sor-
presa quando, partecipando ad un banchetto in onore di Don Bosco, lo
vide alzarsi col bicchiere in mano e brindare lietamente in onore dei
convitati. «È questo un santo?» pensava tra sé. Cambiò idea quando si
sentl dire benevolmente: «Sia che mangiate, sia che beviate, ogni cosa
fate nel nome del Signore».
Quando il benedettino Mocquereau se lo vide davanti «lunga la bar-
ba, lunghi e spettinati i capelli, lasciati andare con grande disordine in
tutte le direzioni, poi abiti logori... » ne riportò una impressione piutto-
sto deludente: «Quel primo istante fu per me puramente naturale».
Chi però non si fosse lasciato sviare dalla prima impressione e lo
avesse osservato più attentamente, soprattutto nell'ultimo scorcio di
vita, non avrebbe durato fatica a scorgere nel suo volto «lo stampo di
un uomo creato da Dio per qualche cosa[...]. Quello che in lui colpisce
è la finezza del sorriso, l'occhio furbo e un'aria di bontà superiore e di
volontà indomita» (Saint Genert, corrispondente del Figaro).
Santità manifesta
Santità nascosta e insieme manifesta; ecco un altro dei tanti para-
dossi della vita di Don Bosco. Per temperamento e per deliberato spirito
di umiltà, egli era portato a nascondere il suo mondo interiore, ad
occultare il meglio di sé; ma la santità balenava nei suoi occhi, filtrava
come la luce attraverso l'alabastro da tutta la sua persona, si poteva
scorgere nell'insieme del suo comportamento. Come l'artista stampa la
sua impronta nelle sue opere cosi Don Bosco aveva lasciato l'impronta
della sua santità in quello che aveva pensato, detto, scritto, fatto e fatto

5.5 Page 45

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Cap. ill: Pienamente santo 43
fare. La bontà dell'albero si giudica dai frutti; la santità dalle opere della
santità. Esse sono altrettanti spiragli attraverso i quali la Chiesa si
addentra nell'animo dei santi e ne valuta l'eroismo evangelico.
Le migliaia di pagine degli atti processuali sono un elevato inno alla
virtù di Don Bosco. Studiandone la causa consultori e giudici non tar-
darono infatti a rendersi conto che, se apparentemente la sua vita sem-
brava dispersa in mille attività esteriori, in realtà aveva unicamente Dio,
e solo Dio, come centro di gravitazione suprema. Era vero quanto di
Don Bosco scriveva P. Albera: «Se lavorare sempre fino alla morte è il
primo articolo del codice salesiano da lui [Don Bosco] scritto più col-
i'esempio che colla penna, gettarsi in braccio a Dio e non allontanarsene
mai più fu l'atto suo più perfetto».
Risultava evidente che alle radici della sua attività multiforme vi
erano unicamente ragioni di ordine soprannaturale: la sua totale ade-
sione a Cristo, al suo Spirito, alla Chiesa. E risultava ancora evidente
che la ricchezza della sua intimità con Dio non aveva conosciuto soste,
essendosi intensificata fino ad invadere, in forma più assoluta e traspa-
rente, la sua intera esistenza.
È stato detto che tutti i santi sono, in senso traslato, figli del periodo
gotico: pieni dell'infinita aspirazione verso l'alto, per i quali il sufficiente
non è mai sufficiente. Tale si rivelava Don Bosco. «Sono felice - scri-
veva il Card. Vives y Tuto ponente della causa - di aver dovuto stu-
diare a fondo la vita di Don Bosco, perché ho potuto conoscere che egli
è un grande santo. L'ho toccato con mano: che tesori di virtù! Un
amore alla Madonna che eguaglia quello dei più grandi santi; un amore
alla Passione che gli soffocava il petto e, qual contrassegno infallibile di
santità, era straordinario nell'ordinario, sicché nulla traspariva all'e-
sterno nella vita comune. Veda, ho studiato assai la vita di Don Bosco
e la sua figura mi appare sempre più provvidenziale».
«Ho sfogliato tanti processi - dirà ancora - delle cause, ma non
ne ho trovato uno cosi riboccante di soprannaturale».
A sua volta il Promotore della fede, il futuro Card. Salotti, avendo
approfondito la conoscenza della vita di Don Bosco confessava di essere
stato colpito non tanto dal suo «prodigioso apostolato» quanto «dall'e-
dificio sapiente e sublime della sua perfezione cristiana». E aggiungeva,
rivolgendosi a S. Pio X: «Padre Santo, se tutti avessero una conoscenza
intima e completa di questo secondo lato della figura di Don Bosco,
quanto sarebbe maggiormente apprezzato questo uomo, che pur gode
di una estimazione cosi profonda e universale».
«Dio è mirabile dal suo santuario» dice il salmo. Più mirabile e vario

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44 Parte I: Lineamenti
è però il tempio che Egli stesso si edifica con le pietre vive ed elette che
sono i santi. Don Bosco è una di queste pietre, anzi pietra angolare per
il suo ruolo di fondatore e capostipite di una grande discendenza spi-
rituale. «Per rintracciare un'altra figura delle stesse proporzioni di Don
Bosco - afferma il Card. Schuster - occorre rifare di secoli la storia
della Chiesa e raggiungere i santi fondatori dei grandi Ordini religiosi».

5.7 Page 47

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Capitolo IV
TAUMATURGO CHE NON FA PAURA
La fama di taumatùrgo che accompagnava Don Bosco specialmente
negli ultimi anni della sua vita è giustificata. È il prete che legge i segreti
delle coscienze ed ha sogni e visioni profetiche, conosce le cose occulte
e agisce a distanza, ha il dono delle guarigioni e dei miracoli, sperimenta
l'infestazione diabolica, ha, sul finire della vita, fenomeni estatici.
Anche se un certo alone di leggenda può aver amplificato certi epi-
sodi, anche se altri non sono sufficientemente accertati, nessuno può
mettere in dubbio la soverchiante mole di fatti preternaturali critica-
mente sicuri, di cui abbonda la vita di Don Bosco.
Il fatto poi che l'uomo di oggi, a differenza di quello del Medio Evo,
sia eccessivamente sospettoso di &onte a quanto ha sentore di straordi-
nario, non è buona ragione per non parlarne. Tra la credulità ingenua
e l'incredulità sistematica c'è spazio per la verifica rispettosa. «Se la
Chiesa - ha detto Paolo VI - spesso si mostra cauta e diffidente verso
le possibili illusioni spirituali di chi prospetta fenomeni singolari, ella è
e vuole essere estremamente rispettosa delle esperienze soprannaturali
concesse ad alcune anime, o dei fatti prodigiosi, che talvolta Iddio si
degna miracolosamente inserire nella trama delle naturali vicende».
Non è quindi giustificata la diffidenza aprioristica verso il «meravi-
glioso» che trabocca nella vita di Don Bosco. Certamente né i miracoli,
né le profezie, né altri fatti straordinari si possono confondere con la
santità, che è dinamismo eroico della vita teologale e fatto tutto interio-
re. Questi doni, essenzialmente funzionali al bene della Chiesa, possono
però manifestarla e stimolarla.
Ora il taumaturgo è un santo che incute, generalmente, riverenza e
persino paura, per la sua vicinanza con Dio, per il potere divino che
attraversa la sua persona; un santo, per lo più, ieratico e grave. Questo
tipo di rappresentazione non si addice assolutamente a Don Bosco,
«taumaturgo che non fa paura».
Straordinario di più mite splendore
La potenza divina irrompe silenziosamente, quasi nascostamente,
nella sua vita, cosl che non tutti la avvertono. Egli manifestava lo straor-

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46 Parte I: Lineamenti
dinario - scrive G.B. Lemoyne - «con tanta semplicità che parve
quasi di più mite splendore, meno astruso alla nostra povera natura».
Se, ad esempio, le ostie consacrate si moltiplicano nelle sue mani, è
lui solo a saperlo. Se moltiplica, a centinaia, le pagnottelle della colazio-
ne, il solo ad accorgersene è Francesco Dalmazzo che si era nascosto
dietro il Santo sospettando il prodigio. Se, per rendere felici i suoi figli,
moltiplica le castagne o le nocciole - manicaretti di allora - lo fa con
la naturale disinvoltura dell'antico prestigiatore che tira fuori dal suo
bussolotto una cosa dopo l'altra. E, quando si diffonde la notizia del
fatto straordinario, o qualche giovane, con disinvolta semplicità, gli
domanda come ha fatto, il Santo, tra il serio e il faceto, butta là una
parola di scherzo e svia il discorso.
Se possiede, in misura non comune, il «dono delle guarigioni», gli
riesce facile convincere che la vera operatrice dei prodigi è unicamente
Maria. «È Lei - dichiara - la taumaturga, l'operatrice delle grazie e
dei miracoli per l'alto potere che ha ottenuto dal suo divin Figlio». Ne
è cosl convinto che non esita a far pubblicare le grazie ottenute nel suo
nome.
Non pochi fatti, per loro natura, erano destinati a rimanere avvolti
nell'oblio; si pensi alla manifestazione dei peccati, alla lettura dei pen-
sieri occulti, a certe profezie destinate a singole persone. Si poteva cosl
vivere per anni accanto a Don Bosco e non averne notizia. E il caso di
Angelo Savio, professo dal 1860, il quale ha dichiarato ai processi: «Al-
cuni miei confratelli mi assicurano che Don Bosco aveva doni speciali
da Dio, la scrutazione dei cuori, il dono delle profezie: io non sono in
grado di pronunziarmi su questi fatti».
Mons. Bertagna afferma la stessa cosa: «lo non ho mai avuto argo-
mento fermo per credere vere queste cose».
Don Bosco era dotato di penetrantissima intuizione psicologica; non
era perciò sempre facile tracciare una linea di confine tra carisma e
natura. Nella sua sorprendente affermazione fatta al Dott. Giuseppe
Albertotti: «Mi si dia un giovane al di sotto di quattordici anni ed io ne
faccio ciò che voglio», parla il carismatico? parla l'uomo? Probabil-
mente l'uno e l'altro.
Una sottolineatura a parte meritano i suoi «sogni». Si sa, il sogno è
il regno della fantasia sbrigliata, il prodotto dell'inconscio. Il sogno è
essenziale alla vita totale dell'uomo: non è possibile vivere senza sogna-
re. Come tutti Don Bosco sognava ogni notte, ma alcuni sogni si distin-
guevano dai sogni ordinari.
Talora-lo afferma egli stesso - si «fabbricavano» nella sua mente

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Cap. IV: Taumaturgo che non fa paura 47
«favole» o «storie» o «apologhi» che raccontava volentieri ai giovani e
ai salesiani, per il loro contenuto moraleggiante e formativo. «Anche la
storiella che sono per narrarvi ci insegnerà qualche cosa».
Altri sogni si caratterizzavano non solo per la logica perfetta, ma
anticipavano eventi futuri, illuminavano il suo destino di fondatore,
erano preannunci di morti imminenti e cosi via. Sul principio «non vi
prestava fede», li esorcizzava come sottili insidie del maligno, ma alla
fine dovette arrendersi, perché questi sogni si rivelavano veri. Nella
maturità non esiterà a qualificarli come «soprannaturali».
Sogni-visione, dunque, la cui tavolozza attinge al retroterra della sua
vita contadina, poi all'esperienza di Valdocco; sogni dalle rappresenta-
zioni strane, ma sempre a denso contenuto morale e spirituale, di cui il
santo educatore si è abilmente servito per tenere lontano dalla sua casa
l'offesa di Dio, per esaltare la bellezza della vita di grazia e dell'amicizia
con Dio, per accendere di entusiasmo quanti avevano creduto alla sua
parola sul divenire glorioso della sua opera.
Accanto a questi sogni che potremmo dire minori perché riguardano
prevalentemente la vita dell'Oratorio, sono da ricordare i grandi affre-
schi dei sogni maggiori relativi all'origine e allo sviluppo della Congre-
gazione, come il sogno dei «nove anni» nelle sue diverse versioni, quelli
riguardanti le missioni, il carisma e lo spirito salesiano, come il sogno
del «pergolato di rose», quello dei «dieci diamanti», il sogno dei «dia-
voli a congresso» per escogitare il mezzo più adatto per distruggere l'o-
pera salesiana e cosi via. Questi sogni maggiori non sono molti, ma la
loro importanza è difficilmente calcolabile, perché sono, sotto il velo del
simbolo e della visione, veri concentrati di ascetica e di spirito salesiano.
La tradizione non ha mai cessato di riferirsi ad essi come a fonte di pri-
maria importanza.
È però singolare il fatto che, mentre Don Bosco per un verso
annette la massima importanza ai suoi sogni in generale, per l'altro sem-
bra, ancora una volta, ricorrere all'immagine del sogno per celare i suoi
carismi. Sembra dire, e di fatto dice, «i sogni si fanno dormendo», sono
solo «sogni»; tuttavia possono insegnare molte cose. «Non fate di que-
sto sogno altro caso di quello che può meritarsi simile materia». «Que-
sto il mio sogno: ognuno lo interpreti come vuole, ma sappia sempre
dargli il peso che si merita un sogno».
Un taumaturgo, si vede, che ha tutta l'aria di non esserlo, che sa
abilmente occultarsi.

5.10 Page 50

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48 Parte I: Uneamenti
Valutazione corretta
Lo straordinario, il preternaturale occupa un ampio spazio nella vita
di Don Bosco. Si tratta di valutarlo correttamente: non esagerarlo, non
sottovalutarlo. Non esagerarlo perché Don Bosco, come si esprime A.
Caviglia, «non è un santo a cui i miracoli scappino di mano come a S.
Giuseppe da Copertino o a Francesco da Paola, né un Cottolengo, che,
fidato nella Provvidenza, segue il suo cuore caso per caso».
Ciò che più conta nella sua vita non sono i miracoli, le profezie, le
visioni, ma l'eroismo della sua virtù, la dura quotidiana fatica intesa ad
elevare di grado, sia sul piano umano che spirituale, schiere innumere-
voli di giovani poveri e l'umile gente; l'impegno, mai rimesso, per l'av-
vento del Regno e quel suo continuo industriarsi come se tutto dipen-
desse da lui, pur contando unicamente su Dio, convinto come era che
«la Provvidenza vuole essere aiutata dagli immensi nostri sforzi».
Non va sottovalutato. «Lo straordinario ha impregnato la religiosità
di Don Bosco e del suo ambiente ed è stato stimolo a un tipo di ascetica
e di azione apostolica» (P. Stella). Ha soprattutto marcato significativa-
mente la sua opera di fondatore.
Quando, ad esempio, l'approvazione delle Costituzioni salesiane
cozza, a Roma, contro difficoltà insormontabili, Don Bosco opera due
guarigioni istantanee, umanamente inspiegabili. Guarisce il nipote del
Card. Berardi, guarisce il Card. Antonelli inchiodato su una sedia da
gravi malanni. L'intervento di questi due prelati è determinante per la
sua buona causa.
«Ditemi voi - confidava un giorno ai suoi figli - che cosa poteva
fare il povero Don Bosco se dal cielo non veniva ogni momento qualche
speciale aiuto?»
Guardando al successo delle sue imprese diceva: «Qui si vede che
vi è il dito di Dio, la protezione della Madonna». Era talmente convinto
di vivere sotto una particolare pressione del divino da affermare: <<Non
diede passo la Congregazione, senza che qualche fatto soprannaturale lo
consigliasse; non mutamento o perfezionamento o ingrandimento che
non sia stato preceduto da un ordine del Signore».
Possiamo domandarci: quale è stata la reazione interiore di fronte al
soprannaturale che attraversò la sua vita? Una reazione irreprensibile,
profondamente umile. Quella del servo fedele che si sente strumento,
solo strumento, nelle mani di Dio, unico eroe dei suoi prodigi: «Di que- .
ste opere io non sono che l'umile strumento». «È nostro Signore che fa
tutto... Se avesse trovato nell'archidiocesi di Torino un sacerdote più

6 Pages 51-60

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6.1 Page 51

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Cap. IV: Taumaturgo che non fa paura 49
povero, più meschino, più sprovvisto di qualità - confidava al P. Felice
Giordano degli Oblati di Maria Vergine - quello e non altri avrebbe
scelto a strumento di quelle opere di cui mi parla; ed il povero Don
Bosco l'avrebbe lasciato da parte».'
Nelle pagine del suo Testamento spirituale troviamo questa pun-
tuale raccomandazione: «lo raccomando caldamente a tutti i miei figli
di vegliare sia nel parlare, sia nello scrivere di non mai né raccontare né
asserire che Don Bosco abbia ottenuto grazie da Dio od abbia in qual-
siasi maniera operato miracoli. Egli commetterebbe un dannoso errore.
Sebbene la bontà di Dio sia stata in misura generosa verso di me, tut-
tavia io non ho mai preteso di conoscere od operare cose soprannatu-
rali».
Il contraccolpo del meraviglioso nella sua vita personale ha determi-
nato un doppio movimento. Quello del profeta sgomento di fronte alla
potenza divina che lo investe: «Queste cose fanno crescere in modo spa-
ventoso la responsabilità di Don Bosco davanti a Dio». «Quando penso
alla mia responsabilità per la posizione in cui mi trovo tremo tutto. Le
cose che vedo accadere sono tali che caricano sopra di me una respon-
sabilità immensa».
Quello di Maria che magnifica il Signore per i prodigi che si sono
compiuti in Lei. Nella cerchia dei suoi intimi o dei suoi benefattori Don
Bosco non esita a raccontare, con umiltà, i fatti soprannaturali che pun-
teggiano la sua vita di educatore e di fondatore guidato dal principio:
«È necessario che le opere di Dio si manifestino». Sentiva che la sua vita
era inestirpabilmente unita a quella della Congregazione, perciò ne par-
lava: «Vedo che la vita di Don Bosco è tutta confusa nella vita della
Congregazione: e perciò parliamone. C'è bisogno per la maggior gloria
di Dio, per la salvezza delle anime e del maggior incremento della Con-
gregazione che molte cose siano conosciute».
Le cose che vanno «conosciute» sono i «magnalia Dei»: i miracoli,
i sogni profetici, le guarigioni prodigiose che accompagnano la sua vita
di educatore e fondatore, che gli strappavano espressioni colme di fidu-
cia e di abbandono in Dio: «Dio è con noi!»; «È opera sua quanto si
è fatto e si fa»; «Dio fa le sue opere con magnificenza»; «La nostra
Congregazione è condotta da Dio e protetta da Maria Ausiliatrice».
4

6.2 Page 52

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Capitolo V
UN SANTO FONDATORE
Don Bosco appartiene alla costellazione dei santi fondatori; è infatti
il padre di una grande posterità spirituale. I Salesiani, le Figlie di Maria
Ausiliatrice, i Cooperatori salesiani sono stati fondati direttamente da
lui; altri gruppi, suscitati dallo Spirito Santo, vivono il suo spirito e rea-
lizzano la sua missione con funzioni specifiche diverse, dando origine
alla «Famiglia salesiana». Tutti sono eredi del suo carisma di fondatore
e, cioè, della sua tipica ed originale «esperienza di Spirito Santo» che egli
ha «trasmessa ai proprii discepoli per essere vissuta, custodita, appro-
fondita e costantemente sviluppata in sintonia con il Corpo di Cristo in
perenne crescita» (Mutua'! Relationes n. 11).
Questa esperienza, dono dello Spirito per una più luminosa configu-
razione a Cristo servitore e per l'edificazione della Chiesa, è segnata
dalla classica antinomia luce - tenebre che caratterizza ogni visione
mistica o chiamata superiore. In questa antinomia si scontrano e si com-
pongono la coscienza di essere sotto una speciale pressione del divino
in vista di una missione che supera le forze della natura e quella di sen-
tirsi solo umili «strumenti» nelle mani del Signore. L'esigenza della
docilità assoluta allo Spirito, che è creatività inesauribile, e quella di
saper superare le resistenze e contrarietà che ogni novità comporta; le
chiarezze che piovono dall'alto e le oscurità che salgono dal basso.
Questo apparente paradosso dà volto e sostanza alla santità di Don
Bosco. Le vicissitudini della sua vita ci mostrano come egli «non ha tro-
vato altra strada per realizzare la sua vocazione e la sua santità se non
quella di fondatore» (E. Viganò).
L'azione dello Spirito Santo nella sua vita di fondatore è, si può dire,
continua. Dio lo ispira e gli parla, normalmente, in modo indiretto,
attraverso i segni dei tempi, le persone, le cose; gli parla direttamente
attraverso folgorazioni interiori, luci profetiche, sogni e visioni.
La vocazione
Possiamo chiederci: quando l'azione dello Spirito si è fatta sentire
nella sua vita? Quando ha percepito, se pure ancora in maniera estre-
mamente vaga, di essere chiamato e mandato a diventare segno e por-
tatore dell'amore di Cristo ai giovani?

6.3 Page 53

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Cap. V: Un santo fondatore 51
Per Francesco d'Assisi questo momento coincide con la «rivelazio-
ne» che lo spinge «a vivere sotto la forma del Santo Vangelo»; per Don
Bosco è il sogno fatto nella casa patema tra i nove-dieci anni. Lo con-
ferma questa sua tardiva confessione: «Le cose nostre cominciarono in
modo straordinario da quando io aveva da nove a dieci anni. Mi parve
di vedere nell'aia di casa tanti tanti ragazzi. Allora una persona mi dice:
"Perché non vai ad istruirli?". "Perché non so". "Va', va', ti mando
io". Io era poi dopo quello tanto contento che tutti se n'accorsero».
Il sogno è noto, ma non è male rievocarlo brevemente. Giovannino
sogna di trovarsi davanti ad una moltitudine di fanciulli che urlano, gri-
dano: alcuni bestemmiano. Con «parole» e «pugni» vuol farli tacere.
Un «Uomo venerando» gli si avvicina, «lo chiama per nome» (= la
vocazione), gli comanda di «mettersi alla testa di quei fanciulli» (= la
missione) e di guadagnarseli «non colle percosse ma con la mansuetu-
dine e carità» (= il metodo), di istruirli «sulla bruttezza del peccato e
sulla preziosità della virtù»(= il contenuto essenziale del suo messaggio).
Il piccolo si sente impari al mandato: non ha capacità, non ha scienza,
ma l'Uomo del sogno gli viene in aiuto: «Io ti darò la maestra sotto alla
cui disciplina puoi diventare sapiente e senza cui ogni sapienza diventa
stoltezza». E qui entra in scena una «Donna di maestoso aspetto», la
quale lo prende «con bontà per mano» ed additandogli una «moltitu-
dine di capretti [...] e parecchi altri animali» gli dice: «Ecco il tuo cam-
po, ecco dove devi lavorare. Renditi umile, forte e robusto: ciò che in
questo momento vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo pei
figli miei». Giovannino guarda: «invece di animali feroci» vede «altret-
tanti mansueti agnelli» che, saltellando, fanno festa a quell'Uomo e a
quella Signora. Vorrebbe saperne di più; è turbato, piange. Allora la
Donna «mi pose la mano sul capo dicendomi: "A suo tempo tutto com-
prenderai"».
Il sogno finisce qui. Crediamo di non esagerare se diciamo che que-
sto fu il più grande momento nella vita di Don Bosco. Momento unico,
irreperibile, perché in quella notte la mano del Signore si posò su di lui
ed operò la più profonda trasformazione della sua esistenza. Da allora
fu un misterioso donare di Dio e un misterioso donarsi di Don Bosco.
«Il sogno dei nove anni condizionò tutto il modo di vivere e di pen-
sare di Don Bosco. E in particolare, il modo di sentire la presenza di
Dio nella vita di ciascuno e nella storia del mondo» (P. Stella). Il Santo
non lo dimenticò più: «Il sogno mi rimase profondamente impresso per
tutta la vita».
L'architettura del sogno è perfetta: quando Don Bosco, per ordine

6.4 Page 54

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52 Parte I: Lineamenti
di Pio IX, lo consegna alle sue Memorie dell'Oratorio è prossimo alla
sessantina e può evocarlo alla luce del suo avveramento. Ma a nove anni
no. L'ispirazione che filtra dall'alto ha, in realtà, ancora tutto lo spessore
ed il mistero del sogno naturale. È una luce allo stato umbratile che
radica il presentimento incancellabile di una superiore missione sacer-
todale, ma ancora tutta da definire e verificare. Il sogno, che si ripete
poi con lievi varianti, infonde nel protagonista fiducia e speranza; non
cosi però da togliere gli stati di incertezza, di ansietà, di dubbio sul suo
avvenire, che travagliano la sua prima età.
Si spiega cosi la «crisi della vocazione», come la chiama Don Ceria,
che lo coglie sul punto di entrare in seminario. Non è in gioco la chia-
mata allo stato sacerdotale, al quale inclina fortemente. E in gioco la
scelta tra prete secolare o prete religioso. Le sue preferenze vanno, in
questo momento, nel senso della vita religiosa: decide di farsi france-
scano e viene regolarmente accettato nell'Ordine. Il consiglio di persone
prudenti ed un sogno, che egli definisce «tra i più strani», lo inducono
a desistere dal suo proposito e ad entrare in seminario. «Altro luogo,
altra messe - si era sentito dire - ti prepara il Signore».
Abbiamo già detto che gli anni del seminario furono decisivi per la
sua santità; più decisivi per la sua vita di fondatore furono invece quelli
dal Convitto in poi.
I giovani del sogno
Il primo impatto con la città di Torino lo colpisce profondamente.
Lo spettacolo di miseria e di abbandono di tanta gioventù emarginata
dai sobborghi della città in espansione edilizia e demografica o immi-
grata dalla provincia in cerca di lavoro e abbandonata a se stessa, lo
interpella in forma acuta e nuova. Lo Spirito che si è posato sopra di
lui gli parla ora attraverso la voce implorante di tanta gioventù «povera,
pericolante, abbandonata» e lo spinge all'azione, gli fa comprendere che
sono quelli i giovani visti nel sogno dei nove anni ai quali è mandato.
Bisogna fare qualche cosa per questi giovani poveri, pensa Don
Bosco, e bisogna farlo al più presto. Aspetta solo che gli si offra «l'oc-
casione propizia» per «tentare un progetto in favore dei giovanetti
vaganti per le vie della città, specialmente di quelli usciti dal carcere».
L'ora di Dio suona 1'8 dicembre 1841, festa di Maria Immacolata, nel-
l'incontro, apparentemente fortuito, con Bartolomeo Garelli, nella
sacrestia della chiesa di S. Francesco di Assisi. È il primo catechismo,
il primo germe dell'Oratorio Festivo.

6.5 Page 55

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Cap. V: Un santo fondatore 53
Altri giovani infatti non tarderanno ad unirsi al garzone muratore
invitati da lui. Sono solo - scrive Don Bosco - «un piccolo esercito
di muratori, scalpellini, selciatori, squadratoti» destinato a crescere.
Umile inizio di una grande opera di cui Don Bosco non aveva allora
la più piccola idea. Non sapeva infatti verso quali orizzonti si sarebbe
orientato il suo ministero sacerdotale. Dio guidava i suoi passi, ma come
Abramo «non sapeva dove andava».
Ritorna insistente l'idea della vita religiosa e questa volta si orienta
verso gli Oblati di Maria Vergine fondati dal Lanteri, grande figura rap-
presentativa. Lo attira anche fortemente l'ideale missionario e a questo
fine inizia lo studio delle lingue. Il «no» reciso di Don Cafasso lo fa
desistere dai suoi propositi.
Terminano intanto i tre anni del Convitto e viene anche per lui il
momento di inserirsi in una attività pastorale della archidiocesi. Gli ven-
gono proposti questi tre incarichi: Ripetitore al Convitto, Viceparroco
a Buttigliera, Rettore dell'Ospedaletto di S. Filomena, fondato dalla
marchesa Barolo, ed aiutante del Teol. Borelli presso il Rifugio. Non osa
decidere; preferisce che decida per lui Don Cafasso: «La mia propen-
sione - gli dice - è di occuparmi della gioventù. Ella poi faccia di me
quello che vuole, io riconoscerò la volontà del Signore nel Suo consi-
glio». All'interrogativo del suo confessore: «In questo momento che
cosa occupa il vostro cuore? Che si ravvolge nella vostra mente?»
risponde senza la minima esitazione: «In questo momento mi pare di
trovarmi in mezzo ad una moltitudine di fanciulli che mi domandano
aiuto».
Da uomo prudente Don Cafasso vuole pensarci su. Finalmente
chiama il discepolo e gli dice senza esitazione: «Fate il fagotto e andate
col Teol. Borelli [...]. Dio vi metterà tra mano quanto dovrete fare per
la gioventù».
Delle tre proposte questa era la più contraria alle sue naturali incli-
nazioni. Alla fine si rivela però provvidenziale. L'Oratorio avviato al
Convitto può infatti trasmigrare al Rifugio, continuare a vivere e svilup-
parsi.
Trascorrono cosl due anni pieni di imprevisti e di avventure per l'O-
ratorio i cui giovani, cresciuti di numero, occupano seriamente Don
Bosco, il quale è costretto a prodigarsi su due fronti: quello dei giovani
e quello dell'opera del Rifugio. Questa situazione non può durare, pensa
la marchesa Barolo, la quale, autoritaria come è, non tarda a mettere il
Santo di &onte al dilemma senza uscita: «O lasciare l'opera dei ragazzi
o lasciare l'Opera del Rifugio». Don Bosco non esita a scegliere i suoi

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54 Parte I: Lineamenti
ragazzi: viene diffidato e licenziato in modo piuttosto brusco.
«Accettai il diffìdamento, abbandonandomi a quello che Dio
avrebbe disposto di me».
D'ora in poi Don Bosco sarà tutto dei giovani abbandonati; lo sarà
in modo pieno e definitivo confortato dal sogno dei nove anni che si è
ripetuto con dovizia di particolari. Come allora egli si è visto alla testa
di uno «strano gregge» di animali; come allora «una Signora, assai ben
messa a foggia di pastorella, mi fe' cenno di seguire ed accompagnare
quel gregge strano mentre Ella precedeva». Durante il cammino molti
animali si cambiano in agnelli, molti agnelli diventano, a loro volta, pic-
coli pastori assieme a Don Bosco. L'ultima tappa del viaggio è la sede
fissa dell'Oratorio. La Pastora gli fa vedere il suo sviluppo futuro: fab-
bricati, portici, chierici e preti ed, infine, una «stupenda ed alta chiesa»
nel cui internò correva una fascia bianca con la scritta: «hic domus mea,
inde gloria mea. Qui è la mia casa, di qui si spanderà la mia gloria».
Questa verticale dall'alto sulla sua vita e sulla sua opera, questo pre-
vedere il futuro, non sottrae Don Bosco alle dure incertezze del vivere
quotidiano, non significa che a queste chiarezze dall'alto non si accom-
pagnino anche stati di tenebra interiore.
La domenica delle Palme - 5 aprile 1846 - Don Bosco vive, ad
esempio, una delle «notti dei sensi e dello spirito» più amare della sua
vita. Sfrattato dai fratelli Filippi che gli avevano affittato un prato per
il suo Oratorio, abbandonato dai suoi collaboratori, sfinito di forze,
debole di salute, si sente terribilmente solo. Non sa più dove radunare
i suoi ragazzi la domenica seguente che è Pasqua. Una tristezza infinita
lo assale; si ritira in un angolo del prato e rompe in pianto. Dal suo
cuore sale a Dio questa semplice preghiera: «Mio Dio, esclamai, perché
non mi fate palese il luogo in cui volete che io raccolga questi fanciulli?
O fatemelo conoscere o ditemi quello che devo fare». Il Signore lo
ascoltò.
L'affitto della tettoia Pinardi - subito trasformata in cappella - e
l'acquisto di una striscia di terreno adiacente sono il primo nucleo sta-
bile dell'Oratorio. Per vie sofferte la Provvidenza lo aveva condotto nel
luogo indicatogli dai sogni, e là doveva compiere la sua missione. Che
la sua coscienza di fondatore avesse acquistato ormai una più lucida
consapevolezza lo provano chiaramente queste confidenze fatte, nel
1876, ai suoi direttori: «Avevo un vago pensiero di fare del bene, qui,
proprio in questo luogo e far del bene ai poveri ragazzi. Questo pen-
siero mi dominava e non sapeva come mandarlo ad effetto: tuttavia non
si partiva mai da me, anzi era quello che dirigeva ogni mio passo, ogni

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Cap. V: Un santo fondatore 55
mia azione. Io voleva fare del bene, molto del bene, ma farlo qui. Sem-
brava allora un sogno il pensiero del povero prete, eppure Iddio realiz-
zò, compl i desideri di quel poveretto».
Oscurità luminosa
Come questi «desideri» si siano avverati, come l'opera sia cresciuta
nelle sue mani, il Santo non sa spiegarselo. «In che modo Egli [Dio]
dispose che questo disegno si incarnasse, come si siano fatte le cose, io
appena saprei dirvelo. Non me ne so dare ragione io stesso». Le vie di
Dio sono misteriose sempre, lo sono doppiamente per Don Bosco fon-
datore. La meta che «non si partiva mai da lui» era chiara: fare del bene
alla gioventù abbandonata e farlo là, nei prati di Valdocco.
Ma il Santo non era l'unico sacerdote che si occupasse di giovani
poveri: esistevano altre istituzioni alle quali, forse, avrebbe potuto
aggregarsi ed assicurare più facilmente l'avvenire del suo Oratorio. È
un'idea non effimera che occupa la sua mente e lo spinge ad una verifi-
ca. Ma per quanto si guardi attorno, per quanto si confronti con altri
non si riconosce in nessuna delle istituzioni esistenti. La sua esperienza
di «Oratorio» è troppo tipica, troppo diversa dalle altre: per restare
fedele alla sua ispirazione originaria dovrà portarla avanti ·da solo, con
l'aiuto del Signore; dovrà svilupparla, portarla a maturazione lentamen-
te, faticosamente.
Lo Spirito Santo, che lo conduce per vie antiche e nuove, gli fa
capire che, a differenza di altri fondatori, i quali potevano contare su
«sodi già provati», egli avrebbe dovuto contare unicamente su giovani
che egli stesso «doveva scegliere, istruire, formare». È quanto si ricava
da una sua interessantissima testimonianza, che si riferisce al 1847,
quando aveva preso da poco possesso della Cappella Pinardi.
«La Vergine Maria mi aveva indicato in visione il campo nel quale
io doveva lavorare. Possedeva adunque il disegno di un piano, preme-
ditato, completo, dal quale non poteva e non voleva assolutamente stac-
carmi. Io era in modo assoluto responsabile della riuscita di questo.
Vedeva chiaramente le fila che doveva tendere, i mezzi che doveva ado-
perare per riuscire nell'impresa; quindi non poteva espormi al rischio di
mandare a vuoto un tale disegno col sottoporlo in balia del giudizio e
della volontà di altri. Ciò non ostante in questo stesso anno 1847 volli
osservare con maggior diligenza se già esistesse qualche Istituzione nella
quale io potessi aver la sicurezza di eseguire il mio mandato, ma non tar-
dai ad avvedermi che no. Per quanto fosse santissimo lo spirito che ani-

6.8 Page 58

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56 Parte I: Lineamenti
mavale e lo scopo al quale tendevano, tuttavia non corrispondevano a'
miei fini. Questi furono i motivi che mi rattennero dall'ascrivermi a
qualche Ordine o Congregazione di religiosi. Quindi ho finito collo star-
mene solo, e invece di unirmi a sodi già provati nella vita di comunità
ed esercitati nelle varie opere del ministero apostolico, dovetti andare in
cerca, secondo che mi era stato indicato nei sogni, di giovani compagni
che io stesso doveva scegliere, istruire, e formare».
Vive in queste parole la certezza del fondatore che si sente chiamato
e mandato da Dio a compiere una inconfondibile missione nella Chiesa:
vive la consapevolezza di chi, essendo portatore di una speciale espe-
rienza di Spirito Santo da trasmettere ai posteri, si sente «in modo asso-
luto responsabile» della sua riuscita.
Questa invincibile certezza potrebbe far pensare ad un veggente che
si precipita verso la meta sicuro di sé, al riparo da ogni dubbio pratico,
da ogni incertezza esistenziale.
Non è cosi. Come accade ai mistici, Don Bosco nei suoi sogni -
alcuni dalle dimensioni planetarie, come quelli sulle Missioni - viene
elevato sopra di sé e portato a visioni sintetiche che si imprimono for-
temente nel nucleo profondo della persona. Ma sono come lampi nella
notte: illuminato di colpo il panorama, poi tutto ripiomba nel buio. Il
veggente dovrà allora ricorrere alle sue facoltà ordinarie per ricordare,
raccontare, descrivere ciò che ha visto. E questo non sarà compito facile
come provano le tormentate redazioni degli autografi di Don Bosco, i
ritocchi, le cancellature, le sostituzioni di parole. Bene ha scritto F. Ciar-
li: «Il passaggio dall'ispirazione alla sua realizzazione in una determinata
famiglia religiosa comporta una traduzione in termini strutturali di cui
il fondatore non è a conoscenza. Ha visto i contenuti fondamentali da
cui deve "prendere corpo" un nuovo modo di presenza nella Chiesa,
ma non conosce ancora la fisionomia che acquisterà tale "corpo". A
volte non gli è chiaro neppure fino a che punto ciò che gli è stato
mostrato dovrà tradursi in un preciso istituto religioso. Solo il dispie-
garsi graduale dell'opera nelle sue varie e progressive realizzazioni met-
terà in luce, agli occhi stessi del fondatore, tutte le ricchezze insite nel-
l'ispirazione».
La vita di Don Bosco rientra perfettamente in questa descrizione.
«Sono sempre andato avanti come il Signore mi ispirava e le circostanze
esigevano». Circostanze imprevedibili, incerte, difficili, che costringe-
vano il Santo, di volta in volta, ad una lunga e paziente opera di discer-
nimento spirituale. L'idea più esatta di Don Bosco è pertanto quella di
Giacobbe in lotta con Dio, quella di un uomo che è sempre vissuto con

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Cap. V: Un santo fondatore 57
i piedi ben piantati per terra alle prese con le imprevedibili difficoltà
quotidiane.
Tutto è chiaro in Don Bosco e tutto è avvolto da caligine. Questa
ignoranza luminosa è la prova oggettiva che il piano è nelle mani di Dio;
è la prova che il cammino non si svilupperà secondo una linea retta bre-
vissima, ma per tentativi, con coraggiosi passi in avanti, e con opportune
rettifiche del percorso.
La presa di possesso di casa Pinardi fu l'approdo nella terra promes-
sa, ma non coincise con l'acquisto in proprietà, né con l'avveramento,
a breve termine, dei sogni. «Egli fu sempre perciò nell'angustia di tro-
vare come sopravvivere a Torino, nonostante la povertà dei mezzi,
fidando in Dio, in Don Cafasso e nella cerchia delle sue amicizie. Si
trovò in contrasto con i medesimi colleghi nell'apostolato sacerdotale
come mai aveva potuto provare prima, vittima di incomprensioni, di
colpi dettati, più che da calcolata malvagità, dalla passione del momen-
to, dal fatto che anche altri sentivano - e per molti aspetti non a torto
- la propria causa come questione di vita o di morte per sé e per l'o-
pera degli Oratori, in contrasto anche con i parroci» (P. Stella).
Anche in seguito Don Bosco non ebbe mai vita facile. Confiderà un
giorno a Don Barberis: «Si può dire che tutti sono contro di noi e che
noi dobbiamo lottare contro tutti. Il mondo legale ci è assolutamente
avverso; anche certi Ordini religiosi, vedendo sé in decadenza e noi in
continuo progredire, ci guardano cosi cosi. Il vento soffia contrario alla
nostra navigazione nelle curie, nelle famiglie, nella società. Se non fosse
proprio Iddio che lo vuole, sarebbe impossibile fare quello che si fa».
Ma lo conforta il pensiero che «il Padrone delle [sue] opere è Iddio,
Iddio è il sostenitore, e Don Bosco non è altro che lo strumento». Que-
sta luminosa certezza lo rende tetragono contro le difficoltà e gli ostacoli
che gli sbarrano il cammino: «Questo è il motivo per cui nelle avversità,
nelle persecuzioni, in mezzo ai più grandi ostacoli non mi sono mai
lasciato intimorire, ed il Signore fu sempre con noi».
Tra difficoltà di ogni genere era infatti realmente fiorita a Valdocco,
in meno di un decennio, una originale «esperienza dello Spirito», un
nuovo modello educativo e pastorale le cui conseguenze andavano molto
al di là di quanto Don Bosco pensasse. In questa esperienza sono coin-
volti anche i giovani migliori, tra cui S. Domenico Savio.
Il 25 marzo 1855 nella cameretta di Don Bosco, senza testimoni,
senza rumore, il Chierico Rua pronunciava, a sedici anni, nelle mani di
Don Bosco, i suoi primi voti annuali. Ad intervalli più o meno vicini,
altre promesse furono deposte nelle mani del Santo. La sua istituzione

6.10 Page 60

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58 Parte I: Lineamenti
non tarda ad affermarsi rapidamente; prima in Piemonte, poi nell'Italia
e nel mondo. La preoccupazione di Don Bosco diventa ora meno quella
di coltivare, con infinita pazienza, il suo carisma, che l'altra di assicu-
rarlo alla storia, facendolo approvare e autenticare dalla Chiesa. Un
lavoro che lo impegna per lustri.
Avevo un'altra idea della Congregazione
Non è nostro compito fare la storia dell'approvazione della Società
salesiana, delle sue Regole, dei suoi privilegi; storia che ha i contorni di
un prolungato martirio: «Se avessi saputo prima quanti dolori, fatiche,
opposizioni e contraddizioni costi il fondare una Società religiosa, forse
non avrei avuto il coraggio di accingermi all'opera».
Le sue idee non combaciarono sempre con quelle dell'autorità eccle-
siastica, come risulta dalle ampie relazioni scritte inviate alle autorità
competenti.
Fino al 1874, anno dell'approvazione delle Regole da parte della S.
Sede, non sembra che Don Bosco avesse in animo di fondare una Con-
gregazione cosl come di fatto è venuta fuori. «Avevo messo - dichia-
rava il 18 ottobre 1878 - i voti triennali perché da principio aveva in
mente di formare una Congregazione che venisse in aiuto ai vescovi; ma
siccome non fu possibile e mi costrinsero a fare altrimenti, i voti trien-
nali ci tornano più d'inciampo che di vantaggio». La stessa opinione
esprimeva ai direttori riuniti ad Alassio l'anno dopo: «S'introdussero i
voti triennali quando io avevo un'altra idea della Congregazione. Avevo
in animo di stabilire una cosa ben diversa da quello che è: ma ci costrin-
sero a fare cosl, e cosl sia».
Diremo che la Chiesa ha stravolto il carisma di Don Bosco? Sarebbe
grave errore pensarlo, perché il suo compito, come si esprime Lumen
Gentium, non è quello di «estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto
e ritenere ciò che è buono». Lo Spirito che fa nascere i carismi è, non
dimentichiamolo, l'anima della Chiesa; non si contraddice. Ricondu-
cendo l'istituzione di Don Bosco nell'alveo delle Congregazioni classi-
che, la S. Sede l'ha messa nella condizione di espandersi al meglio
restando se stessa. Sotto la pressione degli eventi e delle indicazioni
della Chiesa il Santo chiarisce e precisa aspetti ancora non ben definiti.
È infatti lo svolgersi degli eventi, portatori di grazia, che «fa configurare
la Congregazione non come egli l'avrebbe voluta, o come credeva che
dovesse divenire. E questo non vuol dire eh'egli non l'abbia voluta cosl
come venne a formarsi, e nemmeno che ne sia stato scontento» (P. Stel-

7 Pages 61-70

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7.1 Page 61

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Cap. V: Un santo fondatore 59
la). E non vuol dire che la Congregazione cosi come è venuta definen-
dosi non abbia conservato la sua originalità e modernità, o non rifletta
il vero volto e il pensiero di Don Bosco. Molto significanti a questo pro-
posito possono considerarsi le seguenti riflessioni di Don Filippo Rinal-
di, terzo successore del Santo.
«Egli aveva ideato una pia società che, pur essendo vera congrega-
zione religiosa, non ne avesse l'aspetto esteriore tradizionale: gli bastava
che vi fosse lo spirito religioso, unico fattore della perfezione dei con-
sigli evangelici; nel resto credeva di poter benissimo piegarsi alle esi-
genze dei tempi. Questa elasticità di adattamento a tutte le forme di
bene che vanno di continuo sorgendo in seno all'umanità è lo spirito
proprio delle nostre Costituzioni; e il giorno in cui vi s'introducesse una
variazione contraria a questo spirito, per la nostra Pia Società sarebbe
finita».
«Non è stato finora illustrato pienamente il concetto che il Venera-
bile nostro Fondatore ebbe nel creare la sua Società religiosa. Egli vi ha
immesso una geniale modernità che, conservando rigidamente lo spirito
sostanziale del suo metodo educativo, le impedisse in pari tempo di fos-
silizzarsi nelle cose accessorie e soggette a mutare coll'andar del tempo.
Le nostre Costituzioni sono pervase da un soffio di quella perenne vita-
lità che emana dal santo Vangelo, il quale è, appunto per questo, di tutti
i tempi e sempre ricco di nuove sorgenti di vita».
Quel suo «ci costrinsero a fare cosi e cosi sia» non è pertanto un
atto di sofferta rassegnazione, ma l'Amen gioioso del profeta giunto alla
fine della sua corsa. Lo prova la solenne dichiarazione con la quale si
apre la sua «Introduzione» alle Costituzioni salesiane: «Le nostre Costi-
tuzioni, o figliuoli in Gesù Cristo dilettissimi, furono definitivamente
approvate dalla S. Sede il 3 aprile 1874. Questo fatto deve essere da noi
salutato come uno dei più gloriosi della nostra Società, come quello che
ci assicura che nell'osservanza delle nostre Regole noi ci appoggiamo a
basi stabili, sicure e possiamo dire anche infallibili, essendo infallibile il
giudizio del Capo Supremo della Chiesa che le ha sanzionate».
Le Costituzioni non sono solo per il Santo la via «stabile» che con-
duce all'amore, ma anche la porpora d'oro che copre il suo carisma ed
il suo spirito, realtà vive e dinamiche in perenne crescita. Solo cosi si
spiega la sua ricorrente raccomandazione sull'importanza e pratica delle
Costituzioni. «Fate che ogni punto della Regola sia un mio ricordo»;
«L'unico mezzo per propagare lo spirito della Congregazione è l'osser-
vanza delle Regole»; «Neppure le cose buone si facciano contro di
essa».

7.2 Page 62

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60 Parte I: Lineamenti
Solo alla fine del suo lungo camminare Abramo è in grado di
cogliere l'ampiezza e la profondità della volontà di Dio a suo riguardo.
Lo stesso deve dirsi, al suo grado e livello, di Don Bosco. Celebrando
la S. Messa nella chiesa del Sacro Cuore in Roma, nel maggio del 1887
- pochi mesi prima della morte - per quindici volte i suoi occhi si
gonfiarono di lacrime. Era come assorto in un mondo lontano: si rive-
deva nella piccola casetta dei Becchi e gli ritornavano alla memoria le
parole del primo sogno: «A suo tempo tutto comprenderai».

7.3 Page 63

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Capitolo VI
SANTO FURBO
Le parole «furbo», «furbizia» possono avere, nell'uso corrente, un
significato peggiorativo. In questo senso la Gazzetta operaia in un vele-
noso articolo del 15 ottobre 1887 dal titolo: Furbo Don Bosco, lo pre-
sentava come un prete «intrigante», «astuto», «scaltro», capace di stra-
volgere ogni cosa al proprio tornaconto.
Ma non manca la connotazione positiva. La furbizia «può essere
infatti espressione di intelligente buon senso, di acuta prudenza nell'ap-
profittare santamente e sanamente delle situazioni» (E. Viganò). Furbo
è pertanto l'uomo previdente, accorto, sagace, che sa trarsi di impiccio
nelle difficoltà giocando di intelligenza; l'uomo che non si lascia ingan-
nare e sa raggiungere i propri scopi usando mezzi onesti, anche impre-
vedibili.
È in questa ottica che dobbiamo guardare la «furbizia» di Don
Bosco, non dimenticando che, trattandosi di un santo, essa rimanda al
dono della «scienza» la cui proprietà è quella di perfezionare, sotto l'a-
zione illuminatrice dello Spirito Santo, la virtù della fede, la quale porta
a giudicare rettamente delle cose create nelle loro relazioni con Dio, ma
in modo superiore a quello del cristiano comune.
Fare il bonomo senza esserlo
La fama di prete santamente furbo Don Bosco l'ebbe, praticamente,
sempre. «Più volte - scrive G.B. Lemoyne - abbiamo udite persone
estranee, oltre quelle che lo conoscevano da vicino, dire: veramente
singolare: quest'uomo le indovina tutte. Che furbacchione! "». In lui ci
fu sempre l'antica furbizia del prestigiatore che incantava il suo piccolo
pubblico; qualcosa della raffinata sapienza contadina che sa difendere
cosl bene i propri interessi.
Amava il proverbio piemontese: «/é 'l bonom sensa eslo: fare il
bonomo, ma non esserlo». «Sai- diceva un giorno ad un suo sacerdote
- che cosa significa essere furbo? Saper fare il bonomo! Cosl faccio io:
lascio dire tutto, ascolto, attendo bene alle parole, ma infine nel deci-
dere tengo conto di tutto e vengo a conoscere perfettamente ogni cosa».

7.4 Page 64

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62 Parte I: Lineamenti
La casa di Nizza attraversava un periodo di grave dissesto economi-
co. Il direttore Don Ronchail non osava più presentarsi ai benefattori
importunati ormai da troppe insistenze. «Fatti furbo - gli dice Don
Bosco - i denari siano per i tuoi figli; le mortificazioni tientele per te».
E voleva dire: «Non mollare; insisti, ma con santa furbizia».
Per fare il bene, il suo bene - osserva A. Caviglia - egli ha bisogno
di tutti, «guelfi e ghibellini che siano». La sua abilità sta proprio in que-
sto «approfittare di quel tanto di inconscio che è in loro e del lato
buono che è - se non si vuole essere del tutto pessimisti - in ogni
uomo, anche quando è votato ad un partito che di buono sembra aver
poco».
Per liberare il bene che c'è nel cuore di ogni uomo, nota il suo
primo biografo, sapeva allearsi, con mezzi onesti, con lo stesso amor
proprio dei suoi interlocutori. Dovendo trattare con persone che gli
erano ostili, mal disposte, quando «si awedeva che ragioni di conve-
nienza, di carità o di dovere a nulla avrebbero approdato, egli con arte
finissima e senz'ombra di adulazione o di menzogna facevasi alleato il
loro amor proprio e sapeva sollecitare in modo questa corda, da farla
rispondere a quella nota che aveva in mente. Una parola di lode, un
ricordo onorevole, un atto e un motto di stima, di confidenza, di fiducia,
di rispetto faceva la maggior parte delle volte sparire ogni difficoltà o
awersione».
Lo stesso comportamento usava con i suoi, abbondando sempre
nella lode, con i benefattori, con tutti. Quando attribuisce alla madre
l'età della figlia, o quando loda la fantesca avara di un suo amico par-
roco, sa di fare complimenti graditi dai quali non ne deriva che un bene,
ed è questo che vuole.
Le sue profezie contro la casa reale, «funerali a corte», scatenarono
le ire del Conte Generale d'Angrogna, il quale, precipitandosi a Valdoc-
co, coprl Don Bosco di insulti minacciandolo seriamente. Il Santo reagi
con molta calma, appellò all'onorabilità dell'uomo di armi che non
poteva colpire un inerme, lodò il suo coraggio e valore, se lo fece amico.
I due brinderanno insieme.
La telegrafica letterina con la quale ringrazia la contessa Girolama
Uguccioni che gli ha preparato il necessario per il viaggio da Firenze a
Roma, dimostra con quanta grazia e furbizia sapesse conquistarsi i suoi
benefattori. «Mia buona mamma. Nostro viaggio stupendo; pollastro
ottimo ha fatto servizio stupendo. Vino eccellente: bottiglia rimasta inte-
ramente vuota».

7.5 Page 65

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Cap. VI: Un santo furbo 63
Non si lasciava ingannare
Santamente furbo, Don Bosco non era l'uomo che si lasciasse ingan-
nare o al quale si potessero contare frottole e ordire tranelli. «Il Cardi-
nale - scrive a Don Dalmazzo - ti attendeva per farti fare il pulcinella.
Ci caveremo anche da questa [situazione]».
Il ministro degli Esteri gli promette «mari e monti» per il viaggio dei
suoi missionari: «Vedremo - scrive - se, lasciando a lui la proprietà
del mare e dei monti, mi darà qualche cosa per passarli».
A Roma la costruzione della chiesa del Sacro Cuore ingoia cifre
ingenti che non danno respiro al povero Don Bosco; molti vogliono
metterci le mani e tutto si complica. Allora il Santo taglia corto e scrive
a Don Dalmazzo: «Credo indispensabile che il Card. Vicario non si
rompa più il capo nelle cose materiali e lasci al solo et.irato che paga il
disbrigo degli affari». «Invece di biasimare quello che fabbrichiamo a
Roma, io vorrei che certi signori pensassero a darci denaro».
Quando nel 1884 si tiene a Torino l'Esposizione nazionale dell'indu-
stria, Don Bosco vi partecipa in grande con la migliore macchina tipo-
grafica che fosse allora sul mercato, la «regina delle macchine», come fu
subito battezzata. I visitatori potevano assistere alla trasformazione degli
stracci in carta, dalla carta alla stampa, dalla stampa alla legatura del
libro. Tutti, esperti e visitatori, ritenevano Don Bosco meritevole del
primo premio. La commissione, anticlericale e massonica, gli assegnò
invece solo la medaglia d'argento. Il Santo la rifiutò con dignità e fierez-
za: impose anche il silenzio stampa. Nella sua lettera di protesta dichia-
rava tra l'altro: «A me basta aver potuto concorrere coll'opera mia alla
grandiosa Mostra dell'ingegno e dell'industria italiana e di aver dimo-
strato col fatto la premura che nel corso di oltre 40 anni mi sono sempre
dato a fine di promuovere, col benessere morale e materiale della gio-
ventù povera ed abbandonata, anche il vero progresso delle scienze e
delle arti».
Furbizie innocenti
La furbizia di Don Bosco si esprime anche in gesti semplici, quasi
irrilevanti, ma che hanno un loro significato. Per dimostrare la sua rico-
noscenza all'Arcivescovo di Buenos Aires gli fa pervenire dall'Italia due
cassette di vini sceltissimi: Bordeaux, Malaga, Grignolino, ecc. Le bot-
tiglie devono però avere l'apparenza di vino molto vecchio. Che cosa fa
Don Bosco? Scrive al suo segretario di spargere sulle bottiglie un po' di

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64 Parte I: lineamenti
polvere «per nobilitare la nascita del vino e dare un'esistenza alquanto
antica». Una piccola furbizia che renderà il dono più gradito.
Per dimostrare ai benefattori più insigni la sua gratitudine si inge-
gnava per ottenere loro onorificenze sia ecclesiastiche che civili, ma
voleva essere lui a comparire. «Se vi sono spese - scriveva a Roma a
Don Dalmazzo - saranno fatte, ma desidero farle io per poter dire che
è un regalo. Cosa che frutterà assai di più». Desiderava poi che, nei
limiti del possibile, la consegna dei diplomi avvenisse con solennità,
scendendo a particolari che nel mutato clima culturale possono anche
far sorridere, ma che avevano allora una sicura efficacia psicologica.
«Ricevuto il Breve di Benites e il Diploma per il Sig. Don Ciccarelli,
- scriveva a Don Cagliero - tu ti intenderai con Don Fagnano. Por-
terai tutto in persona. Inviterai la commissione del collegio e gli amici
dell'uno e dell'altro. Don Tomatis prepari un bel dialogo da recitarsi in
quell'occasione; e due giovanetti sopra di un disco portino il Breve di
Commendatore, in un altro il Diploma; ma tu e Don Fagnano accom-
pagnerete gli allievi, prenderete etc. e li consegnerete nelle mani loro.
Sono cose cui si deve dare tutta la importanza».
La sua furbizia - egli parla anche di «sante industrie» - era non
eufemisticamente «santa»; non aveva nulla di tortuoso o di torbido, non
degenerava nella scaltrezza; era sano senso pratico che lo muoveva ad
usare ogni mezzo lecito per attirare l'attenzione sulla sua opera in vista
della «maggiore gloria di Dio e della salvezza delle anime».
E santamente furbi voleva i suoi giovani. «Al mondo - diceva loro
facendo sue le parole di S. Filippo Neri - vi sono molti pazzi e molti
furbi. I furbi sono coloro che faticano e patiscono un po' per guada-
gnare il paradiso; i pazzi sono coloro che s'incamminano all'eterna dan-
nazione».
Avendo parlato delle «astuzie» usate da S. Atanasio per sventare le
insidie dei nemici, terminava la sua predica con questa convinta esorta-
zione: «Santi di questa sorte vorrei che vi faceste tutti voi. Sl, miei cari,
cercate sul serio di farvi santi; ma di quei santi che, quando si tratta di
fare il bene, sanno cercarne i mezzi, non temono la persecuzione, non
risparmiano fatiche: santi astuti che cercano prudentemente tutti i modi
per riuscire nel loro intento».
Furbizia, sl, ma come via alla santità: questo è Don Bosco.

7.7 Page 67

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Capitolo VII
SANTO ALLEGRO
«Il primo aspetto che ci colpisce nella santità di Don Bosco, e che
è Il quasi a nascondere il prodigio dell'intensa presenza dello Spirito, è
il suo atteggiamento di semplicità e di allegria che fa apparire facile e
naturale ciò che in realtà è arduo e soprannaturale» (E. Viganò).
La gioia, di cui l'allegria è la manifestazione o esplosione esterna, fa
parte della santità cristiana. È infatti, come si esprime Paolo VI nella sua
Esortazione sulla gioia Gaudete in Domino, «partecipazione spirituale
alla gioia insondabile insieme umana e divina, che è nel cuore di Cristo
glorificato [...]. Quaggiù scaturisce dalla celebrazione congiunta della
morte e della risurrezione del Signore».
È cioè la gioia che lo Spirito Santo ha effuso in Maria SS.ma, nella
cugina Elisabetta, in Simeone, in Gesù. Santi tristi non esistono: sareb-
bero dei tristi santi, diceva S. Francesco di Sales. «Il demonio - ripe-
teva a sua volta Don Bosco - ha paura della gente allegra».
Ma non tutti i santi hanno manifestato la loro allegria allo stesso
modo. La vita di S. Tommaso Moro, di S. Filippo Neri, di Don Bosco
è talmente traboccante di gioia che potrebbe offrire materia per una
«teologia della gioia».
Sia che scherzi, sia che parli di cose serie o preghi, Don Dosco dà
colore alla vita e diffonde allegria. Si poteva leggere la gioia nei suoi
occhi luminosi e profondi, sul suo volto «invariabilmente sorridente,
affascinante ed indimenticabile» (P. Albera). Si poteva coglierla nelle
battute piacevoli piene di arguzia e buon umore. Dopo la fucilata che
per poco non l'uccise, «povera sottana - esclamò - l'hai pagata tu».
Diceva: «Vada come vuole, purché vada bene». «Appena troveremo un
bue senza padrone voglio che stiamo allegri». Ripeteva: «Ltetare et
benefacere e lasciar cantar le passere».
Ad un ragazzo scalzo: «Vieni a Torino - gli dice-, là ti farò met-
tere i chiodi alle scarpe». Non si smentì neanche sul letto di morte: «Vi-
glietti, dammi un po' di caffè ghiacciato, ma che sia molto caldo».
La gioia ampia e profonda che filtra dalla persona di Don Bosco è,
come scrive acutamente E. Viganò, molte cose insieme: «È la gioia di
vivere testimoniata nel quotidiano; è l'accettazione degli eventi come
5

7.8 Page 68

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66 Parte I: lineamenti
strada concreta e ardita per la speranza, è l'intuizione delle persone con
i loro doni e i loro limiti per formare famiglia; è il senso acuto e pratico
del bene nell'intima convinzione che esso è (in noi e nella storia) più
forte del male; è il dono di predilezione verso l'età giovanile che apre
il cuore e la fantasia al futuro e infonde una duttilità inventiva per saper
assumere con equilibrio i valori dei tempi nuovi; è la simpatia dell'amico
che si fa amare per costruire pedagogicamente un clima di fiducia e di
dialogo che porta a Cristo; è un pergolato di rose che si percorre can-
tando e sorridendo, anche se ben muniti di scarponi di difesa contro
numerose spine».
La gioventù sente con maggior freschezza l'anelito della felicità. Don
Bosco lo aveva compreso, sin da quando, giocoliere e saltimbanco
improvvisato, sapeva tenere allegri i suoi giovani amici per farli più buo-
ni.
Studente a Chieri aveva fondato la «Società dell'allegria». Scopo:
tener lontano la «melanconia e stare sempre allegri», compiere «con
esattezza i doveri scolastici e religiosi». Ma ogni suo Oratorio o istituto
diventerà una «Società dell'allegria» ed in ogni adunanza egli stesso
prenderà la direzione dell'allegria; accomiaterà i suoi amici con un «Sta'
allegro!», che li faceva trasalire di contentezza.
«Non passò giorno - scrive G.B. Lemoyne - , si può dire, senza
che con modi spiritosi o racconti ameni destasse ilarità, o in pubbliche
adunanze o nelle parlate agli allievi o nei crocchi che formavano intorno
a lui i suoi salesiani, i suoi giovanetti, nei viaggi, nelle case o palazzi dei
cittadini, insomma dovunque apparisse».
Benché si possa essere sicuri che la sua vita sia stata un silenzioso
martirio, egli compose sempre il volto a letizia. Più soffriva, più si
mostrava lieto.
Undicesimo comandamento
L'allegria è !'«undicesimo comandamento delle case salesiane» (A.
Caviglia). È uno dei grandi segreti del sistema preventivo. Come S.
Filippo Neri, Don Bosco non si è mai stancato di ripetere ai giovani:
«State sempre allegri»; «Servite il Signore stando lieti»; «Vivete pure
nella massima gioia, purché non facciate peccati».
Guidato dalla esperienza e da un sicuro intuito pedagogico sapeva
che per crescere bene, nello spirito come nel corpo, i giovani hanno
bisogno di gioia come di pane.
«Don Bosco - scrive P. Braido - , molto più comprensivo e intui-

7.9 Page 69

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Cap. VII: Santo allegro 67
tivo di tanti genitori, sa e comprende che il ragazzo è ragazzo e permette
e vuole che lo sia; sa che la forma di vita del ragazzo è la gioia, la libertà,
il giuoco, la "società dell'allegria". Egli sa che per un'azione educativa
normale e profonda il ragazzo va rispettato ed amato nella sua natura-
lità, che non consente oppressioni, forzature, violenze».
Nella sua esortazione alla gioia Paolo VI afferma che la gioia cri-
stiana suppone un uomo capace di gioie naturali: «Ci sarebbe bisogno
anche di un paziente sforzo di educazione per imparare o imparare di
nuovo a gustare semplicemente le molteplici gioie umane che il Creatore
mette già sul nostro cammino: gioia esaltante dell'esistenza e della vita
[...], gioia e soddisfazione del dovere compiuto, gioia trasparente della
purezza, del servizio, della partecipazione, gioia esaltante del sacrificio.
Il cristiano potrà purificarle, completarle, sublimarle: non può disde-
gnarle».
Don Bosco si ritrova in queste affermazioni, lui che si è sempre pro-
digato perché ai giovani non mancasse la gioia squillante delle ricrea-
zioni rumorose, dello sport, delle passeggiate, della musica, del canto,
del teatro, della ginnastica. Fin che le forze glielo permisero, quando era
in casa, era egli stesso l'anima del divertimento. L'ultima sfida alla corsa
alla quale prese parte risale al 1868; aveva cinquantatré anni, le sue
gambe erano già gonfie ma ancora di una sveltezza meravigliosa.
Nel giorno di carnevale all'Oratorio si impazziva dalla gioia. La cro-
naca di Don Ruffìno descrive l'andamento della giornata: S. Messa nel
primo mattino, poi colazione seguita da un'ora e mezza di giuochi;
pranzo speciale con vino e frutta; nel pomeriggio ricreazione con la clas-
sica rottura delle pignatte, classe per classe; seguivano i Vespri, ralle-
grati dallo spassoso dialogo tra il Teol. Barelli e Don Cagliero, la Bene-
dizione. Teatro e cena speciale chiudevano la giornata. Dopo le pre-
ghiere della sera e la parola paterna di Don Bosco, stanchi morti, ma
con l'animo gonfio di letizia, i giovani andavano a riposo.
A differenza del Can. Allamano, che durante il carnevale non per-
mise mai il più lieve svago, egli amava insegnare con i fatti che si può
stare santamente allegri senza offendere il Signore.
Assecondando i giovani nelle cose di loro gradimento, Don Bosco
riusciva a fare amare quelle verso le quali essi non inclinano per natura,
come lo studio, il lavoro, l'adempimento del dovere, la pietà. Era con-
vinto che il destino dell'uomo si gioca nella giovinezza ed ammoniva nel
Giovane Provveduto: «Quella strada che l'uomo comincia in gioventù,
si continua nella vecchiaia; se noi cominciamo una buona vita ora che
siamo giovani, buoni saremo negli anni avanzati». «Ricordatevi- sono

7.10 Page 70

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68 Parte I: Lineamenti
parole del Regolamento - che la vostra età è la primavera della vita.
Chi non si abitua al lavoro in tempo di gioventù per lo più sarà sempre
un poltrone sino alla vecchiaia».
Li voleva operosi, alacri, attivi, sempre impegnati; non dava pace ai
poltroni. Sapeva educare i giovani a gustare le soddisfazioni e le gioie
intime insite nel dovere compiuto, a percepire la verità del trinomio che
gli era caro: allegria, studio-lavoro, pietà. Tre grandi valori inseparabil-
mente congiunti della sua pedagogia. Egli non credeva ad una pietà che
non portasse all'impegno, né all'impegno disgiunto dalla pietà. In que-
sta sintesi collocava la fonte della felicità: «Pietà, studio e allegria vi
daranno tante soddisfazioni dolci come il miele».
«Se vuoi farti buono -leggiamo nella biografia di Besucco France-
sco - pratica tre sole cose e tutto andrà bene... Eccole: allegria, studio
e pietà. È questo il grande programma, il quale praticando, tu potrai
vivere felice e fare molto bene all'anima tua».
Ha scritto con verità F. Orestano: «Se S. Francesco santificò la
natura e la povertà, S. Giovanni Bosco santificò il lavoro e la gioia. Egli
è il santo della euforia cristiana, della vita cristiana operosa e lieta».
E ali'euforia cristiana voleva che fossero improntati gli stessi esercizi
di preghiera, la stessa relazione con Dio. Bandiva perciò le lungaggini
monotone e ripetitive che generano nei giovani tedio e rigetto. Anche il
tempo passato in chiesa doveva risolversi in «un'ora di gioia», di «fe-
sta». «Cose facili - scriveva - che non spaventano, non stancano, non
preghiere prolungate». Le pratiche di pietà «siano come l'aria, la quale
non opprime, non stanca mai, sebbene ne portiamo sulle spalle una
colonna pesantissima».
L'anno scolastico era costellato di feste liturgiche, di esercizi devoti,
di tridui, di novene, ma non se ne sentiva il peso. Don Bosco sapeva
preparare i giovani alla «festa»; sapeva farla vivere come un incontro
sacramentale gioioso con Cristo; sapeva farla gustare come preludio
della felicità eterna, con la magia del canto, lo splendore delle cerimonie
e dei riti. Le celebrazioni che si facevano a Valdocco diventano col
tempo un vero centro di attrazione per i fedeli della città di Torino.
Dalla chiesa la gioia traboccava nella vita, nelle ricreazioni spensie-
rate, nell'allegria del pasto più copioso. Don Bosco, il quale non ha mai
ammesso dicotomie tra l'anima e il corpo, voleva che «anche il corpo
stesse allegro»; la melanconia doveva essere bandita. «Il cozzar delle
scodelle e dei bicchieri» doveva formare «una bella armonia». Tutti gli
elementi positivi non distrutti dal peccato erano, come si vede, ottimi-
sticamente assunti nel suo metodo educativo.

8 Pages 71-80

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8.1 Page 71

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Cap. VII: Santo allegro 69
L'allegria: cammino di santità
Quando Don Bosco scrive: «Solo la religione e la grazia possono
rendere l'uomo felice», oppure - come si legge già nella prima edi-
zione del Giovane Provveduto (1847) - «quelli i quali vivono in grazia
di Dio, sono sempre allegri ed anche nelle afflizioni hanno il cuore con-
tento», mentre «coloro che si danno ai piaceri, vivono arrabbiati [...]
sempre più infelici», intende far capire ai giovani che la felicità terrena
ed eterna si gioca nel rapporto con Dio.
Non esiste, dunque, che una via sola per raggiungere la felicità e la
gioia: quella che passa per la religione dell'amore e della salvezza; per
l'amicizia e l'intimità con Cristo e il suo Spirito.
La pedagogia di Don Bosco sarà pertanto «radicalmente e per
essenza una pedagogia spirituale delle anime» (A. Caviglia); una pedago-
gia cioè della vita di grazia, della crescita e maturazione in Cristo; in una
parola una «pedagogia della santità e della gioia», perché la gioia è ele-
mento costitutivo della santità. La scuola torinese credeva nella voca-
zione universale alla santità. S. Giuseppe Cafasso parlava dei suoi «santi
impiccati»; S. Leonardo Murialdo incitava alla santità anche le ragazze
sviate del «Ritiro del Buon Pastore»; Don Bosco la proponeva come
meta suprema tanto ai suoi «biricchini» e ai suoi «barabba», quanto ai
suoi giovani migliori. Una santità «a misura di giovane», ma esigente ed
anche eroica.
Quando la prassi romana riteneva improponibile la causa di beatifì-
cazione e canonizzazione dei giovani, movendo dal presupposto che
solo una persona adulta poteva praticare la virtù in grado eroico, il
Santo affermava, alludendo a Savio Domenico: «Vi assicuro che avremo
dei giovani della casa elevati agli onori degli altari». La Chiesa gli ha
dato ragione.
Benemerenza non piccola è certamente l'aver creduto alla santità
giovanile, ma merito più grande è quello di averla presentata ai giovani
nella stimolante prospettiva dell'allegria, non ostacolo, ma via alla san-
tità.
«lo sono contento che vi divertiate, che giuochiate, che siate allegri.
È questo un metodo per farvi santi come S. Luigi, purché procuriate di
non commettere peccati».
Dopo la famosa predica sulla santità (1855), di cui conosciamo solo
gli enunziati incisivi: «È volontà di Dio che ci facciamo tutti santi; è
assai/adle farsi santi; un gran premio è preparato in cielo a chi si fa san-
to», Domenico Savio si presenta a Don Bosco e gli dice: «Non pensavo

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70 Parte I: Lineamenti
di potermi far santo con tanta facilità, ma ora che ho capito che ciò si
può fare anche stando allegro io voglio assolutamente ed ho assoluta-
mente bisogno di farmi santo».
Trasportato dalla sua fantasia di adolescente vorrebbe imitare i
grandi asceti, digiunare severamente, darsi a lunghe preghiere. Il mae-
stro loda il proposito di farsi santo, ma ne frena l'idealismo eccessivo,
gli traccia, realisticamente, il programma di santità adatto alla sua età e
condizione: «Per prima cosa» gli suggerisce «una costante e moderata
allegria»; poi l'adempimento esatto «dei suoi doveri di pietà e di stu-
dio»; la «ricreazione con i compagni»; «l'adoperarsi per guadagnare
anime a Dio, perché non c'è cosa più santa al mondo».
Sono i consigli che egli sviluppa nelle note biografie di Savio,
Magone e Besucco, dove è evidente lo sforzo di dimostrare come la vita
dei suoi protagonisti sia stata, dal principio alla fine, un graduale e pro-
gressivo cammino verso la pienezza della santità.
Tutto, ancora una volta, si riporta, in sintesi, all'insistito trinomio:
allegria, studio-lavoro, pietà. Quel «noi facciamo consistere la santità
nello stare sempre allegri» detto da Domenico Savio all'amico Camillo
Gavio è convinzione profonda, è un tocco dello Spirito: «un tesoro divi-
no, dunque, rivestito di semplicità e di gioia quasi a nascondere il pro-
digio» (E. Viganò).
Perché la santità che Don Bosco propone non ha nulla di compli-
cato, di arcano, di straordinario; è la santità del quotidiano, dei gesti
consueti vissuti non comunemente, come faceva Domenico Savio di cui
il Santo loda «l'esemplare tenor di vita e quella esattezza nell'adempi-
mento dei suoi doveri oltre cui difficilmente si può andare».
La proposta di santità racchiusa nel trinomio ricordato non esclude
ma implica, evidentemente, le altre virtù cristiane che il santo Educatore
ha sempre inculcato. L'importanza che l'ubbidienza e la purità hanno
nella vita del giovane lo induce a sottolinearle più fortemente. «Il fon-
damento di ogni virtù in un giovane è l'ubbidienza». Rivolgendosi fami-
liarmente ai suoi allievi chiede loro che si lascino tagliare la testa, si
lascino guidare quasi ciecamente, diano la chiave del loro cuore a chi li
conosce e li ama.
Quando parla della purità diventa poeta ed incanta i giovani. Quello
che la Scrittura dice della Sapienza egli lo applica volentieri alla purità:
Et venerunt omnia bona pariter cum illa. Tutti i beni derivano dalla virtù
della purità.
Quando parliamo della grande santità fiorita a Valdocco come il
frutto più bello del sistema preventivo, noi pensiamo immediatamente

8.3 Page 73

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Cap. VII: Santo allegro 71
all'azione dello Spirito Santo, autore della santità. Non possiamo però
dimenticare che lo Spirito si è servito dell'azione delicata e discreta del
suo servo fedele Don Bosco, della sua straordinaria abilità di direttore
spirituale di anime giovanili. Uno dei più grandi di tutti i tempi.
A quali criteri ed indirizzi egli ispirasse la sua missione di guida ed
accompagnatore spirituale lo dice A. Caviglia, in una felice sintesi che
merita di essere ricordata: «Libertà di spirito e di movimento, rispetto
alla libertà della grazia, pratica santificante del dovere, attenzione a Dio,
orientamento verso Gesù Sacramentato e Maria, mortificazione della
vita: in capo a tutto fiducia in Dio, serenità, gioia, allegria, senza terrori
e scontrosità paurose, ma colla vista al Paradiso: tutto con amore e per
amore, nell'interno come all'esterno». Non è tutto Don Bosco, ma è cer-
tamente Don Bosco.
Aggiungeremo, infine, che la proposta di santità fatta da Don Bosco
non è mai disgiunta dall'idea del «premio», del Paradiso. «Un gran pre-
mio è preparato in cielo a chi si fa santo». Sul firmamento di Valdocco
«si affacciava sempre, di giorno e di notte, con nubi o senza nubi, il
Paradiso» (E. Viganò). Il Santo ne parlava spesso: «Un pezzo di Para-
diso aggiusta tutto»; «Nelle fatiche e nei patimenti non dimenticare mai
che abbiamo un gran premio preparato in Paradiso»; «Pane, lavoro e
Paradiso». Per tre notti consecutive, il 3-4-5 aprile 1861, sogna di fare
una «passeggiata» con i suoi giovani in Paradiso. Nelle biografie dei
suoi ragazzi, anche descrivendone l'agonia, egli ama sottolineare come
più dell'orrore della morte essi vivessero l'attesa del Paradiso.
Il pensiero del Paradiso è uno dei frutti della presenza dello Spirito
Santo, e Don Bosco è un'«anima di Spirito Santo». Cammina su questa
terra, ma il cuore e la mente sono rivolti al cielo.

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Capitolo VIII
SANTO CON QUALCHE OMBRA?
Il rigore con il quale la Chiesa procede nei processi di Beatificazione
e Canonizzazione è tale che basterebbe una qualche colpa deliberata
commessa nell'ultimo periodo di vita, per compromettere la causa di
ogni candidato alla gloria degli altari.
Ma la Chiesa non pretende dai santi la perfezione assoluta che è, evi-
dentemente, solo di Dio; né quella, compiuta nel suo genere, di cui
godono i Beati comprensori. Su questa terra la perfezione, anche degli
stati elevati, porta ancora con sé «qualche cosa - scrive J. De Guibert
- di incompleto, di carente, persino di precario, sempre di incom-
piuto».
Questo comporta alcune conseguenze pratiche in tema di imitazione
dei santi che vanno tenute presenti. Quando la Chiesa - è sempre il
noto studioso che parla - «propone come esempio da imitare la vita
dei santi e dei beati, non intende affatto sanzionare la perfezione di cia-
scuno dei loro atti, e, meno ancora, la loro imitabilità, il loro valore for-
mativo. Solo l'insieme di queste vite viene proposto come modello, uni-
tamente a questo o quell'aspetto sottolineato dai decreti pontifici, a que-
sta o quella virtù particolarmente rimarcata in essi. Questi stessi santi,
lo sappiamo, hanno avuto delle leggere debolezze dalle quali nessun
uomo è esente; non sono arrivati, anche dopo essersi donati a Dio, di
colpo alla sommità; in molti di loro si noteranno quelle "sante follie"
ammirabili quando si giudicano secondo lo spirito che le ha determi-
nate, ma poco imitabili senza una ispirazione molto straordinaria della
grazia».
Qualche piccola imperfezione
Queste considerazioni vanno tenute presenti anche quando si parla
di Don Bosco e lo si propone come modello di vita. In un quadro di
intatta bellezza qualche piccola imperfezione, subito riscattata da atti di
intensa carità, non guasta. S. Girolamo biasimava in S. Paola l'ostinato
attaccamento alle penitenze; S. Bernardo usava con i suoi monaci un
rigore che fu giudicato eccessivo; S. Vincenzo de' Paoli trovava tracce

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Cap. VIII: Santo con qualche ombra? 73
di colpa nella Chantal. Non meraviglia che leggere ombre di fragilità
non acconsentite si riscontrino anche nella vita di Don Bosco.
Scrive il futuro Card. Salotti, promotore della fede nella causa del
Santo: «Se in un uomo cosl straordinario riscontriamo qualche ombra
- amplificata del resto più del giusto - essa non oscura la splendida
luce che promana dalle sue molte virtù o dalle sue santissime azioni».
Mons. Bertagna, autorevole sostenitore della santità di Don Bosco,
ha testificato a sua volta: «Se guardo a qualche tratto della sua vita, alla
tenacità, cioè, con cui talvolta tentava di riuscire nel suo intento, mi
pare di vedervi alquanto di umanità. Cosl, a quanto sembra al primo
aspetto, parve talora alquanto inopportuno nel dimandar limosine,
alquanto ardente, e più del convenevole per ottenerle, sino ad esser
troppo facile a promettere ricompense del Signore a chi le dava e lasciar
timore che le cose, né della sinistra né della destra, sarebbero andate
bene se gli si negavano. Parimenti qualche volta parve troppo restio ad
abbandonare le proprie opinioni». Il teste riconosce però che le inten-
zioni del Santo erano rette ed i mezzi che usava per raggiungere i suoi
obiettivi, di una onestà ineccepibile. Fu sempre infatti delicatissimo di
coscienza.
Una sera ad Alassio - febbraio 1879 - Don Bosco si confida con
alcuni intimi; manifesta le sue sofferenze: affronti subiti, udienze impe-
dite, lettere intercettate, opposizioni palesi e segrete da più fronti,
parole dure, mortificanti... Ma ad un tratto s'interruppe, rifletté un
istante e poi disse davanti a tutti: «Ho parlato troppo». E quella sera
stessa volle confessarsi.
All'origine del lungo, sofferto contrasto, che oppose tra loro, per un
decennio, Mons. Gastaldi e Don Bosco, due uomini superiori e prima
amicissimi, ci sono errori di calcolo da parte di Don Bosco e un ecces-
sivo confidare nell'uomo. Interponendosi presso Pio IX affinché Mon-
signore fosse trasferito dalla diocesi di Saluzzo all'Archidiocesi di Tori-
no, sperava di poter contare molto sul suo aiuto. Fu invece l'inizio di
una dolorosa Via Crucis: «Quel confidare nell'uomo - riconoscerà
umilmente - non era piaciuto al Signore». Ne portò le conseguenze
con animo forte e con eroica ubbidienza, ma la natura reclamava i suoi
diritti.
Don Rua attesta di averlo visto «piangere per la pena che provava
nel trovarsi in urto con il suo superiore», di averlo sentito esclamare:
«Ci sarebbe tanto bene da fare e resto cosl disturbato da non poterlo
fare». Pianto e parole amare sussurrate più a se stesso che all'indirizzo
del suo Arcivescovo, che pure rispettava ed amava, uscirono dalla sua

8.6 Page 76

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74 Parte I: lineamenti
bocca in momenti di angoscia estrema. «Ormai ci manca solo che mi
pianti un coltello nel cuore»; «Un sonoro gagliardo schiaffo non poteva
mortificarmi di più»; «A forza di accumulare disgusti[...] il povero sto-
maco si rompe».
Si direbbero parole troppo umane, ma Don Bosco non ha mai
ceduto all'impulso del risentimento o della ribellione; questi sfoghi
avvenivano solo in una cerchia strettissima d'intimi. Soffriva, taceva,
continuava a fare il suo bene.
A chi un giorno gli rimproverava di non aver usato le stesse armi
dell'avversario rispose con pacatezza: «È il Signore che ha guidato ogni
cosa».
Il Console argentino in Savona, Comm. Gazzolo, si professava bene-
fattore dei salesiani. In realtà badava solo ai propri interessi. «Il Comm.
Gazzolo - scrive a Don Cagliero in America - dopo una settimana di
calcoli e di chiacchiere ridusse la sua domanda a L. 60.000 per i suoi
700 metri di terreno... Come vedi lo pagò 19 e per farci un beneficio ce
lo dà a L. 60.000. Ah! Rogna, rogna!». Espressione piemontese sottil-
mente ironica, ma forte sulla bocca del Santo.
Nessuno va esente - a prescindere dagli errori teorici comuni ad
ogni epoca - da errori pratici non previsti, non voluti, non colpevoli.
Fanno parte della condizione umana e Don Bosco non ne andò esente.
Non sempre i conti tornavano: accadeva che la fiducia posta in certi
suoi collaboratori andasse delusa, accadeva che opere avviate con tanta
speranza dovessero venire abbandonate. Succedeva anche che certi pro-
getti «dopo lunghe, complicate e noiose pratiche da dover perdere la
testa» andavano poi «a monte». E a monte andò, ad esempio, la sua
paziente fatica per mettere ordine, per espresso desiderio di Pio IX, nel-
l'Istituto dei «Fratelli Ospedalieri di Maria SS. Immacolata», detti
«Concettini», i quali attraversavano un periodo di grandi difficoltà. Don
Bosco aveva accettato volentieri il difficile incarico perché si trattava di
un desiderio del Pontefice e, forse, anche perché pensava di incorpora-
re, in qualche modo, l'Istituto alla sua opera. Ma l'impresa falli; non
mancò chi lo mise in cattiva luce presso il Papa come risulta da questa
lettera del Card. Bilio, suo sincero ammiratore.
«Caro e Rev.mo Don Bosco [...]. Mi dispiace doverLe significare
che il S. Padre non mi parve cosi ben disposto come l'anno scorso. I
motivi di ciò, se non ho mal inteso, sono principalmente due: 1° l'affare
dei Concettini; l'abbracciare ch'Ella fa troppe cose insieme. Mi stu-
diai di togliere dall'animo del Papa ogni men favorevole impressione
verso di Lei. Non so se ci sia riuscito».

8.7 Page 77

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Cap. Vlll: Santo con qualche ombra? 75
Il Santo era certamente vittima di insinuazioni e calunnie; ma biso­
gna anche dire che la scelta di Don Giuseppe Schiappini a suo rappre­
sentante non era stata la più accorta.
Don Bosco - e lo abbiamo detto - è stato certamente un grande
carismatico: leggeva nei cuori, faceva profezie, ma poteva anche sba­
gliarsi. Un giorno un suo giovane gli ricorda una predizione non avve­
rata. Il Santo si fa serio; poi scherzando e sorridendo dice: «E se anche
non si avverasse che importa?», e deviò il discorso.
Le Bolle di Beatificazione e Canonizzazione gli riconoscono il cari­
sma straordinario delle guarigioni. Ma le guarigioni non avvenivano
sempre. Don Rua ha potuto asserire che Don Bosco «volentieri raccon­
tava certi fatti in cui si era ottenuto il risultato contrario ai desideri di
chi implorava la sua benedizione».
Don Guanella, futuro fondatore dei «Servi della Carità» e delle «Fi­
glie di S. Maria della Provvidenza», ora Beato, si era fatto salesiano
essendo già sacerdote, ma Dio lo rivoleva in diocesi. Don Bosco fece di
tutto per tenerlo con sé: «Uno - gli scrive - che sia legato in religione,
se non vuole burlare, bisogna che rinunzi ad ogni progetto se non è
secondo la materia dei voti e sempre col beneplacito del superiore».
Questa lettera ed altre dello stesso tono furono «una grave spina» nel-
1'animo delicato di Don Guanella, il quale decise, non di meno, di
lasciare Don Bosco. Due santi a confronto: lo Spirito che li guida dona
all'uno luci superiori che non concede all'altro. La storia è ricca di simili
esempi.
Iperbole propagandistica
Noteremo ancora che neppure i santi andarono esenti da certe ano­
malie innocue, da piccole stranezze, da sante furbizie che rendono la
santità più umana e più vicina alla nostra natura.
S. Francesco di Assisi, a volte, si accompagnava nel canto con un
pezzo di legno come fanno i bambini; S. Caterina da Siena, dolce e
austera, baciava i bambini per le strade e mandava mazzi di fiori, fatti
con le sue mani, agli amici; S. Filippo Neri prediligeva una vecchia gatta
dal pelo rosso ed un cane chiamato «Capriccio», faceva salti in aria per
esprimere la gaiezza. Anche la vita di Don Bosco offre aspetti che non
è facile ridurre entro schemi correnti.
Il Santo, cosi concreto ed aderente al reale, parlando dei suoi pro­
getti e delle sue opere indulgeva all'amplificazione per colpire l'animo
e la fantasia dei suoi uditori, per guadagnarli più facilmente alla sua cau-

8.8 Page 78

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76 Parte I: Lineamenti
sa: «Tutta l'Italia e l'Europa politica e religiosa parlano del nostro pro-
getto per la Patagonia».
Nel descrivere, nelle sue Memorie, la sua abilità di prestigiatore,
doveva sorridere tra di sé, quando faceva, ad esempio, la seguente affer-
mazione: «Il veder uscire da un piccolo bussolotto mille palle tutte più
grosse di lui; da un piccolo sacchetto tirar fuori mille uova, erano cose
che facevano trasecolare».
Santo moderno comprese d'istinto l'importanza che la «propagan-
da» andava assumendo nella nuova società e se ne servl in grande attra-
verso giornali, libri, opuscoli, conferenze. «È l'unico mezzo - diceva
- per far conoscere le opere buone e sostenerle: il mondo attuale è
diventato materiale, perciò bisogna lavorare e far conoscere il bene che
si fa». E della propaganda adottò anche il linguaggio e il metodo, senza
scendere però a compromessi con la sua coscienza.
Sempre ingolfato nei debiti e sull'orlo del fallimento, quando si
rivolgeva ai benefattori, all'opinione pubblica, riteneva non solo lecito
ma doveroso l'uso del linguaggio iperbolico. «L'iperbole - diceva -
è una figura retorica, vuol dire che non è condannato farne uso».
All'uso dell'amplificazione dovevano spingerlo i suoi sogni profetici
e «quel suo far grande che lo portava sempre di colpo ai programmi
massimi e al concepimento di piani mondiali messi appena pensati e
senza remora in corso di attuazione» (F. Orestano).
C'è anche in Don Bosco la forte tendenza a gonfiare i numerici delle
sue opere, dei suoi giovani. «È cosa strepitosa!», diceva a Don Barberis
alludendo alle «venti» fondazioni del solo 1878. In realtà le venti fon-
dazioni sono le case che il Catalogo ufficiale elenca per l'anno 1878, tre
in più rispetto all'anno precedente. Nella sua relazione alla S. Sedt del
1880 il Santo tiene ad assicurare Leone XIII che i suoi cinquemila gio-
vani pregano per Lui; pochi anni dopo la cifra sale a duecentocinquan-
tamila, a trecentomila... Che cosa dire?
Commenta Don Ceria: «Don Bosco non andava per il sottile nei
computi, indulgendo a moderne forme di pubblicità comunemente in
voga che proclamano anche tre volte di più perché s'intenda almeno
metà della metà». Più sottilmente P. Stella: «L'iperbole propagandistica
si spiega nell'atmosfera di entusiasmo, di arguzia, di facezia e di furbizia
tra familiare e popolare che vigeva a Valdocco e in vari ambienti nei
quali Don Bosco si muoveva».
E questo è ancora Don Bosco.
Ma non potremo mai dimenticare che egli resta sempre un uomo
immensamente più grande di noi; un capolavoro dello Spirito Santo,

8.9 Page 79

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Cap. VIII: Santo con qualche ombra? 77
che ha tradotto il Vangelo in azione; una esistenza regolata da leggi
superiori alla nostra comune esperienza; un santo che in tutto quello
che dice o fa ha di mira unicamente la gloria di Dio e la salvezza delle
anime.

8.10 Page 80

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9 Pages 81-90

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9.1 Page 81

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PARTE SECONDA
DIMENSIONI ESSENZIALI
NB. Gli aspetti più qualificanti (o le dimensioni essenziali) della santità di Don Bosco
sono certamente molti, tanto è ricca e complessa la sua personalità. La nostra scelta ne
prende in esame solo alcuni.

9.2 Page 82

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9.3 Page 83

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Capitolo I
LA MISTICA DEL «DA MIHI ANIMAS»
Le parole che il re di Sodoma rivolge ad Abramo: «Da mihi ani'mas,
e.etera tolle: dammi le persone e prendi per te la roba», nella interpre-
tazione accomodatizia che Don Bosco assume da una lunga tradizione
suonano cosi: «O Signore, datemi anime e prendetevi tutte le altre
cose».
In questa versione «il termine chiave è il vocabolo animas, cioè quel
termine che da secoli nel linguaggio cristiano designava l'elemento spi-
rituale dell'uomo, posto nel tempo ma immortale, tra salvezza e rovina
eterna, tra peccato e grazia, tra Gerusalemme e Babilonia, tra Dio e
Satana» (P. Stella).
«Se salvi l'anima - scrive Don Bosco - tutto va bene e godrai per
sempre; ma se la sbagli perderai anima e corpo, Dio e il Paradiso, sarai
per sempre dannato».
Oggi abbiamo una visione più inglobante del destino dell'uomo e
delle realtà ultime. Don Bosco, nel linguaggio del suo tempo, indica tut-
tavia la direzione giusta in cui bisogna guardare, ripete a tutti che
l'uomo non è fatto per la terra, è testimone della tensione e della spe-
ranza del futuro che ci attende; possiamo ascoltarlo con fiducia. Si è nel
vero quando si afferma che le sue più profonde aspirazioni, la sua più
ardente preghiera è per le «anime da salvare» ed assicurare al Regno.
Sempre prete, tutto prete
Il «Da mihi animas» è il suo motto, la sua ossessione, la sua mistica.
Mistica che è ~oncentrazione su Dio e su Cristo, ma anche conseguenza
diretta del suo essere sacerdote, chiamato, per destinazione essenziale,
a collaborare con Cristo nel ministero della Redenzione. Non è possibile
pensare Don Bosco se non sacerdote.
Che cosa è infatti la sua giovinezza se non la consapevole, voluta,
assidua preparazione al sacerdozio? «Essere presto prete - diceva a se
stesso - per trattenermi in mezzo ai giovanetti, per aiutarli». E che
cosa è la sua vita se non lo scioglimento di questo voto fatto in gio-
ventù?
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82 Pane II: Dimensioni essenziali
Di Cristo sacerdote, unico ed attuale Mediatore tra Dio e gli uomini,
volle essere l'immagine più perfetta possibile, la mediazione sacramen-
tale più trasparente. Mai venne meno in lui la coscienza dell'indefettibile
responsabilità sacerdotale: sempre prete, tutto prete e nient'altro.
«Un prete - diceva - è sempre prete e tale deve manifestarsi in
ogni sua parola»; «Chi si fa prete sia un santo prete».
La parola prete - termine allora scomodo se le buone mamme tori-
nesi insegnavano ai loro bimbi a non dire «prete», voce coperta di
troppo fango, ma «sacerdote» - ricorre sette volte nel breve periodo
che apre lo storico colloquio con il ministro Bettino Ricasoli avvenuto
a Firenze nel dicembre 1866: «Eccellenza, sappia che Don Bosco è
prete all'altare, prete in confessionale, prete in mezzo ai suoi giovani, e
come è prete in Torino, cosl è prete in Firenze, prete nella casa del
povero, prete nel palazzo del re e dei ministri».
Quando predomina ancora l'idea del prete appartato, chiuso nel suo
mondo e nella sua chiesa, Don Bosco si rivela un precursore, manife-
standosi, con i fatti, sacerdote intieramente consacrato alla missione,
aperto al soffio storico dello Spirito, proiettato nel sociale e sul prossi-
mo, aperto al servizio di tutti, ma specialmente dei giovani e degli ulti-
mi. Per lui non ci sono antinomie tra vita spirituale e vita pastorale.
La convinzione profonda che il prete non si santifica, e non si salva,
se non nell'esercizio del suo ministero e della sua specifica missione tra-
pela in certi suoi enunziati perentori e pregnanti: «Il guadagno del prete
vogliono essere le anime e nulla più»; «Il sacerdote non va nell'inferno
o nel paradiso da solo, ma accompagnato sempre da anime perdute o
salvate da lui».
«Ogni parola del prete deve essere sale di vita eterna e ciò in ogni
luogo e con qualsiasi persona. Chiunque avvicina un sacerdote deve
riportare sempre qualche verità che gli rechi vantaggio all'anima». «Il
prete non deve avere altri interessi fuori di quelli di Gesù Cristo».
Gli «interessi di Gesù Cristo», Rivelatore e Adoratore del Padre,
Redentore dell'umanità, sono, in sintesi, la «gloria di Dio», «la salvezza
degli uomini». E questi sono esattamente gli interessi supremi che Don
Bosco persegue lungo l'intero arco della sua vita. Salvare e santificare le
anime è l'anelito prepotente del suo cuore.
Giovanni Paolo II lo ha ricordato ai membri del XXII Capitolo
Generale, il 4 aprile 1984: «È importante sottolineare e tenere sempre
presente che la pedagogia di Don Bosco ebbe una valenza, ed una pro-
spettiva, estremamente "escatologica": essenziale - come dice ripetu-
tamente Gesù nel Vangelo - è entrare nel Regno dei Cieli».

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Cap. I: La mistica del «Da mihi animas» 83
Entrare nel Regno è entrare nella salvazione definitiva. «Salvare l'a-
nima» e cooperare alla «salvezza delle anime» sono affermazioni ripe-
tutissime da Don Bosco ai giovani, ai salesiani, alle persone dei ceti più
umili come di quelli più elevati. «Ti raccomando la salvezza dell'ani-
ma».
In un «piano di regolamento» che risale al 1854, rimasto inedito,
cita la nota frase del vangelo di Giovanni: Ut filios Dei qui erant dispersi
congregare! in unum, e commenta: «Le parole del S. Vangelo ci fanno
conoscere essere il Divin Salvatore venuto dal cielo in terra per radunare
insieme tutti i figliuoli di Dio dispersi nelle varie parti della terra; parmi
si possano letteralmente applicare alla gioventù dei nostri giorni».
La vista di Gesù Buon Pastore, venuto a raccogliere e a salvare i figli
di Dio dispersi, stimola Don Bosco a prodigarsi per la gioventù del suo
tempo, specialmente per quella più povera, più sbandata, più esposta al
pericolo di perdersi.
Il pensiero della salvezza delle anime - tutte, ma specialmente
quelle che Dio gli affida - è veramente al cuore del cuore di Don
Bosco; è «il nucleo essenziale e irrenunziabile, la radice più profonda
della sua attività interiore, del suo dialogo con Dio, del lavoro su se stes-
so, della sua operosità di apostolo conosciutosi come chiamato e nato
per la salvezza della gioventù povera ed abbandonata» (P. Stella). Il
motto che Domenico Savio poté leggere nella sua stanza: Da mihi ani-
mas, ctetera tolte: «O Signore, datemi anime e prendetevi tutte le altre
cose», è la forte sottolineatura data ad uno dei propositi formulati negli
esercizi di preparazione alla sua ordinazione a sacerdote: «Patire, fare,
umiliarsi in tutto e sempre, quando si tratta di salvare anime». Vera-
mente il suo cuore ha «palpitato sempre all'impulso del "Da mt"bi anz'-
mas" » (E. Viganò).
L'idea unificatrice
Questa l'idea unificatrice di tutta la sua vita: non viveva che di essa
e per essa, come prova la sua fatica di pedagogo, di pastore, di catechi-
sta, di scrittore, di fondatore, e come provano le sue più convinte e
ricorrenti affermazioni: «I nostri giovani --,- diceva - vengono all'Ora-
torio: i loro parenti e benefattori ce li affidano coll'intenzione che siano
istruiti...; ma il Signore ce li manda affinché noi ci interessiamo delle
loro anime ed essi qui trovino la via dell'eterna salute. Perciò tutto il
resto da noi deve considerarsi mezzo e il nostro fine supremo farli buo-
ni, salvarli eternamente».

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84 Parte II: Dimensioni essenziali
«Tutte le arti sono importanti, ma l'arte delle arti, l'unico lavoro che
conta è la salvezza dell'anima»; «Ogni spesa, ogni fatica, ogni disturbo,
ogni sacrificio è poco, quando contribuisce a guadagnare anime a Dio».
Pregava: «O Signore, dateci pure croci, spine, persecuzioni di ogni
genere purché possiamo salvare anime e fra le altre anche la nostra».
«La mia affezione [per voi] - spiegava agli artigiani di Valdocco - è
fondata sul desiderio che ho di salvare le vostre anime, che furono tutte
redente dal sangue prezioso di Gesù Cristo e voi mi amate perché cerco
di condurvi per la strada della salvezza eterna».
Anche sul letto di morte, assalito da incubi, fu visto scuotersi, bat-
tere le mani e gridare: «Accorrete, accorrete presto a salvare questi gio-
vani... Maria SS.ma, aiutateli!» Arrivò a dire: «Se io mettessi tanta sol-
lecitudine per il bene dell'anima mia, come per il bene dell'anima altrui,
sarei sicuro di salvarla».
Come l'artista sente il tormento di non poter esprimere in termini
umani l'intuizione folgorante che si porta dentro, cosi Don Bosco si
rammarica di non potere inculcare il pensiero della salvezza dell'anima,
cosi come lo vive e lo sente: «Oh! se potessi dirvelo come lo sento! -
esclama - Ma le parole mancano, tanto importante e sublime è il sog-
getto».
La sua fatica, le sue istituzioni, la fondazione della Società salesiana,
dell'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, dei Cooperatori, tutto è
finalizzato a questa meta suprema. «L'unico scopo dell'Oratorio è sal-
vare anime». «Scopo di questa società, se si considera nei suoi membri,
non è altro che un invito a volersi unire in spirito tra loro, per lavorare
alla maggior gloria di Dio e per la salute delle anime a ciò spinti dal
detto di S. Agostino: Divinorum divinissimum est in lucrum animarum
operari». Soggiungeva: «Questo è lo scopo più nobile che si possa
immaginare»; questo deve essere «il continuo respiro di ogni salesiano».
Con assoluta verità Don Rua ha potuto affermare ai processi: «Non
diede passo, non pronunziò parola, non mise mano ad impresa che non
avesse di mira la salvezza della gioventù. Lasciò che altri accumulasse
tesori, che altri cercasse piaceri, e corresse dietro gli onori; Don Bosco
realmente non ebbe a cuore altro che le anime: disse col fatto, non solo
con la parola: Da mihi animas, e.etera tolle».
Anche Don Albera, che ebbe una lunga consuetudine con Don
Bosco, attesta: «Il concetto animatore di tutta la sua vita era di lavorare
per le anime fino alla totale immolazione di se medesimo... Salvare le
anime... fu si può dire l'unica ragione del suo esistere».
Espressioni sommamente vere sono uscite dalle labbra di Pio XI

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Cap. I: La mistica del «Da mihi animas» 85
nella solenne udienza accordata il 3 aprile 1934 nella Basilica di S. Pie-
tro a tutta la Famiglia salesiana, nella quale ha voluto sottolineare la
connessione tra il fausto evento della canonizzazione ed i valori del-
!'Anno Santo della Redenzione: «Don Bosco oggi ci dice: "Vivete la vita
cristiana cosi come io l'ho praticata e insegnata a voi". Ma ci pare che
Don Bosco a voi, figli suoi, e cosi particolarmente suoi, aggiunga qual-
che parola anche più specificamente indicatrice [...]. Vi insegna un
primo segreto, [che è] l'amore a Gesù Cristo, a Gesù Cristo Redentore!
Si direbbe persino che questo è stato uno dei pensieri, uno dei senti-
menti dominanti di tutta la sua vita. Egli lo ha rivelato con quella parola
d'ordine: Da mihi animas. Ecco un amore che è nella meditazione con-
tinua, ininterrotta di ciò che sono le anime non considerate in se stesse,
ma in quello che sono nel pensiero, nell'opera, nel sangue, nella morte
del divino Redentore. Ll Don Bosco ha veduto tutto l'inestimabile, l'ir-
raggiungibile tesoro che sono le anime. Da ciò la sua aspirazione, la sua
preghiera: Da mihi animas.' Essa è un'espressione dell'amore suo per il
Redentore, espressione sulla quale, per felicissima necessità di cose, l'a-
more del prossimo diventa amore del divino Redentore, e l'amore del
Redentore diventa amore delle anime redente, quelle anime che nel pen-
siero e nell'estimazione di Lui si rivelano non pagate a troppo alto prez-
zo, se pagate col suo sangue».
I grandi Ordini ed Istituti religiosi hanno condensato in frasi di
grande sinteticità aspetti della vita spirituale paradigmatici per il loro
carisma: pensiamo all'Ora et tabora («Prega e lavora») dei benedettini;
al Contemplari et contemplata aliis tradere («Contemplare e trasmettere
agli altri le cose contemplate») dei domenicani; al Ad majorem Dei glo-
riam et ad salutem animarum della Compagnia di Gesù («Alla maggior
gloria di Dio e alla salvezza delle anime»).
«La mia convinzione - scrive il Rettor Maggiore dei Salesiani E.
Viganò - è che non c'è nessuna espressione sintetica che qualifichi
meglio lo spirito salesiano di questa scelta dello stesso Don Bosco: Da
mihi animas, c;etera tolle». Essa sta ad indicare una ardente unione con
Dio che ci fa penetrare il mistero della sua vita trinitaria manifestata sto-
ricamente nelle missioni del Figlio e dello Spirito quale Amore infinito
ad hominum salutem intentus.
Ciò che scappa da questo motto e dalla energia della carità pastorale
incarnata nel dono di predilezione verso i giovani e caratterizzata dalla
«bontà» non riproduce il volto autentico della santità di Don Bosco.
Tanta attenzione e predilezione per le anime da salvare non deve far
pensare che per il Santo l'uomo si risolvesse nella sua anima o che que-

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86 Parte Il: Dimensioni essenziali
sta fosse come svincolata dal corpo. No. «L'uomo è dotato di anima e
di corpo»; e se l'anima, libera e immortale, è il «soffio divino» che
riflette «l'immagine e la somiglianza» con Dio, anche il corpo è un
«dono». «Dio - si legge nel suo Mese di Maggio - creò il corpo con
quelle belle qualità che noi in esso rimiriamo». Don Bosco ha sempre
esaltato i valori del corpo e della creaturalità, anche se ha messo in guar-
dia contro il pericolo che il corpo, per i guasti del peccato, può rappre-
sentare per l'anima: «A chi vi dice - ammonisce nel Giovane Provve-
duto - che non conviene usar tanto rigore contro il nostro corpo,
rispondete: chi non vuole patire con Gesù Cristo, non potrà godere con
Gesù Cristo». Ma quando egli parla della salvezza delle anime ha sem-
pre di mira, al di là della concezione dualistica che condivide con la spi-
ritualità del tempo, il giovane concreto. Salvezza di tutto il giovane, di
ogni giovane, e, per loro tramite, salvezza dell'intera società.
«Aderente al reale com'è Don Bosco prende il giovane in tutta la sua
concretezza d'individuo destinato al cielo, ma che ha da compiere una
missione sulla terra: di cittadino della Gerusalemme celeste, inserito nel
pellegrinante Popolo di Dio in tensione verso la patria, e di cittadino
della città terrestre, con tutte le sue esigenze di crescita, di maturazione
fisica, affettiva, culturale e di progressivo inserimento nella realtà socia-
le» (C. Colli).
La fatica di Don Bosco sacerdote-educatore-pastore è finalizzata
concretamente a tre obiettivi pratici.
Primo: soddisfare i bisogni materiali e primordiali dei giovani più
poveri ed emarginati, offrendo loro «ricovero, vitto e vestito»; renden-
doli «atti a guadagnarsi onestamente il pane della vita» con un mestiere,
una professione: «Se io nego un tozzo di pane- scrive al Conte Solaro
della Margherita - a questi giovani pericolanti e pericolosi, li espongo
a grave rischio dell'anima e del corpo».
Secondo: aiutarli, con una paziente azione educativa, a divenire se
stessi, a maturare e crescere virilmente sul piano umano e sociale, per
farne degli «onesti cittadini». Ogni educatore che si rispetta e rispetti
la sua causa «deve essere pronto - asseriva - ad affrontare ogni
disturbo, ogni fatica per conseguire il suo fine, che è la civile, morale,
scientifica educazione dei suoi allievi».
Terzo: educare cristianamente. Cioè avviare i giovani ad una con-
vinta e robusta pratica della religione cristiana. «Senza religione -
diceva - è impossibile educare la gioventù». L'educazione alla vita di
grazia, all'amicizia con Cristo, era spinta fino ai vertici della vera santità.
Don Bosco - lo abbiamo già ricordato - ha il grande merito di aver

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Cap. I: La mistica del «Da mihi animas» 87
«inserito la santità nel mondo dell'educazione» nel senso che ha fatto
«maturare la pedagogia cristiana fino a farla diventare una fonte di san-
tità giovanile» (E. Viganò). Per la prima volta nella storia della Chiesa
e come frutto del metodo pedagogico un giovane, Domenico Savio, è
stato canonizzato come confessore.
Aggiungiamo, come rileva opportunamente P. Braido, che questi tre
fini, che vivono concretamente e simultaneamente nell'azione educativa
di Don Bosco, sono, in realtà, «un fine unico supremo, religioso-morale,
soprannaturale, che include in sé i condizionatori terreni individuali e
sociali» e non altro. La mistica del «Da mihi animas» lega cosl indisso-
lubilmente promozione umana e promozione soprannaturale, con una
insistenza tutta particolare sull'aspetto religioso. Questo legame intrin-
seco viene ribadito oggi dal Concilio: «La Chiesa ha il dovere di occu-
parsi dell'intera vita dell'uomo, anche di quella terrena in quanto con-
nessa con la vocazione celeste» (Gaudium et Spes, Proemio).

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Capitolo II
IL LAVORO COLOSSALE
L'importanza assunta dal tema del lavoro nel nostro tempo è dimo-
strata dalla imponente letteratura che ne ha sviscerato tutti gli aspetti e
le valenze. Anche se sfigurato da certe ideologie il lavoro è davvero un
valore centrale nella società e nella cultura di oggi. Fa emergere un
aspetto della missione dell'uomo nel mondo: quello di dominare la
natura per umanizzarla e metterla a servizio della persona.
In questi ultimi anni si è parlato di una «teologia del lavoro». La
riflessione teologica ha puntato su due elementi portanti del mistero
della salvezza: la creazione e la redenzione. Dio Padre che crea il mon-
do; Dio Padre che invia Gesù Cristo per salvarlo.
Il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II traccia nella sua Enciclica
Laborem exercens le linee di una spiritualità del lavoro che ne esalta il
valore, ma demitizza ogni idolatria al riguardo. Il lavoro, infatti, non è
fine a se stesso, non è un assoluto. È invece «un modo importante di
esprimere la persona come "co-creatrice" o "co-redentrice" sulla terra
e nel tempo. Per noi diviene testimonianza della triade spirituale: fede,
speranza, carità. In questo senso non è tanto la qualità del lavoro a ren-
dere grande la persona, ma le motivazioni e il cuore con cui lo si com-
pie, ossia la misura dell'amore di carità che lo permea» (E. Viganò).
Don Bosco ha fatto del lavoro la sua bandiera, si è santificato lavorando
e lavorando molto. Vediamolo.
L'attività incessante
L'accademico d'Italia Francesco Orestano, scrivendo di Don Bosco,
dopo averne sottolineata la grandezza morale e la forza di volontà, pro-
segue in questi termini: «Per importanti che siano i caratteri dell'uomo
e della sua opera, l'originalità di Don Bosco non è ancora qui. Eccola.
Necessità educative e sociali, profondamente intuite in perfetta rela-
zione con i nuovi tempi, gli fecero scoprire la grande legge di educare col
lavoro e al lavoro. Del lavoro come strumento educativo Don Bosco
sentì la straordinaria potenza edificante della personalità umana in tutti
i sensi e momenti. Lavoro, via eminente di nobilitazione dello spirito:

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Cap. II: Il lavoro colossale 89
"Non vi raccomando penitenze e discipline, ma lavoro, lavoro, lavoro".
E ancora sul letto di morte, lo raccomandava a tutti i Salesiani ch'egli
volle ordinati come una milizia sociale, non impegnata a pratiche asce-
tiche, ma tutta penetrata dei bisogni della vita moderna. Né egli
apprezzò il lavoro solo come strumento educativo, ma come contenuto
di vita. Del lavoro senti tutta la dignità anche nelle sue applicazioni
manuali più modeste, cercò tutte esemplarmente di apprendere e pra-
ticare, e perciò stesso nobilitare. Né mai considerò il lavoro mezzo di
arricchimento, poiché, anzi, giudicò, come la sua santa mamma aveva
rettamente sentenziato, sventura l'arricchirsi; ma soltanto quale pienez-
za, sanità e santità di vita».
La citazione è pertinente perché coglie, con penetrante chiarezza,
l'aspetto forse più originale della sua pedagogia e della sua santità, che
è quello della elevazione dell'uomo e del cristiano tramite il lavoro e col
lavoro. Ad una condizione, però, che la voce «lavoro» venga presa nella
gamma di significato che aveva per Don Bosco per il quale era, di volta
in volta, sinonimo di attività manuale, artigianale, tecnica, professionale;
intellettuale, scuola, studio, cultura; apostolica, catechesi, evangelizzazio-
ne, zelo pastorale; sacerdotale, azione liturgica, sacramenti; caritativa,
nelle sue diverse forme; dovere di stato. «Per lavoro s'intende l'adempi-
mento dei doveri del proprio stato».
Sarà, perciò, il contesto a darci il significato inteso, di volta in volta,
da Don Bosco quando parla di lavoro.
La «scala mistica» del lavoro
Del lavoro inteso come attività apostolica, caritativa e umanizzante,
Don Bosco intui la suprema grandezza, la divina virtù santificatrice e
non esitò a farne la sua «scala mt"stica» per andare a Dio.
Non disgiunse il lavoro dalla preghiera: «Se vi è stato un santo che
nei tempi moderni abbia cosi meravigliosamente congiunti e imperso-
nati in sé i due elementi della tradizione benedettina "pregare e lavora-
re" fu precisamente Don Bosco» (Card. C. Salotti). Ma la preghiera non
è ciò che più appare in lui, non è la sua divisa. «Ciò che al mondo
appare è il lavoro intenso disinteressato. Don Bosco è un santo estrema-
mente concreto: per dirla in una parola un po' cruda ma vera, non crede
ad una pietà che non si esprima nella vita, che non diventi azione, carità
fattiva, che non si traduca in un lavoro incessante per amor di Dio e dei
fratelli» (C. Colli).
Aggiungiamo che nel sec. XIX la preghiera era ancora una realtà

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90 Parte Il: Dimensioni essenziali
cosi fortemente inserita nel costume cnst1ano che Don Bosco non
ritenne opportuno insistervi come, probabilmente, avrebbe fatto in una
situazione diversa. Urgeva, invece, santificare il lavoro e divinizzare l'a-
zione. Fu questo il suo carisma.
A questo si sentiva ispirato e portato. Sapeva che la parola non è
persuasiva se non nel momento in cui diventa azione e volle che l'azione
diventasse parola, che le sue idee avessero le mani, come di fatto acca-
deva.
Era per temperamento quello che si dice «uomo di azione», «l'ope-
ratore di successo», il «genio dell'organizzazione». Il lavoro era la sua
seconda natura. «Iddio - diceva - mi ha fatto la grazia che il lavoro
e la fatica, invece di essermi di peso, mi riuscissero sempre di sollievo».
La spinta ad agire era potentemente stimolata dai nuovi immensi
bisogni del suo secolo, dalla miserevole condizione in cui versava la gio-
ventù emarginata o disattesa del suo tempo. Ma lo attirava soprattutto
l'esempio di Gesù, il divino operaio della casetta di Nazaret, l'amico dei
fanciulli e degli umili, l'apostolo del Padre continuamente all'opera per
la nostra salvezza: «Il Padre mio opera sempre e anch'io opero» (Gv
5,17); Gesù «cominciò a fare e a insegnare» (At 1,1). È questo il
modello che propone ai suoi fìgli quando scrive le Costituzioni.
«Gesù Cristo cominciò a fare ed insegnare - leggiamo nel secondo
articolo - , cosi i congregati cominceranno a perfezionare se stessi colla
pratica delle interne ed esterne virtù».
Quando Don Bosco cita la Parola di Dio, di cui è nutrito, dimostra
una spiccata preferenza per i testi che mettono in evidenza la «categoria
del fare», dell'annunzio, della evangelizzazione; meno frequenti sono le
citazioni relative alla preghiera. Per strano che possa apparire, le cita-
zioni relative alla preghiera nel suo epistolario, dove l'accenno all'ora-
zione è pressoché continuo, sono del tutto mancanti. Solo a partire dalla
prima spedizione missionaria cita la frase di Gesù: Rogemus Dominum
messis ut mittat operarios in messem suam (Mt 9,38): «Preghiamo il
Padrone detla messe che mandi operai nella sua messe».
Le frasi più citate, ad esempio, nelle quasi tremila lettere dell'episto-
lario, cioè, quelle che gli escono dal cuore con più naturalezza perché
le più vissute, sono frasi di questo tenore: Opus /ac evangelz'stte (2Tm
4,5): «Continua il tuo lavoro di predicatore del Vangelo»; Tu vero prte-
dù:a Verbum opportune et importune (2Tm 4,2): «Predica la Parola di
Dio, insisti a tempo e fuori tempo»; Opera Dei revelare et confiteri hono-
rificum est (Tb 12,7): «È cosa gloriosa rivelare le opere di Dio».
Non è stato un pragmatista, non ha elevato la prassi a criterio di

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Cap. Il: Il lavoro colossale 91
verità: ha sempre messo al di sopra di tutto sia la dottrina della fede che
il Magistero. Ma è stato «l'imprenditore di Dio», il realista che antepo-
ne, per istinto, il pratico al teorico, il vissuto all'astratto, i fatti alle paro-
le, che non crede alla fede senza le opere, né ad un Vangelo che non
sia incorporato alla vita. Solo «chi fa la verità viene alla luce» (Gv 3,21).
Solo il linguaggio dei fatti e delle opere gli pareva abbastanza cre-
dibile.
«Il mondo è divenuto materiale - diceva - perciò bisogna lavorare
e far conoscere il bene che si fa. Se uno fa anche miracoli pregando
giorno e notte nella sua cella, il mondo non ci bada e non ci crede più.
Il mondo ha bisogno di vedere e toccare. Il mondo attuale vuole vedere
le opere, vuole vedere il clero lavorare... ».
In un'epoca nella quale si guardava ai religiosi come a gente oziosa,
inutile al progresso della società, volle la sua istituzione fondata sulla
grande legge del lavoro e diceva, non senza umorismo, che la divisa dei
suoi religiosi sarebbe stata quella delle «maniche rimboccate».
Le affermazioni
Le affermazioni ardite che altri santi hanno fatto in lode alla pre-
ghiera Don Bosco le ha fatte in lode al lavoro.
«Il novanta per cento dei suoi discorsi ai confratelli - scrive A.
Caviglia - sono per il lavoro, la temperanza, la povertà. Ecco - sog-
giunge argutamente - lo scandalo di un Santo! di un Santo, possiamo
dire, "americano": dice molte più volte: Lavoriamo, che non: Preghia-
mo».
Dice, a sua volta, E. Ceria: «Sarebbe difficile trovare un altro santo
che nella misura di Don Bosco abbia coniugato e fatto coniugare il
verbo lavorare».
Volle i suoi salesiani lieti, poveri, frugali, soprattutto laboriosissimi:
«Lavoro, lavoro, lavoro! - ripeteva - Ecco quale dovrebbe essere l'o-
biettivo e la gloria dei preti. Non stancarsi mai di lavorare. Quante
anime si salverebbero! »
Voleva che il lavoro avesse la continuità del respiro: «Sempre lavo-
rare [...]. Questo deve essere il fine di ogni Salesiano e il suo continuo
sospiro».
L'idea della fatica non doveva fare da pensiero frenante, ma servire
da stimolo a fare di più. «Da noi non si vogliono denari, ma fatiche».
«Bisogna che ci procuriamo lavori superiori alle nostre forze, e cosi chi
sa che non si arrivi a fare tutto quello che si può».

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92 Parte II: Dimensioni essenziali
La pigrizia e l'ozio gli ispiravano orrore. Giunse a dire questa frase
di rigore estremo: «Il prete o muore per il lavoro o muore per il vizio».
Quello che per altri Istituti erano le penitenze afflittive, i lunghi
digiuni, per Don Bosco era il lavoro: «Miei cari - ripeteva - non vi
raccomando penitenze e discipline, ma lavoro, lavoro, lavoro».
Quando vedeva il grande lavoro che facevano i suoi figli ne godeva
intimamente: «Quando vado nelle case e sento che c'è molto da lavo-
rare, vivo tranquillo. Dove c'è lavoro non c'è il demonio». «È vero, -
soggiungeva - il lavoro supera le forze, ma niuno si sgomenta, e pare
che la fatica sia un secondo nutrimento dopo l'alimento materiale».
Era convinto che «da S. Pietro fino a noi i tempi non fossero mai
stati cosi difficili», ma voleva che «invece di riempire l'aria di lamenti
piagnucolosi» si reagisse intensificando il lavoro: «Lavorare a più non
si può dire».
Pio IX gli aveva detto: «Io stimo che sia in condizione migliore una
casa religiosa dove si prega poco, ma si lavora molto, di un'altra nella
quale si facciano molte preghiere e si lavori niente o poco». E ancora:
«I novizi non metteteli in sagrestia, perché diventino oziosi: ma occu-
pateli a lavorare, a lavorare!».
È quello che Don Bosco faceva da sempre, suscitando perplessità e
diffidenze in altri religiosi e nella stessa autorità ecclesiastica.
Veniva rimproverato, ad esempio, di sacrificare il «noviziato asceti-
co» ed i metodi «tradizionali» della formazione impegnando incauta-
mente i giovani confratelli in dissipanti e precoci attività apostoliche.
Ma Don Bosco rispondeva a sua discolpa: «L'esperienza di trentatré
anni ci ammaestra che queste assidue occupazioni sono un baluardo ine-
spugnabile della moralità. Ed ho osservato che i più occupati ed i più
laboriosi ricordano meglio l'antica loro condizione, godono di molta
sanità, si conservano più virtuosi, e, fatti sacerdoti, riportano copioso
frutto del sacro ministero».
La conferma della bontà del suo metodo gli veniva anche dai miste-
riosi sogni che, come carte dal cielo, segnano le svolte decisive della sua
esistenza.
Nel «sogno di Lanzo» (1876), ad esempio, la guida che lo accom-
pagna gli fa vedere il campo sterminato dell'azione salesiana e gli dice
in tono perentorio: «Guarda; bisogna che tu faccia stampare queste
parole che saranno come il vostro stemma, la vostra parola d'ordine, il
vostro distintivo. Notalo bene: Il lavoro e la temperanza faranno fiorire
la Congregazione salesiana. Queste parole le farai spiegare, le ripeterai,
insisterai».

10.5 Page 95

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Cap. II: Il lavoro colossale 93
Straordinaria importanza ha sempre avuto nella tradizione salesiana
il sogno dei «dieci diamanti», o delle dieci virtù, che brillano di luce
sfolgorante sul manto del personaggio che personifica il «modello del
vero salesiano». Due di questi diamanti recano la scritta: «Lavoro»,
«Temperanza». Sono collocati rispettivamente sulla spalla destra e sini-
stra quasi a stagliare la figura del salesiano.
Ricordiamo, in fine, le parole forse più grandi della sua vita:
«Quando avverrà - cosl termina il suo Testamento spirituale - che un
Salesiano soccomba o cessi di vivere lavorando per le anime, allora
direte che la nostra Congregazione ha riportato un gran trionfo e sopra
di essa scenderanno copiose le benedizioni del cielo». Ancora sul letto
di morte raccomandò per ben due volte a Mons. Cagliero: «Racco-
mando che dica a tutti i Salesiani che lavorino con zelo ed ardore: lavo-
ro, lavoro».
La testimonianza
Ma più alta delle parole è la testimonianza della sua vita. Una vita,
come la definl Pio XI, «che fu un vero, proprio e grande martirio: una
vita di lavoro colossale che dava l'impressione dell'oppressione anche solo
a vederla».
Si stenta a credere che un uomo solo abbia potuto lavorare tanto e
attendere a tante cose insieme. Scrive A. Caviglia che in Don Bosco
sembrano operare, in simultaneità, più persone: «L'educatore e il peda-
gogista, il padre degli orfanelli e l'adunatore dei fanciulli abbandonati,
il fondatore di congregazioni religiose, il propagatore del culto a Maria
Ausiliatrice, l'istitutore di unioni laicali estese per il mondo intero, il
suscitatore della carità operativa, il banditore di missioni lontane, lo
scrittore popolare di libri morali e apologie religiose, il propugnatore
della stampa onesta e cattolica, il creatore di officine cristiane e di col-
lezioni librarie, l'uomo della pietà religiosa e della carità e l'uomo dei
negozi umani o di pubblico interesse, tutt'insieme ad un tempo operano
e avanzano come fossero altrettante persone nate o destinate a quello
solo, e si fondono nell'unica persona di un prete senz'apparenze, che
non scompone mai la serenità del suo aspetto né la composta modestia
del suo tratto coi grandi gesti decorativi, né arricchisce il suo vocabo-
lario con la retorica delle grandi &asi».
Tanta molteplicità di aspetti era però unificata, a livello di profon-
dità, dall'idea che domina la sua vita: quella, come abbiamo visto, della
salvezza delle anime.

10.6 Page 96

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94 Parte II: Dimensioni essenziali
La Provvidenza aveva temperato Don Bosco al lavoro fino dagli anni
stentati e poveri della fanciullezza. Sappiamo che fece di tutto, essendo
stato: pastore di armenti, lavoratore di campagna, servitore, sarto, fab-
bro, caffettiere, pasticcere, saltimbanco, ripetitore, studente, sacrestano,
barbiere; passò da un padrone all'altro, sperimentando quanto «sa di
sale» il pane altrui.
Questa esperienza lascerà in lui un marchio indelebile: sarà per sem-
pre sensibilissimo ai problemi della gioventù povera ed emarginata
come a quelli delle umili classi lavoratrici e sarà per sempre un lavora-
tore ed un realizzatore formidabile: «Le cose non vanno soltanto a
vapore - scriveva nel 1878 alla contessa Uguccioni- ma come il tele-
grafo. In un anno con l'aiuto di Dio e colla carità dei nostri benefattori
abbiamo potuto aprire venti case. Vede come è cresciuta la Sua fami-
glia».
Fedele ad un suo antico proposito, non concedeva al sonno, nella
maturità, più di cinque ore per notte. «Si può dire - depose nei pro-
cessi Mons. Bertagna- che passò metà delle notti lavorando: e lo sentii
più volte a dire che, quando era più sano, passava più volte anche due
notti a tavolino nello scrivere. Ciò nonostante al mattino si trovava in
sacrestia per dire la messa e sentire le confessioni per più ore». In date
circostanze confessava anche 10, 12 e fino a 18 ore al giorno.
Scriveva con una velocità sorprendente e di proprio pugno anche
250 lettere in una giornata. «Ne fo passare del lavoro sotto le mie dita
- diceva - [...]; ho acquistato una celerità che non so se possa dirsi
maggiore». Più volte si metteva al tavolino alle due pomeridiane e
durava fino alle otto per riprendere ancora dopo. «Sono più mesi che
mi metto a tavolino alle due pomeridiane e mi levo alle otto e mezzo per
andare a cena».
La «mortale fatica» alla quale lo costringevano le preoccupazioni
quotidiane trapela dalle lettere in subitanei sfoghi che non lasciano di
commuovere: «Il lavoro mi fa andar matto»; «Mi trovo stanco da non
poterne più»; «Sono molto stanco».
Ed era vero. Si può dire che non conobbe altro riposo che quello
della tomba. «Non ricordo - ha deposto nei processi Mons. Cagliero
- che in tutta la sua vita si sia preso un giorno di vacanza per diporto
o per prendersi riposo, e sovente trovando noi stanchi ed affranti dal
lavoro: "Coraggio - ci diceva - coraggio, lavoriamo, lavoriamo sempre
perché lassù avremo un riposo eterno"».
Morl spezzato dall'eccesso di lavoro, martire - non metaforico -
di una fatica che non conobbe soste. Le sue «esagerate veglie e fatiche

10.7 Page 97

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Cap. II: Il lavoro colossale 95
materiali - leggiamo nella rapida e curiosa biografia del suo medico
curante - gli logorarono la vita: da principio quasi inavvertitamente,
dopo il 1880 circa [otto anni prima della morte] si può dire che il di lui
organismo era quasi ridotto ad un gabinetto patologico ambulante, in
mezzo al quale tuttavia ancor brillava una mente sempre attiva e sempre
ansiosa di raggiungere la gloriosa sua meta».
«Si è consumato per troppo lavoro - conferma a sua volta il Prof.
Fissore della Università di Torino-. Non muore di malattia, ma è un
lucignolo che si spegne per mancanza di olio».
La laboriosità del «vecchio prete», del «filantropo del secolo XIX»,
del «cattolico intransigentissimo» parve, agli uomini del tempo, incre-
dibile e leggendaria. Alla morte di Don Bosco i giornali del tempo defi-
nirono la fatica e l'operosità di lui «prodigiosa» (L'Illustrazione popola-
re), «gigantesca» (La Patrie), «enorme e al massimo grado» (La Perse-
veranza), «fenomenale» (Il Fan/ulla). «Se Don Bosco - si legge nello
stesso giornale - fosse stato ministro delle finanze, l'Italia sarebbe eco-
nomicamente la prima nazione del mondo». Ai Processi Apostolici il
Promotore della Fede non esitò a dirlo uno dei massimi apostoli della
Chiesa del secolo XIX: «La molteplicità e fecondità delle sue opere ha
del prodigio: il suo zelo per la salvezza delle anime e per la diffusione
del Regno di Cristo sulla terra, è stato cosi intenso e continuo, che la
storia, a buon diritto, lo proclama apostolo grandissimo - "maximum"
- del secolo XIX».

10.8 Page 98

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Capitolo m
LA VITA DI PREGHIERA
La Congregazione per i Religiosi e gli Istituti secolari, nel suo docu-
mento sulla Dimensione contemplativa della vita religiosa (agosto 1980),
scrive: «La preghiera è il respiro indispensabile di ogni dimensione con-
templativa» (n. 5), che il Vaticano II definisce lo sforzo di «aderire a
Dio con la mente e col cuore» (Per/ectte caritatis n. 5).
La dimensione contemplativa si esprime nell'universo della liturgia,
dell'ascolto della Parola, della preghiera ma anche, secondo lo stesso
documento, nel «costante desiderio e ricerca di Dio e della sua volontà
negli eventi e nelle persone, nel dono di sé agli altri per l'avvento del
Regno» (n. 1). Il suo campo è vasto quanto la vita cristiana.
Consideriamo ora la contemplazione orante di Don Bosco, vogliamo
dire la sua preghiera «formale» o «preghiera-esercizio», la quale com-
porta la rottura con ogni altra forma di attività - pregare cosl è non
fare altro - e la sua preghiera «diffusa» o di «atteggiamento». Non
possiamo però eludere una domanda preliminare: poteva pregare Don
Bosco?
La domanda non è retorica: scende direttamente da quanto abbiamo
appena detto della sua attività multiforme e pressoché continua, la quale
sembrava sequestrarlo a quella preghiera esplicita che si riscontra nella
vita di tutti i santi. Fece scandalo in un tempo in cui non erano pochi
quelli che consideravano il lavoro come un tempo tolto alla preghiera.
Effettivamente la sua causa di Beatificazione ha urtato contro la
difficoltà della troppo esigua presenza della preghiera nella sua vita. La
preghiera «esplicita» è infatti una modalità essenziale della vita cristia-
na, ed una modalità esigente. Si consideri la preghiera, sul piano sogget-
tivo e psicologico, come «elevazione a Dio», come «ascolto», «dialogo
o conversazione» con Lui, oppure la si consideri, sul piano oggettivo,
come «adesione» spirituale al piano salvifico ed al Regno di Dio già pre-
sente sulla terra, la «preghiera-pregata» reclama sospensione da ogni
attività esterna, concentrazione, raccoglimento, luogo e tempo adatti;
tutte cose che in una vita dominata e come divorata dall'azione, come
quella di Don Bosco, sembravano impossibili.
Il Santo aveva pregato, certamente, ma, si obiettava, non a sufficen-

10.9 Page 99

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Cap. ID: La vita di preghiera 97
za. Dobbiamo riconoscere che non era facile giudicare Don Bosco col
parametro tradizionale. Nel suo modo di agire egli si dimostrava real-
mente molto diverso dagli altri santi. «È notorio - leggiamo in una
testimonianza dei Processi - che il Servo di Dio domandava continua-
mente e da tutte le parti per avere i mezzi onde sviluppare le sue opere.
In questo ritengo che il Servo di Dio si sia dimostrato ben diverso dal-
l'agire degli altri santi, in quanto che gli altri avrebbero fatto miracoli
per non ricevere eredità: cosl S. Filippo Neri. Egli ne avrebbe fatti per
averne e ne ebbe per far &onte ai bisogni dell'Oratorio».
Dobbiamo anche ricordare che quelli erano anni in cui lo Chautard,
nel suo libro: L'anima di ogni apostolato, denunziava vigorosamente il
delirio dell'azione. L'affermazione di questo autore secondo la quale «la
preghiera è l'anima dell'apostolato» si prestava a sottovalutare l'impor-
tanza dell'azione. Lo Chautard guarda alle opere con una certa diffi-
denza e sembra lontano dal supporre che è altrettanto vero che anche
l'azione apostolica, alle condizioni dovute, è essa pure anima dell'unione
con Dio. «Dalla Eucaristia - afferma Lumen Gentium -viene comu-
nicata e alimentata quella carità verso Dio e gli uomini che è l'anima di
tutto l'apostolato» (n. 33).
In pratica a Don Bosco venivano mosse le seguenti imputazioni:
«Per raggiungere i suoi scopi - obiettava la Censura - Don Bosco
contava molto sulla propria sagacia, iniziativa ed attività e usava in
lungo e in largo di tutti i mezzi umani. Più che sull'aiuto divino cercava
gli appoggi umani con inesplicabile sollecitudine giorno e notte, fino
all'estremo delle forze (" usque ad extremam /atigationem "), fino al
punto di non essere più capace di attendere agli impegni della pietà».
Secondo un altro censore, l'orazione avrebbe avuto pressoché nes-
suna rilevanza nella vita di Don Bosco: «In tema di orazione propria-
mente detta, della quale tutti i fondatori delle nuove congregazioni
hanno fatto il massimo conto, trovo, si può dire, nulla: nihil vel /ere
nihil reperio». E concludeva: «Come si può dire eroico uno che è stato
cosl carente nella pratica dell'orazione vocale? Poteritne heroicus in pie-
tate dici qui adeo deficiens in oratione vocali apparet?».
La situazione veniva aggravata dal fatto che Don Bosco, sia pure a
causa di un persistente male di occhi di cui soffriva fino dal 1843, ma
anche in vista delle eccessive occupazioni, aveva ottenuta la dispensa
dalla recita del breviario da Pio IX: prima a viva voce, poi con regolare
rescritto della Sacra Penitenzieria (19.XI.1864).
Mai nella storia dei processi apostolici era accaduto una cosa simile:
«numquam de aliis sanctis viris auditum est!».
7

10.10 Page 100

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98 Parte II: Dimensioni essenziali
Dobbiamo convenire che l'ideale di santità che si è imposto alla
coscienza cristiana è qualcosa di cosl puro ed elevato che basta una
accusa leggera per abbassarne l'aureola. L'idea che - dopo il Concilio
di Trento e sotto l'influsso della scuola francese - si aveva del sacer-
dote era in prevalenza, come abbiamo ricordato, quella dell'uomo di
culto e di preghiera. Don Bosco si scostava, incautamente, dal modello
tradizionale degli altri santi anche solo torinesi, come ad esempio il
Cafasso suo maestro e lo stesso Murialdo il quale impiegava anche quat-
tro ore nel preparare la S. Messa, nel celebrarla e nel ringraziare.
È un fatto che invano si cercherebbero in Don Bosco quelle mani-
festazioni esteriori di preghiera che si trovano nei santi coevi come nel
Curato d'Ars, in S. Antonio M. Claret, grandissimo apostolo. Don
Bosco - scrive Don Ceria - «non dedicava lungo tempo, come fecero
altri santi, alla meditazione».
Ma avere un proprio modo di preghiera non è lo stesso che non pre-
gare o pregare troppo poco. Non fu, infatti, difficile superare questa
difficoltà sia verificando meglio le deposizioni dei testi citati, sia giudi-
cando della sua preghiera nella sua globalità. Un contributo decisivo alla
causa di Don Bosco fu quello di Don Filippo Rinaldi, il quale, in data
29 settembre 1926, scrivendo al Cardinale Prefetto dei Riti, attestava,
tra l'altro: «E qui, Eminenza, mi permetta di aggiungere essere mia
intima convinzione che il Venerabile fu proprio un uomo di Dio, con-
tinuamente unito a Dio nella preghiera. Negli ultimi anni, dopo le mat-
tinate spese nel ricevere persone d'ogni ceto e condizione sociale che da
ogni parte accorrevano a lui per consiglio, per riceverne la benedizione,
ogni giorno soleva starsene ritirato in camera dalle 14 alle 15 e i Supe-
riori non permettevano che in quell'ora fosse disturbato. Ma essendo io,
dal 1883 alla morte del Servo di Dio, incaricato di una casa di forma-
zione di aspiranti al sacerdozio ed avendomi egli detto che andassi a tro-
varlo ogni volta che ne avessi bisogno, forse con indiscrezione, certo per
poterlo avvicinare con maggiore comodità, ruppi più volte la consegna,
e non solo all'Oratorio, ma a Lanzo, a S. Benigno, dove si recava soven-
te, e a Mathi e nella casa di S. Giovanni Evangelista in Torino, più volte
mi recai da lui proprio in quell'ora per parlargli. E a quell'ora, dapper-
tutto e sempre, lo sorpresi ogni volta, raccolto, con le mani giunte, in
meditazione».
Don Bosco «uomo di preghiera»
Quantitativamente e qualitativamente diversa da quella di altri santi

11 Pages 101-110

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11.1 Page 101

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Cap. ID: La vita di preghiera 99
la preghiera di Don Bosco risultava, però, non meno vera e profonda
alla prova dei fatti. Le testimonianze dei processi hanno svelato via via
in Don Bosco una insospettata ed esaltante attività di preghiera. Man-
cavano le esteriorità, i grandi gesti, ma la preghiera irrompeva per ogni
dove.
Si può dire - ha dichiarato Don Barberis - «che pregava sempre;
io lo vidi, potrei dire, centinaia di volte montando e scendendo le scale
sempre in preghiera. Anche per via pregava. Nei viaggi, quando non
correggeva bozze, lo vedevo sempre in preghiera». «In treno - era
solito dire ai suoi figli - non si stia mai in ozio, ma si dica il breviario,
si reciti la corona della Madonna, o si legga qualche buon libro».
In qualunque momento gli si domandassero consigli spirituali, li
aveva pronti «come se uscisse in quel momento dal discorso con Dio».
Dispensato dalla recita del ijreviario lo diceva in realtà quasi sempre
e con grande devozione; impedito da forza maggiore vi suppliva, come
risulta da questa sua formale ed eroica promessa, «col non fare atto o
pronunziar parola che non avesse di mira la gloria di Dio».
Testimonianze ineccepibili dicono che quando pregava «aveva del-
l'angelo». «Pregava in ginocchio con la testa leggermente china, aveva
un'aria sorridente. Chi gli stava vicino non poteva fare a meno di pre-
gare anche lui bene. Son vissuto - depose il Coadiutore P. Enria -
con lui 35 anni e l'ho sempre veduto a pregare cosl».
Considerava la preghiera come la spartizione volontaria, da parte di
Dio, della sua onnipotenza con la debolezza umana e le dava una pre-
cedenza assoluta: «La preghiera, ecco la prima cosa». «Non si comincia
bene - diceva - se non dal cielo».
La preghiera era per lui «l'opera delle opere», perché la preghiera
«ottiene tutto e trionfa di tutto». Essa è ciò che è «l'acqua al pesce, l'a-
ria all'uccello, la fonte al cervo, il calore al corpo», «al soldato la spa-
da». «La preghiera fa violenza al cuore di Dio».
Con assoluta verità E. Ceria ha potuto scrivere: «In Don Bosco lo
spirito d'orazione era quel che nel buon capitano è lo spirito marziale,
nel buon artista o scienziato lo spirito di osservazione: una disposizione
abituale dell'anima, attuantesi con facilità, costanza e grande diletto».
Anche la veglia notturna doveva essere occasione di preghiera. «Ve-
nuta l'ora del riposo, coricarsi con le mani giunte sul petto. Pregare
finché ci siamo addormentati, e, qualora nella notte ci svegliamo, ripi-
gliare la preghiera; dir delle giaculatorie, baciare l'abitino, o il crocifisso,
o la medaglia che si porta in dosso. Aver nella cella un poco di acqua
benedetta: fare il segno della S. Croce con fede».

11.2 Page 102

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100 Parte II: Dimensioni essenziali
Si dirà che si tratta di gesti devoti superati dal tempo; eppure sono
semplicemente atti radicati nella pietà cristiana, vivi nella vita e nella
prassi di anime semplici anche oggi. Perché non lasciare allo Spirito la
libertà di spirare come vuole e dove vuole?
La sua istituzione è fondata sulla preghiera: «Diedi il nome Oratorio
a questa casa, per indicare ben chiaramente come la preghiera sia la sola
potenza su cui possiamo fare affidamento».
A Valdocco la preghiera e lo spirito di preghiera si respiravano nel-
1'aria. Si potevano leggere sul volto dei suoi abitanti, molti dei quali for-
meranno la prima generazione salesiana: «Noi - scrive E. Ceria - li
abbiamo conosciuti: uomini così differenti d'ingegno e di cultura, così
diseguali nelle loro abitudini: in tutti però spiccavano certi comuni tratti
caratteristici, che ne costituivano quasi i lineamenti di origine. Calma
serena nel dire e nel fare; paternità buona di modi e di espressioni, ma
particolarmente una pietà la quale ben si capiva essere nel loro concetto
l'uhi conslstam, il fulcro della vita salesiana. Pregavano molto, pregavano
devotissimamente: ci tenevano tanto a che si pregasse e si pregasse bene;
sembrava che non sapessero dire quattro parole in pubblico o in priva-
to, senza farci entrare in qualche modo la preghiera. Eppure [...] quegli
uomini non mostravano di possedere grazie straordinarie d'orazione:
infatti noi li vedevamo compiere con ingenua semplicità nulla più che
le pratiche volute dalle regole o portate dalle nostre consuetudini».
La preghiera di Don Bosco, che è preghiera di apostolo ed educa-
tore, ha, in ogni modo, caratteristiche ed originalità proprie; autentica
e completa nella sostanza, lineare e semplicissima nelle sue forme, popo-
lare nei suoi contenuti, allegra e festiva nelle sue espressioni, è vera-
mente una preghiera alla portata di tutti, dei fanciulli e degli umili in
particolare.
È soprattutto la preghiera dei fedeli di vita attiva e degli apostoli
essendo intrinsecamente ordinata all'azione e vincolata ad essa. Una
preghiera, perciò, che non è mai disimpegno e fuga dal mondo, da tra-
sformare secondo il progetto di Dio, o dagli uomini da conquistare a
Cristo. L'espressione di Don Bosco: Da mihi animas ctetera tolte, «O
Signore, datemi anime e prendetevi tutte le altre cose», prima che il suo
motto è sempre la sua più ardente preghiera. Una preghiera di natura
apostolica perché ogni forma di preghiera è marcata dalla vocazione e
missione particolare.
Come nella vita di ogni autentico apostolo, l'orazione esplicita pre-
cede, accompagna - nelle forme adatte - e segue l'agire di Don Bosco
come un fattore irrinunziabile e necessario.

11.3 Page 103

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Cap. ID: La vita di preghiera 101
Lo precede, perché è nella preghiera che Don Bosco pensa l'azione
in Dio e secondo Dio, e la finalizza al suo volere e alla sua gloria. L'ac-
compagna, nelle brevi pause meditative, come domanda di grazia, come
implorazione di aiuto nell'ora della stanchezza e della prova: «Non
abbattiamoci d'animo nei pericoli e nelle difficoltà, preghiamo con fidu-
cia e Dio ci darà il suo aiuto». Lo segue come rendimento di grazie:
«Quanto è buono il Signore!»; «Dio fa le sue opere con magnificenza».
La preghiera di Don Bosco non vive nel limbo delle buone intenzio-
ni: prende corpo in quelle che egli chiama «pratiche di pietà». Scrive
A. Caviglia: «Don Bosco non ha creato nessuna forma speciale di pra-
tica o di preghiera o divozione come la Salve Regina, il Rosario, gli Eser-
cizi, la Via Crucis e via dicendo. Egli è indifferente alle formule e, in
certo senso, anche alle forme; è realista e semplificatore e bada alla
sostanza».
Anche come fondatore non sente il bisogno d'imporre ai suoi disce-
poli altre pratiche comunitarie che non siano quelle del «buon cristia-
no» e del «buon prete», se si tratta di preti.
Dal prete esigeva, essenzialmente, quanto si praticava in Convitto:
celebrazione devota della S. Messa, Ore liturgiche, meditazione, lettura
spirituale non disgiunta dalle «pratiche» e «divozioni» del buon cristia-
no. Quali fossero le «pratiche del buon cristiano» non è difficile dire.
Sono le preghiere e gli atti di pietà - ma anche la recita di formule che
preghiere non sono, come ad esempio, le sette opere di misericordia
corporale e spirituale, i dieci comandamenti ecc. - riportate nel cate-
chismo della diocesi, che resta invariato nel tempo di Don Bosco, o con-
tenute nei «regolamenti di vita» proposti da autori spirituali. A questo
andavano unite le altre pratiche quotidiane, settimanali, mensili, annua-
li, vive nel tessuto del costume cristiano, come: la frequente confessione
e comunione, le visite al SS.mo Sacramento, il ritiro mensile della Buona
morte, gli Esercizi spirituali annuali, rifioriti a Torino all'inizio del seco-
lo. In queste pratiche devozionali che lussureggiavano nell'ottocento
accanto all'azione liturgica e spesso entro la stessa liturgia - si pensi al
modo con cui si partecipava alla S. Messa - Don Bosco vedeva il trac-
ciato concreto e possiamo dire anche ideale della vita di preghiera. Era
infatti l'itinerario di preghiera proposto dalla Chiesa, e la Chiesa non
propone mai mezzi inadeguati di santità.
Puntando sui «doveri generali del buon cristiano» Don Bosco pun-
tava dunque in alto. Quantitativamente, perché offriva alla iniziativa
personale un numero stragrande di «pratiche» o di «esercizi»: basta
scorrere il Giovane Provveduto, che è il manuale di preghiera proposto

11.4 Page 104

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102 Parte Il: Dimensioni essenziali
dal Santo ai giovani, per rendersene conto. Qualitativamente, perché
Don Bosco sapeva inoculare nei suoi giovani il «gusto» della preghiera
e quello «spirito di nobile precisione» di cui parlava Pio XI.
«Si facciano bene - insisteva - le genuflessioni e i segni di croce
per eccitamento alla preghiera». Se poi Don Bosco, in sintonia con lo
spirito del suo secolo, enfatizza le pratiche devozionali, va anche detto
che non tollera esagerazioni o intimismi pericolosi. Il criterio che lo
guida è pratico e autenticamente soprannaturale.
Non possiamo dimenticare che la sua scuola di preghiera ha
espresso giovani santi ed eroici. Non gli faremo neppure il torto di aver
prospettato la vita di preghiera in funzione prevalentemente ascetica
come allora si usava. La «Laus Deo», la «dimensione misterica della
liturgia» erano pur sempre i pilastri della vita cristiana, ma il devozio-
nalismo imperava e non è detto che non producesse buoni frutti. Le
pratiche devote, diceva Don Bosco, «sono il cibo, il sostegno, il balsamo
della virtù».
Possiamo però dire, con assoluta certezza, che egli, cosl fedele alle
disposizioni della Chiesa e del Papa, accoglierebbe oggi con entusiasmo
gli indirizzi e le linee di rinnovamento liturgico proposti dal Vaticano II.
Non dimentichiamo che, a suo modo e al suo tempo, è apparso un inno-
vatore della liturgia giovanile. La voleva infatti ricca di partecipazione e
di coinvolgimento, ricca di spontaneità e di iniziativa, varia e festosa,
aderente alla vita e rivolta all'eternità.
Le «preghiere brevi»
«La vita attiva cui tende la nostra Congregazione - leggiamo già
nella primitiva redazione delle Costituzioni (1858-1859) - fa che i suoi
membri non possono avere comodità di far molte pratiche in comune».
Questa espressione insinua, implicitamente, che sono possibili e racco-
mandabili molte altre forme di preghiera personale. Tra queste Don
Bosco, seguendo l'insegnamento del Convitto, ha sempre dato grande
importanza alle giaculatorie.
L'«oratio iaculatoria» è l'orazione «pura» e «breve» della tradizione
monastica, che prolunga nella giornata la preghiera del coro. Gli antichi
la consideravano il frutto più bello della «lectio divina» e della «medi-
tatio». S. Agostino ne parla come di «rapidi messaggi che partono all'in-
dirizzo di Dio».
Non altrimenti pensava Don Bosco, il quale vedeva nelle «giacula-
torie» come un concentrato dell'orazione vocale e mentale del mattino:

11.5 Page 105

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Cap. ill: La vita di preghiera 103
«Le giaculatorie - diceva - raccolgono in breve l'orazione vocale e
mentale[...] partono dal cuore e vanno a Dio. Sono dardi infuocati che
mandano a Dio gli affetti del cuore e feriscono i nemici dell'anima, le
tentazioni, i vizi».
Per il Santo, in caso di necessità, esse potevano sostituire la medi-
tazione impedita. «Ogni giorno ciascuno, oltre alle orazioni vocali,
attenderà per non meno di mezz'ora all'orazione mentale, se non ne sia
impedito dall'esercizio del ministero, nel qual caso vi supplirà con la
maggior frequenza di giaculatorie e indirizzando a Dio con maggior
intensità di affetto quei lavori che gli impediscono degli stabili esercizi
di pietà». Chiamava questa supplenza meditazione dei mercanti: «Rac-
comando l'orazione mentale. Chi non potesse fare la meditazione meto-
dica a cagione di viaggi o di qualche impegno o affare che non permetta
dilazione, faccia almeno la meditazione che io dico dei mercanti. Questi
pensano a comprare le merci, a rivenderle col loro profitto, alla perdita
che potrebbero fare, a quelle fatte e come ripararvi, ai guadagni realiz-
zati e quelli maggiori che potrebbero conseguire e via dicendo».
Le giaculatorie, preghiera facile essenziale, segreta, sempre alla por-
tata di mano, servivano, per lui, meravigliosamente a mantenere desto
il pensiero a Dio. Il fervore con il quale esse prorompevano dal suo
cuore nell'età avanzata dimostra quanto questa preghiera fosse radicata
nella sua vita.
Preghiera-atteggiamento
Gli «Esercizi di pietà», le «preghiere brevi» (preghiera-esercizio)
non sono tutta la preghiera di Don Bosco. Un'altra forma, prevalente o
pressoché continua, è quella che sotto diverse connotazioni presenta
significati affini: preghiera «generale», «implicita», «virtuale», «diffu-
sa». Oggi si preferisce dirla «preghiera di vita», «preghiera in situazio-
ne», «preghiera-atteggiamento». È presenza ed attenzione consapevole
a Dio nelle sequenze della vita quotidiana.
È preghiera vera - lode, adorazione, offerta, ecc. - perché è un
camminare con Cristo dentro le realtà umane e un vivere in Lui, con Lui
e per Lui. Vera, direbbe Leonzio di Grandmaison, in senso generale,
perché «ci unisce a Dio, ci rende flessibili e docili alle sue ispirazioni,
ci intona con la sua volontà di preferenza e di beneplacito, perché, pur
supponendo un certo numero di atti positivi, persevera anche dopo, per
molto tempo, e informa la nostra vita ben al di là dei pochi momenti
consacrati a tali atti». È lo stile cristiano dell'esistenza, la Liturgia della

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104 Parte Il: Dimensioni essenziali
vita, con cui i fedeli «si offrono in servizio di amore a Dio e agli uomini
aderendo all'azione di Cristo» (Laudis Canticum). È il solo modo pra-
tico di realizzare la parola del Vangelo: «Pregate sempre».
Da Origene in poi, la tradizione cristiana applica queste parole alla
preghiera esplicita o delle «buone opere)> o della «buona vita». Prega
sempre chi prega ogni giorno e nel tempo di agire non fa che opere buo-
ne, conformi alla volontà di Dio.
S. Agostino afferma: «Non tantum lingua canta sed etiam assumpto
bonorum operum psalterio, canta a Dio non soltanto con la lingua, ma
pigliando anche in mano il salterio delle buone opere». Guidato dallo
Spirito Don Bosco si muove perfettamente in questo orizzonte.
È molto significante il fatto che egli, stilando le Costituzioni per i
suoi Salesiani, metta nel capitolo delle «Pratiche di pietà» questi due
articoli, che si riferiscono più alle «buone opere» che alla preghiera pro-
priamente detta: «La vita attiva cui tende la nostra Congregazione fa
che i suoi membri non possano aver comodità di fare molte pratiche in
comune; procureranno di supplire col vicendevole buon esempio e col
perfetto adempimento dei doveri generali dei cristiani». «La compo-
stezza della persona, la pronunzia chiara, devota, distinta delle parole
dei divini uffizi, la modestia nel parlare, vedere, camminare in casa e
fuori di casa, devono essere cose caratteristiche dei nostri congregati».
Siamo in linea con l'insegnamento di S. Paolo: «Quello che fate in
parole ed opere, tutto si compia nel nome di Gesù, come canto di grazie
al Padre per mezzo di Lui» (Col 3,17). L'Apostolo è ancora più chiaro:
«Sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa,
fatelo per la gloria di Dio» (lCor 10,31).
Il linguaggio della preghiera (dare gloria a Dio) viene usato a pro-
posito del modo cristiano di vivere. Si preghi o si lavori è possibile il
rapporto reale e l'unione indistruttibile con Dio. Cosl pensava Don
Bosco quando esortava - «e lo faceva migliaia e migliaia di volte»
(Card. Cagliero) - a lavorare per la «gloria di Dio», aderendo profon-
damente alla sua volontà.
Diceva alle Figlie di Maria Ausiliatrice di far camminare «di pari
passo la vita attiva e contemplativa», di ritrarre in se stesse «Marta e
Maria, la vita degli apostoli e quella degli angeli». Ma contemplazione
e azione non sono per il Santo due movimenti contrapposti, bensl due
modi di essere di un unico atteggiamento personale, suscitato nei nostri
cuori dallo Spirito Santo mediante il dinamismo della fede, speranza e
carità, che è l'essenza della identità cristiana.
·
È l'amore di carità, sintesi della vita teologale, che dà consistenza ed

11.7 Page 107

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Cap. fil: La vita di preghiera 105
unità alla vita. Azione e contemplazione, lavoro e preghiera non sono
che due momenti dello stesso amore. Tra preghiera e lavoro intercorre
allora un rapporto perfetto di identità.
In questo senso, ma solo in questo senso, si può dire che lavoro è
preghiera. E questo, secondo Don Ceria, è stato il grande segreto di
Don Bosco, il tratto più caratteristico: «La differenza specifica della
pietà salesiana è nel saper fare del lavoro preghiera». Pio XI ne ha dato
solenne conferma: «Questa, infatti, era una delle più belle caratteristi-
che di lui, quella cioè di essere presente a tutto, affaccendato in una resa
continua, assillante di affanni, tra una folla di richieste e consultazioni,
e avere lo spirito sempre altrove, sempre in alto, dove il sereno era
imperturbato sempre, dove la calma era sempre dominatrice e sovrana,
cosl che in lui il lavoro era proprio effettiva preghiera, e si avverava il
grande principio della vita cristiana: qui laborat orat».
Non ci sono santi senza orazione straordinaria e tale fu quella di
Don Bosco. Una preghiera intima, sentita, senza incrinature, nascosta
sotto un viso sereno ed un fare spontaneo, che bisognava però sapere
scoprire.
È stato un lavoratore formidabile, ma anche un grande orante. Pre-
gava molto da solo silenziosamente, e quasi furtivamente, perché gli
ripugnava farsi notare; pregava con i suoi giovani «sempre», fin quando
le sue occupazioni glielo permisero; pregava prima di predicare, prima
di esercitare il ministero, prima di avvicinare personaggi importanti,
prima di affrontare situazioni delicate e difficili; pregava più intensa-
mente nell'ora delle prove durissime che attraversarono la sua vita.
Come educatore non si stancò di instillare nell'animo dei giovani l'a-
more per la preghiera che sapeva rendere gradita, fatta a misura di gio-
vane.
Don P. Albera, profondo conoscitore del suo spirito, afferma: «Le
stesse opere di pietà voleva che fossero più spontanee che prescritte».
Quando vedeva, lungo il giorno, un buon numero di giovani recarsi in
chiesa spontaneamente per pregare, trasaliva di gioia: «Questa è per me
la massima delle consolazioni».
Delicatissimo di coscienza senti il bisogno di lasciare queste righe
nel suo Testamento spirituale: «Debbo pure scusarmi se taluno osservò
che più volte feci troppo breve preparazione o troppo breve ringrazia-
mento alla S. Messa. Io ero in certo modo a ciò costretto per la folla di
persone che mi attorniavano in sacrestia e mi toglievano la possibilità di
pregare sia prima, sia dopo la S. Messa».
Questa umile confessione dice da sola l'importanza che egli attri-

11.8 Page 108

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106 Parte Il: Dimensioni essenziali
buiva alla preghiera. Non senza ragione la Chiesa lo propone, oggi come
ieri, a modello di orazione a tutti i fedeli tentati, nella loro vita di pre-
ghiera, dal materialismo secolarista e dall'apparente silenzio di Dio nella
storia.

11.9 Page 109

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Capitolo IV
L'ASCESI DELLA TEMPERANZA
E DELLA MORTIFICAZIONE
Il rigetto dell'ascesi cristiana nell'attuale società edonistica e permis-
siva, in nome della libertà assoluta che rifiuta ogni obbligo, dello spon-
taneismo della natura, di ideologie che la ritengono una nevrosi alienan-
te, è conseguenza del rigetto di Dio. Se l'ascesi infatti ha un senso, una
giustificazione, una fecondità essa non può trovarla che nella fedeltà al
mistero della morte e risurrezione di Cristo, entro l'orizzonte del pec-
cato e del giudizio divino su di esso, in una parola, nella partecipazione
all'ascesi del Signore e al mistero della sua croce. L'ascesi entra come
elemento ineludibile nel piano della salvezza e segue il cristiano come
l'uomo la sua ombra.
Le sue manifestazioni esteriori, commisurate ai diversi contesti
socio-culturali, non sono però univoche: variano da un'epoca all'altra
come insegna la storia. Non è perciò lecito gettare il discredito sulle
forme di penitenza praticate nei secoli passati o sullo stile rude e spar-
tano di vita vissuto da Don Bosco in pieno ottocento.
«Ciò che giustifica un'epoca della storia in faccia ad un'altra -
scrive R Guardini - non sta nel fatto che essa sia migliore, ma che essa
viene nel suo tempo».
Immutabile nella sua sostanza l'ascesi di oggi deve adeguarsi, come
in passato, al nuovo contesto culturale. E questo significa che deve «te-
nere conto del concetto più approfondito dell'uomo, delle scoperte
acquisite dalle scienze antropologiche - specialmente dalla psicologia
- , delle caratteristiche della nostra realtà somatica, del valore profondo
della sessualità, del processo di personalizzazione, della situazione di
pluralismo, dell'importanza della dimensione comunitaria, delle esi-
genze della socializzazione» (E. Viganò).
Dunque un'ascesi che tenga conto dell'integrazione armonica tra
anima e corpo che non è dono di natura; che apra la persona all'amore
oblativo, alla disponibilità verso gli altri; un'ascesi capace di affrontare
cristianamente le alienazioni alle quali costringe la vita moderna come:
la nervosità, la monotonia della ripetitività del lavoro, gli stress della vita
moderna, la superficialità delle relazioni e della convivenza; un'ascesi

11.10 Page 110

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108 Parte Il: Dimensioni essenziali
del silenzio nella «civiltà del rumore» per non smarrire se stessi, per
comprendere meglio, per non dire se non ciò che significa qualche cosa;
un'ascesi che sappia disciplinare l'uso dei mezzi di informazione, il son-
no, il divertimento necessario, l'alimentazione, i propri sensi, ecc.
La Chiesa, tenendo conto del trapasso culturale in atto, ha mitigato
certe penitenze del passato come il digiuno, ma non ha messo il silen-
ziatore sul rigore dell'ascesi tradizionale, reso più urgente dalle accre-
sciute esigenze della carità. Perché, come bene si esprime P. Plé, «la
fecondità delle mortificazioni non si misura dalla sofferenza della rinun-
zia o dall'intensità dello sforzo, ma dalla sua efficacia, cioè, nella pro-
spettiva evangelica, dal progresso nella carità da essa favorito, tanto per
mezzo della "imitazione di Cristo", quanto per l'allontanamento di ciò
che impedisce la crescita nella carità».
La rimeditazione dell'esperienza ascetica di Don Bosco presenta
indubbiamente aspetti superati dal tempo, modalità espressive non più
attuali. Tuttavia quando, al di delle contingenze della storia, si va alla
radice delle cose, allo spirito evangelico che lo anima, a certe lucide
intuizioni precorritrici, che ne fanno un nostro contemporaneo, si deve
convenire che anche oggi l'ascesi insegnata e vissuta dal Santo ha sem-
pre molto da dire al nostro senso cristiano. È quanto vogliamo costatare
brevemente~- -,
Temperanza
L'ascesi di Don Bosco si è sempre espressa nel binomio inscindibile:
lavoro e temperanza. Questa è l'eredità lasciata ai suoi figli: «Lavoro e
temperanza faranno fiorire la Congregazione salesiana»; «sono due armi
con cui noi riusciremo a vincere tutto e tutti». Sono i due diamanti che
danno smalto al suo volto simpatico e sorridente.
Il lavoro - e lo abbiamo visto - è già in se stesso la continua ascesi
di Don Bosco; ma all'ascesi del lavoro egli ha sempre associato voluta-
mente quella ampia e specifica della temperanza, della mortificazione,
del senso austero della vita.
Nella vita del cristiano la temperanza è, di certo, custodia di sé,
moderazione delle inclinazioni e delle passioni, cura del ragionevole,
una certa fuga dal mondo, ma, più profondamente, essa è un «atteggia-
mento di fondo», un «cardine esistenziale» che comporta la presenza di
parecchie altre virtù satelliti, di cui il Rettor Maggiore Don E. Viganò
ha dato il seguente elenco che bisogna tener presente quando si parla
della temperanza di Don Bosco: «La temperanza è la prima e la prin-

12 Pages 111-120

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12.1 Page 111

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Cap. IV: L'ascesi della temperanza 109
cipale tra le virtù moderatrici, che girano come satelliti intorno ad essa:
la continenza contro le tendenze della lussuria, l'umiltà contro le ten-
denze della superbia, la mansuetudine contro gli scatti dell'ira, la cle-
menza contro le inclinazioni alla vendetta, la modestia contro la vanità
dell'esibizione del corpo, la sobrietà e l'astinenza contro gli eccessi della
bevanda e del cibo, l'economia e la semplicità contro la libertà dello
sperpero e del lusso, l'austerità nel tenore di vita contro le tentazioni di
comodismo ».
Questa temperanza, ossia questo insieme di virtù, è vista e vissuta da
Don Bosco soprattutto in funzione della carità pastorale e pedagogica,
della crescita nell'amore che non si limita ad amare, ma, cosa assai più
difficile, «sa farsi amare». Chi ha pratica di educazione di giovani cono-
sce per esperienza quale e quanto dominio di sé sia necessario, a tutti
i livelli della persona, perché trionfino atteggiamenti e comportamenti
improntati a bontà, a giustizia e rettitudine.
L'esempio di Don Bosco è paradigmatico. È un educatore che ama
profondissimamente e sa «farsi amare» praticando, in grado eroico, la
temperanza. Fermo nei principi, li applica con ragionevolezza e buon
senso; compone le esigenze dell'autorità con quelle della libertà e spon-
taneità dei giovani in giusto equilibrio; sa adattarsi alle esigenze della
«mobilità giovanile» senza cadere nel permissivismo; si dà conto di tut-
to, ma sa anche prudentemente e con santa furbizia dissimulare; frena
l'impeto delle passioni per custodire in tutto il suo cuore che modella
e rimodella sulla carità pastorale di Cristo. Frutto di temperanza inte-
riore sono ancora il costante atteggiamento di conversione, la signoria
di sé, la mansuetudine e la amabilità che gli guadagnano i cuori.
La temperanza cristiana è poi la difesa dei grandi valori teologali
della fede, della speranza, della carità nei quali si fonda. E Don Bosco
lo ricorda ai suoi figli: «Il demonio tenta di preferenza gli intemperan-
ti». Voleva temperanza e moderazione in tutto, anche nel lavoro aposto-
lico che pure gli stava immensamente a cuore: «Lavorate, lavorate molto
- diceva - ma fate anche in maniera di poter lavorare a lungo».
Raccomandava ai missionari: «Abbiatevi cura della sanità. Lavorate,
ma solo quanto le proprie forze lo consentono».
Nel pensiero di Don Bosco e della tradizione salesiana la tempe-
ranza non è, primamente, la somma delle rinunzie (mortificazione), ma
la «crescita nella prassi della carità pastorale e pedagogica». Lo afferma
autorevolmente E. Viganò, settimo successore di Don Bosco.
«Prima e più in là della mortificazione, la temperanza è una disci-
plina metodologica di educazione al dono di sé nell'amore. Ci insegna ad

12.2 Page 112

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110 Parte Il: Dimensioni essenziali
allenarci ad amare e a farci amare, non primariamente a castigarci. Non
è il momento della potatura, anche se arriverà il tempo per farla. È il
momento dello sviluppo dell'amore: se io mi dono a Dio, devo cercare
di far crescere in me la capacità di donazione, sapendo frenare tutto ciò
che può essere occulta ripresa del dono».
In altre parole la temperanza per Don Bosco è prima di tutto e sem-
pre in funzione della mistica del Da mihi animas: Signore, fammi salvare
la gioventù con il dono della temperanza. Per questo non si è stancato
di ripetere: «La Congregazione durerà fino a che i soci ameranno il
lavoro e la temperanza».
Sobrietà e continenza
Queste due virtù satelliti della temperanza, intesa come atteggia-
mento esistenziale di base, brillano di una luce particolare in Don
Bosco. La sua sobrietà nell'uso dei cibi e delle vivande era proverbiale.
Come tutti i sacerdoti usciti dal Convitto osservava con rigore le asti-
nenze prescritte dalla Chiesa, digiunava un giorno la settimana, prima
il sabato, poi il venerdi, ma nulla di eccezionale si notava in lui.
Tutte le testimonianze dei processi concordano nell'affermare che
non si notavano in lui digiuni o penitenze straordinarie: tutte sottoli-
neano però la sua non comune sobrietà e temperanza abituale. Nei
primi tempi dell'Oratorio la mensa era frugalissima, non dissimile da
quella dell'umile gente contadina ed operaia. Pane e minestra, una pie-
tanza di legumi, ma non sempre, un po' di vino sempre annacquato: era
tutto. «Nella temperanza - attesta Mons. Bertagna - fu di raro esem-
pio; in casa sua non ricercò mai agiatezza; anzi pare che si sarebbe
potuto permettere per sé e per gli altri un qualche miglioramento».
Più tardi il vitto migliorò perché non tutti quelli che si decidevano
a «stare» con lui avrebbero potuto adattarsi alla sua tavola. Il suo natu-
rale buon senso gli suggeriva che il primitivo rigore andava temperato,
ma nel cuore rimase sempre un segreto rimpianto dell'antica prassi.
Disse più volte: «Pensavo che nella mia casa tutti si sarebbero accon-
tentati di sola minestra e pane, e al più di una pietanza di legumi. Vedo
però che mi sono ingannato [...]. Mille cause mi spinsero poco a poco
a seguire l'esempio di tutti gli altri Ordini religiosi. Eppure anche
adesso mi sembra che si potrebbe vivere come io viveva nei primi tempi
dell'Oratorio».
Pur adattandosi ai necessari miglioramenti egli rimase tuttavia fedele
al suo antico ideale. Fino a quando la salute glielo permise si attenne

12.3 Page 113

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Cap. IV: L'ascesi della temperanza 111
sempre al vitto comune; non mangiava fuori pasto, si dimostrava indif-
ferente a tutto; nessuno seppe mai quali fossero i suoi gusti preferiti.
Per ottenere offerte doveva accettare pranzi in suo onore che gli
offrivano i benefattori: vi partecipava con semplicità ma, si sarebbe det-
to, quasi non si accorgeva dei cibi che gli venivano offerti, intento come
era a tenere desta l'attenzione dei commensali con le sue battute lepide,
i suoi discorsi edificanti.
Dopo la malattia di Varazze (1871-1872) che lo ridusse in fin di vita,
per ordine dei medici dovette far uso di un po' di vino schietto che la
Duchessa di Montmorency gli inviava ogni mese. Lo beveva con tale
parsimonia che una bottiglia gli serviva per tutta la settimana, mentre le
rimanenti si accumulavano nella cantina e servirono a lungo dopo la sua
morte. Ne offriva volentieri agli amici e ai benefattori quando li invitava
alla sua mensa: «Stiamo allegri- diceva- beviamo il vino ducale!».
Voleva che i suoi figli fossero, come lui, modello di sobrietà e tem-
peranza. «Fuggi l'ozio, le questioni; grande sobrietà nei cibi, nelle
bevande e nel riposo». «Non vi dico che digiuniate; però una cosa vi
raccomando: la temperanza». Ammoniva: «Quando cominceranno tra
noi le comodità e le agiatezze, la nostra Società avrà compiuto il suo
corso».
Con gli asceti di tutti i tempi anche egli ha sottolineato il nesso indis-
solubile che corre tra mortificazione corporale e preghiera: «Chi non
mortifica il corpo non è nemmeno capace di fare buone preghiere».
La sobrietà e la temperanza tengono un vasto posto nella sua peda-
gogia. «Datemi - diceva spesso - un giovanetto che sia temperante
nel mangiare, nel bere e nel dormire, e voi lo vedrete virtuoso, assiduo
nei suoi doveri, pronto sempre quando si tratta di far del bene e amante
di tutte le virtù. Al contrario se un giovane è goloso, amante del vino,
dormiglione, a poco a poco avrà tutti i vizi».
Anche la purità e la continenza contro le tendenze della carnalità
brillano di luce singolare nella vita di Don Bosco. S. Teresina di Lisieux
si rammaricava di non aver avuto tentazioni contro la castità, quasi fosse
mancato qualcosa alla pienezza del suo amore. Ma i doni di Dio non
sono un freno alla virtù e a questo la Santa non pensava. Don Bosco non
ebbe questo privilegio, del resto rarissimo anche nella vita dei santi;
conobbe la tentazione, non andò esente dalle molestie della carne e
degli istinti: lo confidava con semplicità ai suoi intimi.
Attesta Don Rua: «Riguardo alle tentazioni contrarie a questa virtù
[castità] penso che ne abbia sofferto rilevandolo da qualche parola da
lui udita allorché ci raccomandava la temperanza nel bere». Questa

12.4 Page 114

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112 Parte II: Dimensioni essenziali
testimonianza concorda con quella di Don Lemoyne: «Che abbia avuto
tentazioni contro la purità lo confidò una volta ai membri del capitolo,
tra cui io stesso ero presente, spiegando il motivo per cui preferiva i
legumi alla carne».
Dunque un uomo, Don Bosco, esposto al vento della tentazione,
non diverso da noi. Ciò che invece esce dalla norma è la lotta vittoriosa
sostenuta anche su questo fronte, la docilità piena alle suggestioni dello
Spirito, la pratica eroica della castità.
A prima vista questo eroismo potrebbe sembrare più supposto che
dimostrato, tanto è segreta e personale la virtù della castità. Tuttavia
quando essa è praticata e vissuta in maniera straordinaria finisce per
imporsi anche esternamente attraverso l'insieme dei segnali e messaggi
che il senso cristiano riconosce. Ora, che Don Bosco abbia condotto fin
dall'infanzia, e poi sempre, una vita illibata è ciò che affermano in coro
i testi escussi ai processi canonici.
Il Santo - essi dicono - aveva eretto a difesa della sua acuta sen-
sibilità e della sua emozionale capacità di «farsi amare» l'edificio di una
castità a tutta prova; attribuiscono allo splendore di questa virtù gran
parte del fascino irresistibile che egli esercitava tra i giovani. Alla sua
presenza pensieri e fantasie moleste si dissipavano come la nebbia al
sole. «A me pare - attesta Don Cerruti - di poter dire che nella
grande purità di mente, di cuore e di corpo che egli osservò con una
delicatezza più unica che rara, stia il segreto della sua grandezza cristia-
na. Il suo contegno, il suo sguardo, il suo stesso camminare, le sue paro-
le, i suoi tratti non ebbero mai neppure ombra di cosa che potesse dirsi
contraria alla bella virtù, come egli la chiamava».
Il suo tratto con i giovani era delicatissimo, sempre rispettoso della
loro piccola personalità, si lasciava baciare volentieri la mano, talora la
metteva fuggevolmente sulla loro testa e ne approfittava per sussurrare
all'orecchio una di quelle sue «parole» magiche, che andavano diretta-
mente al cuore. Avveniva pure che con due dita della mano desse ad un
giovane uno schiaffetto, oppure facesse una leggera carezza; ma quanta
soprannaturalità in quel gesto paterno! «In queste carezze - riferisce
Don Reviglio - era un non so che di puro, di castigato e paterno, che
infondevaci lo spirito della sua castità». Mai si notarono in lui atteggia-
menti di antipatia o di preferenze sensibili. Mai le insinuazioni malevole
della stampa avversaria osarono attaccarlo su questo punto.
Era troppo evidente che Don Bosco viveva in una regione superiore
e che la confidenza che concedeva ai suoi giovani aveva esclusivamente
lo scopo di fare del bene.

12.5 Page 115

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Cap. IV: L'ascesi della temperanza 113
«Nello spirito di Don Bosco- parla E. Viganò- c'è un forte mes-
saggio di purezza; la tradizione salesiana e la testimonianza delle origini
lo confermano abbondantemente. Si tratta di un messaggio speciale che
possiamo chiamare "simpatia per la purezza"». Questa simpatia è una
costante della sua vita, un tratto caratteristico del suo spirito. Lo ha
ripetutamente affermato: «Ciò che deve distinguere la nostra Congrega-
zione è la castità, come la povertà contraddistingue i figli di S. France-
sco di Assisi e l'obbedienza i figli di S. Ignazio».
Mortificazione
La mortificazione cristiana, sia interna che esterna, copre un campo
vastissimo. Secondo la Bibbia indica, di volta in volta: il «distacco» dai
beni esterni (Le 5,11), !'«abnegazione» di sé (Le 9,23), lo «spogliamen-
to» dell'uomo vecchio con le sue concupiscenze (Col 3,9), la «crocifis-
sione» della carne (Gal 5,24), la «lotta» (2Tm 4,7), una specie di «mor-
te» e di seppellimento con Cristo (Col 3,3).
Queste e simili espressioni stanno ad indicare come per il cristiano,
essere decaduto e ferito, non c'è possibilità di salvezza senza partecipa-
zione al mistero della morte e della croce di Cristo. Non per una specie
di dolorismo o di sofferenza voluta come fine, bensl per una insoppri-
mibile esigenza di amore e di fedeltà a Cristo nostra salvezza. Anche in
questo Don Bosco si rivela un modello ed una guida eccellente.
Abbiamo detto di lui che è un santo allegro e simpatico, capace di
amare e di «farsi amare», sempre in attività, sempre in mezzo alla gio-
ventù, primavera e gioia del mondo: un santo che sembra camminare
nell'azzurro, che conduce una vita invidiabile, alla quale non mancano
tuttavia le pungentissime spine della mortificazione. La vita di Don
Bosco e di quanti camminano sulle sue orme è chiaramente adombrata
nel sogno del «pergolato di rose».
Ricordiamone il contenuto essenziale. La «stessa Beata Vergine» -
come egli racconta - lo esorta ad inoltrarsi in un lungo pergolato rico-
perto di splendide rose che pendono dall'alto, ai fianchi, che salgono dal
basso: «È questa la strada che devi percorrere». Una strada deliziosa ed
invitante in apparenza, ma che nascondeva spine acutissime. «Tutti
coloro, ed erano moltissimi - si legge nel sogno - che mi osservavano
a camminare per quel pergolato dicevano: "Oh, come Don Bosco cam-
mina sempre sulle rose: egli va avanti tranquillissimo; tutto gli va bene".
Ma essi non vedevano le spine che laceravano le mie povere gambe.
Molti chierici, preti e laici da me invitati si erano messi a seguitarmi
8

12.6 Page 116

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114 Parte II: Dimensioni essenziali
festanti, allettati dalla bellezza di quei fiori, ma quando si accorsero che
si doveva camminare sulle spine pungenti e che queste spuntavano da
ogni parte, incominciarono a gridare dicendo: "Siamo stati ingannati".
lo risposi: "Chi vuol camminare deliziosamente sulle rose torni indietro:
gli altri mi seguano" ».
Alla fine Don Bosco si fa spiegare il sogno dalla Madonna. «Allora
la Vergine SS., che era stata la mia guida, mi interrogò: "Sai che cosa
significa ciò che tu vedi ora e ciò che hai visto prima?". "No - risposi
- , vi prego di spiegarmelo". Allora Ella mi disse: "Sappi che la via da
te percorsa tra le rose e le spine significa la cura che tu hai da prendere
della gioventù: tu devi camminare colle scarpe della mortificazione. Le
spine per terra rappresentano le affezioni sensibili, le simpatie e le anti-
patie umane che distraggono l'educatore dal vero fine, lo feriscono, lo
arrestano nella sua missione, gli impediscono di procedere e raccogliere
corone per la vita eterna. Le rose sono simbolo della carità ardente che
deve distinguere te e tutti i tuoi coadiutori. Le altre spine significano gli
ostacoli, i patimenti, i dispiaceri che vi toccheranno. Ma non vi perdete
di coraggio: con la carità e con la mortificazione tutto supererete e giun-
gerete alle rose senza spine"».
Come la temperanza, anche la mortificazione, che Don Bosco defi-
nisce «l'ABC della perfezione», è considerata prevalentemente in pro-
spettiva pedagogica e pastorale. Al centro della «pedagogia della gioia»,
al centro dello spirito attraente della vita salesiana, vi è una parte non
indifferente per il mistero della croce. Chi guardava Don Bosco da lon-
tano, chi considerava l'espansione inarrestabile della sua opera, i suoi
successi, poteva anche credere che il cammino da lui percorso fosse un
cammino di facilitazione. Eppure la sua strada, come ha scritto E. Ceria
nelle belle pagine di Don Bosco con Dio, fu tutta seminata delle spine
della mortificazione. Spine in famiglia: la povertà e l'opposizione che
prima gli sbarrarono, poi gli resero aspra la via del sacerdozio, obbligan-
dolo a dure e umilianti fatiche. Spine nel fondare l'Oratorio: da ogni
parte gli si gridava la croce addosso, da privati, da parroci, da autorità
municipali, scolastiche, politiche. Spine e peggio per causa delle sue Let-
ture Cattoliche. Spine per mancanza di mezzi: avere sulle braccia tanti
giovani e tante opere e non avere mezzi sicuri di sussistenza. Spine dal
suo stesso personale: sacrifici per formarselo e diserzioni dolorose. Tri-
boli e spine per via dell'autorità diocesana: malintesi, opposizioni, con-
trarietà senza fine. Un calvario la fondazione della Società salesiana.
Spine di altra natura, ma non meno pungenti, quelle dovute a malat-
tie e disturbi di salute. Don Bosco era di costituzione sana e di vigoria

12.7 Page 117

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Cap. IV: L'ascesi della temperanza 115
fisica non comune. Discendeva da un ceppo di contadini robusti e da
antenati longevi. Non si spiegherebbero altrimenti la sua resistenza al
lavoro e come abbia potuto sopravvivere a tre malattie mortali. Eppure
l'elenco delle infermità che lo travagliarono lungo l'intero arco della sua
vita è incredibilmente lungo: sputi sanguigni, persistente male di occhi
e perdita, in ultimo, di quello destro; enfiagione alle gambe e ai piedi
- la sua «croce quotidiana» come egli la chiamava-, cefalee persi-
stenti, digestioni laboriose, febbri intermittenti con eruzioni cutanee,
verso la fine della vita indebolimento della schiena con difficoltà di
respiro, ed altro ancora. Pio XI ha definito la sua esistenza «un vero,
proprio e grande martirio [...]. Un vero e continuo martirio nelle
durezze della vita mortificata, fragile, che sembrava frutto di un conti-
nuo digiunare».
Martirio accettato per amore di Cristo crocifisso e delle anime. «Se
sapessi - fu sentito dire - che una sola giaculatoria bastasse a farmi
guarire non la direi»; martirio dissimulato dalla pace imperturbabile e
dalla letizia che sembrava diventare più radiosa - secondo attendibili
testimonianze - quanto più pesanti erano le croci che lo affliggevano.
Solo un'anima profondamente radicata in Dio poteva giungere a tanto.
La vita di Don Bosco è realmente caratterizzata da enormi ed inin-
terrotti sforzi ascetici. Ma il suo ascetismo non è quello classico spetta-
coloso di altri santi. È l'ascetismo del quotidiano, delle piccole cose,
delle mortificazioni non meno dure e continue imposte dall'adempi-
mento del proprio dovere, del proprio lavoro, delle situazioni concrete,
della convivenza umana. Per «ricopiare» in sé i patimenti di Nostro
Signore «i mezzi non mancano - diceva-: il caldo, il freddo, le malat-
tie, le cose, le persone, gli avvenimenti... Ce ne sono di mezzi per vivere
mortificati!».
«Non vi raccomando - leggiamo nel suo Testamento - penitenze
o mortificazioni particolari; voi vi farete gran merito [...] se saprete sop-
portare vicendevolmente le pene e i dispiaceri della vita con cristiana
rassegnazione».
«Le tue mortificazioni - è il consiglio che dà ad ogni direttore -
siano nella diligenza dei tuoi doveri e nel sopportare le molestie
altrui... »
Non sottovalutava l'importanza delle mortificazioni volontarie, ma
preferiva quelle imposte dall'ubbidienza. «Invece di fare opere di peni-
tenza fate quelle dell'ubbidienza». «Guardate, vale di più una buona
colazione fatta per obbedienza che qualunque mortificazione fatta di
proprio capriccio».

12.8 Page 118

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116 Parte II: Dimensioni essenziali
Anche per Don Bosco la motivazione fondamentale della mortifica-
zione è, ovviamente, l'esigenza della sequela Christi, vittima dei nostri
peccati, e della partecipazione, con coscienza di fede, al mistero della
sua morte e della sua croce: «Il Signore ci invita a rinnegare noi stessi,
a metterci in collo la croce»; «Chi non vuole patire con Gesù Cristo in
terra, non potrà godere con Gesù Cristo in cielo».
Ripeteva: «Ovunque ci sono amarezze da soffrire, che si chiamano
mortificazione dei sensi; e da queste usciremo vittoriosi dando un'oc-
chiata a Gesù Crocifisso».
Gli era cara la divozione a Gesù Crocifisso. Quando Mamma Mar-
gherita, contrariata e stanca, aveva deciso di ritornare ai Becchi, Don
Bosco non disse nulla, ma indicò il Crocifisso appeso alla parete.
Quando si voleva mettere all'Indice un suo volumetto delle Letture Cat-
toliche ne sofferse da morire. Guardando il Crocifisso fu sentito escla-
mare: «O mio Gesù! Tu sai che ho scritto questo libro con buon fine...
Sia fatta la tua volontà».
Sapeva troppo bene che la carità che salva le anime è la carità cro-
cifissa, quella carità che parte dalla croce: «O Signore, dateci pure croci,
spine e persecuzioni di ogni genere, purché possiamo salvare anime e fra
le altre salvare la nostra».

12.9 Page 119

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Capitolo V
LAVORO A DUE
Don Bosco, santo pieno di Dio, è contemporaneamente santo pieno
di Maria. Tutta la sua vita infatti ruota, dopo Dio e in dipendenza di
Dio, intorno alla sua persona. Prima del sogno dei nove anni Maria è
già una presenza viva nella sua esistenza, per merito della santa mamma
terrena: «Giovanni mio... quando sei venuto al mondo ti ho consacrato
alla Beata Vergine». «lo - gli dirà Gesù - sono il Figlio di Colei che
tua madre ti ammaestrò a salutare tre volte al giorno».
Ma la Madonna non si limita a passare per la mediazione di Mamma
Margherità. Essa irrompe direttamente nella vita del pastorello dei Bec-
chi, come luce dall'alto, prima nel «sogno dei nove anni» e poi negli
altri sogni mariani.
Gli occhi di Don Bosco hanno visto il volto di Maria. «Perché
ognuno di voi abbia la sicurezza essere la B. Vergine che vuole la nostra
Congregazione - dirà ai suoi giovani nel famoso sogno del "pergolato
di rose", avvenuto nel 1847 ma raccontato solo nel 1864 - vi raccon-
terò non già la descrizione di un sogno, ma quello che la stessa Beata
Madre si compiacque di farmi vedere. Essa vuole che riponiamo in Lei
tutta la nostra fiducia». Nel sognò si leggono frasi come: «La Beata Ver-
gine mi disse»; «Ella allora mi disse»; «Appena la Madre di Dio ebbe
finito di parlare».
La divozione alla Madonna - dicono testimonianze autorevoli -
era in cima ai suoi pensieri. Pareva che non vivesse che per Lei.
«Quanto è mai buona la Madonna - diceva-, quanto ci vuol bene».
Don Bosco percepl con lucidità crescente l'iniziativa di Dio nella sua
vita di fondatore; ma ebbe anche la certezza di essere condotto e gui-
dato in tutto dalla mano di Maria: «Maria SS. è la fondatrice e sarà la
sostenitrice della nostra opera». Di più: «Maria è la madre e il sostegno
della Congregazione».
Negli Esercizi di Trofarello (1868) aveva detto che di tutte le Con-
gregazioni religiose Maria SS. «si può dire la fondatrice e la Madre, dal
Cenacolo fino ai nostri giorni». Ma soggiungeva anche che: «Fra tutte
le Congregazioni e gli Ordini religiosi, forse, la nostra fu quella che ebbe
più parola di Dio».

12.10 Page 120

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118 Parte II: Dimensioni essenziali
All'Oratorio nulla si doveva fare se non nel nome di Maria «la più
santa, la più amabile delle creature, la gran Madre di Dio, sempre pura
e immacolata».
Maria è «l'onnipotenza supplex» onnipresente nella sua vita: è la
Maestra, la Guida, la Pastorella, la Signora, la Regina dei suoi sogni; è
la sua Questuante, la sua Taumaturga; e molte altre cose; ma per lui sarà
sempre, in tutto e soprattutto, la Madre del Salvatore e della Chiesa;
l'Immacolata, tutta pura e piena di grazia, l'Ausiliatrice potente dei cri-
stiani.
Madre, Immacolata, Ausiliatrice è questa la Madonna che Don Bosco
mette al vertice della sua pedagogia, della sua azione sacerdotale, apo-
stolica, missionaria.
La divozione di Don Bosco verso la Madre di Dio può essere vista
da angolature diverse: qui vogliamo sottolineare il rilievo che ha avuto
nella sua vita la presenza di Maria Ausiliatrice, di cui è stato, inconte-
stabilmente, il più grande apostolo. Sappiamo che egli è passato per
esperienze mariane diverse: fu devoto della Madonna del Castello (Ca-
stelnuovo), dell'Addolorata (Cascina Moglia), Madonna della Scala, del
SS. Rosario, dell'Immacolata (Chieri), della Consolata (Torino). Per
ragioni che, per un verso, si ricollegano all'inizio dell'Opera degli Ora-
tori (8 dicembre 1841) e, per l'altro, al movimento mariano in onore
dell'Immacolata Concezione che porterà alla definizione dogmatica del
1854, le sue preferenze si appuntano presto sul culto dell'Immacolata.
La festa dell'8 dicembre rimane centrale nella sua metodologia pastorale
e pedagogica. «Di tutto - ricordava ai suoi discepoli- siamo debitori
a Maria: tutte le nostre opere più grandi ebbero principio nel giorno
dell'Immacolata».
Al culto e alla preferenza per Maria Ausiliatrice approda invece solo
verso il 1862, quando è ormai prossimo alla cinquantina, per una serie
di ragioni che qui non mette conto prendere in esame. Ricordiamo solo
quelle di ordine pratico, come risulta da questa confidenza fatta al chie-
rico P. Albera: «Ho confessato molto e per verità quasi non so che cosa
abbia detto o fatto, tanto mi preoccupava un'idea che, distraendomi, mi
traeva insensibilmente fuori di me. lo pensavo: la nostra chiesa è troppo
piccola, non può contenere tutti i giovani [...]; ne faremo un'altra più
bella, più grande, che sia magnifica. Le daremo il titolo di Maria Ausi-
liatrice». E quelle di ordine pastorale o apologetico, come da questa
testimonianza di G. Cagliero: «La Madonna vuole che la onoriamo
sotto il titolo di Maria Ausiliatrice: i tempi corrono cosl tristi che
abbiamo proprio bisogno che la Vergine SS. ci aiuti a conservare e

13 Pages 121-130

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13.1 Page 121

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Cap. V: Lavoro a due 119
difendere la fede cristiana». Non vi furono estranee le apparizioni del-
l'Ausiliatrice avvenute presso Spoleto (marzo 1862), altre contingenze
storiche e illustrazioni celesti.
Ausiliatrice, presenza viva
Non mancano di certo elementi che provano, già prima, la presenza
di Maria Ausiliatrice nella vita di Don Bosco, ma la preferenza determi-
nante per il suo culto ha un punto di riferimento preciso: il 1861-1863.
«E questa - scrive E. Viganò - rimarrà la scelta mariana definitiva: il
punto di approdo di una incessante crescita vocazionale e il centro di
espansione del suo .carisma di fondatore. Nell'Ausiliatrice Don Bosco
riconosce finalmente delineato il volto della Signora che ha dato inizio
alla sua vocazione e ne è stata e ne sarà sempre l'Ispiratrice e Maestra».
Ma questo punto di arrivo è ancora un punto di partenza. Siamo
negli ultimi 25 anni di vita di Don Bosco; gli anni della piena maturità
umana e spirituale, che coincidono con l'affermazione e la sistemazione
definitiva della Congregazione, con la sua espansione mondiale e missio-
naria; sono soprattutto gli anni in cui il Santo si sente sempre più coin-
volto ed inserito nell'attualità, spesso drammatica, della Chiesa e della
nuova realtà italiana, come sacerdote educatore e come apostolo. Ebbe-
ne, questo grande periodo della storia di Don Bosco è segnato da una
presenza più viva, più incombente di Maria, la «Madre amorosissima»
e «l'Immacolata potente», come egli non si stancherà di dire, ma questa
volta venerata e sentita, in maniera quasi totalizzante, nella sua funzione
di Ausiliatrice, sia dei singoli che della intiera comunità di fede cristiana: .
«Maria Auxilium Christianorum». E questo, al di là di quanto di impli-
cito e di esplicito lo aveva portato alla scelta preferenziale di questo tito-
lo, per due ragioni di fondo soprattutto.
Primo: per la consapevolezza teologica e storica, da lui ormai acqui-
sita, dell'attualità del culto di Maria Ausiliatrice nella Chiesa del suo
tempo.
Secondo: per la portata incalcolabile che nella storia salesiana viene
ad avere la costruzione e l'esistenza del Tempio di Maria Ausiliatrice in
Valdocco.
Attualità del culto di Maria Ausiliatrice
Circa il primo punto siamo ragguagliati dalla introduzione che Don
Bosco premette, desumendola da A. Nicolas, al suo opuscolo: Maravi-

13.2 Page 122

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120 Parte Il: Dimensioni essenziali
glie della Madre di Dio invocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice. Leg-
giamo: «Il titolo di "Auxilium Christianorum" attribuito alla augusta
Madre del Salvatore non è cosa nuova nella Chiesa di Gesù Cristo.
Negli stessi libri santi dell'antico testamento Maria è chiamata Regina
che sta alla destra del suo Divin Figliuolo vestita in oro e circondata di
varietà [...]. In questo senso Maria fu salutata aiuto dei cristiani fino dai
primi tempi del Cristianesimo».
Il ricorso a Maria Ausiliatrice si è imposto a causa delle straordinarie
difficoltà in cui si dibatte la Chiesa. «Una ragione per altro tutta speciale
per cui la Chiesa vuole in questi ultimi tempi segnalare il titolo di "Au-
xilium Christianorum" è quella che adduce Mons. Parisis colle parole
seguenti: "Quasi sempre quando il genere umano si è trovato in crisi
straordinarie, fu fatto degno, per uscirne, di riconoscere e benedire una
nuova perfezione in questa ammirabile creatura, Maria SS. che quaggiù
è il più magnifico riflesso delle perfezioni del Creatore". Il bisogno oggi
universalmente sentito di invocare Maria non è particolare, ma generale;
non sono più tiepidi da infervorare, peccatori da convertire, innocenti
da conservare. Queste cose sono sempre utili in ogni luogo, presso qual-
siasi persona. Ma è la stessa Chiesa Cattolica che è assalita. È assalita
nelle sue funzioni, nelle sacre sue istituzioni, nel suo Capo, nella sua
dottrina, nella sua disciplina; è assalita come Chiesa Cattolica, come
centro della verità, come maestra di tutti i fedeli. Ed è appunto per
meritarsi una speciale protezione del Cielo che si ricorre a Maria, come
Madre comune, come speciale Ausiliatrice dei Re, e dei popoli cattolici,
come cattolici di tutto il mondo».
Poco più avanti nello stesso libretto Don Bosco non esiterà a scri-
vere: «Una esperienza di diciotto secoli ci fa vedere in modo luminosis-
simo che Maria ha continuato dal cielo, e col più gran successo, la sua
missione di Madre della Chiesa ed Ausiliatrice dei cristiani che aveva
cominciato sulla terra».
Dunque: «Don Bosco percepiva con sofferta attenzione le speciali e
crescenti difficoltà sorte per la Chiesa: i gravi problemi delle relazioni
tra fede e politica, la caduta (dopo più di un millennio) degli stati pon-
tifici, la delicata situazione del Papa e delle sedi vescovili, l'urgente
necessità di un nuovo tipo di pastorale e di nuovi rapporti tra gerarchia
e laicato, le incipienti ideologie di massa, ecc.» (E. Viganò).
Questa dura realtà impegnava il suo zelo per la causa della fede e
d~lla Chiesa e ravvivava il suo ricorso a Maria Ausiliatrice.
Leggiamo nelle Memorie Biografiche: «Nel ricordare le meraviglie
operate dalla Madonna, oltre il bisogno di uno sfogo al suo immenso

13.3 Page 123

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Cap. V: Lavoro a due 121
affetto per la Madre di Dio, egli aveva per iscopo di giovare al prossimo.
Voleva ravvivare in tutto il mondo una fiducia illimitata in Colei che in
mezzo alle angustie, alle tribolazioni, agli errori, ai pericoli era e sarebbe
sempre stata l'amorosa, la pronta, la potente sua Ausiliatrice».
Forte di questa confidenza in Maria Ausiliatrice, Don Bosco nel
famoso sogno sull'avvenire della Chiesa e dell'Europa (2 febbraio 1872)
non esiterà a scrivere al Sommo Pontefice Pio IX, in nome del cielo:
«La gran Regina sarà il tuo aiuto e come nei tempi passati cosi per l'av-
venire sarà sempre "magnum et singulare in Ecclesia prtesidium" ».
Maria si è edificata la sua casa
Eppure tutto questo non avrebbe fatto di lui il grande apostolo di
Maria Ausiliatrice, se egli non fosse passato per l'esperienza, colma di
soprannaturale, della costruzione della chiesa di Maria in Valdocco, e se
questa chiesa non fosse divenuta il cuore ed il «centro della Congrega-
zione», la «Chiesa madre».
È quasi impossibile dire ciò che il tempio di Valdocco ha rappresen-
tato nella vita intima di Don Bosco; ciò che ha rappresentato e rappre-
senta nella storia della Congregazione e - tramite i membri della Fami-
glia Salesiana - nella pietà mariana della Chiesa universale.
A differenza di quanto leggiamo nella storia di altri celebri santuari,
che originano per lo più da strepitose apparizioni di Maria SS. - pen-
siamo a Lourdes, a Fatima, a La Salette, ecc. - quello di Valdocco
sorge per un calcolo di sapiente pedagogia pastorale, per esigenze con-
crete, anche se non mancano interventi soprannaturali.
Ciò che, invece, ha sorpreso prima Don Bosco e poi il mondo, è il
fatto che Maria si sia praticamente costruita la sua «casa» contro ogni
previsione umana: JE,dificavit sibi domum Maria.
È questo il miracolo che il Teol. Margotti non si sentiva di negare:
«Dicono che Don Bosco fa dei miracoli ed io non ci credo, ma ce n'è
qui uno che non posso negare ed è questo sontuoso tempio che costa
circa un milione - oggi saremmo nell'ordine di miliardi - ed è stato
tirato su in tre anni colle sole offerte spontanee dei fedeli».
Don Bosco era guidato dall'alto, ma camminava coi piedi in terra e
da uomo pratico quale era aveva fatto bene i suoi calcoli prima di
avviare i lavori. Si era assicurato l'appoggio finanziario di persone
influenti e facoltose; ma alla resa dei conti fu lasciato solo. La verità è
questa: «Quando si trattò di cominciare i lavori io non avevo un soldo
da spendere a questo scopo». E qui segue uno di quei ragionamenti che

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122 Parte Il: Dimensioni essenziali
solo i santi sanno fare: «Da una parte vi era certezza che quell'edificio
era di maggior gloria di Dio, dall'altra contrastava con l'assoluta man-
canza dei mezzi».
Si sarebbe detto un dilemma senza uscita: ma Don Bosco misurava
le cose con parametri superiori. Quale è stata la sua conclusioqe? Ecco-
la: «Allora si conobbe chiaro che la Regina del cielo voleva non i corpi
morali (gli appoggi delle autorità cittadine, ecc.), ma i corpi reali, cioè
i veri divoti di Maria [...] e volle essa medesima porvi la mano e far
conoscere che, essendo opera sua, Ella stessa voleva edificarla: JF,difica-
vit sibi domum Maria».
I lavori iniziarono dal nulla. Don Bosco non si risparmiava: ma qual-
cuno nell'ombra operava con lui e per lui. Questo qualcuno era Maria
Ausiliatrice. Era cominciato cosi quel «lavoro a due» tra Don Bosco e
Maria Ausiliatrice, quel «fare le cose insieme», quella «misteriosa coo-
perazione» la quale, se aveva origini che risalgono al primo sogno, ora
si era fatta più forte, più continua, e quasi irresistibile. La costruzione
materiale del tempio si arricchiva ogni giorno di fatti portentosi che
lasciavano lo stesso Don Bosco sorpreso e quasi sgomento, tanto che
senti il bisogno di consultarsi con Mons. Bertagna, il quale in una pre-
ziosa testimonianza del Processo Ordinario fa questa affermazione:
«Credo vero che Don Bosco avesse il dono soprannaturale di guarire
infermi. Questo l'ho sentito da lui medesimo in occasione che eravamo
ambedue agli Esercizi Spirituali nel Santuario di S. Ignazio sopra Lanzo
e me lo diceva per avere consiglio a continuare a benedire gli ammalati
colle immagini di Maria Ausiliatrice e del Salvatore, poiché, diceva, si
levava un cotal rumore per le molte guarigioni che succedevano e che
avevano l'aria di prodigiose, in seguito a cotali benedizioni da lui impar-
tite. Ed io ritengo che Don Bosco dicesse il vero. Bene o male io ho cre-
duto di consigliare Don Bosco a proseguire le sue benedizioni».
Don Bosco riprese più serenamente la sua strada. Impartiva la bene-
dizione di Maria Ausiliatrice, esortava i devoti ad onorarla con la santità
della vita, con qualche elargizione per il suo tempio, e Maria lo ascol-
tava: i malati guarivano, i problemi ingrovigliati si risolvevano, le gua-
rigioni spirituali si moltiplicavano. Era evidente che l'Ausiliatrice faceva
credito al suo servo fedele.
«Se io volessi - scrive il Santo - esporre la moltitudine dei fatti
[straordinari e miracolosi di cui parla] dovrei farne non un piccolo
libretto, ma grossi volumi».
Don Bosco è veritiero quando conclude: «Abbiamo condotto questo
per noi maestoso edificio con un dispendio sorprendente senza che

13.5 Page 125

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Cap. V: Lavoro a due 123
alcuno abbia mai fatto questua di sorta. Chi lo crederebbe? Un sesto
della spesa fu coperta con oblazioni di persone devote; il rimanente
furono tutte oblazioni fatte per grazie ricevute».
La coscienza popolare non tardò a scoprire questa meravigliosa
intesa tra Maria Ausiliatrice e Don Bosco, il legame inscindibile che li
univa: Don Bosco era veramente il «Santo di Maria Ausiliatrice», e
Maria Ausiliatrice era veramente la «Madonna di Don Bosco». Questa
denominazione nata dall'intuizione di fede dei credenti resta affidata
alla storia.
· Nella sua umiltà Don Bosco ha mai finito di dire che lui non c'en-
trava: chi faceva tutto era l'Ausiliatrice: «Io non sono l'autore delle
grandi cose che voi vedete; è il Signore, è Maria SS. che degnarono di
servirsi di un povero prete per compiere tali opere. Di mio non ci ho
messo nulla. /E,dificavit sibi domum Maria. Ogni pietra, ogni ornamento
segnala una grazia». «Maria la fece venir su a forza di miracoli!»
Il quadro ideato da Don Bosco
La «Madonna di Don Bosco» ha, nel quadro del Lorenzoni che
sovrasta l'altare maggiore, la sua espressione classica. È questa la
Madonna che esprime bene il sentimento intimo del Santo e lo stato d'a-
nimo dei cattolici in lotta e bisognosi di sicurezza, la posizione di «Ma-
ria Regina e Madre della Chiesa».
Nella sua mente il Santo vagheggiava quali:he cosa di più splendido
e grandioso. Quando ne parlò col pittore, come di cosa già da lui a
lungo contemplata, sbalordl tutti per l'arditezza del suo proposito.
Espresse cosl il suo pensiero: «In alto Maria SS. tra i cori degli
Angeli; intorno a Lei, più vicini gli Apostoli, poi i cori dei Profeti, delle
Vergini, dei Confessori. In terra gli emblemi delle grandi vittorie di
Maria e i popoli delle varie parti del mondo in atto di alzar le mani
verso di Lei chiedendo aiuto».
La sua concezione della storia della salvezza lo portava a collocare
la Chiesa nel cuore del mondo, e nel cuore della Chiesa egli contem-
plava Maria Ausiliatrice --'- lo sboccio della Chiesa prima della Chiesa
- la Madre onnipotente, la vincitrice del male. Il quadro fu ridotto a
proporzioni possibili, ma l'idea ispiratrice è rimasta.
Oh! Madre, Madre!
Dell'Ausiliatrice volle propagare il culto in tutti i modi possibili:
scrisse in suo onore sei operette popolari, a Lei dedicò l'Istituto delle

13.6 Page 126

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124 Parte Il: Dimensioni essenziali
Figlie di Maria Ausiliatrice, fondò l'Arciconfraternita dei suoi divoti,
diffuse la Benedizione di Maria Ausiliatrice, la sua Novena, la sua imma-
gine, le sue medaglie; non si è più stancato di ripetere: «Confidate ogni
cosa in Gesù Sacramentato e in Maria Ausiliatrice e vedrete che cosa
sono i miracoli».
Don Bosco ci insegna che la Madonna deve avere un posto speciale
nel nostro cuore: se non l'avesse, vorrebbe dire che in noi c'è qualcosa
di profondamente errato; ci insegna che la divozione a Maria deve par-
tire dall'interno, da ciò che in essa vi è di più essenziale e profondo: il
rapporto intimo con la persona viva di Maria, sentita, amata, servita
come Madre di Dio, Madre della Chiesa, Madre e Ausiliatrice di tutti.
Don Bosco ha rispettato ed esaltato, nella sua pietà personale, tutte
le prerogative e tutti i titoli con cui la Chiesa onora la Madre di Dio:
sappiamo che ha prediletto quello dell'Immacolata e dell'Ausiliatrice.
Ma tutto questo non era che la mediazione attraverso la quale egli
nutriva il suo rapporto esistenziale, personale, intimo con Maria. Il
nucleo più profondo della sua devozione mariana partiva sempre di Il.
Tutta la sua vita lo prova, e lo confermano ancora le commoventi invo-
cazioni che affiorano sulle sue labbra nell'ora estrema, essenziali e senza
aggettivazioni: «Gesù... Gesù... Maria... Maria... Oh! Madre, Madre.
Apritemi le porte del paradiso».
Il rilancio mariano auspicato dal Santo Padre deve puntare sull'es-
senziale, senza mai dissociare la Madre dal Figlio e dallo Spirito che ci
conduce all'età adulta del Cristo, e quindi nell'intimità col Padre.

13.7 Page 127

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Capitolo VI
LAVORARE «CON FEDE, SPERANZA E CARITÀ»
Il battesimo cambia radicalmente il nostro modo di essere e di vive-
re: rende partecipi della natura divina, incorpora a Cristo e alla Chiesa,
rende figli di Dio, fa di noi delle creature nuove. E perché sia possibile
questa «novità di vita» lo Spirito Santo infonde in noi, con i suoi doni,
i dinamismi potenti della fede, della speranza e della carità, che impli-
cano un coinvolgimento di tutta la realtà nell'orbita di Dio.
Le virtù teologali, si sa, costituiscono la santità in termini reali e
dinamici e la stessa essenza della vita interiore. È troppo poco dirle «vir-
tù» o «abiti» di una particolare potenza, quando sono piuttosto le strut-
ture e le dimensioni totali dell'esistenza cristiana. È tutto l'uomo che in
esse vive in Cristo e nello Spirito Santo. Credere, per Abramo come per
Maria, voleva dire darsi, pieni di speranza, ad una persona sommamente
amata.
Aggiungiamo che nella Bibbia fede, speranza e carità sono sempre
presentate in «unità vitale» come «aspetti diversi di un atteggiamento
spirituale complesso ma unico» (J. Duplacy). La carità non esiste senza
la fede e la speranza; la fede e la speranza sono vive solo se informate
dalla carità.
È importante fare atti separati delle singole virtù teologali; più
importante viverli «insieme», congiuntamente, sintetizzati nella carità.
Don Bosco non ha teorizzato la sua esperienza di fede, di speranza, di
carità, ma l'ha vissuta intensamente in mezzo alle attività più diverse.
Indicativi a questo riguardo possono essere la predica di Trofarello,
del 18 settembre 1869, e la prima parte del cosiddetto «sogno dei dieci
diamanti». Della predica di Trofarello, tenuta alla fine degli Esercizi spi-
rituali, ci è pervenuta la traccia autografa. Don Bosco svolge questo
tema: «Lavorare con fede, speranza e carità».
A questo tema si ricollega il sogno dei «diamanti» o «virtù» che
brillano sul manto del personaggio nel quale possiamo vedere la perso-
nificazione di Don Bosco. Cinque sono collocati sul petto e disegnano
il volto del salesiano quale deve apparire di fronte al mondo; cinque
sono collocati nella parte posteriore e sono destinati a rimanere piutto-
sto nascosti.

13.8 Page 128

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126 Parte Il: Dimensioni essenziali
I diamanti che sfolgorano sul petto sono quelli della «fede, speranza
e carità». Quest'ultimo è collocato sul cuore. Sulla spalla destra e su
quella sinistra spiccano i diamanti del «lavoro» e della «temperanza»,
che costituiscono lo stemma salesiano: sono in connessione organica con
i precedenti.
«La vita salesiana - scrive Don F. Rinaldi - considerata nella sua
attività è lavoro e temperanza, vivificati dalla carità del cuore nella luce
sempre più luminosa della fede e della speranza».
In questo sogno, molto elaborato, Don Bosco non trova di meglio
per definire il volto del salesiano che rifarsi alla triade teologale, sintesi
e sostanza della vita cristiana.
Che Don Bosco, come ogni altro santo, abbia prediletto su tutto le
virtù teologali lo dimostrano, ad esempio, le biografie dei suoi piccoli
eroi. Di Savio Domenico, ad esempio, loda «la vivezza della fede, la
ferma speranza, l'infiammata carità». Precisiamo meglio il pensiero del
Santo.
Lavoriamo con fede
Spiegava Don Bosco: non per mire umane, non per sentirci «applau-
diti con un bravo! un bene!», ma «per far cosa grata al Signore», per
«aspirare al premio che ci aspetta». La fede è per il Santo la carta dal
cielo, la visione globale dall'alto sulla sua vita, i suoi progetti, le sue
azioni, sulle realtà nelle quali è immerso. La fede gli infonde l'intima
coscienza della sua identità cristiana; lo porta a vedere, giudicare, agire
secondo l'ottica di Dio, di Cristo e del suo Spirito; la fede è veramente
la ragione di tutto il suo operare: «La fede - diceva - è quella che fa
tutto»; senza «il fuoco della fede l'opera dell'uomo è nulla».
La fede lo portava a valutare con sguardo critico e discernimento
soprannaturale le realtà di ogni giorno, ad affrontarle con «vivezza» e
«grandezza di fede». Asseriva: «In mezzo delle prove più dure ci vuole
una gran fede in Dio». Esortava, con S. Paolo, ad imbracciare, con
coraggio nell'ora della prova, «lo scudo della fede» (E/ 6,16).
Benché avesse più di un motivo per consolarsi del bene fatto, guar-
dava a quello che restava da fare e si rammaricava di non avere avuto
abbastanza fede e di non aver fatto di più. «Se avessi avuto cento volte
più fede, avrei fatto cento volte di più di quello che ho fatto». Eppure
fu un formidabile credente: viveva, operava e pregava «come se vedesse
l'invisibile» (Eb 11,27). Nelle udienze, richiesto di consiglio, non
rispondeva immediatamente; alzava gli occhi al cielo come chi va cer-

13.9 Page 129

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Cap. VI: Lavorare «con fede, speranza e carità» 127
cando da Dio la luce necessaria, poi dava risposte piene di fede.
Tutta la sua vita - ha scritto Don Ceria - fu un esercizio di fede
vissuta: «Pensieri, affetti, imprese, ardimenti, dolori, sacrifici, pie prati-
che, spirito di orazione furono tutte fiamme sprigionantisi dalla fede».
Benché la sua fiducia in Dio fosse senza limiti ripeteva spessissimo: «Se
l'opera è vostra, Signore, voi la sosterrete; se l'opera è mia sono con-
tento che cada».
Il Concilio Vaticano ha fatto questa affermazione importante: «Solo
alla luce della fede e nella meditazione della parola di Dio è possibile
sempre e dovunque riconoscere Dio nel quale "viviamo, ci muoviamo
e siamo", cercare in ogni avvenimento la sua volontà, vedere il Cristo
in ogni uomo vicino od estraneo, giudicare rettamente del vero senso e
valore, che le cose temporali hanno in se stesse in ordine al fine dell'uo-
mo» (Apostolicam Actuosz"tatem nn. 4, 5). Don Bosco non poteva cono-
scere queste parole, ma il senso cristiano lo ha guidato a praticarle pun-
tualmente, sotto l'influsso dello Spirito.
Sembrava sommerso in un cumulo di affari e di attività, ma la sua
fede era l'anima di tutto: sapeva cogliere l'invisibile nel visibile, sapeva
collaborare, come pochi, con il divino Risorto alla diffusione del Regno,
alla salvezza delle anime. Ha scritto E. Viganò: «Don Bosco percepiva
quasi spontaneamente lo spessore storico della fede cristiana. Anche
come studioso e come scrittore egli è un entusiasta degli aspetti concreti
della storia della salvezza. Infatti, più che un pensatore, è un narratore
di Dio; un narratore della storia sacra, un narratore della vita dei santi,
della storia della Chiesa».
Si è sempre battuto perché i suoi figli avessero una fede «operosa»
e «dinamica» come vuole S. Giacomo (Gc 2,17). «Viva» e tale da «tra-
sportare le montagne nel luogo delle valli e le valli nel luogo delle mon-
tagne». Fu un estremo difensore della fede, per la quale mise più volte
a repentaglio la vita; un impareggiabile «educatore della fede» di gene-
razioni di giovani.
La sua esortazione a «lavorare con fede» non era solo una convin-
zione radicata nella sua anima: era l'espressione del suo vissuto, una sin-
tesi della sua esistenza.
Lavorare con speranza
Commenta Don Bosco: «Quando siamo stanchi, quando abbiamo
delle tribolazioni, alziamo gli occhi al cielo; una grande mercede ci
attende in vita, in morte, nell'eternità. Facciamo come quel solitario che

13.10 Page 130

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128 Parte II: Dimensioni essenziali
prendeva conforto dal cielo». Ecco un suo tipico modo di pensare e di
ragionare. La sua mente non si fissa nel passato, non si chiude nell'at-
timo presente, si protende, come per istinto, verso le realtà ultime.
L'uomo che sembrava tutto assorbito dalle attività terrene gravitava, in
realtà, verso l'eterno. Diceva: «Camminate con i piedi per terra- ecco
il suo realismo - ma con il cuore abitate in cielo - ecco la sua spe-
ranza-».
L'intelligenza della fede, che lo apriva sul male del mondo da curare
e prevenire e sulle immense possibilità di bene da far crescere, stimolava
potentemente il dinamismo della sua speranza e lo lanciava all'azione.
Ripeteva spesso: «Coraggio, lavoriamo, lavoriamo sempre, perché lassù
avremo un riposo eterno».
«Lavorare sempre» poteva, in astratto, significare molte cose; in
concreto voleva dire sentirsi coinvolti nel disegno di salvezza e impe-
gnarsi per la causa di Dio.
La speranza è un atteggiamento onnipresente nella vita di Don
Bosco, quanto la fede e la carità. La speranza è l'attesa dei beni futuri,
la certezza del Dio «davanti a sé»; la confidenza illimitata nella potenza
soccorritrice del Padre, di Gesù e di Maria. È la voce di coraggio dello
Spirito Santo che lo lancia in imprese ardimentose, inedite, non esenti
da rischi. La Scrittura insegna che la speranza, anche se alata, non va
esente da oscurità e tentazioni, non è sempre trionfante; comporta lotta,
combattimento, prova: «Sono alcune settimane - scrive alla Marchesa
M. Assunta Frassati - che io vivo di speranza e di afflizioni». Anche
da questo punto di vista Don Bosco si rivela un grande della speranza,
perché capace di «sperare contro ogni speranza» e di tentare !'umana-
mente impossibile confidando nella forza di Dio.
Ripeteva spesso: «Posso tutto in Colui che mi conforta» (Fil 4,13).
«Di questo nulla in paradiso». «Coraggio! la speranza ci sorregga
quando la pazienza vorrebbe mancare». «Ciò che sostiene la pazienza
deve essere la speranza del premio». E ancora: «Alle volte ci troviamo
stanchi sfiniti, sopraffatti da qualche incomodo: ma facciamoci corag-
gio: lassù riposeremo». E, come era solito fare, alzava la mano destra
verso il cielo, indicando la sua piena fiducia nel Signore.
La frase di S. Paolo: «Le sofferenze del tempo presente non sono
paragonabili con la gloria futura che dovrà essere rivelata in noi» (Rm
8, 18) è un motivo ricorrente. Diciamo ancora che la sua speranza era
ferma e incrollabile perché ancorata al «già» della Pasqua del Signore,
della Pentecoste, della realtà della Chiesa, dei sacramenti, delle primizie
dello Spirito Santo, che ci sono date in germe. Al «già» esaltante faceva

14 Pages 131-140

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14.1 Page 131

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Cap. VI: Lavorare «con fede, speranza e carità» 129
riscontro anche in lui la coscienza del «non ancora», della mancanza,
della negazione, del limite, mai disgiunta dalla coscienza positiva dell'e-
sigenza di sviluppo e di crescita del bene disseminato nella storia e della
vita divina calata nel tempo.
Il «non ancora» della speranza infatti è inseparabile dal suo «già»;
vi è dentro come la vitalità nel seme. Ora chi guarda la vita di Don
Bosco percepisce che la sua speranza è stata vissuta da lui come proget-
tazione pratica e quotidiana di una instancabile operosità di santifica-
zione personale e di salvezza di tutti. «Salve, salvando, salvati» era il suo
saluto. Una speranza nutrita di «già» e «non ancora».
Tra i frutti più belli della speranza nella vita di Don Bosco ricordia-
mo: la «gioia» prorompente insita nella certezza del «già» della fede; la
«pazienza» inalterabile nelle prove, legata alle esigenze del «non anco-
ra»; la sua «sensibilità pedagogica», nella quale hanno grande parte l'ar-
dimento, la magnanimità, l'avvedutezza, la santa furbizia, virtù tipiche
di chi crede e spera fermamente che il suo futuro «non delude».
Quando esortava i suoi discepoli a «lavorare con speranza», Don
Bosco li invitava a guardare al paradiso per il quale siamo fatti; a confi-
dare nell'aiuto onnipotente del Padre celeste e di Maria; ad impegnarsi
a fondo per combattere i germi del male che infestano il mondo, e a svi-
luppare, ottimisticamente, quelli del bene per costruire un avvenire
migliore per la Chiesa ed il mondo. Questo significava per lui «lavorare
con speranza».
Lavorare con carità
. È la raccomandazione più insistita di Don Bosco. La carità è un
atteggiamento di amore verso le persone che sono o Dio stesso o la sua
immagine, l'uomo: è la pienezza della vita cristiana, la forma di tutte le
virtù. Il comando evangelico dice di amare Dio sopra ogni cosa e il
prossimo come noi stessi. Dio sempre al primo posto: solo il suo amore
infatti è causa e fonte del nostro amore per il prossimo.
Se non si ama Dio non si possono amare divinamente gli altri:
«Prima di tutto Dio ci dona la capacità di amare Lui; ed è su questo
dono che si innesta l'amore del prossimo» (Catechismo degli adulti). Nei
suoi brevi appunti sulla predica «Lavorare con fede, speranza e carità»
Don Bosco si sofferma a lungo sull'esercizio della carità verso il pros-
simo, ma dà la precedenza assoluta all'amore di Dio. La sua breve anno-
tazione, tanto concisa quanto profonda, inizia appunto con queste paro-
le: «Lavorare con carità verso Dio. Egli solo è degno di essere amato e
9

14.2 Page 132

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130 Parte II: Dimensioni essenziali
servito, vero rimuneratore di ogni più piccola cosa che facciamo per
Lui. Egli ci riama come un Padre affettuosissimo. Charitate perpetua
dilexi te... (Ger 31,3)».
Lo sguardo di Don Bosco su Dio non è mai disgiunto dalla certezza
che Dio ci ama con tenerezza infinita - come un padre - e dall'idea
della ricompensa che riserva ai suoi eletti. Dio, diceva, è «infinitamente
ricco e di generosità infinita. Come ricco può darci larga ricompensa per
ogni cosa fatta per amor suo; come Padre di generosità infinita paga con
abbondante misura ogni più piccola cosa che noi facciamo per amore».
«Fare per amore», «lavorare per amore» è tutta la sua vita, la sua
grande raccomandazione. Tutto nella nostra persona deve vibrare per
Dio: «Gli occhi devono vedere per Dio, i piedi camminare per Dio, le
mani lavorare per Dio, il cuore battere per Dio, tutto il nostro corpo
servire per Dio».
Queste raccomandazioni erano il riflesso della sua vita nella quale
l'amore di Dio regnava sovrano. Lo prova questa testimonianza, non
sospetta, del Card. Cagliero, scelta fra molte altre: «L'amore divino gli
traspariva dal volto, da tutta la persona, da tutte le parole _che gli sgor-
gavano dal cuore quando parlava di Dio sul pulpito, in confessionale,
nelle conferenze private e pubbliche e negli stessi colloqui familiari.
Questo amore fu l'unica brama, l'unico sospiro, il più ardente desiderio
di tutta la sua vita».
Don Bosco è certamente un grande innamorato di Dio, anche se sa
abilmente celarsi; ma non è meno forte il suo amore verso il prossimo
nel quale coglie la manifestazione permanente del Signore.
Il dinamismo della sua carità verso il prossimo, specialmente verso
i giovani più abbandonati, lo spinge, come abbiamo ricordato, a mani-
festazioni di delicatezza materna, ad atteggiamenti di fraternità, di bon-
tà, di comprensione, di sacrificio superiori ad ogni elogio. La sua carità
ha però essenzialmente un proprio volto: è carità «pastorale» e «peda-
gogica». La carità pastorale è la sua intima partecipazione all'ansia sal-
vifica di Cristo Buon Pastore, apostolo del Padre, consumato dallo zelo
della sua casa: «È un amore sacerdotale - scrive E. Viganò - illumi-
nato dalla fede e che vivifica profondamente la dinamica della speranza,
per lottare contro il male, per aiutare il prossimo, soprattutto la gioven-
tù, nell'opera della salvezza».
La carità pastorale spiega la mistica del «Da mihi animas», la fatica·
immane sostenuta per la diffusione del Regno di Dio. «Il Signore -
affermava - ci ha messi al mondo per gli altri». «Ciascuno procuri di
armarsi il cuore di quella carità che/a dare la vita per salvare anime».

14.3 Page 133

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Cap. VI: Lavorare «con fede, speranza e carità» 131
Lavorare con carità pastorale e insieme pedagogica: le due forme
sono affini, ma la carità pedagogica si ispira al Sistema Preventivo, alla
sua metodologia basata sulla ragione, religione, amorevolezza, di cui la
carità soprannaturale è l'espressione più compjuta. La pratica di questo
sistema «è tutta appoggiata - scrive Don Bosco nel suo trattatello sul
"Sistema Prevéntivo" - sulle parole di S. Paolo: Charitas benigna est,
patiens est, ... omnia su/fert, omnia sperat, omnia sustinet. La carità è
benigna e paziente,... soffre tutto, spera tutto, sostiene qualunque
disturbo (lCor 13,4.7)». Una carità inconfondibile quella del Sistema
Preventivo, che è «bontà eretta a sistema», e che ha qualche cosa del-
l'amore tenero e forte che Gesù dimostrava ai piccoli e agli ultimi. «Il
Sistema Preventivo - diceva ancora il Santo - è la carità, il santo
timor di Dio infuso nei cuori». L'educazione dei giovani «è cosa di cuo-
re», e «la carità è il vincolo che lega i cuori». Chi vuol lavorare con
frutto in mezzo ai giovani «deve tenere la carità nel cuore e praticare la
pazienza con l'opera». E poiché il lavoro salesiano si risolve, prevalen-
temente, in un prolungato rapporto educativo, lo voleva strettamente
congiunto con altre virtù come l'umiltà e l'integrità del cuore: «La cari-
tà, la castità, l'umiltà sono tre regine che vanno sempre insieme: una
non può esistere senza le altre».
Come modello pratico di vita da proporre ai suoi figli non ha trovato
di meglio che la dolce bontà di S. Francesco di Sales, la finezza della sua
carità mite e paziente. Non gli importava, lui, figlio di umili contadini,
che fosse un santo della sua patria - Savoia-Piemonte - ed un aristo-
cratico, figlio di principi. Gli premeva la sua mansuetudine, la sua dol-
cezza che ne facevano una viva immagine del Salvatore. Scriveva al suo
procuratore: «Caro Don Dalmazzo, lavora, ma sempre colla dolcezza di
S. Francesco di Sales e colla pazienza di Giobbe».
La nostra cultura esalta il lavoro sino a fame un mito. Ma si tratta,
per lo più, di un lavoro ad una dimensione, finalizzato alla società del
benessere, vissuto con prospettiva attivistica ed orizzontalista, fine a se
stesso. Anche Don Bosco ha esaltato la dignità del lavoro, ma non ne
ha fatto un assoluto, non lo ha anteposto alla dignità della persona; ne
ha fatto una viva espressione della carità, a servizio dell'uomo.
Lo ha concepito e vissuto cristianamente, come esercizio pratico
della triade della fede, speranza e carità: un lavoro decisamente sopran-
naturale, santificato e santificante. L'entusiasmo che egli dimostra per le
opere affonda nelle profondità della vita teologale, nell'unione con Dio.

14.4 Page 134

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Capitolo VIl
L'AZIONE «LUOGO DI INCONTRO» SPIRITUALE
CON DIO
La vita di Don Bosco - lo abbiamo rilevato - è attraversata dalla
preghiera come il letto del fiume dalle sue acque. Ma l'orazione non è
stata l'unica mediazione con la quale il Santo è vissuto in intimità con
Dio. Accanto all'unione di preghiera egli ha conosciuto e praticato, in
misura altrettanto eroica, quella che, con il Libermann, possiamo anche
chiamare l'«unione pratica» o «attiva» con Dio, che si attua nell'azione
e tramite l'azione. Dell'unione pratica abbiamo questa descrizione: «è
una unione intima con lo Spirito nel cuore della vita attiva, grazie ad
uno stato permanente di disponibilità e di attenzione a Dio che
dovrebbe condurci a non pensare, amare, volere, agire che sotto l'in-
fluenza esclusiva di Colui che è diventato come l'anima della nostra ani-
ma».
L'«unione pratica» è, essenzialmente, partecipazione, in gradi diver-
si, all'agire creatore e salvifico di Dio. Possiamo distinguere tre livelli:
apostolico, caritativo, profano, di cui Don Bosco si è servito come
mediazioni per andare a Dio e fare della sua multiforme attività il luogo
abituale del suo incontro col Signore. Vediamolo brevemente.
Unione attraverso le attività apostoliche
Le attività di apostolato di Don Bosco, intese in senso stretto, si
distinguono da ogni altra forma di attività benefica, perché sono la con-
tinuazione e il prolungamento della stessa attività redentrice di Cristo,
che diffonde il suo messaggio di salvezza e comunica la vita divina. In
questo tipo di azione Don Bosco opera «in persona Christi», è suo
«strumento», in virtù della ordinazione sacerdotale. Questo significa
che non solo le sue intenzioni sono spirituali, ma spirituale è la struttura
stessa dell'azione che compie, in quanto prolunga direttamente l'agire
salvifico e attuale di Cristo Salvatore.
L'agire apostolico facilita cosl di molto l'unione con Dio. «Basta che
l'apostolo, per cosl dire, aderisca seriamente alla sua attività apostolica
perché penetri nell'ordine soprannaturale e partecipi all'effusione della
grazia» (Ch. Bemard).

14.5 Page 135

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Cap. VII: L'azione «luogo di incontro spirituale» 133
Basta che esca, per cosl esprimerci, fuori di sé (= estasi) e si unisca
intensamente all'azione con la quale Cristo risorto continua a compiere
la salvezza del mondo, per entrare in sintonia con Lui e divenirgli pro-
gressivamente conforme.
È quanto il Concilio raccomanda ai presbiteri. Perché raggiungano
la santità «nel modo loro proprio» è sufficiente che esercitino le fun-
zioni loro proprie «nello Spirito di Cristo [...] e con impegno sincero ed
instancabile» (Presbyterorum Ordinis n. 13).
Che l'esercizio intenso del suo apostolato - evangelizzazione, sacra-
menti, preghiera, ecc. - sia stato uno dei grandi mezzi con il quale Don
Bosco viveva intensamente la sua unione con Dio è fuori discussione.
Abbiamo già ricordato come il suo sacerdozio fosse il principio unifica-
tore di tutta la sua vita. È infatti difficile immaginare un apostolo più
identificato alla sua missione, più presente al suo Signore nell'esercizio
del ministero.
L'«amico dei giovani» e della «classe operaia», il «precursore dei
tempi nuovi» è sempre, prima di tutto, ministro del Signore, strumento
consapevole congiunto con la divinità, profeta di Dio che opera ed agi-
sce in suo nome. Altri stupivano per le sue opere, per le imprese ardite;
più modestamente egli non si riteneva che lo strumento umile nelle
mani dell'artefice divino: «Spetta all'artefice e non allo strumento prov-
vedere - confessava - i mezzi di proseguirle e condurle a buoh fine;
a me tocca solo di mostrarmi docile e pieghevole neije sue mani».
Nell'adempimento fedele dei suoi doveri sacerdotali Don Bosco
viveva un profondo raccoglimento con Dio. Tutti lo potevano costatare;
ad esempio, dal modo con il quale celebrava la S. Messa e amministrava
il Sacramento della riconciliazione, o dal suo modo di pregare.
Le attività caritative
Abbiamo appena accennato alla facilità con cui Don Bosco, uomo di
vita attiva, poteva stare unito a Dio tramite l'azione apostolica; aggiun-
giamo che un'altra via privilegiata per vivere in comunione con Dio
erano le attività caritative. Esse riempiono i venti volumi delle Memorie
Biografiche; non è compito nostro passarle in rassegna. Neppure inten-
diamo ripetere il discorso sul dinamismo della carità che dà senso e
sostanza alla sua fatica. Vogliamo solo accennare, fugacemente, come la
pratica della carità fraterna sia stata, a sua volta, una mediazione privi-
legiata della sua continua unione con Dio.
Il fatto che Don Bosco, nell'esercizio della sua carità pastorale e

14.6 Page 136

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134 Parte II: Dimensioni essenziali
pedagogica, non fosse più il prolungamento diretto dell'attività salvifica
di Cristo, come nell'apostolato, nulla toglie allo spessore della sua carità
e alla sua capacità di intimità con Dio. Per due ragioni essenziali soprat-
tutto.
La prima è da ricercare nel fatto che ogni azione positiva verso il
prossimo, ogni relazione di vera fraternità, è sempre santificatrice per-
ché partecipazione della stessa azione di Dio, che è carità infinita.
La seconda, perché ogni esercizio di carità è il compimento del
comandamento nuovo di Gesù: «Amatevi gli uni gli altri» (Gv 13,34).
L'essenza della perfezione sta nella carità che non separa il prossimo da
Dio, fonte suprema di ogni amore.
La tradizione cristiana, da S. Agostino a S. Gregorio, a S. Bernardo,
ai santi moderni non ha mai separato la vita cristiana dall'impegno della
carità. Quando si impone la scelta tra la preghiera e un dovere certo di
carità tutti affermano che il dovere di carità è più urgente, perché
rispondente ad una più chiara volontà di Dio (cf. Mt 25,31-46). Don
Bosco si è sempre mosso in questa prospettiva. Amava Dio nel prossimo
e il prossimo in Dio. Diceva: «Chi vuol lavorare con frutto deve avere
la carità nel cuore»; «Sono i vincoli della carità che ci tengono ovunque
stretti nel Signore». Era convinto che i giovani sono la «delizia e la
pupilla dell'occhio divino», e li prediligeva di un amore senza limiti: «È
proprio la mia vita stare con voi». Per essi ha dato «sostanze e vita». Ma
ciò che lo muoveva ad amarli non era solo l'innata tendenza - che pure
ebbe in misura grande - ma l'amore pastorale di Cristo che lo spingeva
a scorgere in loro il luogo privilegiato dell'amore divino. E più i giovani
erano prossimi al Salvatore per la loro povertà e il loro abbandono, più
stimolavano la sua carità industriosa. Si sarebbe detto che avesse l'im-
pressione quasi fisica di vedere e toccare in loro il volto del Signore.
Per il prossimo Don Bosco ha dato letteralmente se stesso; ma biso-
gna anche dire che il prossimo - specialmente i giovani - sono stati
il sacramento nel quale egli si incontrava quotidianamente col Signore.
Un mutuo darsi e ricevere che lo riempiva di soddisfazioni profonde:
«Oh! quale consolazione si prova quando si giunge alla sera stanco e
spossato di forze, avendo impiegato tutto il giorno per la gloria di Dio
e la salvezza delle anime!».
L'unione tramite le «attività profane»
Anche delle attività di tipo prevalentemente profano, che abbon-
dano nella vita di Don Bosco - lavori normali, professionali, scuola,

14.7 Page 137

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Cap. VII: L'azione «luogo di incontro spirituale» 135
stampa, cultura, ecc. - egli ha fatto il luogo del suo incontro con Dio,
la via per salire a Lui.
Anzitutto perché ogni attività di tipo anche solo creaturale, purché
onesta, è sempre partecipazione all'agire di Dio, alla sua benevola
volontà scritta nelle cose e regolatrice degli eventi. La tradizione cristia-
na, da sempre, vede Dio presente nell'universo mediante la prima rive-
lazione. Anche l'impegno professionale, sociale, tecnico, essendo coope-
razione all'intenzione creatrice di Dio, è in sé buono e può essere tra-
sfigurato e ricapitolato nel mistero dell'incarnazione e della redenzione.
·Sappiamo che Don Bosco santificava le attività profane orientandole
intenzionalmente a Dio. La retta intenzione ha una grande importanza
nella sua spiritualità, nel lavoro santificato. «Il lavoro - diceva - basta
santificarlo con la retta intenzione, con atti di unione al Signore e alla
Madonna e col farlo meglio che potete».
Tutto, come abbiamo già visto, nella sua vita era motivato e finaliz-
zato alla gloria di Dio e alla salvezza delle anime. Questo risulta chia-
ramente, come rileva P. Braido, «dalla diagnosi e dal giudizio che for-
mula dei suoi tempi e delle loro esigenze. Non è il giudizio del peqa-
gogista, del sociologo o del politico, ma del prete che tutto vede "sub
specie t.eternitatis", della gloria di Dio e della salute delle anime». Don
Bosco non si smentisce: anche là dove il suo operare sembra contrasse-
gnato dal profano, le sue motivazioni sono elevate. Gli interessi del
Regno e delle anime sovrastano tutto. «Dicano gli uomini del mondo
che è passato il tempo dei religiosi - confidava ai suoi - , che i con-
venti rovinano dovunque; noi a qualunque costo vogliamo cooperare
col Signore alla salute delle anime». E si lamentava perché a Parigi,
come a Pietroburgo, come a Londra, come a Firenze non si trattasse e
discutesse che «d'armate, di guerre, di conquiste, di finanze». La eleva-
tezza delle sue intenzioni dava sostanza nuova alle cose.
La divinizzazione del lavoro mediante il valore dell'intenzione, dice
Teilhard de Chardin, «infonde un'anima preziosa a tutte le nostre azio-
ni». La retta intenzione, la volontà cioè di servire unicamente Dio, «è
veramente la chiave d'oro che apre il nostro mondo interiore alla pre-
senza di Dio. Esprime con energia il valore sostanziale della volontà
divina».
L'intenzione è un valore molto positivo della vita nello Spirito;
saremo giudicati in base alle intenzioni del nostro agire. Non trova
quindi giustificazione la critica che si muove alla intenzione, a meno che
si confonda con la vaga e velleitaria aspirazione a Dio campata sul vuo-
to. Nel suo sano realismo Don Bosco non dissociava la buona inten-

14.8 Page 138

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136 Parte II: Dimensioni essenziali
zione dalle buone opere. Alle buone intenzioni, di cui è lastricato l'in-
ferno, preferiva l'opera anche non troppo perfetta. Esigeva che «si
facessero le cose», ed aggiungeva: «il meglio possibile»; ma si acconten-
tava anche del solo possibile.
La retta intenzione non era però l'unico mezzo con il quale Don
Bosco santificava le attività profane. Esse infatti venivano da lui sistema-
ticamente assunte e vissute come «dovere di stato», come esigenza ine-
ludibile di una chiara disposizione divina. Oggi si tende a mettere il
silenziatore su tutto ciò che sa di imposizione, di dovere. Al tempo di
Don Bosco la "spiritualità del dovere" era molto in auge; anche in
campo profano l'etica kantiana aveva il suo seguito.· Al di là di possibili
false interpretazioni, ricordiamo che si tratta di un valore che non ha
perso né il suo mordente, né la sua attualità.
Si dà infatti giustamente per certo che la realtà presente, anche pro-
fana, contiene la volontà di Dio. Scrive D. Caussade: «L'ordine di Dio
è la pienezza di tutti i nostri momenti; esso si esprime sotto mille appa-
renze diverse che diventano necessariamente nostro dovere presente,
formano, fanno crescere in noi l'uomo nuovo fino alla pienezza che la
Saggezza divina ha stabilito per noi».
Quanto più lo sguardo di fede, di speranza e di amore discernerà la
presenza di Dio nelle cose, tanto più sarà facilitato l'abbandono alla sua
volontà nel momento presente. Don Bosco vive in questa ottica e di
questa ottica. Egli infatti considera il dovere compiuto esattamente
come la mediazione più sicura e facile per realizzare l'unione pratica con
Dio.
Di qui la sua proverbiale e quasi continua insistenza presso discepoli
e giovani sul «Dio ti vede», sulla necessità di vivere ed operare "alla"
presenza e "nella" presenza di Dio: «Questo pensiero della presenza di
Dio [qui e adesso] ci deve accompagnare in ogni tempo, in ogni luogo,
in ogni azione». «Ognuno eseguisca i doveri del suo ufficio alla pre-
senza di Dio».
La spiritualità di Don Bosco è decisamente, se non esclusivamente,
una spiritualità del dovere. Lo afferma con autorevolezza A. Caviglia:
«La precisione nel dovere è, per Don Bosco, il primo articolo di ogni
santità, il primo postulato della spiritualità [...]. Chi conosce un po' da
vicino il Santo Educatore sa che questa concezione stava alla base di
ogni suo lavoro educativo, tanto nell'ambiente della vita comune quanto
nello spirituale. Alle stesse ostensioni della pietà egli non credeva se non
erano confermate dall'osservanza diligente e coscienziosa dei rispettivi
doveri».

14.9 Page 139

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Cap. VII: L'azione «luogo di incontro spirituale» 1.37
A questo punto possiamo spingerci oltre e fare la domanda: Don
Bosco, che ha dato tanta importanza al lavoro e all'attività in generale,
ha conferito loro un valori! interno, indipendentemente dalla retta inten-
zione e dalla volontà di assolvere un dovere preciso? In altre parole, ha
intuito che anche le attività profane possono orientarsi a Dio dal di den-
tro - purché oneste - in ragione di una loro consistenza e relativa
autonomia? Sono prospettive moderne che la spiritualità tradizionale
non si poneva. Ma nella misura in cui è vero che chi è guidato soltanto
dalla «buona intenzione» difficilmente evita una certa dicotomia o sepa-
razione tra vita spirituale da una parte e vita attiva dall'altra, dovremmo
trovare qualche traccia di questa divisione in Don Bosco.
Santi come Agostino, Gregorio Magno e molti altri, compreso lo
stesso Cafasso, hanno sempre sentito, nel pieno della loro attività, una
forte nostalgia per i tempi destinati alla preghiera. Nulla di simile si
riscontra nella vita di Don Bosco. Quando di notte, con Mamma Mar-
gherita, aggiusta gli squarci dei vestiti che i giovani si sono fatti di gior-
no, non rimpiange altri lavori più sacerdotali, non appare diviso tra ora-
zione e azione, non sente la nostalgia dell'altrove; accetta il profano e
lo trasfigura, con quella che E. Viganò con frase felice chiama «grazia
dell'unità», che è un unico movimento di carità verso Dio e verso il
prossimo.
«In questa grazia d'unità - spiega l'autorevole interprete del pen-
siero del Santo - della vita interiore di Don Bosco troviamo l'elemento
strategico dell'interiorità salesiana. Unità &a che cosa? Unità tra lo
sguardo su Dio - adorazione, ascolto, preghiera - e l'impegno di sal-
vezza che lancia tra i giovani, in modo però che questo impegno non sia
una distrazione da quello sguardo, e che lo sguardo non sia una eva-
sione dall'impegno, ma l'uno alimenti l'altro; l'uno sia il supporto, il
momento di ricerca e di riferimento per l'altro. È più facile dirlo che
praticarlo, ne siamo tutti convinti; ma Don Bosco lo ha vissuto cosl».
La «grazia dell'unità» si può dire l'asse della sua spiritualità. Una
spiritualità che non sacrifica la preghiera all'azione e l'azione alla pre-
ghiera. Tuttavia tra una urgenza apostolica, caritativa e umanizzante, e
una prolungata orazione, il carisma di Don Bosco lo porta a scegliere
l'azione, nella quale scorge una precisa volontà divina. Ma bisogna
anche dire che egli è talmente unito a Dio nel momento dell'azione da
non rimpiangere la preghiera; ed è talmente unito a Dio nella preghiera
da non rimpiangere l'azione. Azione e preghiera sono realmente vissuti
come momenti convergenti di una intensa vita teologale di cui è sintesi
la carità pastorale. Don Bosco dimostra di trovarsi a suo agio nella città
10

14.10 Page 140

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138 Parte II: IJimensioni essenziali
di Dio ed in quella degli uomini perché, in un caso come nell'altro, vive
la sua immersione in Dio.
Ripetiamolo: per sé non è la quantità di preghiera a decidere della
santità, come non è la quantità dell'azione, ma il grado di intensità della
fede, speranza e carità, grado subordinato alla volontà di Dio regola
suprema del nostro pregare ed agire. Quando la volontà di Dio chiama
alla preghiera bisogna pregare, quando chiama all'azione bisogna agire.

15 Pages 141-150

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15.1 Page 141

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Capitolo VIII
DONI SUPERIORI
Parlare della vita mistica di Don Bosco è impresa estremamente
ardua che supera i limiti di questo lavoro. Ci limitiamo a qualche breve
timida suggestione che speriamo non inutile, anche se, per certi aspetti,
discutibile.
Estasi dell'azione
Nel suo Trattato dell'amor di Dio S. Francesco di Sales riprende la
distinzione classica delle tre estasi: «Le estasi sacre sono di tre specie:
una intellettiva, l'altra affettiva, la terza operativa. La prima è luce, la
seconda fervore, la terza azione; la prima è fatta di ammirazione, la
seconda di devozione, la terza di opere». Le prime due non hanno la
solidità della terza perché possono essere contraffatte e riuscire devianti.
«Quando si vede una persona la quale nell'orazione ha rapimenti
per i quali ella esce e sale al di sopra di se stessa in Dio e tuttavia non
ha affatto l'estasi della vita, cioè non fa una vita elevata ed attaccata a
Dio[...], è un vero contrassegno che tali rapimenti e tali estasi non sono
altro che ironie e inganni dello spirito maligno».
Purtroppo il Santo non si diffonde nella spiegazione dell'«estasi del-
1'azione», ma esprime chiaramente il suo pensiero in questa descrizione
che è ritenuta classica. Leggiamola tenendo l'occhio fisso a Don Bosco.
«Non rubare, non mentire, non commettere lussuria, pregare Dio,
non giurare vanamente, amare e onorare il padre e la madre, non ucci-
dere, ciò è vivere secondo la ragione naturale dell'uomo; ma lasciare
tutti i propri beni, amare la povertà, cercarla, s~arla come l'amica del
cuore, considerare gli insulti, i disprezzi, le umiliazioni, le persecuzioni,
il martirio, come felicità e beatitudine, contenersi entro i limiti della più
assoluta castità e, finalmente, vivere nel mondo in questa esistenza mor-
tale contro tutte le opinioni e massime del mondo e contro la corrente
di questa vita, con incessante rassegnazione, rinunzia e abnegazione di
noi stessi, questo non è vivere umanamente, ma sovrumanamente; non è
vivere in noi, ma fuori di noi e al di sopra di noi: e poiché nessuno può
uscire in tal modo al di sopra di se stesso se l'Eterno Padre non lo sol-

15.2 Page 142

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140 Parte Il: Dimensioni essenziali
leva, di conseguenza questa specie di vita deve essere un rapimento con-
tinuo ed una perpetua estasi di azione e di operazione. "Voi siete morti
- diceva il grande Apostolo ai Colossesi (Col 3,3) - e la vostra vita è
nascosta con Gesù Cristo in Dio"».
Come si vede «l'estasi dell'azione» o «della vita» non è che l'esi-
stenza cristiana perfettamente conforme alla legge evangelica; la carità
vissuta nella sua pienezza; il supremo distacco da se stessi ed il pieno
assorbimento in Dio; la vita che, per virtù divina, viene elevata sopra se
stessa e vissuta nella massima perfezione possibile, molto più in là di
quanto non faccia il cristiano comune.
La voce «estasi dell'azione» non si trova nel vocabolario di Don
Bosco. È dubbio che l'abbia incontrata; e se l'ha incontrata essa non ha
lasciato traccia nella sua mente. Il nome di S. Francesco non compare
nell'elenco degli autori da lui letti in seminario; se e quanto abbia letto
di lui nel Convitto non è dato sapere. Non troviamo la parola, troviamo
però la cosa. La descrizione del Vescovo di Ginevra dell'«estasi dell'a-
zione» trova infatti piena aderenza nella sua vita. È notevole che due dei
suoi successori, Don F. Rinaldi e Don E. Viganò, abbiano visto in que-
sta dottrina di S. Francesco di Sales una espressione tipica della «spi-
ritualità di Don Bosco».
Sia perché la carità pastorale, che lo anima, lo porta continuamente
ad «uscire da sé» e ad identificarsi con l'amore salvifico del Redentore;
sia perché la sua vita intera è realmente l'espressione fedele di quanto
afferma S. Francesco di Sales sull'estasi dell'azione. Che cosa è infatti
quella sua eroica abnegazione, quel continuo dominio delle sue passioni,
quella sua radicale adesione e sequela di Cristo casto, umile, povero;
quel suo lento consumarsi nel lavoro per salvare anime; quella sua
costante ricerca della volontà e della gloria di Dio, se non quella vita
«sovrumana» ed «estatica» alla quale il Padre solleva le anime che pre-
dilige, perché vivono «tutte assorte e come assorbite in Dio?» Questa
«estasi della vita», per sé, non comporta manifestazioni estatiche delle
quali la vita di Don Bosco non è, 'tuttavia, del tutto esente.
Fenomeni estatici
Si caratterizzano per un forte assorbimento in Dio e per la sospen-
sione, più o meno lunga, più o meno intensa, dei sensi esterni divenuti
come impotenti di &onte all'irrompere del divino. La forte fibra di Don
Bosco lo portava a dominare il fuoco dell'amore che gli ardeva dentro
ed a non lasciar trapelare al di fuori i suoi sentimenti.

15.3 Page 143

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Cap. VIII: Doni superiori 141
Ma negli ultimi anni, come risulta da testimonianze attendibili,
anche egli sperimentò quei fenomeni estatici che di solito accompa-
gnano i gradi più elevati della preghiera. Si potevano intravvedere in
momenti di profondissimo raccoglimento. «Quando - depone Don
Cerruti al processo informativo - e il male di capo e il petto affranto
e gli occhi semispenti non gli perm~ttevano più affatto di occuparsi, era
doloroso e confortante spettacolo vederlo passare le lunghe ore seduto
nel suo povero sofà, in luogo talvolta semioscuro, perché i suoi occhi
non pativano il lume, pure sempre tranquillo e sorridente, con la sua
corona in mano, le labbra che articolavano giaculatorie e le mani che si
alzavano di tratto in tratto a manifestare nel loro muto linguaggio quella
unione e intera conformità alla volontà di Dio, che per troppa stan-
chezza non poteva più esternare con parole. Sono intimamente persuaso
che la sua vita, negli ultimi anni soprattutto, fu una preghiera continua
a Dio».
Momenti di vera e propria estasi coglievano Don Bosco, quando
celebrava la santa messa o mentre si trovava solo nella quiete della sua
stanza. Nell'inverno del 1878 i due giovani che gli servivano la santa
messa nella cappella presso la sua camera all'elevazione «videro - leg-
giamo nelle Memorie Biografiche - il celebrante estatico e con aria di
paradiso sul volto: sembrava che rischiarasse tutta la cappellina. Quindi
a poco a poco i suoi piedi si staccarono dalla predella ed egli rimase
sospeso in aria per ben dieci minuti. I due servienti non arrivavano ad
alzargli la pianeta. Garrone [uno dei due] fuori di sé dallo stupore corse
a chiamare Don Berto, ma non lo trovò; ritornando arrivò mentre Don
Bosco discendeva».
A volte il suo corpo si trasfigurava e diventava luminoso, come si
legge di molti santi. Don Lemoyne per tre sere sul tardi vide la faccia
di Don Bosco accendersi gradatamente fino ad assumere una traspa-
renza luminosa: tutto il volto mandava uno splendore forte e traspa-
rente.
Come si diceva, questi fenomeni paramistici accompagnano, di soli-
to, lo stato mistico, la contemplazione infusa. Ebbe Don Bosco questo
dono, cioè «il sentimento di entrare, non in virtù di uno sforzo, ma di
un appello, in contatto immediato, senza immagine, senza discorso, ma
non senza luce, con una Bontà infinita?» (Leonzio di Grandmaison).
Non è facile rispondere con un sl o con un no sbrigativi data l'as-
senza pressoché totale, da parte di Don Bosco, della descrizione dei suoi
stati interiori. E. Ceria lo crede e cerca di provarlo nel capitolo del suo
Don Bosco con Dio che ha per titolo: «Dono d'orazione». A sua volta P.

15.4 Page 144

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142 Parte Il: Dimensioni essenziali
Stella, benché più sfumato e reticente, giunge alla stessa conclusione
quando scrive: «Se Don Bosco non ci confida le sue personali espe-
rienze di "raccoglimento" e di stato unitivo e presenziale, se anche non
ci dà una teoria sulla orazione unitiva e sulla contemplazione, nondi-
meno ci si dimostra disposto a spiegare come unione e come presenza
amorosa certi stati di vita spirituale riscontrati in persone con le quali
convisse». Pensiamo, ad esempio, a S. Domenico Savio dotato di «gra-
zie» che Don Bosco non esita a definire «speciali» e di fatti «straordi-
nari» che hanno «piena somiglianza con fatti registrati nella Bibbia e
nella vita dei santi». Don Bosco li associa alle grazie mistiche quando
afferma: «L'innocenza della vita, l'amore verso Dio, il desiderio delle
cose celesti avevano portato la mente di Domenico a tale stato che si
poteva dire abitualmente assorto in Dio». Ciò che qui si dice del disce-
polo vale, con più ragione, del maestro.
Mistico dell'azione
Nella sua attività multiforme Don Bosco è stato un mistico nel senso
forte della parola? La mistica ha una lunga storia e non trova definizioni
sempre univoche. Oggettivamente designa la realtà occulta del mistero
cristiano; soggettivamente indica l'esperienza, totalmente gratuita ed
infusa, della vita divina che è in noi.
Tradizionalmente la vita mistica culmina nella grazia della preghiera
infusa, o contemplazione in senso stretto. Si riconosce tuttavia che la
tipologia della vita mistica è più estesa. Si parla infatti anche di «mistica
apostolica», «meno conosciuta in quanto i mistici "apostolici" non
hanno fatto la teologia della loro vita interiore. È tesa verso l'azione e
la percezione della presenza di Dio nel mondo storico» (Ch. Bemard).
In questo senso preciso e formale diciamo che Don Bosco è un mistico,
perché la sua vita trascorse sotto il regime abituale dei doni dello Spirito
Santo: è un mistico dell'azione apostolica, perché i doni dello Spirito
Santo che prendono il sopravvento in lui sono quelli ordinati all'azione:
dono del consiglio, della fortezza, della pietà e del timor di Dio. Il «pre-
valere» di questi doni sugli altri, che non sono esclusi, significa solo che
la grazia si adatta alla natura, ne rispetta il temperamento e le vocazioni.
A differenza del mistico contemplativo, intellettivo o affettivo, che si
perde in Dio presente nell'intimo della sua anima e sperimenta l'agire
divino, Don Bosco, mistico attivo, coglie e sperimenta Dio, non solo in
certi momenti della preghiera esplicita, ma nell'esercizio stesso dell'a-

15.5 Page 145

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Cap. VTII: Doni superiori 143
zione apostolica, caritativa, umanizzante; lo tocca e lo sente mentre par-
tecipa e collabora all'attuazione del suo disegno salvifico.
Don Bosco sa che la redenzione è un avvenimento in corso: Dio è
all'opera, ad ogni istante, nel cuore dell'uomo e della storia: l'umanità
vive nell'oggi di Dio. Questa realtà è non solo creduta da lui, ma inten-
samente sperimentata e vissuta. Quello che i mistici chiamano i «tocchi»
divini, le «visite» del Verbo, che va e viene, per Don Bosco sono le
grandi prospettive, i lampi improvvisi che lo illuminano sul divenire del
Regno e lo impegnano in imprese sempre più grandi, umanamente
impossibili.
Perché mistico - cioè frutto del prevalere dell'azione divina - , l'a-
gire di Don Bosco trascende le forze e le capacità della sua persona. Le
sue opere sbalordiscono il mondo e confondono i sapienti perché non
c'è rapporto apparente tra causa ed effetto; Don Bosco, mosso epos-
seduto da Dio, va oltre l'umano.
In lui c'è l'audacia e l'ardire del Santo che, forte della forza di Dio,
supera se stesso. Come Gesù trasalisce di gioia nella preghiera del giu-
bilo, cosl Don Bosco vibra di consolazione mistica quando contempla
Dio all'opera nel cuore dei giovani e del mondo.
Abbiamo visto con quanta umiltà egli viva la consapevolezza di non
essere che lo strumento passivo-attivo nelle mani ·di Dio e della Madre
sua: «Dio fa tutto; la Madonna fa tutto». Che cosa «poteva fare il
povero Don Bosco se dal cielo non veniva, ogni momento, qualche aiuto
speciale?»
Queste e simili espressioni sono come lo spaccato della sua grande
anima: dicono molto più di quanto lascino intravedere nella loro bona-
ria semplicità.
La mistica dell'azione passa, naturalmente, per la via dolorosa; vive
di carità crocifissa, conosce le «notti dei sensi e dello spirito».

15.6 Page 146

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CONCLUSIONE
Ciò che non lascia di sorprendere in Don Bosco è che la compene-
trazione del divino sia avvenuta in una esistenza contrassegnata più dal-
1'azione che dall'orazione esplicita.
Un'azione, però, che non si smarrisce nell'alienazione dell'efficienti-
smo ed orizzontalismo, perché ha Dio come principio, contenuto e fine
e che nelle mani di Don Bosco diventa «scala paradisi», scala mistica per
le ascensioni divine.
In Don Bosco il cristiano del nostro tempo si riconosce volentieri,
come volentieri si riconosce in S. Francesco di Assisi, in Sant'Ignazio,
negli altri giganti della santità.
Michele Baumgarten, come riferisce W. Nigg, ha scritto: «Vi sono
epoche in cui discorsi e scritti non bastano più a rendere generalmente
comprensibile la verità necessaria. In tempi simili le azioni e le soffe-
renze dei santi devono creare un nuovo alfabeto per svelare nuovamente
il segreto della verità. Il presente è un tale tempo».
L'alfabeto creato da Don Bosco, ne siamo convinti, è senza dubbio
un segnale ed un messaggio valido per l'uomo del nostro tempo.

15.7 Page 147

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NOTA BIBLIOGRAFICA
Bosco G., Memorie dell'Oratorio di S. Francesco di Sales. Dal 1815 al 1855,
Torino, SEI, 1946.
- , Opere e scritti editi e inediti di Don Bosco nuovamente pubblicati e riveduti
secondo le edizioni originali e manoscritti superstiti, 6 vol., Torino, SEI, 1929-
1965: introdotti e commentati da A. CAVIGLIA.
- , Scritti sul sistema preventivo nell'educazione della gioventù, Brescia, La
Scuola, 1965: introduzione, presentazione e indici alfabetico e sistematico a
cura di P. BRAIDO.
- , Scritti spirituali, 2 vol., Roma, Città Nuova, 1976: introduzione, scelta dei
testi e note a cura di J. AUBRY.
- , Opere edite. Prima serie: Libri e opuscoli, 37 vol., Roma, LAS, 1976-1977:
ristampa anastatica completa di tutte le prime edizioni.
BONETII G. [a cura], Cinque lustri di storia dell'Oratorio Salesiano fondato dal
Sacerdote Don Giovanni Bosco, Torino, Tipografia Salesiana, 1892.
CERIA E. [a cura], Epistolario di S. Giovanni Bosco, 4 vol., Torino, SEI, 1955-
1959.
LEMOYNE G.B., Memorie biografiche di Don Giovanni Bosco [poi: ... del Vene-
rabile (Servo di Dio) Don Giovanni Bosco], vol. 1-9, S. Benigno Canavese
(Torino), 1898-1917.
LEMOYNE G.B. - AMADEI A., Memorie biografiche di San Giovanni Bosco, vol.
10, Torino, 1939.
CERIA E., Memorie biografiche del Beato [poi: di San] Giovanni Bosco, vol. 11-
19, Torino 1930-1939: in edizione extra-commerciale, con un volume di
indici, Torino, s.d.
AUBRY J., Rinnovare la nostra vita salesiana, 2 vol., Leumann (Torino), LDC,
1981.
Bosco T., Don Bosco, Leumann (Torino), LDC, 1981.
BRAIDO P., Il sistema preventivo di Don Bosco, Ziirich, PAS-Verlag, 21964.
- , L'esperienza pedagogica preventiva nel sec. XIX. - Don Bosco, in: BRAIDO P.
[a cura], Esperienze di pedagogia cristiana nella storia, vol. 2 (Roma, LAS,
1981) 271-400.
CASTANO L., Santità salesiana, Torino, SEI, 1966.
CAVIGLIA A., Don Bosco: profilo storico, Torino, SEI, 21934.
CERIA E., Don Bosco con Dio, Colle Don Bosco (Asti), LDC, 31952.
COLLI C., Nel mondo con Dio, Roma, ed. Cooperatori Salesiani, 1975.
- , Pedagogia spirituale di Don Bosco e spirito salesiano, Roma, LAS, 1982.
DESRAMAUT F., Don Bosco e la vita spirituale, Leumann (Torino), LDC, 1970:
traduzione dal francese (Paris, Beauchesne, 1967).

15.8 Page 148

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146 Nota Bibliografica
FARINA R, Leggere Don Bosco oggi, in: BROCARDO P. [a cura ], La formazione
permanente interpella gli Istituti religiosi (Leumann [Torino], LDC, 1976)
349-404.
STELLA P., Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, voi. 1: Vz~a e opere,
Roma, LAS, 21979; vol. 2: Mentalità religiosa e spiritualità, Roma, LAS,
2 1981.
- , Don Bosco nella storia economica e sociale (1815-1870), Roma, LAS, 1980.
VALENTINI E., La spiritualità di Don Bosco, in: Salesianum 14 (1952) 129-152.
- , Mons. Costamagna. Scritti di vita e di spiritualità salesiana, Roma, LAS,
1979.
VIGANO E., Non secondo la carne, ma nello Spirito, Roma, FMA, 1978.
- , La vita interiore di Don Bosco, Roma, SDB, 1981.
- , Un progetto evangelico di vita attiva, Leumann (Torino), LDC, 1982.

15.9 Page 149

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INDICE
Presentazione ...........................................................................................
5
Sommario................................................................................................
6
Premessa..................................................................................................
7
INTRODUZIONE .................................................................................
8
Santo da cinquant'anni ...................................................................
8
La seconda vita di Don Bosco .......................................................
9
Figura rappresentativa della «Scuola della santità torinese» ........
11
Memoria e profezia .........................................................................
13
Santo attivo ..................................................................................... 14
L'asse della vitalità spirituale .....................................:....................
14
Santo di sempre ..............................................................................
15
Parte Prima: LINEAMENTI ..................................................................
17
Capitolo I: La fatica di farsi santo .........................................................
19
Non era un temperamento facile ...................................................
19
Cammino in salita ........................................................................... 21
Costa anche a me ............................................................................ 28
Capitolo Il: Profondamente uomo ..........................................................
30
Volontà indomita ma flessibile ....................................................... 31
Paternità amabile ed esigente ......................................................... 33
Sensibile e forte ..............................................................................
36
Capitolo III: Pienamente santo ..............................................................
39
Santità nascosta ...............................................................................
39
Santità manifesta ............................................................................. 42
Capitolo IV: Taumaturgo che non fa paura...........................................
45
Straordinario di più mite splendore ............................................... 45
Valutazione corretta ........................................................................
48
..
Capitolo V: Un santo fondatore.............................................................
50
La vocazione .................................................................................... 50
I giovani del sogno .........................................................................
52

15.10 Page 150

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148 Indice
Oscurità luminosa ........................................................................... 55
Avevo un'altra idea della Congregazione....................................... 58
Capitolo VI: Santo furbo ........................................................................ 61
Fare il bonomo senza esserlo ......................................................... 61
Non si lasciava ingannare ............................................................... 63
Furbizie innocenti ........................................................................... 63
Capitolo VII: Santo allegro ..................................................................... 65
Undicesimo comandamento............................................................ 66
L'allegria: cammino di santità ........................................................ 69
Capitolo VIII: Santo con qualche ombra? .............................................. 72
Qualche piccola imperfezione ........................................................ 72
Iperbole propagandistica ................................................................ 75
Parte Seconda: DIMENSIONI ESSENZIALI ....................................... 79
Capitolo I: La mistica del «Da mihi animas» ....................................... 81
Sempre prete, tutto prete ............................................................... 81
L'idea unificatrice ............................................................................ 83
Capitolo II: Il lavoro colossale ............................................................... 88
L'attività incessante ......................................................................... 88
La «scala mistica» del lavoro ..............................-........................... 89
Le affermazioni ............................................................................... 91
La testimonianza ............................................................................. 93
Capitolo ID: La vita di preghiera ........................................................... 96
Don Bosco «uomo di preghiera»................................................... 98
Le «preghiere brevi» ............................................:......................... 102
Preghiera-atteggiamento .................................................................. 103
Capitolo IV: L'ascesi della temperanza e della mortificazione ............... 107
Temperanza ..................................................................................... 108
Sobrietà e continenza...................................................................... 110
Mortificazione .........................................°'"....................................... 113
Capitolo V: Lavoro a due....................................................................... 117
Ausiliatrice, presenza viva............................................................... 119
Attualità del culto di Maria Ausiliatrice ........................................ 119

16 Pages 151-160

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16.1 Page 151

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Indice 149
Maria si è edificata la sua casa....................................................... 121
Il quadro ideato da Don Bosco ..................................................... 123
Oh! Madre, Madre! ........................................................................ 123
Capitolo VI: Lavorare «con fede, speranza e carità» ............................. 125
Lavorare con fede ........................................................................... 126
Lavorare con speranza .................................................................... 127
Lavorare con carità ......................................................................... 129
Capitolo VII: L'azione «luogo di incontro» spirituale con Dio ............. 132
Unione attraverso le attività apostoliche ........................................ 132
Le attività caritative ................................................................'........ 133
L'unione tramite le «attività profane» ........................................... 134
Capitolo VIlI: Doni superiori................................................................. 139
Estasi dell'azione ............................................................................. 139
Fenomeni estatici ............................................................................ 140
Mistico dell'azione .......................................................................... 142
CONCLUSIONE ...............................................;..:................................. 144
Nota Bibliografica .................................................................................... 145

16.2 Page 152

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STUDI DI SPIRITUALITÀ
a cura dell'Istituto di Spiritualità della Facoltà di Teologla dell'UPS
1. Aubry J. • Mldall M. (a cura), Fedeltà e rinnovamento. Studi sulle Costituzioni
Salesiane (1874-1974), pp. 294, L. 10.000
2. Bemard Ch., La preghiera cristiana, pp. 148. L. 6.000
3. Mldall M. (a cura), Spiritualità dell'azione. Contributo per un approfondimento,
pp. 304, L. 13.000
4. Picca J. - Strus J. (a cura), San Francesco di Sales e i Salesiani di Don Bosco,
pp. 342, L. 25.000
5. Brocardo P., Don Bosco: profondamente uomo - profondamente santo, pp. 150,
L. 10.000
6. Favale A., Spiritualità del ministero presbiterale, pp. 176, L. 12.500
CSDB D STUDI STORICI
1. Caselle S., Cascinali e contadini in Monferrato. I Bosco di Chieri nel sec. XVIII,
pp. 120 + 26 tav. f.t., L 7.000
2. Stella P., Gli scritti a stampa di S. Giovanni Bosco, pp. 176, L. 7.000
3. Stella P., Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, voi. I: Vrta e opere,
pp. 304, L 15.000 (:28 edizione)
4. Stella P., Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, voi. li: Mentalità reli-
giosa e spiritualità, pp. 586, L. 25.000 (2• edizione)
6. Braldo P., L'inedito «Breve catechismo pei fanciulli ad uso della Diocesi di Tori-
no» di Don Bosco, pp. 80, L. 4.500
7. Albertazzl A. (a cura), Card. Svampa D., Lettere al fratello (1884-1907), pp. 80
+ 648 e 16 tav. f.t., L. 37.500
8. Stella P., Don Bosco nella storia economica e sociale (1815-1870), pp. 654 +
16 tav. f.t., L. 28.000
9. Semeraro C., Restaurazione. Chiesa e Società. La «Seconda Ricupera» e la
rinascita degli ordini religiosi nello Stato Pontificio (Marche e Legazioni 1815-
1823), pp. 504, L. 30.000
ISS D FONTI
1. Bosco G., Costituzioni della Società di S. Francesco di Sales (1858)-1875. Testi
critici a cura di F. Motto SDB, pp. 272, L. 30.000 (in-folio)
2. Bosco G., Costituzioni per l'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice (1878-1885).
Testi critici a cura di C. Romero FMA, pp. 358 + 16 tav. f.t., L. 20.000
ISS D PICCOLA BIBLIOTECA
1. Motto F., I «Ricordi confidenziali ai direttori» di Don Bosco, pp. 48, L 3.000
2. Borrego J., Recuerdos de San Juan Bosco a los primeros misioneros, pp. 44,
L. 3.000
3. Braldo P., La Lettera di Don Bosco da Roma del 10 maggio 1884, pp. 86,
L. 5.000
4. Motto F., Memorie dal 1841 al 1844-5-6 pel Sac. Gio. Bosco [Testamento spi-
rituale], pp. 64, L 5.000
5. Bosco G. (s.), Il sistema preventivo nella educazione della gioventù. Introdu-
zione e testi critici a cura di P. Braido, pp. 170, L. 10.000

16.3 Page 153

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ISS D STUDI
1. Verbeek L., Les Salésiens de l'Afrique Centrale. Bibliographie 1911-1980,
pp. 142, L. 10.000
2. Mollna M.J., Arqueologia ecuatoriana. Los Caflaris. Provincias de Caflar y
Azuay, In stampa
3. Desramaut F., L'orphelinat Jésus-Adolescent de Nazareth en Galilée: au temps
des Turcs, puis des Anglais (1896-1948), pp. 318 + 16 di tav. f.t, L. 30.000
4. Verbeek L., Ombres et clairiéres. Histoire de l'implantation de l'Église catholique
dans le diocèse de Sakania, Zaire (1910-1970), In stampa
SPIRITO E VITA
1. Bertetto D., Spiritualità salesiana. Meditazioni per tutti i giorni dell'anno,
pp. 1168, L. 20.000
2. Valentlnl E. (a cura), Don Nazareno Camilleri. Un maestro di vita spirituale,
pp. 304, L. 10.000
3. Valentlnl E., Don Nazareno Camilleri nel suo «diario intimo», esaurito
4. Valentlnl E. (a cura), Madre Teresa del Sacro Cuore (1856-1950), Fondatrice
delle Religiose Riparatrici del S. Cuore di Lima. Scritti autobiografici. Volume
Primo (1856-1895), pp. 168, L 4.000
5. Valentlnl E. (a cura), Mons. Costamagna G., Scritti di vita e di spiritualità sale-
siana, pp. 208, L. 8.000
6. Valentlnl E., Don Giuseppe Quadrio, modello di spirito sacerdotale, pp. 292,
L. 10.000
7. Glannatelll R. (a cura), Progettare l'educazione oggi con Don Bosco, pp. 344,
L. 10.500
8. Cerrato N., Car ij mè fieuj (miei cari figlioli). Il dialetto piemontese nella vita e
negli scritti di Don Bosco, pp. 196, L. 8.000
9. Colli C., Pedagogia spirituale di Don Bosco e spirito salesiano. Abbozzo di sin-
tesi, pp. 204, L. 10.000
1O. Caputa G. (a cura), Con le mani e il cuore di Don Bosco... Discorsi di Papa
Montini alla Famiglia Salesiana (1955-1978), pp. 220, L 8.000
11. Mldall M. (a cura), Costruire insieme la Famiglia Salesiana. Atti del Simposio di
Roma (19-22 febbraio 1982), pp. 512, L. 12.500
12. AA.W., Martirio e spiritualità apostolica, pp. 82, L. 3.500
13. Laconl F., Le acque di San Girolamo. Un sacerdote in Barbagia, pp. 340,
L. 12.500
14. Cerrato N., Don Bosco e le virtù della sua gente, pp. 138, L. 10.000
EDITRICE LAS - Piazza Ateneo Salesiano, 1 - 00139 ROMA - Tel. 06/8132140

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