I PARTE


I PARTE

Aldo Giraudo

Giuseppe Biancardi





QUI È VISSUTO DON BOSCO


Itinerari storico-geografici

e spirituali


Presentazione





Questo testo è uscito in prima edizione nel 1988, nel quadro delle molteplici iniziative messe in atto dalla Famiglia Salesiana per celebrare il centenario della morte di don Bosco.

Quindici anni dopo viene riproposto, opportunamente aggiornato, alla vigilia delle celebrazioni che vogliono ricordare il cinquantesimo della canonizzazione del giovane Domenico Savio, il frutto più riuscito di tutta l’azione educativa messa in atto dal Santo dei giovani.

Aggiornato, corretto e integrato su alcuni punti, il testo non ha tuttavia mutato la sua natura e il suo scopo.

Si tratta sempre di una guida ai luoghi che hanno visto lo svolgersi della splendida avventura umana e cristiana di don Bosco. Non vuole essere un semplice manuale turistico, quanto piuttosto un sussidio che, partendo dal contesto storico-geografico, cerca di aiutare a cogliere quel messaggio spirituale e pedagogico scaturito dall'esperienza del Santo che ha un valore perenne ed universale.

Per questo motivo, insieme alle notizie storiche e biografiche rela­tive alle diverse località, vengono riportati brani che illustrano episodi particolarmente significativi avvenuti in quegli stessi ambienti. Le scelte di don Bosco, i valori ispiratori, le indicazioni spirituali ed educative e le sue realizzazioni acquistano così una singolare forza evocativa. Per quanto possibile, si è lasciato parlare don Bosco in prima persona, attin­gendo di preferenza alle autobiografiche Memorie dell'Oratorio e ad altri suoi scritti; spesso si sono utilizzate anche le Memorie biografiche, com­pilate da G. B. Lemoyne, A. Amadei ed E. Ceria.


La guida è suddivisa in 4 parti, corrispondenti a momenti diversi della vita di san Giovanni Bosco:


1. Gli anni dell'infanzia, della fanciullezza e della prima adole­scenza che si snodano intorno al Colle natale dei Becchi (1815-1831).


2. Il periodo degli studi in Chieri, nella scuola pubblica prima e nel seminario poi: è il tempo dell'adolescenza e della giovinezza, durante il quale Giovanni Bosco compie le scelte fondamentali della sua vita (1831-1841).


3. I primi otto anni di sacerdozio, nei quali il giovane prete com­pleta la sua formazione pastorale al Convitto Ecclesiastico e dà ini­zio, tra difficoltà e problemi, al suo apostolato tra i giovani (1841-1849).


4. Gli anni della maturità, che hanno come epicentro Valdocco: qua­rant'anni che vedono il prodigioso esplicarsi del progetto operativo di don Bosco da un raggio locale ad una dimensione mondiale. L'Orato­rio di Valdocco diventa la fucina delle attività educative, scolasti­che, editoriali del Santo. Qui egli fonda le sue famiglie religiose e le associazioni laicali di impegno socio-apostolico; di qui parte il grande impegno missionario a favore di tutta la Chiesa e della socie­tà umana (1850-1888).


Le singole parti sono strutturate in modo uniforme:


* Si presenta anzitutto il significato che i vari periodi e i deter­minati luoghi hanno avuto nel quadro globale della vita di don Bosco e si evidenziano gli insegnamenti, i richiami di ordine spirituale e pedagogico ancor oggi particolarmente fecondi: Significato e testimonianza.


* Vengono poi richiamate alcune notizie generali di indole storico-geografica ed informazioni sulla biografia di don Bosco utili a meglio in­quadrare la visita dei luoghi: Note storico-geografiche e biografiche. Una Tavola cronologica riassuntiva schematizza date ed eventi salienti. Ad es­sa fa seguito la proposta di itinerari diversi, a partire dal tipo di grup­po che compie la visita e dagli obiettivi perseguiti: Itinerari e suggeri­menti.


* Segue la guida propriamente detta per la visita di località ed am­bienti, corredata dai brani cui si è accennato: Visita ai luoghi.


Per motivi di contiguità geografica e, più ancora, di affinità spiri­tuale con don Bosco, il manuale presenta anche gli ambienti legati alla fi­gura di san Domenico Savio.


Come si può facilmente constatare l'opera non sostituisce, anzi pre­suppone la lettura di una buona biografia del Santo, della quale vuol esse­re un semplice complemento.


Ci auguriamo che questo sussidio possa risultare di aiuto per la visita dei luoghi che hanno visto l’origine e lo sviluppo del carisma salesiano, e insieme offra un appoggio all'impegno di quanti svolgono un servizio educativo e pastorale alla scuola di don Bosco. A tutti viene presentato in spirito di fraterno servizio.


Abbreviazioni



DS = G. Bosco, Vita del giovanetto Savio Domenico allievo dell’Oratorio di san Francesco di Sales, Torino, Tip. G.B. Paravia e Comp. 1859.


MB = G.B. Lemoyne, Memorie biografiche di Don Giovanni Bosco, poi: Memorie biografiche del Venerabile Servo di Dio Don Giovanni Bosco, voll. 1-9, S. Benigno Canavese - Torino 1898-1917; G.B. Lemoyne - A. Amadei, Memorie biografiche di San Giovanni Bosco, vol. 10, Torino 1939; E. Ceria, Memorie biografiche del Beato Giovanni Bosco, voll. 11-15, To­rino 1930-1934; Id., Memorie biografiche di San Giovanni Bosco, voll. 16-19, Torino 1935-1939.


MO = G. Bosco, Memorie dell'Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855. Introduzione, note e testo critico a cura di A. da Silva Ferriera, Roma, LAS 1991.


ODB = F. Giraudi, L'Oratorio di Don Bosco. Inizio e progressivo sviluppo edilizio della casa madre dei Salesiani in Torino, Torino, SEI 19352.


OE = G. Bosco, Opere edite, ristampa anastatica, voll. 37, Roma, LAS 1976-1977.



RSS = “Ricerche Storiche Salesiane”. Rivista semestrale di storia religiosa e civile a cura dell'Istituto Storico Salesiano di Roma. Edita dalla LAS a partire dal 1982.


SM = G.B. Lemoyne, Scene morali di famiglia esposte nella vita di Margherita Bosco. Racconto ameno ed edificante, Torino, Libreria Salesiana 1886.


Altri testi, riportati sporadicamente, vengono citati per esteso di volta in volta.


Bibliografia


Oltre ai testi sopra citati abbiamo consultato:


P. Baricco, Torino descritta, Torino, G.B. Paravia 1869.


G. Bracco (Ed.), Torino e don Bosco, Torino, Archivio Storico della Città 1989.


P. Braido, Don Bosco prete dei giovani nel secolo delle libertà, voll. 2, Roma, LAS 20032.


G. Casalis, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna, voll. 21, Torino, G. Maspero – G. Marzorati 1851.


S. Caselle, Cascinali e contadini in Monferrato. I Bosco di Chieri nel secolo XVIII, Roma, LAS 1975.


Id., Giovanni Bosco a Chieri. 1831-41: dieci anni che valgono una vita, Torino, Acclaim 1988.


F. Giraudi, Il Santuario di Maria Ausiliatrice. Chiesa madre dei Salesiani di Don Bosco in Torino, Torino, SEI 1948.


A. Giraudo, Clero, seminario e società. Aspetti della Restaurazione religiosa a Torino, Roma, LAS 1993.


M. Molineris, Don Bosco inedito. Quello che le biografie di San Giovanni Bosco non dicono, Colle Don Bsco 1974.


Id., Nuova vita di Domenico Savio, Colle Don Bosco 1974.


E. Pederzani – R. Roccia, Don Bosco a Valsalice. Un contributo per il centenario, a cura del Liceo Valsalice, Torino 1987.


P. Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, voll. 3, Roma, LAS 1979, 1981, 1988.


Id., Don Bosco nella storia economica e sociale, Roma, LAS 1980.


A. Viriglio, Torino e i torinesi. Minuzie e memorie, Torino, A. Viglongo e C. Ed. 19803.








I BECCHI, CASTELNUOVO

E DINTORNI


(1815-1831)








1 Gli anni dall'infanzia alla prima adolescenza

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1. SIGNIFICATO E TESTIMONIANZA



2 1.1. Dall'infanzia alla prima adolescenza

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Nel territorio di Castelnuovo, tra i Becchi, Morialdo, Ca­priglio e Moncucco, Giovanni Bosco trascorre gli anni dell'in­fanzia, della fanciullezza e della prima adolescenza. Il dato umano nativo, ricco di potenzialità, viene plasmato e modellato sotto l'influsso del clima familiare, dell'intensa religiosità che impregna ambiente e avvenimenti, della mentalità contadina con la sua cultura, i ritmi delle stagioni, le dure esigenze del lavoro, ma anche i caldi contatti umani, la tendenza a con­cretizzare valori e ideali. Giovannino reagisce felicemente, favorito da un'indole molto positiva.

Dalla ricostruzione autobiografica operata nelle Memorie dell’Oratorio (composte tra 1873 e 1875) costatiamo come don Bosco tenda ad attribuire a questi primi quindici anni della sua vita un’importanza determinante. In essi vengono poste le ba­si della personalità umana e cristiana, delle scelte di fondo e della sua spiritualità. Ma, a suo parere, in questi anni si verificano anche incontri ed esperienze che avranno un influsso importante sulla sua vocazione e missione. Ci saranno altri apporti determinanti nella giovinezza e nella prima maturità; qui, però egli intravede, sia sotto il profilo spirituale che pedagogico, l’inizio provvidenziale di un’avventura voluta da Dio e da lui costantemente accompagnata fino alla piena realizzazione. È quindi estremamen­te interessante a­nalizzare i primi passi della sua vita, per scoprire valori, principi di metodo educativo e rapporti affettivi che, nella interpretazione del Santo, coopera­rono alla costruzione della sua personalità.

Gli anni dell'infanzia e della fanciullezza di Giovanni furono innegabilmente duri, segnati dalle difficoltà e dalla fatica, ma non risultarono anni infelici. Anzi, la serenità, la capacità d'affrontare le difficoltà con atteggiamento positivo e combattivo, la gioia, ne sono dimensioni dominanti.


Un ruolo determinante nella formazione della mentalità e de­gli atteggiamenti lo ha innegabilmente la madre, Margherita Oc­chiena (1788-1856). Alla morte del marito Francesco ella, ventinovenne, si trova ad affrontare da sola la conduzione del­la famiglia: ci sono gli impegni di mezzadria assunti preceden­temente da portare a termine, in un momento e­stremamente critico per la grande carestia che si è abbattuta sul Piemonte; c'è poi il problema del mantenimento dei figli e quello, sentito come più importante, della loro educazione e formazione.

Le testimonianze lasciateci nelle Memorie dell'Oratorio e quelle raccolte da don Lemoyne sulle labbra di don Bo­sco, fanno emergere la figura di una donna forte, dalle idee chiare, determinata nelle scelte, con una filosofia della vita sobria ma sostanziosa, religiosamente centrata. Nel rapporto con i fi­gli risulta severa ed insieme dolce, preoccupata di motivare o­gni scelta di valore e di comportamento, in modo che sia assun­ta con criteri di giudizio autonomi. Si trova a dover crescere tre ragazzi dal temperamento molto diverso, di cui due, Antonio e Giovanni, con caratteristiche personali rimarcate e contra­stanti. Ella riesce a non livellare o mortificare alcuno. Pro­blemi economici immediati, presente e futuro dei figli, sono affrontati con estremo equilibrio. È costretta a fare scelte a volte drammatiche ed arrischiate (come l'allontanamento di Gio­vanni da casa, in un momento particolarmente difficile, e la de­cisione successiva di inviare il ragazzo alle scuole di Castel­nuovo e di Chieri, nonostante l'assoluta mancanza di garanzie economiche anche minime), ma con saggezza mista a fede e corag­gio non tentenna, assecondando le propensioni dei figli, re­sponsabilizzandoli, pur senza abbandonarli.

Sotto la sua guida Giovanni apprende, passo dopo passo, a dominare il proprio carattere negli aspetti negativi, a cana­lizzare energie, finalizzare risorse e liberare vitalità. Come egli ci testimonia, fin dai primi anni viene educato alla sobrietà, alla responsabilità della vita e si tempra alla fatica. Il lavoro intenso, assiduo, è una necessità esistenziale, ma anche un valore in cui si e­sprime e si costruisce la persona.


Caratteristica dell'attività agricola è la cura costante, quotidiana, nella paziente attesa della stagione dei frutti: diventa un fattore formativo prezioso per chi, come Giovanni, è chiamato alla missione di educatore, formatore e promotore di iniziative che richiedono costanza e tempi lunghi. Anche le ca­restie e le calamità atmosferiche o le epidemie che distruggono raccolti e bestiame risultano elementi di sfida e di stimolo. Mamma Margherita li affronta e li supera insieme con i figli, nella certezza che in natura nulla è mai irrimediabilmente per­duto; si può sempre ricominciare e i risultati prima o poi ar­riveranno, grazie soprattutto all'azione provvidente di Dio che non manca di benedire le umane fatiche.


Il senso religioso della vita, la certezza della presenza continua, attiva, di Dio nelle nostre esistenze e del suo amore esigente e responsabilizzante, sono forse i valori più preziosi che Giovanni assimila dalla madre. Se il Signore ci accompagna e ci parla, è indispensabile capire la sua presenza e discerne­re i suoi appelli. Margherita inizia i figli alla preghiera; u­na preghiera che impregna ogni azione della giornata, dal ri­sveglio alla notte, e che, insieme con gli atti di culto comu­nitario e i sacramenti, scandisce le tappe salienti dell'anno e dell'intera vita. La Madre di Dio è presente fin dall'infanzia di Giovannino, additata da Margherita come aiuto, consolazione, forza nel cammino cristiano dell'esistenza verso il paradiso.

La mamma, che pure è analfabeta, incoraggia la sete di i­struzione e di cultura del figlio, ed affronta sacrifici di o­gni genere quando s'accorge delle sue predisposizioni, della tenace volontà, dell'effettiva consistenza di una vocazione che resiste agli ostacoli, anche i più gravi. Dopo la prova di ca­scina Moglia, di fronte alla precoce maturità dell'adolescente, non ha più tentennamenti e gli offre piena fiducia ed appoggio.

È interessante evidenziare ulteriori tratti di saggezza pedagogica nella educazione impartita dalla madre. Pur richie­dendo molto dai figli in termini di lavoro e collaborazione al loro sostentamento, rispetta le esigenze dell'età infantile: approva i passatempi e le allegre riunioni di Giovanni e gli permette di industriarsi per trovare il denaro necessario ai rudimentali giochi di prestigio. Lo educa poi alla scelta ocu­lata delle amicizie, alla prudenza e alle buone maniere nel trattare con le persone, alla sensibilità e alla pietà attiva verso i poveri. Da lei Giovanni impara l'equilibrio, ma anche il coraggio nelle scelte, la perseveranza e la tenacia.


Lo spirito di solidarietà che lega le famiglie contadine e si manifesta nei momenti del bisogno, ha riflessi notevoli sul­la formazione della mentalità di don Bosco. Anche le veglie collettive delle lunghe serate invernali nelle stalle, creano in lui l'inclinazione per i contatti umani, il sapore dell'ac­cogliente amicizia, delle reciproche confidenze e lo allenano all'arte fascinosa della narrazione, al gusto della drammatiz­zazione.

Ripercorrendo questi primi anni della vita nella memoria che ne fa san Giovanni Bosco, si può constatare il suo atteggiamento positivo ed attivo che trasforma situazioni avverse e difficoltà in occasione di crescita. Povertà e continua precarietà, lavoro sotto padrone, difficoltà a frequentare la scuola e a reperire tempo per lo studio, forgiano la sua personalità, stimolano fantasia e crea­tività, consolidano e fanno amare le mete sognate. Persino l'o­stilità, comprensibile, del fratellastro Antonio lo allena alla capacità di dialogo e di adattamento; lo rende attento ai punti di vista altrui; gli induce un atteggiamento di intelligente approccio agli ostacoli, nella ricerca di vie alternative e nel temporeggiamento; stuzzica la sua ingegnosità per sfruttare al meglio le occasioni consentite in un ristretto margine di scel­ta.

L'esito umano e spirituale è notevole, anche se i risulta­ti dal punto di vista scolastico e culturale non possono che essere frammentari.


A completamento di questo itinerario, proprio sul fiorire dell'adolescenza, l'incontro e la familiarità con l'anziano don Calosso, procurano a Giovanni un'occasione preziosa di consoli­damento culturale, ma soprattutto di avvìo ad una vita spiri­tuale più cosciente. Sotto la guida del saggio sacerdote l'o­rizzonte si va schiarendo e l'anelito vocazionale diventa più concreto. Mamma Margherita, ora, nel confronto con l'esperienza e il consiglio di don Calosso, ha la conferma che le aspirazio­ni del figlio non sono frutto di velleitarie fantasie o umane ambizioni. Ella si determina con coraggio alla divisione del modesto patrimonio familiare tra i figli: un passo decisivo e abbastanza inusuale nella concezione patriarcale del tempo. Co­sì Antonio può fare la sua strada; Giuseppe, appena diciotten­ne, assume in copartecipazione la mezzadria del Sussambrino; Giovanni è libero di dedicarsi con più serenità agli studi. Per mamma Margherita, però, il lavoro tra Becchi e Sussambrino si raddoppia, come pure le preoccupazioni di indole economica.


Frequentando le scuole di Castelnuovo (1830-31) il giovane Bosco ha l'opportunità di acquisire nuove esperienze anche fuo­ri dell'ambito scolastico. Fa tesoro del tempo libero, imparan­do dal suo padrone di casa l'arte di tagliare e cucire vesti­ti; familiarizza con gli strumenti di una fucina presso il fa­bbro ferraio Evasio Savio; si cimenta nel canto e nel suono del cembalo e del violino. Il suo spirito di osservazione e la mag­gior coscienza critica raggiunta, gli permettono anche di regi­strare – coma appare dalle Memorie dell’Oratorio - elementi di metodologia didattico-pedagogica, sia nella riuscita impostazione del maestro don Emanuele Virano sia nella imperizia del successore don Moglia. Si vanno accumulando così i primi elementi di quel tesoro di esperienza, di valori e di metodo che costituiranno il sistema educativo del santo sacer­dote piemontese.



3 1.2. Valori pedagogici e spirituali emergenti

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L'ambiente familiare, sociale e religioso in cui Giovanni­no cresce e costruisce la sua identità, le persone signifi­cative che guidano i suoi primi passi e il suo atteggiamento positivo e recettivo, ci propongono una serie di spunti di ca­rattere pedagogico e spirituale che ancora oggi possono stimo­lare la riflessione ed ispirare la nostra azione.

Elenchiamo, come esempio, alcuni valori ed atteggiamenti che è possibile far emergere nella visita dei luoghi e nella rievocazione dei fatti.


- Compito educativo vissuto da mamma Margherita come impe­gno primario, nonostante i gravi problemi economici.


- Attenzione e rispetto per l'originalità personale di ciascun figlio, ma anche chiarezza nell'individuare gli a­spetti carenti o negativi e determinazione nel corregger­li.


- Abilità nel far crescere nei bambini una retta coscienza morale, il senso della propria responsabilità e l'onestà.


- Capacità di creare un clima di confidenza, schiettezza, limpidezza nel rapporto genitori-figli, attraverso il dia­logo, la dolcezza, la pazienza, l'attenzione.


- Formazione alla laboriosità, al bisogno di rendersi uti­li in casa fin dai primi anni, con lavoretti adatti ai fanciulli.


- Avviare alla costanza nei propri doveri, alla progressi­va metodicità; instillare l'abitudine di portare a termine gli impegni.


- Abituare alla sobrietà di vita, a una certa austerità, senza indulgere troppo ai comodi, alla pigrizia, ai ca­pricci.


- Valorizzare l'apporto formativo della scuola e della cultura, incoraggiando, aiutando.


- Dare il giusto spazio al gioco, all'allegria, al movi­mento e agli interessi infantili, abituando ad armonizzar­li con i propri doveri.


- Incoraggiare la vita di gruppo e le amicizie, con scelte oculate, ben vagliate.


- Formare il cuore all'accoglienza, all'ospitalità, alla generosità; sensibilizzare i fanciulli verso i bisogni e le necessità del prossimo, le sofferenze dei più poveri, facendo loro attuare gesti concreti di carità.


- Educare al senso di Dio creatore, alla contemplazione della sua grandezza nelle meraviglie del creato e alla fiducia nella sua Provvidenza; curare la crescita nella fede e nella speranza.


- Introdurre alla preghiera personale e comunitaria con l'esempio e la partecipazione di tutta la famiglia.


- Avviare ad una metodica celebrazione del sacramento del­la Penitenza, formando la coscienza morale nella frequente revisione di vita o nel quotidiano esame di coscienza.


- Impegno personale dei genitori nella catechesi, nella preparazione ai sacramenti e nella formazione cristiana dei figli, in collaborazione con i pastori e gli educato­ri.


- Nella prima adolescenza facilitare il contatto amichevo­le e confidente con un sacerdote; valorizzare la direzione spirituale giovanile.

4 2. NOTE STORICO-GEOGRAFICHE E BIOGRAFICHE

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5 2.1. Il contesto storico

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Giovanni Bosco nasce il 16 agosto 1815. Da poco più di due mesi (9 giugno) a Vienna si è concluso il Congresso dal quale è scaturita una diversa sistemazione dell'Europa dopo l'esperien­za rivoluzionaria e napoleonica. Siamo agli albori del periodo storico chiamato Restaurazione, per la volontà dei governanti di riesumare le istituzioni politiche e sociali dell'antico re­gime. Anche re Vittorio Emanuele I, ritornato dalla Sardegna nei suoi stati di terraferma (Piemonte, Savoia, Nizzardo, a cui il Congresso di Vienna annette anche la Liguria), con editto del 21 maggio 1814 abroga tutte le leggi, decreti e disposizio­ni del governo francese, restituendo vigore giuridico alle Co­stituzioni emanate nel 1770 da Carlo Emanuele III e alle leggi particolari formulate fino al 23 giugno 1800. Il tentativo, condotto rafforzando nuovamente la nobiltà a scapito della bor­ghesia compromessa col governo precedente, si dimostra presto fallimentare e suscita divisioni, risentimento e malcontento.


Il clima sociale e politico viene aggravato da una grande crisi economica, causata anche dalle guerre degli ultimi anni, che raggiunge il suo culmine nel 1816-1817 a seguito di una spaventosa carestia abbattutasi sul Piemonte. Le popolazioni rurali del Monferrato devono affrontare sacrifici e sofferenze soprattutto per la crisi agricola. Risentono meno del cambio politico e sociale; ne hanno, anzi, qualche vantaggio con la soppressione della leva obbligatoria per tutti e con piccoli sgravi fiscali. La vita della famiglia contadina continua rit­mata dalle stagioni, nella dura fatica dei lavori agricoli, le­gata alle coltivazioni tradizionali necessarie al sostentamento dei suoi membri.

Il fenomeno della migrazione di masse popolari per ora non si manifesta ancora nelle forme macroscopiche che assumerà nei decenni successivi. Le popolazioni rurali piemontesi si dimo­strano saldamente ancorate ai valori familiari, sociali e cri­stiani tradizionali. Continuano ad essere un serbatoio di sane risorse umane per lo Stato e la Chiesa.


Nella capitale e nelle città di provincia, intanto, la borghesia, gli intellettuali, i giovani ufficiali e i rampolli della nobiltà più aperta progettano il futuro con l'occhio at­tento a idee, aneliti ed esperienze di altri paesi europei. Circoli, riviste culturali e società segrete, con nuova co­scienza nazionale, preparano il terreno ad un sostanziale muta­mento che, nell'arco di una trentina d'anni, porta allo Statuto albertino e alle guerre d'indipendenza, attraverso i moti ri­sorgimentali.


In campo ecclesiastico è da segnalare la nomina (1818) del monaco camaldolese Colombano Chiaveroti (1754-1831) ad arci­vescovo di Torino. Uomo culturalmente qualificato, di alta le­vatura spirituale, si dedica con impegno al compito pastorale, nonostante l'età non più giovane e la malferma salute. Con a­zione lucida e metodica riorganizza la diocesi, avvia un'opera capillare di "ricristianizzazione" del popolo dando impulso al­la catechesi e favorendo, in particolare, la predicazione di “missioni” per il rinnovamento morale del popolo. Lo sforzo mag­giore lo concentra nella riorganizzazione disciplinare del cle­ro e nella sua qualificazione pastorale, culturale e spiritua­le, attraverso un'accurata selezione delle giovani leve e una formazione seminaristica più esigente. A lui si deve una nuova impostazione del seminario di Torino, la riapertura di quello di Bra e la fondazione del seminario di Chieri (1829). In breve tempo la crisi vocazionale che travaglia la diocesi viene supe­rata. Negli ultimi anni del governo napoleonico, infatti, le ordinazioni sacerdotali erano scese a poche unità; al termine dell'episcopato di mons. Chiaveroti si superano le cinquanta ordinazioni annuali. L'arcivescovo appoggia e incoraggia, in particolare, l'opera del teologo Luigi Guala (1775-1848) che ha fondato il Convitto Ecclesiastico per la qualificazione pa­storale dei giovani sacerdoti.


Tra le classi popolari, in questo periodo va crescendo la sete d'istruzione e la volontà di superare le barriere dell'a­nalfabetismo, nella consapevolezza delle nuove esigenze ed in­sieme delle opportunità di crescita economica e sociale che si vanno aprendo. Il ritorno agli obsoleti regolamenti scolastici pre-napoleonici aveva gettato l'istruzione elementare nella confusione e nell'abbandono. La situazione viene sanata con la riforma scolastica avviata da Carlo Felice nel 1822, che obbli­ga le amministrazioni comunali ad aprire una o più scuole elementari gratuite. Ogni scuola comunale viene suddivisa in due classi nelle quali si devono istruire i fanciulli nella lettura, scrittura, dot­trina cristiana (primo anno) e negli elementi di lingua italia­na e di aritmetica (secondo anno). Le lezioni iniziano il 3 no­vembre e terminano a settembre, ma nelle zone agricole, di fat­to, la maggior parte degli allievi frequenta la scuola solo nel periodo invernale, quando i lavori campestri non urgono. L'im­postazione dell'insegnamento - che da sempre è affidata, per motivi idea­li ed economici, quasi esclusivamente agli ecclesiastici - su­bisce ritocchi e modifiche nel corso degli anni finché si giun­gerà ad una legislazione più organica nel 1848 (legge Boncompa­gni), premessa della riforma definitiva attuata con la legge Casati (1859), nella quale si determinerà la fisionomia della scuola italiana sino ai primi decenni del Novecento.


Giovannino Bosco cresce in questo contesto e partecipa a­gli aneliti, alle speranze e agli sforzi della sua gente, in un periodo di rapide mutazioni politico-sociali, culturali e scientifiche che mettono le basi dell'Europa moderna. Nella ma­turità anch'egli contribuirà notevolmente a dare un'anima cri­stiana, una spiritualità impregnata di valori antichi e nuovi, alle generazioni di giovani che - soprattutto a livello popola­re e medio - ne costituiranno il nerbo più vivace.

6 2.2. Tavola cronologica

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DateLuoghiPersoneAvvenimenti


16.08.1815Becchi: cascina BiglioneGiovanni BoscoNascita

17.08.1815Castelnuovo: parrocchiaGiovanni BoscoBattesimo

08.02.1817Becchi: “Casetta”Francesco BoscoAtto di acquisto

11.05.1817Becchi: cascina BiglioneFrancesco BoscoMorte

13.11.1817Becchi: “Casetta”Margherita e figliTrasloco


1823Becchi: “Casetta”Giovanni BoscoSogno dei 9 anni


tra 1814 e1827CapriglioGiovanni Bosco eFrequenza della scuole

don Giuseppe Lacquacomunale


Pasqua 1826Castelnuovo: parrocchiaGiovanni BoscoPrima Comunione


dal febb. 1828Moncucco: cascinaGiovanni BoscoGarzone di campagna

al nov. 1829Moglia


tra 5 e 9 nov.ButtiglieraGiovanni Bosco eIncontro dopo la predica

1829don Giovanni Calossodelle “Missioni”


tra nov. 1829 MorialdoGiovanni Bosco eScuola di latino

e nov. 1830don Giovanni Calossoe formazione


21.11.1830MorialdoDon Giovanni CalossoMorte


tra dic. 1830CastelnuovoGiovanni BoscoFrequenza delle scuole

e agosto 1831pubbliche

Sarto RobertoOspitalità

Don Virano eInsegnanti

don Moglia

1831SussambrinoGiuseppe, MargheritaMezzadri

e Giovanni Bosco


04.08.1833ButtiglieraGiovanni BoscoCresima

25.10.1835Castelnuovo: parrocchiaGiovanni BoscoVestizione chiericale

10.06.1841Castelnuovo: parrocchiaDon Giovanni BoscoPrima Messa


02.04.1842S. Giovanni di RivaDomenico SavioNascita

1843-1853MorialdoDomenico SavioAbitazione

08.04.1849MorialdoDomenico SavioPrima Comunione

febb. 1853MondonioDomenico SavioTrasferimento con la famiglia

13.04.1853Castelnuovo: parrocchiaDomenico SavioCresima

02.10.1854BecchiDomenico SavioIncontro con don Bosco

09.03.1857MondonioDomenico SavioMorte


7 2.3. Itinerari e suggerimenti

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La visita dell'ambiente in cui san Giovanni Bosco tra­scorse l'infanzia e la preadolescenza ha come punto centrale il Colle Don Bosco al quale è doveroso dedicare tempo ed atten­zione particolari. Gli altri luoghi possono interessare in rap­porto al tipo di gruppo, alle motivazioni o alle modalità del pellegrinaggio e al tempo di cui si dispone. Tra tutti, ci pare che Mondonio sia il più significativo ed anche il più comodo per chi si sposta in pullman. La cascina Moglia ha un notevole valore simbolico ed è molto suggestiva, ma è consigliabile por­tarvi solo piccoli gruppi omogenei, previa intesa con il retto­re del Tempio dei Becchi e accordo telefonico con i proprieta­ri.


Ci limitiamo a suggerire una visita standard ed alcune i­potesi di visite particolari.


* Visita standard (da una a mezza giornata).

Per qualsiasi tipo di gruppo; accentuando questo o quell'aspetto, a seconda delle persone e degli interessi.


A. Visita al nucleo storico: iniziare dalla Casetta” (3.1.2), sfruttando il materiale illustrativo e­sposto ed eventualmente quello audiovisivo → passare al Museo della vita contadina (3.1.4) → e alla casa del fra­tello Giuseppe, con breve preghiera nella cappella della Madonna del Rosario (3.1.3) → visitare quindi l'aia con stalla, portico e fienile, il monumento a Giovannino gioco­liere (3.1.6) e il pilone del sogno (3.1.7) → risalire al santuarietto di Maria Au­siliatrice (3.1.5) che è adatto per un momento di rifles­sione e di preghiera → concludere con l'antica fontana di mamma Margherita (3.1.8) e il monumento a lei dedicato (3.1.9).


B. Visita al Tempio e adiacenze: iniziare nella chiesa in­feriore con un breve cenno storico sulla cascina Biglione (3.1.1), sui motivi della costruzione del Tempio e sul messaggio che ne deriva (3.1.10) → visitare successiva­mente la stessa chiesa inferiore e quella superiore (ivi): sono utili a questo proposito i materiali didattici disponibili nelle sale adiacenti o nello stesso Tempio → terminare con un accenno all'Istituto Salesiano (3.1.11) e con la visita al Museo etnologico-missionario (3.1.12).


C. Avendo tempo a disposizione e un gruppo interessato, si può concludere con una puntata o a Morialdo (3.2), a Mondonio (3.5), a Castelnuovo (3.4).


* Visite particolari (il tempo è determinato dal programma).

Per gruppi omogenei, che si prefiggono particolari obiet­tivi di carattere spirituale, vocazionale, pedagogico.


Presentiamo due ipotesi:


A. Partendo da Torino e calcolando una giornata: S. Gio­vanni di Riva (3.8) → Buttigliera (3.6; la chiesa parrocchiale) → Sussambrino (3.2.3; visto dalla strada) e fontana della Renenta (3.2.3) → Colle (3.1) → Morialdo (3.2) → Mondo­nio (3.5) → Castelnuovo (3.4) → Cascina Moglia (3.7).


B. Partendo dal Colle si possono programmare delle pas­seggiate” sul tipo di quelle autunnali di don Bosco, even­tualmente a piedi o in bicicletta, nei paesi dei dintorni: Capriglio (3.3); Morialdo (3.2); Mondonio (3.5); Castel­nuovo (3.4); Buttigliera (3.6).


3 . VISITA AI LUOGHI

8 3.1. COLLE DON BOSCO E I BECCHI

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Giovanni Bosco nasce il 16 agosto 1815 nella borgata Bec­chi, che fa parte della frazione Morialdo, comune di Castelnuovo d’Asti (oggi Castelnuovo Don Bosco), provincia di Asti, diocesi di To­rino. Il gruppetto di case sorge su di un colle, universalmente noto come Colle Don Bosco, a 259 metri sul livello del mare, che si incunea tra i comuni di Castelnuovo, Buttigliera e Capriglio.

Ci troviamo nel cuore del Piemonte, in quella vasta zona collinare detta Monferrato che è estesa tra le province di Tori­no, Asti ed Alessandria. I centri abitati, in genere di piccole dimensioni, sorgono quasi sempre sulla cima delle diverse colli­ne, raggruppati attorno alla chiesa parrocchiale e, spesso, alle vestigia di antichi castelli.

Il territorio, essenzialmente agricolo, è coltivato a vi­gneti, grano, mais e foraggio, ricoperto da verdi boschetti di acacie e piantagioni di pioppi. Lungo i fossati e i sentieri campestri si notano ancora gelsi centenari, che testimoniano l'antico e fiorente allevamento dei bachi da seta, ormai total­mente scomparso. Tra i prodotti tipici della zona vanno ricorda­ti vini famosi come il Frèisa, il Malvasìa, il Grignolino e il Moscato, oltre al più diffuso Barbera.

Fanno parte del comune di Castelnuovo quattro fra­zioni: Bardella, Nevissano, Ranello (patria dei Savio) e Morial­do. Quest'ultima, tra i suoi nuclei abitativi, comprende i Bec­chi, nome derivato dalle famiglie Bechis che allora e ancora oggi vi abi­tano.


8.1 3.1.1. Cascina Biglione (casa nativa di don Bosco)

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Precisamente ai Becchi il nonno paterno di don Bosco, Fi­lippo Antonio (1735-1802), originario di Chieri, si era tra­sferito nel 1793, come mezzadro della cascina Biglione. Oggi questo edificio non esiste più: fu abbattuto tra 1957 e 1958. Al suo posto sorge il grandioso Tempio. Soltanto nel 1972 le ri­cerche d'archivio condotte da Secondo Caselle ci hanno rivelato che proprio in quella cascina era nato Giovannino.

La costruzione, inizialmente lineare (e a due piani) era stata prolungata verso nord da un edificio civile a tre piani destinato ai padroni, che vi abitavano durante le vacanze. L’insieme veniva a formare un complesso a forma di "L", del quale la parte più antica era destinata ad abitazione dei mezzadri. Poche e povere stanze: al pian terreno cucina con di­spensa, "sala" e scala per accedere alle due camere da letto del piano superiore. Qui abitavano Filippo Antonio e i suoi figli, tra cui Francesco Luigi (1784-1817). Essi coltivavano il fondo padronale esteso per più di 12 ettari.

Francesco Luigi Bosco si sposa all'età di ventun anni (1805) con Margherita Cagliero e da essa ha due figli: Antonio Giuseppe (1808-1849) e Teresa Maria (16 febbraio-18 febbraio 1810). Rima­sto vedovo nel 1811, si risposa il 6 giugno 1812 con Margherita Occhiena (1788-1856); nascono così Giuseppe Luigi (1813-1862) e Giovanni Melchiorre, il futuro don Bosco (1815-1888).

In questa casa il papà di Giovannino, colpito da polmonite acuta per essere entrato madido di sudore in cantina, muore l'11 maggio 1817, a quasi 34 anni di età.

È il primo ricordo indelebile di Giovannino:


Io non toccava ancora i due anni, quando Dio misericor­dioso ci colpì con grave sciagura. L'amato genitore, pieno di robustezza, sul fiore della età, animatissimo per dare educazione cristiana alla figliuolanza, un giorno, venuto dal lavoro a casa tutto molle di sudore incautamente andò nella sotterranea e fredda cantina. Per la traspirazione soppressa, in sulla sera si manifestò una violenta febbre foriera di non leggera costipazione. Tornò inutile ogni cu­ra e fra pochi giorni si trovò all'estremo di vita. Munito di tutti i conforti della religione raccomandando a mia madre la confidenza in Dio, cessava di vivere nella buona età di anni 34, il 12 maggio 1817 (ndr.: si tratta in real­tà del giorno 11, come risulta dai documenti d'archivio).

Non so che ne sia stato di me in quella luttuosa occor­renza; soltanto mi ricordo, ed è il primo fatto della vita di cui tengo memoria, che tutti uscivano dalla camera del defunto, ed io ci voleva assolutamente rimanere. Vieni, Giovanni, vieni meco, ripeteva l'addolorata genitrice. Se non viene papà, non ci voglio andare, risposi. - Pove­ro figlio, ripigliò mia madre, vieni meco, tu non hai più padre. Ciò detto, ruppe in forte pianto, mi prese per ma­no e mi trasse altrove, mentre io piangeva perché Ella piangeva. Giacché in quella età non poteva certamente comprendere quanto grande infortunio fosse la perdita del padre” (MO 31-32).


Al grave lutto si aggiungono le difficoltà di un momento particolarmente critico per l'economia piemontese poiché il 1816-1817 sono anni di carestia e di fame:


Questo fatto mise tutta la famiglia nella costernazio­ne. Erano cinque persone da mantenere (ndr.: mamma Marghe­rita, la suocera e i tre figli); i raccolti dell'annata, u­nica nostra risorsa, andarono falliti per una terribile siccità; i commestibili giunsero a prezzi favolosi (...). Parecchi testimoni contemporanei mi assicurano, che i men­dicanti chiedevano con premura un po' di crusca da mettere nella bollitura dei ceci o dei fagiuoli per farsene nutri­mento. Si trovarono persone morte ne' prati colla bocca piena d'erba, con cui avevano tentato di acquetare la rab­biosa fame.

Mia madre mi contò più volte, che diede alimento alla famiglia, finché ne ebbe; di poi porse una somma di danaro ad un vicino, di nome Bernardo Cavallo, affinché andasse in cerca di che nutrirsi. Quell'amico andò in vari mercati e non potè nulla provvedere, anche a prezzi esorbitanti (...). Mia madre senza sgomentarsi andò dai vicini per far­si imprestare qualche commestibile e non trovò chi fosse in grado di venirle in aiuto. Mio marito, prese a parlare, morendo dissemi di avere confidenza in Dio. Venite adunque, ingi­nocchiamoci e preghiamo. Dopo breve preghiera si alzò e disse: Nei casi estremi si devono usare mezzi estremi. Quindi coll'aiuto del nominato Cavallo andò alla stalla, uccise un vitello e facendone cuocere una parte con tutta fretta, poté con quella sfamare la sfinita famiglia. Pei giorni seguenti si poté poi provvedere con cereali, che, a carissimo prezzo, poterono farsi venire di lontani paesi” (MO 32-33).


8.2 3.1.2. La “Casetta”

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Sulla stessa collina dei Becchi, circa 200 metri più in basso della cascina Biglione, un gruppetto di case, occupato da quattro famiglie (Graglia, Cavallo, Bechis e Ronco), formava il Canton Cavallo. Francesco Luigi Bosco l'8 febbraio 1817, tre me­si prima di morire, vi aveva comperato per lire 100 (il prezzo di un bue) una misera casetta rivolta a nord e “composta di stalla e crotta, fenéra superiore dall'alto in basso, “coperta a coppi, in cattivo stato con sito grano avanti di tavole dieci circa, come sta scritto rispettivamente nell'atto d'acquisto (8 feb­braio 1817) e nell'inventario dei beni allegato al testamento di Francesco Bosco (18 maggio 1817). La costruzione misura in tutto 12 metri di lunghezza, 3 di larghezza e 4,5 di altezza. Il muro divisorio a cui si appoggia la separa dalla casa della famiglia Cavallo. Accanto, pochi metri ad ovest, c'è l'abitazione dei Gra­glia (demolita per costruire la scala che permette di visitare il piano superiore).

L'acquisto è motivato dal fatto che Francesco viene a sape­re che i Biglione avevano intenzione di alienare la cascina (il fabbricato, come apprendiamo dai documenti catastali, fu ceduto nel 1818 alla famiglia Chiardi, da questa passò nel 1846 alla famiglia Damevino, che lo venderà ai Salesiani nel 1929) e, ancor più, dal desiderio di costituir­si un proprio patrimonio in beni immobili. Siamo infatti in pe­riodo di forte crisi economica, accompagnata da una grave care­stia che colpisce le annate 1816-1817.

Morto il marito, mamma Margherita continua ad abitare con i figli, la vecchia suocera e due garzoni di campagna nella casci­na Biglione fino a metà novembre, scadenza del contratto di mez­zadria. Nel frattempo fa sistemare il modesto edificio acquista­to da Francesco e vi trasloca la famiglia il 13 novembre 1817.

8.2.1 I Bosco nella “Casetta”

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Dopo questa ristrutturazione il piccolo edificio risultava composto dai seguenti vani (da sinistra a destra guardando la facciata): tettoia ad uso ripostiglio, stalla, cucina e portico, al pian terreno; camera da letto, che Margherita Occhiena divi­deva con la suocera Margherita Zucca, cameretta dei figli (la camera del "sogno" a cui si accedeva dalla cucina per mezzo di una scaletta) e fienile, al piano superiore. Sulla facciata una scala in legno portava alla stanza di mamma Margherita. Alla ba­se della rampa un bugigattolo di mattoni serviva da pollaio.

In questi locali abitarono tutti insieme fino al 1831, anno in cui il fratello Antonio si sposò. Mamma Margherita cedette a­gli sposi la sua stanza, spostandosi in quella dei figli. Giu­seppe, intanto, dopo la spartizione dei beni familiari avvenuta l'anno precedente (1830), aveva preso a mezzadria il podere del Sussambrino, sulla collina tra i Becchi e Castelnuovo verso But­tigliera e vi si era trasferito. Lo seguirono anche mamma Mar­gherita e il fratello Giovanni, che intanto frequentava le scuo­le di Castelnuovo; vi rimarranno nove anni.

Sui motivi che determinarono mamma Margherita alla divisio­ne del patrimonio familiare don Bosco scrive:


Mia madre scorgendomi tuttora afflitto per le diffi­coltà, che si frapponevano a' miei studi, e disperando di ottenere il consenso di Antonio, che già oltrepassava i vent'anni, deliberò di venire alla divisione dei beni pa­terni. Eravi grave difficoltà, perocché, io e Giuseppe es­sendo minori di età, dovevansi compiere molte incombenze, e sottostare a gravi spese. Nulla di meno si venne a quella deliberazione. Così la nostra famiglia fu ridotta a mia ma­dre, a mio fratello Giuseppe, che volle vivere meco indivi­so. Mia nonna era morta alcuni anni prima” (MO 53).


Il fratello Antonio qualche anno più tardi, nel campo di fronte alla casetta, si costruì un'abitazione più adatta ad ac­cogliere la famiglia che stava aumentando. Sarà distrutta nel 1915 per innalzare il santuarietto di Maria Ausiliatrice. Anche Giuseppe nel 1839 edificò lì accanto la sua casa. La vecchia "Casetta" paterna rimase così adibita a stalla e deposito di at­trezzi agricoli.

I nipoti di don Bosco, a più riprese, venderanno la "Caset­ta", alcuni terreni circostanti e le case dei fratelli Antonio e Giuseppe ai Salesiani. Nel 1901 don Michele Rua, primo successo­re di don Bosco, ordinerà una prima operazione di restauro della “Casetta” con­sistente nella divisione del portico a fianco della cucina in due vani sovrapposti e nella chiusura del fienile, per dare con­sistenza all'edificio. Dopo l'acquisto di casa Cavallo (1919) e di casa Graglia (1920), in occasione della beatificazione di don Bosco (1929), vi sarà un secondo radicale restauro della "Caset­ta" che verrà aperta alle visite dei pellegrini.







8.2.2 Scene di vita familiare

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Queste povere stanze sono state testimoni della saggia edu­cazione impartita da Margherita Occhiena ai suoi figli. Le scar­se risorse economiche e la sua giovane età avrebbero giustifica­to un secondo matrimonio. L'occasione si presentò, di fatto, e convenientissima; ma la donna non volle assolutamente staccarsi dai figli (che sarebbero stati affidati ad un buon tutore), ge­nerosamente disposta ad affrontare sacrifici e privazioni, fidu­ciosa nella Provvidenza divina (cf MO 33).

A base di tutto ella pose la formazione religiosa, come ci testimonia don Bosco:


Sua massima cura fu di istruire i suoi figli nella re­ligione, avviarli all'ubbidienza ed occuparli in cose com­patibili a quella età. Finché era piccolino mi insegnò El­la stessa le preghiere; appena divenuto capace di associar­mi co' miei fratelli, mi faceva mettere con loro ginocchio­ni mattino e sera e tutti insieme recitavamo le preghiere in comune colla terza parte del Rosario. Mi ricordo che Ella stessa mi preparò alla prima confessione, mi accompa­gnò in chiesa; cominciò a confessarsi ella stessa, mi rac­comandò al confessore, dopo mi aiutò a fare il ringrazia­mento” (MO 33-34).


Nei figli instillò il senso vivo della presenza di Dio, Creatore provvidente e Signore:

Ricordatevi che Dio vi vede e vede anche i vostri più nascosti pensieri” - ripeteva loro spesso - “È Dio che ha creato il mondo e ha messe lassù tante stelle. Se è così bello il firmamento, che cosa sarà del paradiso?”; e anco­ra: “Quanta gratitudine non dobbiamo al Signore, che ci provvede di tutto il necessario, Dio è veramente padre. Pa­dre nostro che sei ne' cieli!” (SM, 28-30).


Fin dai primissimi anni li avvezzò al lavoro.


Ella non soffriva che i suoi figli stessero oziosi e addestravali per tempo al disbrigo di qualche faccenda. Giovanni, appena valicati i quattro anni, già si occupava con molta costanza a sfilacciare le verghe di canapa, della quale la madre davagli una quantità numerata. E il fanciul­letto, compiuto il suo compito, si metteva a preparare i suoi divertimenti” (MB 1, 48).


Li formò all'obbedienza, motivata, fatta per amore; al senso di responsabilità e alla riflessione prima di agire o di parlare. Dosando dolcezza e forza d'animo era costante nella correzione. Non ricusava, se necessario, di ricorrere al castigo e simbolo di questo era “una verga posta in un angolo della stanza. Non l'usò però mai, come non diede mai ai suoi figli neppure uno scappellotto” (SM 36); suppliva con mezzi tutti particolari, usati con prudenza, che riuscivano di effetto. E i bimbi imparavano a rendersi conto delle proprie azioni.

Ricordiamo, come esempio, un piccolo episodio che coinvolge Giovanni a solo quattro anni:


Tornato un giorno dal passeggio col fratello Giuseppe, ambedue erano arsi da molta sete per essere quella la stagione estiva. La mamma andò ad at­tingere acqua e diede a bere pel primo a Giuseppe. Giovan­ni, vedendo quella specie di preferenza, quando la mamma fu a lui coll'acqua, un po' permalosetto, fece segno che non volea bere. La mamma senza dire una parola, portò via l'acqua e la ripose. Giovanni stette un momento così, e poi timidamente:

- Mamma!

- Ebbene?

- Date dell'acqua anche a me?

- Credevo che non avessi sete!

- Mamma, perdono!

- Ah, così va bene! - E andò a prendere l'acqua e sorri­dendo gliela porse” (SM 37).


Giovanni aveva otto anni, ed un giorno, mentre la mamma era andata ad un paese vicino per le sue faccende, ebbe l'idea di togliersi alcun che posto in alto. Non giungendo­vi prese la sedia, e salito su di essa, urtò in un vaso pieno di olio. Il vaso cadendo per terra si ruppe. Confuso il piccolino, cercò di rimediare a quella disgrazia collo spazzare via l'olio sparso; ma conoscendo che non sarebbe riuscito a togliere la macchia e l'odore diffuso, pensò a far si che la mamma non avesse dispiacere. Tolta una verga da una siepe, aggiustolla per bene, e strappandole a dise­gno in vari luoghi la verde corteccia, adornolla di fregi il meglio che seppe. Venuta l'ora, nella quale sapea che la mamma sarebbe di ritorno, le corse incontro fino in fondo alla valle e appena le fu dappresso: - Ebbene, mamma, come state? avete fatta buona passeggiata?

- Sì, mio caro Giovanni! e tu stai bene? sei allegro? sei buono?

- Oh! mamma! guardate qui! - E le porgeva la verga.

- Ah! figlio mio, me ne hai fatta qualcheduna.

- Sì; e mi merito proprio che questa volta mi castighia­te.

- E che cosa ti accadde?

- Son salito così e così, e per disgrazia ho rotto il vaso dell'olio. Sapendo che merito il castigo, vi ho porta­to la verga, perchè la usiate sulle mie spalle, senza pren­dervi fastidio di andarla a cercare. - Intanto Giovanni porgeva la verga tutta fregiata e mirava in volto la madre con fare furbo, peritoso, scherzevole. Margherita osservava il figlio e la verga, e ridendo di quella infantile furbe­ria, finalmente gli disse: - Mi rincresce molto della di­sgrazia che ti è occorsa, ma siccome il tuo operare mi fa conoscere la tua innocenza, io ti perdono. Tuttavia ricorda sempre il mio consiglio. Prima di fare una cosa, pensa alle sue conseguenze” (MB 1, 73-74).


La povertà della famiglia Bosco non impediva a Margherita di esercitare la carità verso i più miseri: “I vicini venivano a lei ora per fuoco, ora per acqua, ora per legna. Agli infermi che bisognassero di vino, ne donava generosamente, rifiutando o­gni compenso. Dava a prestito olio, pane, farina” (MB 1, 149-150). In questa casa vennero cortesemente ospitati e rifocillati mendicanti di passaggio, viaggiatori smarriti, negozianti, ma anche fuggiaschi, banditi braccati e gli stessi carabinieri che li seguivano: la carità concreta, gioviale, immediata della ma­dre fu la maggiore scuola per il futuro prete dei giovani poveri e abbandonati.

Giovannino incominciò presto ad imitarla:


Un (...) certo Secondo Matta, servitorello in una delle masserie circostanti, e della sua stessa età, ogni mattino scendeva dalla collina traendosi dietro la vacca del padro­ne. Per la colazione era provvisto di un pezzo di pane ne­ro. Giovanni invece teneva fra le mani, sbocconcellandolo, un pane bianchissimo che mamma Margherita non lasciava mai mancare a' suoi cari figliuoli. Un bel giorno Giovanni dis­se a Matta: - Mi fai un piacere?

- Ben volentieri, rispose il compagno.

- Vuoi che facciamo lo scambio del pane?

- E perché?

- Perché il tuo pane deve essere più buono del mio, e mi piace di più. - Matta, nella sua infantile semplicità, cre­dette che Giovanni reputasse realmente più gustoso il suo pan nero, e facendogli gola il pane bianco dell'amico, vo­lentieri accondiscese a quella permuta. Da quel giorno, per ben due primavere di seguito, tutte le volte che al mattino s'incontravano in quel prato facevano lo scambio del pane. Matta però, divenuto uomo e riflettendo su questo fatto, lo raccontava soventi volte a suo nipote D. Secondo Marchisio” (MB 1, 89).


8.2.3 La visita della "Casetta"

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In occasione del centenario della morte di don Bosco, la "Casetta" è stata restaurata e consolidata. La si è riportata alla struttura volumetrica originaria, testimoniata dalle foto­grafie di fine Ottocento. La “fenera superiore dall'alto in bas­so, ove nel 1929 era stata costruita la scala di accesso alle stanze del primo piano, è oggi riaperta; il vecchio fienile, su cui Giovannino intratteneva gli amici, ricuperato. Sono rimaste inalterate le stanze del pian terreno (stalla e cucina) e del piano superiore (camera di mamma Margherita e cameretta del so­gno).

La casa attigua (casa Cavallo) è stata trasformata in sup­porto didattico-logistico per la visita alla "Casetta", con pan­nelli informativi sulla vita di Giovannino Bosco e della sua famiglia. Qui è stato collocato un monumento bronzeo, opera dello scultore Enrico Manfrini, dedicato a mamma Margherita educatrice: ella accarezza sorridente il piccolo Giovanni che le porge la verga per essere punito della marachella sopra ricordata.

La visione degli ambienti della "Ca­setta" è resa possibile attraverso finestre aperte nel muro di ponente di casa Cavallo, non essendo più permesso l'accesso diretto per motivi di stabilità dell'edificio.


8.3 3.1.3. La casa del fratello Giuseppe

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Il fratello Giuseppe Luigi si sposò all'età di vent'anni (1833) con Maria Calosso dalla quale ebbe dieci figli, per la maggior parte morti in tenera età. Durante i nove anni (1830-1839) di lavoro come mezzadro al Sussambrino riuscì a raggranel­lare i mezzi necessari per l'acquisto di alcuni terreni sulla collina dei Becchi e la costruzione di una casa, povera, ma di­gnitosa e sufficientemente ampia per la numerosa famiglia. Vi si trasferì nel 1839 e vi restò fino alla morte (1862).

L'edificio, situato quasi di fronte alla "Casetta", a fian­co del santuarietto di Maria Ausiliatrice, è a due piani.

Sulla facciata, accanto alla lapide che ricorda l’importanza del fabbricato, nel 2002 è stata riprodotta una Meridiana Astronomica Geografica Universale (opera degli specialisti Giorgio Mesturini e Mario Tebenghi) con una scritta tratta dalla famosa meridiana che nel seminario di Chieri scandì gli anni di studio del chierico Bosco: “Afflictis lentae – celeres gaudentibus horae”, cioè: “Le ore passano lente per coloro che sono tristi, velocemente per chi è nella gioia”.


8.3.1 Pian terreno

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Al pian terreno, in collegamento col il Museo della vita contadina, due vani separati da una scala presentano rispettivamente la ricostruzione della cucina della famiglia Bosco (indicata come Sala T) e della camera da letto (Sala S).


8.3.2 Cappella della Madonna del Rosario

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Ancora al pian terreno, nell'angolo a ponente dell’abitazione, Giuseppe aveva a­dattato un piccolo ambiente ad uso cappella, e don Bosco lo de­dicò alla Madonna del Rosario. La chiesetta venne da lui inaugu­rata l'8 ottobre 1848. Il Santo, fino al 1869, vi celebrava ogni anno la festa della Madonna del Rosario, solennizzandola con la presenza della banda musicale e del coro dei ragazzi di Valdoc­co. Il locale è il primo centro di culto mariano voluto da don Bosco e testimone privilegiato degli inizi della Congregazione Salesiana. Qui infatti, il 3 ottobre 1852, Michele Rua e Giu­seppe Rocchietti ricevettero l'abito chiericale. In questa cap­pella pregò certamente anche Domenico Savio il 2 ottobre 1854, in occasione del suo primo incontro con don Bosco e nei due anni successivi durante le vacanze autunnali ai Becchi.

Così don Bosco ci descrive il suo primo incontro con Dome­nico Savio:


Il primo lunedì d'ottobre di buon mattino, vedo un fanciullo accompagnato da suo padre che si avvici­nava per parlarmi. - Il volto suo ilare, l'aria ridente, ma rispettosa, trassero verso di lui i miei sguardi.

- Chi sei, gli dissi, onde vieni?

- Io sono, rispose, Savio Domenico, di cui le ha par­lato D. Cugliero, mio maestro, e veniamo da Mondonio.

Allora lo chiamai da parte e messici a ragionare dello studio fatto, del tenor di vita fino allora praticato, sia­mo tosto entrati in piena confidenza egli con me, io con lui.

Conobbi in lui un animo tutto secondo lo spiri­to del Signore, e rimasi non poco stupito considerando i la­vori che la Grazia divina aveva già operato in quel tenero cuore.

Dopo un ragionamento alquanto prolungato, prima che io chiamassi il padre, mi disse queste precise parole: Ebbene che glie ne pare? mi condurrà a Torino per istudiare?

- Eh! mi pare che ci sia buona stoffa.

- A che può servire questa stoffa?

- A fare un bell'abito da regalare al Signore.

- Dunque io sono la stoffa: ella ne sia il sarto; dunque mi prenda con lei e farà un bell'abito pel Signore.

- Io temo che la tua gracilità non regga per lo studio.

- Non tema questo; quel Signore che mi ha dato finora sanità e grazia, mi aiuterà anche per l'avvenire.

- Ma quando tu abbia terminato lo studio del latino, che cosa vorrai fare?

- Se il Signore mi concederà tanta grazia, desidero ar­dentemente di abbracciare lo stato ecclesiastico.

- Bene: ora voglio provare se hai bastante capacità per lo studio: prendi questo libretto (era un fascicolo delle Letture Cattoliche), di quest'oggi studia questa pagina, do­mani ritornerai per recitarmela.

Ciò detto lo lasciai in libertà perché andasse a trastullarsi con altri giovani, indi mi posi a parlare col padre. Passarono non più di otto minuti, quando ridendo si avanza Domenico e mi dice: se vuole recito adesso la mia pagina. Presi il libro e con mia sorpresa conobbi che non solo ave­va letteralmente studiato la pagina assegnata, ma che com­prendeva benissimo il senso delle cose in essa contenute.

- Bravo, gli dissi, tu hai anticipato lo studio della tua lezione ed io anticipo la risposta. Sì; ti condurrò a Torino e fin d'ora sei annoverato tra i miei cari figliuo­li” (DS 34-36).


Restaurata una prima volta da don Rua, la cappella ha visto un nuovo intervento conservativo nel 2002, grazie a benefattori ed appartenenti alla Famiglia Salesiana che sono ricordati da una piccola targa affissa nel vano retrostante l’altare.

Nello stesso ambiente, in una vetrina, sono esposti alcuni paramenti e arredi sacri della primitiva cappella.


8.3.3 Piano superiore

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Al spiano superiore, Giuseppe riservò sempre una camera per don Bosco, il quale la uti­lizzava ogni volta che si recava ai Becchi, in particolare du­rante le vacanze autunnali. Il locale si trova nell'angolo a sud ovest (Sala Z), e conserva gli arredi usati dal Santo. Per accedervi si passa davanti ad altre due stanze: l’una (Sala V), più piccola, ricostruisce lo studiolo del Santo, mentre l’altra (Sala U), più ampia, raccoglie il mobilio della famiglia Bosco.


8.3.4 Stalla e fienile

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Sul lato est della casa si trovavano la stalla (Sala R) e il fienile (oggi ricostruiti), dove, durante le passeggiate autunnali, dor­mivano i ragazzi giunti da Torino. Essi trovavano ospitalità an­che nel granaio (stanza in cima alla scala) e sul solaio di ca­sa, ampio e ben aerato dai due abbaini fatti costruire con il contributo di don Bosco (ed eliminati durante il restauro dell’edificio attuato nel 1929).

Anche Michele Magone, fu ospite ai Becchi (1858). Don Bo­sco, ci racconta un grazioso episodio avvenuto in quest'angolo dell'aia:


Una sera mentre i nostri giovani erano già tutti a ripo­so, odo uno a piangere e sospirare. Mi metto pian piano alla finestra, e veggo Magone in un angolo dell'aia che mirava la luna e lacgrimando sospirava. Che hai, Magone, ti senti male? gli dissi.

Egli che pensava di essere solo, né essere da alcuno ve­duto, ne fu turbato, e non sapeva che rispondere; ma repli­cando io la domanda, rispose con queste precise parole:

- Io piango nel rimirare la luna che da tanti secoli comparisce con regolarità a rischiarare le tenebre della notte, senza mai disobbedire agli ordini del Creatore, men­tre io che sono tanto giovane, io che sono ragionevole, che avrei dovuto essere fedelissimo alle leggi del mio Dio, io l'ho disobbedito tante volte, e l'ho in mille modi offeso. Ciò detto si mise di nuovo a piangere. Io lo consolai con qualche parola, onde egli dando calma alla commozione andò di nuovo a continuare il suo sonno”.


(G. Bosco, Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele allievo dell’Oratorio di S. Francesco di Sales, Torino. Tip. G.B. Paravia e Comp. 1861, pp. 64-65).



8.4 3.1.4. Museo della vita contadina dell'Ottocento

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Tra casa Graglia e la casa di Giuseppe, sotto il livello dell'aia, è stato costruito un salone con ampi archi aperti ver­so la valle, il quale ricalca nelle forme le cantinate agricole.

Qui ha sede il Museo della vita contadina che illustra la vita della famiglia contadina dell'Ottocento sulla collina piemontese. Sono esposti circa seicento pezzi di antiquariato: si tratta di mobi­li, strumenti di lavoro, oggetti d'uso quotidiano, raccolti con pazienza e cura dal salesiano laico Teresio Chiesa. Testimoniano usanze, vita e tecniche lavorative (della vite e del vino, del grano e del pane, del latte e dei formaggi, del legno...) in uso nelle famiglie dell’Astigiano, del Cuneese e del Torinese nell’Ottocento. Il col­legamento con la casa di Giuseppe accentua l'efficacia evocativa della ricostruzione.

La visita al museo risulta di estremo interesse storico e culturale. Aiutati da pannelli illustrativi e da foto­grafie, possiamo renderci conto dell'ambiente reale, dello stile di vita e di lavoro che le famiglie, come quella dei Bosco, con­ducevano nel vecchio Piemonte.

I materiali esposti sono raggruppati in varie aree tematiche: costumi dei contadini (Zona A), oggetti che si trovavano nelle camere da letto (Zona B), presso il camino (Zona C), in cucina (Zona D); attrezzi per il trattamento del terreno (Zona E), per la coltura del grano (Zona F), per la fienagione e l’aggiogamento degli animali (Zona G); pesi e strumenti per la lavorazione della canapa e del legno (Zona H); finimenti per giumenti (Zona I); strumenti di illuminazione (Zona L), di lavanderia e bucato (Zona M), di coltivazione della vite e di vinificazione (Zona N), di imbottigliamento del vino, insieme a canestri e ceste (Zona O); arnesi legati all’allevamento del pollame e delle api (Zona Q). La cantina della casa di Giuseppe Bosco è stata allestita con attrezzi e oggetti tipici di ogni cantina ottocentesca della zona (Zona P).

Durante i lavori di sterro per la costruzione del museo è ritornato alla luce l'antico forno, a forma di cupola, che ser­viva per la cottura del pane. Era stato costruito da Giuseppe; infatti quello della borgata, situato sul terreno dei Biglione, non era più sufficiente quando don Bosco veniva al Colle con i suoi ragazzi. Si trovava più in basso rispetto alla casa, sul fianco orientale della collina ed era stato ricoperto durante i lavori di sistemazione effettuati negli anni Venti. È stato ricostruito presso l’ingresso del museo.



8.5 3.1.5. Santuarietto di Maria Ausiliatrice

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Suggerito a don Paolo Albera, secondo successore di don Bo­sco, dal senatore Filippo Crispolti, cooperatore salesiano, è stato iniziato il 16 agosto 1915, abbattendo la casa del fratel­lo Antonio. La consacrazione è del 2 agosto 1918. Triplice è il motivo della costruzione: celebrare il centenario della nascita del Santo; commemorare il centenario di istituzione della festa liturgica di Maria Ausiliatrice, fissata il 24 maggio ad opera di Pio VII tornato dalla prigionia napoleonica; infine, invocare la pace per un mondo dilaniato dalla prima guerra mondiale. Per questo terzo scopo i bambini di ogni nazione furono invitati ad offrire il loro obolo simbolico. Gli stemmi nazionali dipinti sotto lo spioven­te del tetto, che si congiungono dietro la statua della Madonna, ricordano questo gesto di speranza giovanile.

Il progetto in stile neogotico è dell'architetto Giulio Va­lotti, salesiano laico. La chiesa è a croce greca (10 metri per 15). Ampie pentafore laterali permettevano un tempo ai numerosi pellegrini di partecipare alle funzioni stando anche al di fuori dell'edificio. La statua di Maria Ausiliatrice pro­viene dal laboratorio di scultura della Scuola Salesiana di Sarrià-Bar­cellona. Di lato, ai suoi piedi, due statue opera dello scultore Riccardo Cordero raffigurano don Bosco e santa Maria Domenica Mazzarello.

L'attuale sistemazione del presbiterio è opera dell'archi­tetto Graziano Romaldi. Al posto del precedente altare neogotico, un muro di mattoni in forma di tenda circonda il grande crocifisso e il tabernacolo.


8.6 3.1.6. Il monumento a Giovannino giocoliere

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Nell'angolo sud-est di raccordo tra l'antica casa Graglia e il museo contadino, si trovava il "pilone dei giochi", costruito nel 1929, anno della beatificazione, e affrescato dal Crida. Ora un monumento in bronzo, opera di Ennio Tesei, lo sostituisce: ricorda Giovannino Bosco che si esibiva in giochi di abilità di fronte ai ragazzi della borgata, dopo un momento di preghiera e di catechesi.


Nella bella stagione, specialmente ne' giorni festivi, si radunavano quelli del vicinato e non pochi forestieri. Qui la cosa prendeva aspetto assai più serio. Io dava a tutti un trattenimento con alcuni giuocarelli che io stes­so aveva da altri imparato. Spesso sui mercati e sulle fie­re vi erano ciarlatani e saltimbanchi, che io andava a ve­dere. Osservando attentamente ogni più piccola loro prodez­za, me ne andava di poi a casa e mi esercitava fino a tanto che avessi imparato a fare altrettanto (...). Ad undici an­ni io faceva i giuochi dei bussolotti, il salto mortale, la rondinella, camminava sulle mani, camminava, saltava e dan­zava sulla corda, come un saltimbanco di professione.

Da quello che si faceva un giorno festivo comprenderete quanto io faceva negli altri.

Ai Becchi avvi un prato, dove allora esistevano diverse piante, di cui tuttora sussiste un pero martinello, che in quel tempo mi era di molto aiuto. A questo albero attaccava una fune, che andava a rannodarsi ad un altro a qualche distanza; di poi un tavolino colla bisaccia; indi un tappe­to a terra per farvi sopra i salti. Quando ogni cosa era preparata ed ognuno stava ansioso di ammirare novità, allo­ra li invitava tutti a recitare la terza parte del Rosario, dopo cui si cantava una lode sacra. Finito questo montava sopra una sedia, faceva la predica, o meglio ripeteva quanto mi ricordava della spiegazione del vangelo udita al mattino in chiesa; oppure raccontava fatti od esempi uditi o letti in qualche libro. Terminata la predica si faceva breve preghiera, e tosto si dava principio ai trattenimenti. In quel momento voi avreste veduto, come vi dissi, l'oratore divenire un ciarlatano di professione. Fare la rondinella, il salto mortale, camminare sulle mani col corpo in alto; poi cingermi la bisaccia, mangiare gli scudi per andarli a ripigliare sulla punta del naso dell'uno o dell'altro; poi moltiplicare le palle, le uova, cangiare l'acqua in vino, uccidere e fare in pezzi un pollo e poi farlo risuscitare e cantare meglio di prima, erano gli ordinarii trattenimenti. Sulla corda poi camminava come per un sentiero; saltava, danzava, mi appendeva ora per un piede, ora per due; talora con ambe le mani, talora con una sola. Dopo alcune ore di questa ricreazione, quando io era ben stanco, cessava ogni trastullo, facevasi breve preghiera ed ognuno se ne andava pe' fatti suoi” (MO 39-41).



8.7 3.1.7. Il pilone del sogno

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Eretto nel 1929, sorge sul versante ovest della collina, a una ventina di metri dalla "Casetta". Vi è rappresentato il celebre sogno dei nove anni in una raffigurazione del pittore Pietro Favaro, riprodotta da un originale conservato nella chiesa dell’Istituto Salesiano di Alassio.

Così don Bosco descrive il sogno:


A quell'età ho fatto un sogno, che mi rimase profonda­mente impresso nella mente per tutta la vita. Nel sonno mi parve di essere vicino a casa in un cortile assai spazio­so, dove stava raccolta una moltitudine di fanciulli, che si trastullavano. Alcuni ridevano, altri giuocavano, non pochi bestemmiavano. All'udire quelle bestemmie mi sono subito lanciato in mezzo di loro adoperando pugni e parole per farli tacere. In quel momento apparve un uomo venerando in virile età nobilmente vestito. Un manto bianco gli copriva tutta la persona; ma la sua faccia era così luminosa, che io non poteva rimirarlo. Egli mi chiamò per nome e mi ordi­nò di pormi alla testa di que' fanciulli aggiungendo queste parole: Non colle percosse, ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici. Mettiti adunque immediatamente a fare loro un'istruzione sulla bruttezza del peccato e sulla preziosità della virtù.

Confuso e spaventato soggiunsi che io era un povero ed ignorante fanciullo incapace di parlare di religione a que’ giovanetti. In quel momento que' ragazzi cessando dal­le risse, dagli schiamazzi e dalle bestemmie, si raccolsero tutti intorno a colui, che parlava.

Quasi senza sapere che mi dicessi, - Chi siete voi, sog­giunsi, che mi comandate cosa impossibile? - Appunto perché tali cose ti sembrano impossibili, devi renderle possibili coll'ubbidienza e coll'acquisto della scienza. - Dove, con quali mezzi potrò acquistare la scienza? - Io ti darò la maestra, sotto alla cui disciplina puoi diventare sapiente, e senza cui ogni sapienza diviene stol­tezza.

- Ma chi siete voi, che parlate in questo modo?

- Io sono il figlio di colei, che tua madre ti ammaestrò di salutar tre volte al giorno.

- Mia madre mi dice di non associarmi con quelli che non conosco, senza suo permesso; perciò ditemi il vostro nome.

- Il mio nome dimandalo a mia Madre. In quel momento vidi accanto di lui una donna di maesto­so aspetto, vestita di un manto, che risplendeva da tutte parti, come se ogni punto di quello fosse una fulgidissima stella. Scorgendomi ognor più confuso nelle mie dimande e risposte, mi accennò di avvicinarmi a Lei, che presomi con bontà per mano, e – guarda, - mi disse. Guardando mi accorsi che quei fanciulli erano tutti fuggiti, ed in loro vece vi­di una moltitudine di capretti, di cani, di gatti, orsi e di parecchi altri animali. - Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Renditi umile, forte, robusto; e ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo pei figli miei.

Volsi allora lo sguardo, ed ecco invece di animali fero­ci apparvero altrettanti mansueti agnelli, che tutti sal­tellando correvano attorno belando come per fare festa a quell'uomo e a quella signora.

A quel punto, sempre nel sonno, mi misi a piangere e pregai quello a voler parlare in modo da capire, perciocché io non sapeva quale cosa si volesse significare.

Allora Ella mi pose la mano sul capo dicendomi: a suo tempo tutto com­prenderai.

Ciò detto, un rumore mi svegliò” (MO 34-37).



8.8 3.1.8. Antica fontana dei Becchi

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Di fronte a casa Cavallo, poco discosto dal pilone del so­gno, c'era la fontana della borgata. Nei lavori per l'ampliamen­to del piazzale antistante il grande Tempio, all'inizio degli anni Sessanta, venne ricoperta. Ora è stata ricostruita. Vi si accede scendendo dal pilone del sogno e voltando a sinistra sotto il piazzale. Qui mam­ma Margherita attingeva l'acqua per gli usi domestici. Proprio in questo atteggiamento don Bosco la vide in un sogno del 1 mar­zo 1886 (cf MB 18, 27-28). Questo sogno è stato considerato anche una prefigurazione del futuro Istituto "Bernardi Semeria".


8.9 3.1.9. Monumento a mamma Margherita

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Risalendo verso il piazzale antistante al Tempio si incontra il monumento che onora mamma Margherita, realizzato nel 1992 da Enrico Manfrini. La grande statua bronzea raffigura la madre di don Bosco in abiti contadini, intenta ai lavori di casa, con un secchio in mano davanti agli animali domestici. Alle sue spalle, alcune formelle fissate ad un rustico muricciolo raccontano momenti significativi della sua vita: la morte del marito, il sogno del piccolo Giovanni a nove anni, la carità di lei verso i bisognosi, il suo arrivo a Valdocco con il figlio sacerdote.

Il monumento vuole essere un segno di riconoscenza della Famiglia Salesiana a colei che ha dato un contributo determinante alla formazione del Santo dei giovani. La prima formella la onora così: “Contadina di grande coraggio e viva fede nella Provvidenza, crebbe i figli secondo il Vangelo con ragione religione e amore. Intuendo la vocazione di Giovanni, dal racconto dei sogni misteriosi, formò il cuore di lui alla carità verso Dio e i giovani più poveri. Volontaria e cooperatrice all’Oratorio, fu per tutti “Mamma Margherita” e tale resta per tanti ragazzi di Europa, America, Asia ed Africa”.

8.10 3.1.10. Il Tempio in onore di don Bosco

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Durante la seconda guerra mondiale i superiori salesiani fanno voto di costruire una grande chiesa in onore del Santo dei giovani presso la "Casetta natia" per ottenere la protezione divina sulle opere salesiane sparse nel mondo. Solo alla fine degli anni Cinquanta il progetto si concretizza, sotto il retto­rato di don Renato Ziggiotti, quinto successore di don Bosco. Per predisporre il terreno si abbatte la cascina Biglione-Damevino, senza conoscerne il valore storico.

L'edificio, progettato dall'ingegnere Enea Ronca e reinter­pretato dall'architetto Giovanni Rubatto, salesiano laico, viene costruito tra giugno 1961 e marzo 1966.

Si presenta su due piani sovrapposti: la chiesa inferiore e il Tempio superiore. Il complesso misura all'interno 70 metri di lunghezza e 37 di larghezza. Esternamente raggiunge i 110 metri, compresa la gradinata; è sovrastato da una cupola di 16 metri di diametro che si slancia fino agli 80 metri di altezza.

La cupola è inquadrata da due campanili sui quali, a partire dall’anno giubilare 2000, è installato un concerto di 12 campane, opera della ditta Capanni di Castelnovo ne’ Monti (Reggio Emilia). Le campane sono intitolate ai “santi della famiglia salesiana” che “cantano la gloria di Dio signore del tempo e della storia”. Il campanone, ricordo del Giubileo, ha un diametro di m. 1,55 e pesa 2300 kg. I disegni sono del salesiano laico Luigi Zonta.

Tre grandi mosaici, eseguiti dalla ditta Bernasconi di Como su disegno di Mario Bogani, ornano le pareti esterne.

Sul lato ovest, un grande don Bosco accogliente che traduce visibilmente l’amore di Cristo Buon Pastore, abbozzato sullo sfondo, sembra dare il benvenuto a quanti salgono al suo colle natale.

Sulla parete rivolta ad est, verso Capriglio, è invece raffigurato Giovanni che intrattiene i compagni con il gioco e l’insegnamento, sotto lo sguardo di mamma Margherita.

Infine, il mosaico della parete sud, che dà sul cortile dell’Istituto Bernardi Seteria, ci porta al prato di Valdocco ove i giovani possono giocare e incontrare don Bosco. Anche qui, una meridiana rimanda alla spiritualità dell’allegria evocata dal Santo a proposito del suo ingresso nel seminario di Chieri. In alto, la Vergine Maria, “maestra” che ispira e guida tutta l’attività di don Bosco e dei suoi figli.


8.10.1 Chiesa inferiore

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Viene solennemente inaugurata da don Luigi Ricceri, sesto successore di don Bosco, il 15 agosto 1965, alla vigilia del centocinquantesimo anniversario della nascita del Santo.

L'interno, alto 7 metri, presenta un soffitto a cassettoni romboidali ed è ornato di marmi e vetrate che creano un'atmosfe­ra raccolta.

Lo sguardo di chi entra è naturalmente attratto dall’altar maggiore e dalla grande pala retrostante. È stata realizza­ta dal pittore Mario Càffaro Rore (1910-2001) sul tema: don Bosco e le pas­seggiate autunnali.

Dietro il presbiterio, è esposta una preziosa reliquia di don Bosco, collocata sul punto ove approssimativamente sorgeva la casa natale del Santo. Fanno da cornice alla reliquia due grandi dipinti di Mario Bogani. Sul lato sinistro l’artista ha raffigurato tre scene: il matrimonio di Francesco Bosco e Margherita Occhiena, celebrato davanti all’autorità civile secondo la legislazione napoleonica del tempo; il Battesimo di Giovannino; l’antica cascina dove egli nacque. Sul lato destro il disegno fissa il molteplice e duro lavoro della vita contadina e la morte di Francesco Bosco.

Edificato prima della riforma liturgica, l'ambiente com­prende varie cappelle laterali, con vetrate raffiguranti alcuni santi cari alla tradizione salesiana.

Muovendo dal presbitero verso il fondo della chiesa, sul lato sinistro troviamo: l’immagine di san Luigi Gonzaga (presentato da don Bosco come modello per i suoi giova­ni) con sant'Ignazio e la Vergine Maria; l’altare del SS. Sacra­mento, con quadro del Càffaro Rore raffigurante san Francesco di Sales (patrono della Famiglia Salesiana), e vetrate laterali con san Giuseppe Cafasso (amico e guida spirituale del nostro Santo) e san Giuseppe Benedetto Cottolengo (il fondatore della Piccola Casa della Divina Provvidenza, attigua all’Oratorio di Valdocco). Negli altari successivi: san Giovanni Batti­sta (festeggiato a Valdocco come onomastico di don Bosco); santa Maria Domenica Mazzarello (confondatrice delle Figlie di Maria Ausiliatrice); santa Cecilia (patrona della musica, elemento im­portante nel sistema educativo salesiano).

Sul lato destro, sempre a partire dal presbitero: san Domenico Savio (il frutto migliore della pedagogia salesiana); cappella del coro, coll'organo costruito dalla ditta Tamburini di Crema (2500 canne), affiancato da due vetrate raffiguranti san Giuseppe con la Sacra Famiglia e la beata Laura Vicuña (la prima beata tra le allieve delle Figlie di Maria Ausiliatrice); san Giovanni Evangelista (caro a don Bosco perchè giovane e prediletto dal Signore); don Bosco con i giovani; Gesù Crocifisso con i patroni d'Italia, Francesco d'Assisi e Caterina da Siena.

La parete di fondo è occupata da una riproduzione fotogra­fica a colori dell'Ultima Cena di Leonardo da Vinci, secondo la grandezza naturale del dipinto che si trova in S. Maria delle Grazie (Milano). È dono (1965) della ditta ILFORD di Saronno (Varese).


8.10.2 Chiesa superiore

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È stata completata, nella parte interna, soltanto nel 1984, quasi vent'anni dopo quella inferiore, su progetto dall'ingegnere Augusto Algostino, e decorata con grandi dipinti di Luigi Zonta. La consacrazione al culto è avvenuta il 1 maggio 1984, ad opera del card. Anastasio Ballestrero, arcivescovo di Torino.

Questa prima sistemazione lasciava però insoluti alcuni gravi problemi, tra cui quello acustico e del riscaldamento. Si rendeva necessaria una sistemazione definitiva dell’ambiente. A ciò si è potuto provvedere grazie alla generosità di un castelnovese emigrato in America, John Filippello. Profondamente legato alla terra di origine, egli ha offerto una parte del suo patrimonio per la ristrutturazione completa dell’edificio sacro. Il lavori si sono conclusi all’inizio dell’Anno Santo del 2000 e il Tempio superiore, completamente rinnovato e riconosciuto “chiesa giubilare”, ha potuto essere inaugurato solennemente il 31 gennaio 2000 dal Rettor Maggiore don Juan Edmundo Vecchi, ottavo successore di don Bosco.


Si accede al Tempio attraverso un’ampia scalinata dominata da una statua di don Bosco. Donata nel 1920 dall'Associazione Maestri Cattolici Italiani, in o­maggio al grande educatore dei fanciulli e dei giovani, era stata collocata tra la casa di Giuseppe e casa Graglia. Per valorizzarla fu spostata nell’attuale posizione nel 1986, alla vigilia delle celebrazioni centenarie della nascita del Santo.

Sopra i portali d’ingresso alla chiesa, un affresco di Mario Bogani raffigura i volti delle varie razze umane, a sottolineare l’universalità dell’opera di don Bosco. A fianco del portale di destra una lapide ricorda la visita di Giovanni Paolo II, salito al Colle il 3 settembre 1988 per onorare il Santo dei giovani nel centenario della sua nascita e per beatificare Laura Vicuña. La lapide riporta le parole usate in quell’occasione dal pontefice per definire la terra natale di don Bosco: “colle delle beatitudini giovanili”.

L’interno. Progettato dalla Studio Stefano Trucco di Torino, ha una capienza di 1500 persone circa e si presenta completamente rivestito di legno di faggio. La linea sobria e calda insieme, unitamente alla lieve luce diffusa, rendono l’ambiente accogliente e adatto al raccoglimento e alla preghiera. La curvatura dei pannelli lignei, sostenuti da ventisei travi lamellari verticali, vuole suggerire al fedele l’immagine della Chiesa come arca di salvezza per l’uomo.

Lo sguardo del pellegrino va subito alla parete absidale dominata dalla statua del Cristo Redentore nella gloria della Risurrezio­ne, con le braccia spalancate che paiono voler accogliere tutta l’umanità. La gigantesca scultura, del peso di 30 quintali, è alta 8 metri, con una apertura di brac­cia di 6. È stata scolpita in legno di tiglio da Corrado Piazza della ditta De­metz di Ortisei (Val Gardena). La sua collocazione centrale ricorda anche che tutta la missione di don Bosco è stata un condurre i giovani a Cristo, quell’ “uomo venerando nobilmente vestito” da lui visto nel sogno dei nove anni.

Procedendo all’interno della chiesa verso l’altare, al fianco destro dell’entrata si può ammirare una riproduzione dell’effigie della Madonna Consolata, patrona della diocesi di Torino, nel cui santuario don Bosco si recava spesso a pregare. Al santuario della Consolata andò anche la mattina della morte di mamma Margherita, per affidare se stesso e i suoi giovani alla Madre celeste. Il quadro è opera di Piero Ribezzo di Alba (Cuneo).

Sulla parete destra presso l’ingresso sono collocati altorilievi intagliati in tiglio, che costituiscono le stazioni della Via Lucis (dal quadro VIII al XIV) sgorgata dal mistero della Risurrezione. Come i tradizionali quadri della Via Crucis conducono a meditare la Passione e Morte di Cristo, così questi pannelli aiutano il credente a penetrare la Pasqua e i suoi frutti. Vi sono raffigurati gli eventi fondanti la fede cristiana, dalla Risurrezione, alle apparizioni pasquali, alla Pentecoste. L’opera ben si accompagna al Cristo Risorto che domina la navata; è stata eseguita ad Ortisei (Bolzano) su disegni del prof. Giovanni Dragoni di Roma.

Avvicinandosi all’altare, nel transetto destro si incontrano tre grandi dipinti su tela del Bogani. La composizione centrale è dominata dal sogno dei nove anni, mentre nello stesso dipinto, le immagini in primo piano in basso, vogliono descrivere le prime attuazioni del sogno stesso. L’artista ha raffigurato il noto episodio accaduto l’8 dicembre 1841, festa dell’Immacolata, nella sacrestia della chiesa di san Francesco d’Assisi in Torino: don Bosco, giovane prete che si appresta a celebrare la Messa, difende il giovane Bartolomeo Garelli dal sacrestano che vuole scacciarlo. Si intravede sul lato destro la casa Pinardi dove, con la Pasqua del 1846, trova sistemazione l’opera dell’Oratorio.

Sul lato sinistro il pittore ha voluto illustrare don Bosco fondatore di due Congregazioni religiose dedite all’educazione giovanile. In primo piano vediamo don Bosco attorniato dai giovani e, sullo sfondo, coloro che ne continuano la missione educativa: i Salesiani e le Figlie di Maria Ausiliatrice. San Domenico Savio, la beata Laura Vicuña e Zeffirino Namuncurà, in alto, ricordano a quali frutti può portare l’azione educativa ispirata al carisma salesiano.

Alla destra, un terzo dipinto evoca lo strettissimo legame d’affetto tra don Bosco e i giovani. Questi lo portano in trionfo, perché egli ha dato completamente la sua vita per tutti loro, specialmente i più poveri: sbandati, carcerati, lavoratori… Don Bosco li ha raggiunti tutti, mosso dalla sua ansia apostolica, ma anche grazie all’aiuto di tanti amici e benefattori giustamente raffigurati nel quadro: la marchesa Giulia di Barolo, sua prima benefattrice; san Giuseppe Cafasso, sua guida spirituale, san Giuseppe Cottolengo, modello insigne nella carità verso gli ultimi, il teologo Giovanni Borel, suo braccio destro nei primi anni dell’Oratorio.

Questo primo trittico pittorico è completato da un gruppo bronzeo che sintetizza uno dei punti cardine del sistema educativo del Santo: l’amorevolezza. Mamma Margherita accarezza il figlio sacerdote che, a sua volta, accoglie tra le sue braccia un giovane che si affida a lui. L’opera è dello scultore Riccardo Cordero.

Le raffigurazioni prendono luce da sottili vetrate, opera della ditta Alesso Bravo, su disegno in stile essenziale e simbolico, a colori tenui, di Luigi Zonta. In tutte ritorna il motivo ornamentale delle foglie di acacia, che abbondano nei boschetti attorno al Colle. Ma ognuna ha un suo peculiare significato.

A destra del quadro del sogno viene richiamato il mistero dell'Eucarestia (grappolo, spighe ed ostie); a sinistra la devozione a Maria, Immacolata e Ausiliatrice (giglio, corona, sole, luna e stelle).

A fianco del presbiterio, ancora sul lato destro, una piccola e raccolta cappella laterale conserva l’Eucaristia ed invita alla preghiera di adorazione.

Sul lato opposto del grande altare marmoreo è posta una statua in bronzo a grandezza naturale della Madonna. Opera del Cordero, esprime la bontà materna della Vergine e la sua potente intercessione, in forza del Figlio che stringe a sé e che la guarda ed ascolta.

Nel transetto sinistro si possono ammirare altri due dipinti del Bogani. A destra dell’organo è illustrato un aspetto particolare della multiforme attività del Santo: quello di costruttore di chiese, fiducioso nell’aiuto della Provvidenza. Si riconoscono le facciate delle basiliche dell’Ausiliatrice di Torino e del Sacro Cuore in Roma; la chiesa di san Francesco di Sales e quella di san Giovanni Evangelista in Torino. Sovrasta, materna e affettuosa, Maria Ausiliatrice che don Bosco ha sempre considerato come vera “economa” di tutte le sue opere. Finalmente, in alto a destra, la cupola di san Pietro, ad indicare la fedeltà del Santo al papa e il suo forte senso della comunione ecclesiale.

Alla sinistra, troviamo raffigurato l’impegno di don Bosco per le missioni. Una grande nave al centro del dipinto richiama le spedizioni missionarie da lui avviate nel 1875, mentre in alto, con pochi tratti essenziali sono evocati i popoli e le culture verso cui si è indirizzata l’azione missionaria salesiana. In primo piano, alcuni celebri missionari salesiani: a cavallo mons. Giovanni Cagliero, guida della prima spedizione missionaria (1875) in Argentina, primo cardinale della Congregazione; al suo fianco i santi mons. Luigi Versiglia e don Callisto Caravario, martirizzati in Cina nel 1930; davanti a loro, con la barba bianca, mons. Vincenzo Cimatti, iniziatore delle missioni salesiane in Giappone.

Sulla vetrata di destra sono stilizzati i giovani, destinatari della missione salesiana; su quella di sinistra il sogno dei nove anni espresso nei simboli del sole (intervento di Dio) e della mano (la guida di Maria) che trasformano i lupi in agnelli.

La parete centrale del transetto è occupata dall’organo. Costruito dalla Ditta Pinchi di Foligno (Perugia) su progetto fonico del Maestro Arturo Sacchetti, è stato inaugurato nell’anno giubilare 2000. È a trazione meccanica, con tre tastiere e 3332 canne.

Ritornando verso i portali d’ingresso si incontrano nuovamente i pannelli della Via Lucis (dal quadro I al VII) e un’immagine della Madonna di Czestochowa. La riproduzione è opera di un salesiano polacco, il sacerdote Kaszycki Henryk. È dono del papa Giovanni Paolo II in occasione della sua visita al Colle nel settembre 1988.

Sulla parete di fondo, sopra il portale d’ingresso, è collocato un ultimo dipinto del Bogani che ha raffigurato il noto episodio evangelico dei discepoli di Emmaus. In un unico quadro sono raccolti i vari momenti dell’evento: in alto, a sinistra, lo scorrere della normale vita quotidiana, mentre avvengono eventi – come la morte e risurrezione del Cristo - che sconvolgono la storia; in primo piano l’incontro dei due discepoli con il Risorto; la cena durante la quale il Signore si rivela allo spezzare del pane; la testimonianza dei due discepoli a Pietro e al primo gruppo dei credenti. La veste di Pietro ha lo stesso colore di quella del Viandante misterioso; segno che il Cristo ha dato il potere al primo degli apostoli di guidare la Chiesa con la sua stessa autorità.

La collocazione del dipinto all’uscita del Tempio ha un significato preciso: è un invito per il pellegrino a testimoniare nella vita il Cristo risorto incontrato nella Chiesa e specialmente nell’Eucaristia, come hanno saputo fare i discepoli di Emmaus.

In alto, sopra il quadro, un rosone rappresenta i quattro evangelisti e lo stemma salesiano con il motto voluto da don Bosco come programma apostolico: “Da mihi animas, coetera tolle”: “(O Signore,) dammi le anime e prenditi tutto il resto”. Dominano i colori accesi, in particolare il rosso, simbolo della carità.



8.11 3.1.11. Istituto Salesiano "Bernardi Semeria"

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Con la costruzione del Santuarietto di Maria Ausiliatrice (1918) un primo gruppo di Salesiani e di aspiranti alla vita salesiana, viveva nei locali adiacenti.

Alla vigilia della beatificazione di don Bosco (2 giugno 1929) don Filippo Rinaldi, terzo successore del Santo, pensò di erigere sul Colle un centro per l'educazione e la formazione professionale dei giovani. A questo scopo, anche in previsione dei futuri pellegrinaggi, acquistò (24 gennaio 1929) la cascina Biglione-Damevino con tutti i terreni, non avendo ottenuto l’appezzamento a nord della della "Casetta", come si sarebbe voluto. In questo luogo, negli anni 1938-1943, per impulso di don Pietro Ricaldone, quarto successore di don Bosco, venne edi­ficato il grande istituto offerto dall'avvocato Pietro Bernardi, zio del padre Semeria, barnabita, celebre scrittore e oratore sacro.

Per decenni accolse ragazzi, molti dei quali orfani o pove­ri, desiderosi di consacrarsi al Signore nella vita salesiana. Dopo aver appreso una professione (nei settori agricolo, mecca­nico, grafico e della falegnameria) da questo centro partirono centinaia di missionari e apostoli dei giovani. È stato anche Centro rinomato di formazione tecnica di Salesiani provenienti da tutto il mondo.

Attualmente nell’Istituto opera la Comunità salesiana del Colle che accoglie pellegrini, turisti e gruppi giovanili e ospita un Centro Professionale specializzato nelle Arti Grafiche.



8.12 3.1.12. Il Museo etnologico-missionario

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Presso l'Istituto Salesiano ha sede il Museo etnologico-missionario. Il materiale ivi conservato fu raccolto dai missiona­ri salesiani ed esposto originariamente a Roma nel 1925, in oc­casione del cinquantenario della prima spedizione missionaria salesiana. Terminata l'esposizione romana, la maggior parte de­gli oggetti fu utilizzata in mostre parziali effettuate a Torino (1926), Barcellona (1930), Napoli (1934), Bari (1935) e poi Bo­logna, Padova e Milano. Purtroppo in questi spostamenti vari pezzi andarono smarriti.

Nel 1941 il materiale superstite (forse solo una metà di quello esposto a Roma nel 1925) venne trasportato al Colle per una esposizione permanente. Per il centenario della morte di don Bosco i locali del vecchio museo sono stati sostituiti da un e­dificio moderno e più adatto. L’ultimo riordino del materiale è del 2000.


8.12.1 I materiali esposti

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I pezzi conservati nel museo sono 6810, ma gli oggetti e­sposti sono circa 2500.

Un primo nucleo di materiali etnografici, provenienti dalla Patagonia, Terra del Fuoco e Paraguay, risale al 1901-1910 e fu donato all'Istituto Salesiano di Valsalice (Torino) dove dal 1887 al 1925 ebbe sede un seminario salesiano per le Missioni E­stere.

Il fondo più consistente fu raccolto tra 1923 e 1924 dalle varie regioni missionarie. Gli oggetti dell'Estremo Oriente ven­nero aggiunti nel 1930.

La successione delle vetrine rispetta lo sviluppo storico delle missioni salesiane, soprattutto nella parte relativa all'America Latina. Si incontrano successivamente nel percorso, strutture espositive dedicate a: Argentina (Patagonia e Terra del Fuoco, con le etnie degli Onas, Alakaluffi, Yanages); Para­guay (in particolare la tribù dei Moros) e Bolivia; Equador (gli Shuar); Brasile (etnie dei Bororo, Chavantes e Karaja); Venezuela (Rio Negro e Yanomami).

Ci sono poi vetrine per l'Africa (specialmente per il Kenya), l’Oceania, la Cina, il Giappone, il Vietnam, la Birmania, la Thailandia, l'Assam e l'India. l'Australia.

Due settori espositivi particolari sono dislocati lungo il percorso: a metà, quello dedicato alla grande fauna di varie na­zioni e continenti; all'uscita quello riservato alla piccola fauna: coleotteri, lepidotteri e insetti vari.

La visita è introdotta e guidata da testi, elementi grafici e fotografici che aiutano la lettura missionaria e salesiana.




9 3.2. MORIALDO

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A nord del santuarietto di Maria Ausiliatrice e della casa di Giuseppe una strada, che si snoda sul crinale della collina, raggiunge, dopo circa 2 chilometri, il gruppo di abitazioni che dà il nome alla frazione Morialdo.


9.1 3.2.1. Casa di san Domenico Savio

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Arrivando dal Colle, si incontra anzitutto, sulla destra, un edificio sul quale una lapide del 1910 ricorda la permanenza della famiglia Savio. In questa casa, allora pro­prietà dei Viale, dal novembre 1843 al febbraio 1853 (si noti che le date della lapide non sono esatte) abitò san Domenico Savio (1842- 1857). Il padre Carlo, di professione fabbro fer­raio, e la mamma Brigida, sarta, vi si erano trasferiti da S. Giovanni di Riva presso Chieri, quando Domenico aveva appena un anno d'età. Si sposteranno poi, definitivamente, a Mondonio. Questi traslochi erano imposti dall'esigenza di trovar lavoro, poiché la famiglia non possedeva beni immobili.

Le mura che vediamo testimoniano l'infanzia serena di Do­menico e l'educazione attenta e solida impartitagli dai genito­ri e dal cappellano.

Don Bosco, raccontando la vita del suo allievo, presenta una serie di episodi avvenuti proprio in questa casa. Ricordia­mo, in particolare, i gesti di affetto nei riguardi del padre che torna a casa dopo il lavoro e il rifiuto di mettersi a ta­vola con l'ospite che si è seduto senza pregare. Ma la pagina più significativa è certo quella in cui viene descritta la pri­ma Comunione di Domenico, avvenuta probabilmente nella chiesa di Morialdo (8 aprile 1849), quando ancora il giovane santo a­bita in questa casa:


Quel giorno fu per lui sempre memorabile e si può chiamare vero principio o piuttosto continuazione di una vita, che può servire di modello a qualsiasi fedel cri­stiano. Parecchi anni dopo facendolo parlare della sua prima comunione, gli si vedeva ancora trasparire la più vi­va gioia sul volto: oh! quello, soleva dire, fu per me un bel giorno ed un gran giorno. Si scrisse alcuni ricor­di che conservava gelosamente in un libro di divozione e che spesso leggeva. Io ho potuto averli tra le mani e li inserisco qui nella sua originale semplicità. Erano di questo tenore: "Ricordi fatti da me, Savio Domenico, l'an­no 1849 quando ho fatta la prima comunione essendo di 7 anni.

1° Mi confesserò molto sovente e farò la comunione tut­te le volte che il confessore mi dà licenza. –

2° Voglio santificare i giorni festivi. –

3° I miei amici saranno Gesù e Maria. –

4° La morte, ma non peccati". –

Questi ricordi, che spesso andava ripetendo, furono co­me la guida delle sue azioni sino alla fine della vita” (DS 19-20).


Altri ricordi, relativi alla permanenza di Domenico a Mo­rialdo, ci sono conservati in una lettera scritta dal cappella­no e maestro don Giovanni Zucca a don Bosco:


Murialdo, 5 maggio 1857


Caro don Bosco,

tu desideri qualche cenno sul testé defunto Savio, riferentesi al fatto che a me vicino abitava e fre­quentava la scuola e la chiesa campestre di San Pietro.

Volentieri m'accingo a scriverti. Nei primi giorni che io fui a Murialdo, vedeva spesso un figliuolo di forse cinque anni venir in compagnia della madre a pregare sul limitare della cappella, con un raccoglimento veramente raro all'età sua. Nell'andata e ritorno sovente incontran­domi mi salutava rispettosamente, talché da meraviglia compreso e da rispetto, era ansioso di sapere chi egli si fosse, e mi disse essere figlio del ferraio Savio, detto Minot.

Nel susseguente anno, cominciò a venire a scuola, mo­strando assiduità, docilità e diligenza; e, siccome era fornito di capacità sufficiente, fece in poco tempo note­voli progressi. La pietà, già dimostrata sul limitare del­la chiesa pregando colla madre, cresceva in lui con gli anni; aiutò la sua capacità nell'imparare presto a servire la S. Messa, e vi si portava potrei dire quotidianamente. L'amore alle funzioni religiose lo portava a servire con compostezza la Benedizione del SS. Sacramento e cantar lo­di e inni con un compagno di scuola alternativamente col padre, il che praticava anche in casa e nelle stalle.

Si confessava alquante volte fra l'anno e, appena fu capace di distinguere il pane celeste dal terreno, venne ammesso alla S. Comunione, che egli riceveva con una divo­zione in quella tenera età ammirevole. Costretto a conver­sar coi discoli, non mi consta che egli abbia avuto con essi qualche seria contesa e molto meno poi che si sia la­sciato trascinare dal loro esempio a prender divertimenti smodati o pericolosi o indecenti; nè a depredare, come si suole da simil marmaglia, le frutta altrui, o arrecar gua­sti o a burlare i vecchi e i tapini.

Nel vederlo io ho più volte detto: ecco un figlio di buone speranze, purché s'en vada fuori di casa, poiché in essa pochissimi ragazzi, tanto dell'uno che dell'altro sesso, fanno buona riuscita, per l'indolenza ecc. ecc. dei parenti. Gli esempi sono sgraziatamente molti, e la quoti­diana maestra delle cose, l'esperienza, mi ha fatto toccar con mano quanto avesse ragione il marchese di Breme quando disse: l'amor dei genitori, come quell'altro amore, ha pu­re la benda sugli occhi e bene spesso, senza volerlo, in­vece di giovare nuoce (...).

Il tuo caro e divoto amico don Zucca.


(Da M. Molineris, Nuova vita di Domenico Savio, Colle Don Bosco 1974, pp. 63-64).


È possibile visitare l’edificio o utilizzarlo per momenti di ritiro e preghiera con piccoli gruppi, previa intesa con l’ufficio accoglienza del Tempio del Colle.


9.2 3.2.2. Chiesa di san Pietro e casa del cappellano

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Continuando il cammino si giunge alla cappella della fra­zione, dedicata a san Pietro.

Era la chiesa frequentata ordinariamente dalle famiglie dei Becchi, troppo lontane dalla parrocchia di Castelnuovo. Nella casa addossata al muro di levante abitava un cappellano stipendiato dalle famiglie della borgata e incaricato dal parroco della cura pastorale della zona.

Qui Giovannino, verso gli undici o dodici anni, durante la festa patronale, si preoccupa di convincere la gente a inter­rompere i divertimenti e partecipare alle funzioni vespertine (cf MB 1, 144-146). Ma, in modo particolare, il luogo è legato al ricordo di due persone che ebbero un ruolo decisivo nella vita del Santo: don Giovanni Calosso e san Giuseppe Cafasso.


9.2.1 Don Calosso e Giovannino Bosco

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Nell'estate del 1829 giunge a Morialdo don Giovanni Mel­chiorre Calosso (Chieri 1760-Morialdo 1830) ed assume la cura pastorale della zona, come cappellano. Era stato parroco a Bruino (1791-1813), poi, dimessosi per una serie di calunnie ed incomprensioni, ave­va aiutato nel ministero prima il fratello Carlo Vincenzo, parroco di Berzano di San Pietro (Asti), poi il parroco di Carignano. Abitava la piccola canonica che ancora oggi vediamo.

Egli svolge un ruolo determinante nella formazione di Gio­vanni adolescente, reduce dalla cascina Moglia e in difficili rapporti col fratello Antonio.

Il primo incontro tra i due avviene lungo la discesa che da Buttigliera porta a Morialdo, tra il 5 e il 9 novembre 1829, mentre rincasano dopo aver partecipato alla predicazione delle missioni svolte nella zona per il Giubileo straordinario indetto da Pio VIII. Nel dialogo don Calosso scopre l'intelli­genza e la bontà d'animo di Giovanni e si offre di aiutarlo ne­gli studi. Incomincia così un'amicizia profonda e costruttiva, attraverso la quale l'anziano sacerdote, ancor più che i rudi­menti della lingua latina, insegna al quattordicenne contadino i primi passi di una autentica vita spirituale.

Don Bosco lo ricorda con particolare commozione:


Io mi sono tosto messo nelle mani di D. Calosso, che soltanto da alcuni mesi era venuto a quella cappellania. Gli feci conoscere tutto me stesso. Ogni parola, ogni pen­siero, ogni azione eragli prontamente manifestata. Ciò gli piacque assai, perchè in simile guisa con fondamento pote­vami regolare nello spirituale e nel tempo­rale.

Conobbi allora che voglia dire avere una guida stabile, di un fedele amico dell'anima, di cui fino a quel tempo e­ra stato privo. Fra le altre cose mi proibì tosto una pe­nitenza che io era solito fare, non adatta alla mia età e condizione. M'incoraggì a frequentar la confessione e la comunione, e mi ammaestrò intorno al modo di fare ogni giorno una breve meditazione o meglio un po' di lettura spirituale. Tutto il tempo che poteva, nei giorni festivi lo passava presso di lui. Ne' giorni feriali, per quanto poteva, andava servirgli la santa Messa. Da quell'epoca ho cominciato a gustare che cosa sia vita spirituale, giacché prima agiva piuttosto materialmente e come macchina che fa una cosa senza saperne la ragione.

Alla metà di settembre ho cominciato regolarmente lo studio della grammatica italiana, che in breve ho potuto compiere e praticare con opportune composizioni. A Natale ho dato mano al Donato (ndr.: la grammatica latina), a Pa­squa diedi principio alle traduzioni dal latino in italia­no e vicendevolmente. In tutto quel tempo non ho mai ces­sato dai soliti trattenimenti festivi nel prato, o nella stalla d'inverno. Ogni fatto, ogni detto, e posso dire o­gni parola del maestro serviva a trattenere i miei udito­ri” (MO 47-48).


Giovanni, dopo aver fatto per un po' la spola tra casa e canonica, dividendo il suo tempo nei lavori campestri e nello studio, si stabilisce presso il cappellano, offrendo in cambio i suoi servizi. Vive così alcuni mesi di serena pace e di in­tenso studio, pur continuando ad aiutare i familiari (cf MO 50).

Purtroppo il 21 novembre 1830 un infarto stronca don Ca­losso. Giovanni consegna ai parenti del sacerdote la chiave della piccola cassaforte, che pure gli era stata donata dal mo­rente. Lo scrigno contiene ben 6000 lire (cf MB 1, 217), una cifra notevole se si pensa che al tempo lo stipendio annuo di un pro­fessore di scuola pubblica si aggirava sulle 600-700 lire.

Si trova a dover affrontare nuovamente da solo le diffi­coltà di studio e di maturazione vocazionale, anche se ora le idee sono più chiare e il suo spirito più maturo e forte:


La morte di D. Calosso fu per me un disastro irrepara­bile. Io piangeva inconsolabile il benefattore defunto. Se era sveglio pensava a lui, se dormiva, sognava di lui; le cose andarono tanto oltre, che mia madre, temendo di mia sanità, mandommi alcun tempo con mio nonno in Capriglio.

A quel tempo feci un altro sogno, secondo il quale io era acremente biasimato, perchè aveva riposta la mia spe­ranza negli uomini e non nella bontà del Padre celeste” (MO 52).



9.2.2 Incontro tra il chierico Cafasso e Giovannino Bosco

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A Morialdo, durante una festa religiosa (forse nel 1830?), di fronte alla porta della chiesa, Giovanni fa la conoscenza con il chierico Giuseppe Cafasso, premessa di un'altra fecondissi­ma amicizia:



Era la seconda Domenica di ottobre e dagli abitanti di Murialdo si festeggiava la Maternità di Maria SS., che era la Solennità principale fra quegli abitanti. Ognuno era in faccende per le cose di casa o di chiesa, mentre altri e­rano spettatori o prendevano parte a giuochi o a trastulli diversi.

Un solo io vidi lungi da ogni spettacolo; ed era un chie­rico, piccolo nella persona, occhi scintillanti, aria af­fabile, volto angelico. Egli era appoggiato alla porta della Chiesa. Io ne fui come rapito dal suo sembiante, e sebbene io toccassi soltanto l'età di dodici anni (ndr.: in realtà Giovanni doveva avere tra i 13 e i 15 anni, poiché il Cafasso vestì l’abito più tardi), tutta­via, mosso dal desiderio di parlargli, mi avvicinai e gli indirizzai queste parole: Signor abate, desiderate di vedere qualche spettacolo della nostra festa? Io vi con­durrò di buon grado ove desiderate.

Egli mi fe' grazioso cenno di avvicinarmi, e prese ad interrogarmi sulla mia età, sullo studio, se io era già promosso alla Santa Comunione, con che frequenza andava a confessarmi, ove andava al Catechismo e simili. Io rimasi come incantato a quelle edificanti maniere di parlare; ri­sposi volentieri ad ogni domanda; di poi, quasi per rin­graziarlo della sua affabilità, ripetei l'offerta di ac­compagnarlo a visitare qualche spettacolo o qualche novi­tà.

Mio caro amico, egli ripigliò, gli spettacoli dei preti sono le funzioni di Chiesa; quanto più esse sono di­votamente celebrate, tanto più grati ci riescono i nostri spettacoli. Le nostre novità sono le pratiche della reli­gione, che sono sempre nuove e perciò da frequentarsi con assiduità; io attendo solo che si apra la Chiesa per poter entrare.

Mi feci animo a continuare il discorso, e soggiunsi: È vero quanto mi dite; ma v'è tempo per tutto: tempo di andare in chiesa, e tempo per ricrearci.

Egli si pose a ridere, e conchiuse con queste memorande parole, che furono come il programma delle azioni di tutta la sua vita: Colui che abbraccia lo stato ecclesiastico si vende al Signore; e di quanto avvi nel mondo, nulla de­ve più stargli a cuore, se non quello che può tornare a maggior gloria di Dio e a vantaggio delle anime” (MO 51-52).


San Giuseppe Cafasso (1811-1860) sarà maestro di teolo­gia pastorale, confessore e direttore spirituale di don Bosco durante i primi vent'anni del suo sacerdozio. Quando nel 1841, dopo l'ordinazione sacerdotale, Giovanni Bosco si troverà a de­cidere su alcune proposte di impiego pastorale - tra le quali quella di cappellano proprio a Morialdo - il Cafasso lo convin­cerà a frequentare il Convitto Ecclesiastico di Torino per un perfezionamento culturale e pastorale. Egli infatti intuiva la missione particolare che il Signore riservava al giovane prete dei Becchi.


Sul finire di quelle vacanze mi erano offerti tre im­pieghi, di cui doveva scegliere uno: l'uffizio di Maestro in casa di un signore genovese collo stipendio di mille franchi annui; di cappellano di Murialdo, dove i buoni po­polani, pel vivo desiderio di avermi, raddoppiavano lo stipendio dei cappellani antecedenti; di Vice curato in mia patria. Prima di prendere alcuna definitiva deliberazione ho voluto fare una gita a Torino per chiedere consiglio a D. Caffasso (ndr.: don Bosco utilizza sempre questa gra­fia al posto di "Cafasso"), che da parecchi anni era dive­nuto mia guida nelle cose spirituali e temporali. Quel santo sacerdote ascoltò tutto, le profferte di buoni sti­pendii, le insistenze dei parenti e degli amici, il mio buon volere di lavorare. Senza esitare un istante egli mi indirizzò queste parole: “Voi avete bisogno di studiare la morale e la predicazione. Rinunciate per ora ad ogni proposta e venite al Convitto”. Seguii con piacere il sa­vio consiglio, e il 3 Novembre 1841 entrai nel mentovato Convitto” (MO 115-116).


9.2.3 La chiesa di san Pietro e Domenico Savio

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Qualche anno dopo, la piccola chiesetta del borgo vede an­che le preghiere e il fervore di Domenico Savio fanciullo, che nei dieci anni circa di permanenza a Morialdo si presta ordina­riamente a servir Messa a don Giovanni Zucca (1818-1878) cap­pellano. Don Bosco, nella biografia di Domenico riporta un gu­stoso quadretto:



Di cinque anni egli aveva già imparato a servire la santa Messa e la serviva divotissimamente. Ogni giorno vi andava, e se altri voleva servirla, egli la sentiva, al­trimenti vi si prestava con un contegno il più edificante. Siccome era giovine di età e piccolo di statura, non poteva trasportare il messale; ed era cosa curiosa il vederlo av­vicinarsi ansioso all'altare, levarsi sulla punta dei pie­di, tendere quanto poteva le piccole braccia, fare ogni sforzo per toccare il leggio. Se il sacerdote od altri avesse voluto fargli la cosa più cara del mondo, doveva, non già traspor­tare il messale, ma solo avvicinargli il leggio tanto che lo potesse raggiungere, ed allora egli con gioia lo portava all'altro lato dell'altare” (DS 16-17).


Don Zucca funge anche da maestro elementare per i ragazzi della frazione. La scuola - aperta nell'anno scolastico 1847-1848 in seguito ad una serie di provvedimenti legislativi sfociati poi nella Legge Boncompagni del 1848 - era collocata in una stanza al pian terreno della canonica. Vi si accede dall’interno della chiesa, sul lato desto della porta d’ingresso. Domenico la frequenta dal 1848 al 1850. Quando l'età e la salute glielo permetteran­no, continuerà i suoi studi nelle scuole elementari superiori di Castelnuovo (1852 -1853).



9.3 3.2.3. La collina in regione "Sussambrino"

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Lungo la strada provinciale, alla destra di chi va dai Becchi a Castelnuovo, proprio di fronte al bivio per Buttiglie­ra, sul pendio di una collina coltivata a vigneti si vede bian­cheggiare la casa del Sussambrino.


9.3.1 La cascina

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Nel 1830 Giuseppe Bosco, appena diciottenne, prende in af­fitto questo podere in collaborazione con Giuseppe Febbraro e si trasferisce nella cascina, portando con sé mamma Margherita e il fratello Giovanni. Torna così la serenità familiare ed un briciolo di sicurezza economica in più, anche se il lavoro si raddoppia. La madre e il figlio minore, infatti, alternano la loro residenza tra questa abitazione e i Becchi, secondo le ne­cessità dei lavori agricoli.

Giovanni, che dopo la morte di don Calosso si è iscritto alle scuole comunali di Castelnuovo e le frequenta a partire dalla metà di dicembre 1830, si vede facilitato per la riduzio­ne delle distanze. La strada da percorrere a piedi quattro vol­te al giorno rimane tuttavia faticosa, soprattutto nel periodo invernale per le nevi e il gelo intenso. Margherita, per aiu­tarlo, gli trova alloggio in Castelnuovo.

In questo luogo i Bosco rimangono nove anni. Nel frattempo Giuseppe sposa Maria Calosso (9 maggio1833). Dal matrimonio nascono Margherita (1834, vive solo due mesi e mezzo), Filomena (1835-1926) e Rosa Domenica (1838-1878). Altri sette figli nasce­ranno nella nuova casa dei Becchi, tra 1841 e 1856.

Giovanni, che dal 1831 si è traferito a Chieri per fre­quentarvi la scuola pubblica prima e il seminario poi, ritorna durante le vacanze estivo-autunnali al Sussambrino. Fattosi or­mai robusto giovanotto, presta un valido aiuto nel podere, sfruttando però ogni momento libero per i suoi studi. Il busto in bronzo collocato sul muro del rustico ricorda questi anni laboriosi e felici.

Don Bosco ci descrive come trascorreva il periodo delle vacanze durante gli studi seminaristici:


Un grande pericolo pei chierici sogliono essere le va­canze, tanto più in quel tempo che duravano quattro mesi e mezzo. Io impiegava il tempo a leggere, a scrivere; ma, non sapendo ancora a trar partito dalle mie giornate, ne perdeva molte senza frutto. Cercava di ammazzarle con qualche lavoro meccanico. Faceva fusi, cavigliotti, bocce o pallottole al torno; cuciva abiti, tagliava, cuciva scarpe; lavorava nel ferro, nel legno. Ancora presentemen­te avvi nella casa mia di Murialdo uno scrittoio, una ta­vola da pranzo con alcune sedie che ricordano i capi d'o­pera di quelle mie vacanze. Mi occupava pure a segare l'erba nei parti, a mietere il frumento nel campo; a spam­pinare, a smoccolare, a vendemmiare, a vineggiare, a spil­lare il vino e simili. Mi occupava de' miei soliti giova­netti, ma ciò poteva solamente fare ne' giorni festivi. Trovai però un gran conforto a fare catechismo a molti miei compagni, che trovavansi ai sedici ed anche ai di­ciassette anni digiuni affatto delle verità della fede. Mi sono eziandio dato ad ammaestrarne alcuni nel leggere e nello scrivere con assai buon successo, poiché il deside­rio, anzi la smania d'imparare mi traeva giovanetti di tutte le età. La scuola era gratuita, ma metteva per con­dizione assiduità, attenzione e la confessione mensile. In principio alcuni, per non sottoporsi a queste condizioni, cessarono. La qual cosa tornò di buon esempio e di inco­raggiamento agli altri.

Ho pure cominciato a fare prediche e discorsi col per­messo e coll'assistenza del mio prevosto” (MO 96).


Della permanenza di don Bosco al Sussambrino vogliamo an­cora ricordare il dialogo tra mamma Margherita e il figlio la vigilia dell'ingresso di questi in seminario:


La sera antecente alla partenza Ella mi chiamò a sé e mi fece questo memorando discorso: Gioanni mio, tu hai vestito l'abito sacerdotale, io ne provo tutta la consola­zione, che una madre può provare per la fortuna di suo fi­glio. Ma ricordati che non è l'abito che onora il tuo stato, è la pratica della virtù. Se mai tu venissi a dubi­tare di tua vocazione, ah per carità! non disonorare que­sto abito. Deponilo tosto. Amo meglio di avere un povero contadino, che un figlio prete trascurato ne' suoi doveri. Quando sei venuto al mondo, ti ho consacrato alla Beata Vergine; quando hai cominciato i tuoi studi, ti ho racco­mandato la divozione a questa nostra Madre; ora ti racco­mando di esserle tutto suo: ama i compagni divoti di Ma­ria; e se diventerai sacerdote raccomanda e propaga mai sempre la divozione di Maria.

Nel terminare queste parole mia madre era commossa, io piangeva. Madre, le risposi, vi ringrazio di tutto quel­lo che avete detto e fatto per me; queste vostre parole non saranno dette invano e ne farò tesoro in tutta la mia vita” (MO 90).


9.3.2 I vigneti e la fontana della Renenta

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Sul pendio esposto al sole esistevano - e in parte restano ancora - rigogliosi vigneti. C'era anche la vigna dell'amico Giuseppe Turco, al quale Giovanni, mentre custodivano le uve al tempo della vendemmia, rivelò lo scopo del suo impegno nello studio: diventare sacerdote a favore dei giovani poveri e ab­bandonati. A lui raccontò anche un sogno fatto al Sussambrino. Gli era parso di vedere la valle sottostante tramutata in una grande città con turbe di ragazzi schiamazzanti nelle strade e nelle piazze. Come nel sogno dei nove anni, un Personaggio mae­stoso e una Signora gli avevano indicato il modo di trasformare quei ragazzacci in buoni cristiani (cf MB 1, 424-425).

Ai piedi della collina, proprio sulla strada, esiste anco­ra un arco in mattoni che copre un'antica vasca in cui si rac­coglie l'acqua di una polla sorgiva. È la fontana detta della Renen­ta, dal nome del pendio che dal Sussambrino va verso i Becchi. Il piano stradale attuale è sopraelevato rispetto all'anti­co e passa ad una certa distanza. Durante il periodo di siccità rimaneva l'unico punto di rifornimento idrico per i contadini della zona. Possiamo pensare che anche Giovannino Bosco si sia dissetato più di una volta a questa fonte, e vi abbia portato il bestiame.

La vigna di Giuseppe Turco, tanto cara a don Bosco, era vicinissima alla fontana ed egli in seguito dirà: “I miei studi li ho fatti nella vigna di Giuseppe Turco alla Renenta” (MB 1, 424).



10 3.3. CAPRIGLIO

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10.1 3.3.1. Casa nativa di mamma Margherita

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A due chilometri circa dai Becchi troviamo Capriglio (230 metri sul livello del mare), un piccolo paese composto da fra­zioni e borgate sparse tra il verde delle colline. Alla frazione Cecca (sulla destra per chi dai Becchi va verso il paese), esiste an­cora la casa ove Margherita, la mamma di don Bosco, nacque il 1 aprile 1788, sestogenita di Melchiorre Occhiena e Domenica Bos­sone.

Una costruzione molto semplice, di struttura rurale, oggi ben restaurata e nuovamente abitata. Sulla facciata una lapide ricorda l'evento. Nel cortile un pozzo, tutt'ora esistente, forniva l'acqua per il fabbisogno quotidiano.

Qui abitò Margherita fino al giorno delle nozze e qui, probabilmente, continuò ad abitare suo fratello, lo zio Michele (1795-1867), valido aiuto nei momenti diffici­li. Fu lui a condurre via dalla Cascina Moglia Giovanni, ad ap­poggiarlo nel suo desiderio di frequentare le scuole e a tro­vargli sistemazione in Chieri.

È interessante notare che il nonno materno di don Bosco, Melchiorre, morì l'11 gennaio 1844 all'età di 92 anni; ebbe co­sì la gioia di vedere il nipote sacerdote.




10.2 3.3.2. Chiesa parrocchiale e casa di don Giuseppe Lacqua

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A un chilometro circa dalla casa degli Occhiena sorge la Parrocchiale di Capriglio. Margherita, che vi fu battezzata il giorno stesso in cui nacque, la frequentò assiduamente per tut­to il tempo che rimase al paese e vi celebrò il matrimonio con Francesco Bosco il 6 giugno 1812.

Sulla piazza di fianco alla chiesa s'affaccia la casa nel­la quale abitava il maestro del paese don Giuseppe Lacqua. Ora in questi ambienti è stato allestito un “Museo Mamma Margherita”. Al primo il maestro raccoglieva i bambini della scuola primaria comunale. Anche Giovannino fu suo allievo almeno per due inver­ni. Egli, pur appartenendo ad un altro comune, fu accolto gra­zie all'interessamento della zia Marianna Occhiena (1785-1857), domestica di don Lacqua. La data di questa frequenza scolastica è incerta, da collocarsi tra il 1824 e il 1827. Si tratta del primo incontro di don Bosco con la scuola. Durante questo periodo il fanciullo abitava con nonni e zii nella casa della frazione Cecca.

Scrive don Bosco nelle sue Memorie:


Intanto io era giunto al nono anno di età; mia madre desiderava di mandarmi a scuola, ma era assai impacciata per la distanza, giacchè dal paese di Castelnuovo eravi la distanza di cinque chilometri. Recarmi in collegio si op­poneva il fratello Antonio. Si prese un temperamento. Il tempo d'inverno frequentava la scuola del vicino paesello di Capriglio, dove potei imparare gli elementi di lettura e scrittura. Il mio maestro era un sacerdote di molta pie­tà, a nome Giuseppe Delacqua (sic), il quale mi usò molti riguardi, occupandosi assai volentieri della mia istruzio­ne e più ancora della mia educazione cristiana. Nell'esta­te poi appagava mio fratello lavorando la campagna” (MO 34).

Egli rimase sempre affezionato al suo primo maestro. Nel 1841, sacerdote novello, andrà a visitarlo a Ponzano, dove don Lacqua si era trasferito come insegnante. Costui si spense a Godio (frazione di Castelletto Merli in provincia di Alessan­dria), il 3 gennaio 1847, a 83 anni d'età. La zia Marianna, in­vitata da don Bosco, passerà i suoi ultimi anni a Valdocco, in aiuto di mamma Margherita, morendovi il 21 giugno 1857.

Durante le vacanze, mentre studiava teologia a Chieri, il chierico Bosco fu invitato a Capriglio per tenere il panegirico nella festa della Natività di Maria:


Predicai sopra il SS. Rosario nel paese di Alfiano, nelle vacanze di fisica; sopra S. Bartolomeo Apostolo, do­po il primo anno di teologia in Castelnuovo d'Asti; sopra la Natività di Maria, in Capriglio. Non so quale ne sia stato il frutto. Da tutte parti però era applaudito, sicché la vanagloria mi andò guidando finché ne fui di­singannato come segue. Un giorno, dopo la detta predica sulla Nascita di Maria, ho interrogato uno, che pareva dei più intelligenti, sopra la predica, di cui faceva elogii sperticati, e mi rispose: La sua predica fu sopra le po­vere anime del Purgatorio ed io aveva predicato sopra le glorie di Maria” (MO 96-97).



11 3.4. CASTELNUOVO DON BOSCO

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Fertile centro agricolo della provincia di Asti, noto per le sue produzioni vinicole, si arrocca su un dosso collinare del basso Monferrato, a 240 metri di altitudine ed è lambito dal torrente Traversola. Dista dal capoluogo 30 chilometri, ma gravita preferenzialmente intorno a Torino, da cui è distante 20 chilometri circa. Oggi conta circa 2800 abitanti, mentre ai tempi di don Bosco ne aveva 3000. Comprendeva quattro "villate": Bar­della, Nevissano, Ranello (dova abitavano i nonni paterni di Domenico Savio) e Morialdo. Era capoluogo di mandamento con giurisdizione sui comuni di Albugnano, Berzano, Buttigliera, Moncucco, Mondonio, Pino e Primeglio.

Nell'Ottocento vi si teneva mercato il giovedì di ogni settimana e due fiere annuali, una il primo martedì dopo Pasqua e l'altra l'ultimo lunedì di novembre, dedicate soprattutto al commercio del bestiame, dei drappi e delle tele.

Patria di don Bosco, dal quale oggi prende nome, ha dato i natali anche ad altri insigni personaggi della Chiesa dell'Ot­tocento. Ricordiamo: san Giuseppe Cafasso (1811-1860), con­fessore e amico di don Bosco, grande direttore spirituale e formatore di sacerdoti; il beato canonico Giuseppe Allamano (1851-1926), nipote del Cafasso, allievo di don Bosco e fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata; il card. Giovanni Cagliero (1838-1926), uno dei primi discepoli di don Bosco e iniziatore delle opere salesiane in Sudamerica; mons. Giovanni Battista Bertagna (1828-1905), prima chierico convittore all'Oratorio, poi professore di teologia morale e rettore del Convitto Ecclesiastico, infine vescovo ausiliare e rettore del seminario di Torino.

Lo stesso Domenico Savio, durante il periodo della sua permanenza a Morialdo (1844-1853), frequenta le elementari su­periori di Castelnuovo (dal 21 giugno 1852 al febbraio 1853, quando con i genitori si trasferisce a Mondonio).

Il nonno di don Bosco, Filippo Antonio, che proveniva da Chieri, prima di trasferirsi definitivamente ai Becchi (1793) abitò per un certo periodo a Castelnuovo.

Sulla piazzetta (piazza don Bosco) alla base della salita che porta al municipio e alla chiesa parrocchiale si può ammi­rare un monumento in marmo rappresentante don Bosco tra due ra­gazzi: uno europeo e uno indio. Opera di Giovanni Antonio Stuardi (scultore di Poirino), fu eretto dai castelnovesi nel 1898, a dieci anni dal­la morte del Santo, primo monumento in sua memoria che sia sta­to costruito.



11.1 3.4.1. La Parrocchiale di sant'Andrea

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La chiesa parrocchiale è collocata sulla parte alta del paese, presso le vestigia del castello dei Rivalba ed altri an­tichi edifici. Trasformata dall'originale struttura gotica in quella barocca nella prima parte del '600 e ristrutturata verso il 1700, contiene nel suo interno dipinti seicenteschi di Gu­glielmo Caccia detto il Moncalvo (1568-1625), mentre l'icona ovale dell'altar maggiore, rappresentante il patrono sant'An­drea, è attribuita al Rassoso (Vittorio Amedeo Rapous?).

Questa chiesa ci ricorda alcune tappe fondamentali della vita cristiana di don Bosco.

Il 17 agosto 1815 vi riceve il Battesimo. Padrini sono il nonno materno Melchiorre Occhiena e la zia paterna Maddalena Bosco. Il fonte battesimale, nella prima cappella a destra en­trando in chiesa, fu sostituito nel 1873. Dell’antico si conserva ancora un frammento fissato sul lato. Qui furono battezzati anche san Giuseppe Cafasso e gli altri illustri castelnovesi ricordati sopra.

Nella Pasqua del 1826, all'età di undici anni, Giovanni Bosco viene ammesso alla prima Comunione, dopo un'accurata pre­parazione sotto la guida di mamma Margherita.

La vicenda è rimasta vivamente impressa nella memoria di don Bosco:


Io era all'età di anni undici quando fui ammesso alla prima comunione. Sapevo tutto il piccolo catechismo, ma per lo più niuno era ammesso alla comunione se non ai do­dici anni. Io poi, per la lontananza dalla chiesa, era sconosciuto al parroco, e doveva quasi esclusivamente li­mitarmi alla istruzione religiosa della buona genitrice. Desiderando però di non lasciarmi andare più avanti nell'età senza farmi praticare quel grande atto di nostra santa religione, si adoperò Ella stessa a prepararmi come meglio poteva e sapeva. Lungo la quaresima mi inviò ogni giorno al catechismo, di poi fui esaminato, promosso, e si era fissato il giorno in cui tutti i fanciulli dovevano fare pasqua.

In mezzo alla moltitudine era impossibile di evitare la dissipazione. Mia madre studiò di assistermi più giorni; mi aveva condotto tre volte a confessarmi lungo la quare­sima. Giovanni mio, disse ripetutamente, Dio ti prepara un gran dono; ma procura prepararti bene, di confessar­ti, di non tacer alcuna cosa in confessione. Confessa tut­to, sii pentito di tutto, e prometti a Dio di farti più buono in avvenire. Tutto promisi; se poi sia stato fede­le, Dio lo sa. A casa mi faceva pregare, leggere un buon libro, dandomi que' consigli che una madre industriosa sa trovare opportuni pe' suoi figliuoli.

Quel mattino non mi lasciò parlare con nissuno, mi ac­compagnò alla sacra mensa e fece meco la preparazione ed il ringraziamento, che il Vicario foraneo, di nome Sismon­di (ndr.: Giuseppe Sismondo, 1771-1827), con molto zelo faceva a tutti con voce alta e alterna­ta. In quella giornata non volle che mi occupassi di alcun lavoro materiale, ma tutta l'adoperassi a leggere e a pre­gare. Fra le molte cose mia madre mi ripeté più volte que­ste parole: O caro figlio, fu questo per te un gran giorno. Sono persuasa che Dio abbia veramente preso pos­sesso del tuo cuore. Ora promettigli di fare quanto puoi per conservarti buono sino alla fine della vita. Per l'avvenire va sovente a comunicarti, ma guardati bene dal fare dei sacrilegi. Di' sempre tutto in confessione; sii sempre ubbidiente, va volentieri al catechismo ed alle prediche; ma per amor del Signore fuggi come la peste co­loro che fanno cattivi discorsi” (MO 42-43).


Il 25 ottobre 1835, pochi giorni prima dell'entrata in se­minario, quando il Santo ha ventun'anni, il nuovo parroco don Antonio Cinzano gli impone la veste chiericale. Alla funzione partecipa “un numero stragrande di giovani, venuti anche dalle borgate e dai paesi vicini” (MB 1, 369).

In quest'occasione Giovanni Bosco scrive il seguente rego­lamento di vita:


1° Per l'avvenire non prenderò mai più parte a pubbli­ci spettacoli sulle fiere, sui mercati; né andrò a vedere balli o teatri. E per quanto mi sarà possibile non inter­verrò ai pranzi, che soglionsi dare in tali occasioni.

2° Non farò mai più i giuochi de' bussolotti, di presti­giatore, di saltimbanco, di destrezza, di corda; non suo­nerò più il violino, non andrò più alla caccia. Queste co­se le reputo tutte contrarie alla gravità ed allo spirito ecclesiastico.

3° Amerò e praticherò la ritiratezza, la temperanza nel mangiare e nel bere; e di riposo non prenderò se non le o­re strettamente necessarie per la sanità.

4° Siccome pel passato ho servito al mondo con letture profane, così per l'avvenire procurerò di servire a Dio dandomi alle letture di cose religiose.

5° Combatterò con tutte le mie forze ogni cosa, ogni lettura, pensiero, discorsi, parole ed opere contrarie al­la virtù della castità. All'opposto praticherò tutte quel­le cose anche piccolissime, che possono contribuire a con­servare questa virtù.

6° Oltre alle pratiche ordinarie di pietà, non ometterò mai di fare ogni giorno un poco di meditazione ed un po' di lettura spirituale.

7° Ogni giorno racconterò qualche esempio o qualche massima vantaggiosa alle anime altrui. Ciò farò coi compa­gni, cogli amici, coi parenti, e quando non posso con al­tri, il farò con mia madre” (MO 89).


Giovedì 10 giugno 1841, festa del Corpus Domini, don Bosco canta solennemente per la prima volta la Messa nella sua par­rocchia. È la quinta celebrazione eucaristica dopo l'ordina­zione avvenuta il 5 giugno.

In questa chiesa il sacerdote novello presta servizio come vicecurato per cinque mesi, fino al suo ingresso nel Convitto Ecclesiastico di Torino nel novembre successivo:


Provava il più grande piacere a lavorare. Predicava tutte le domeniche, visitava gli ammalati, amministrava loro i santi sacramenti, eccetto la penitenza, perchè non aveva ancora subito l'esame di confessione. Assisteva alle sepolture, teneva in ordine i libri parochiali, faceva certificati di povertà o di altro genere. Ma la mia deli­zia era fare catechismo ai fanciulli, trattenermi con lo­ro, parlare con loro. Da Murialdo mi venivano spesso a visitare; quando an­dava a casa era sempre da loro intorniato. In paese poi cominciavano pure a farsi compagni ed amici. Uscendo dalla casa parochiale era sempre accompagnato da una schiera di fanciulli e dovunque mi recassi, era sempre attorniato da' miei piccoli amici, che mi festeggiavano” (MO 112).


Anche Domenico Savio in questa chiesa il 13 aprile 1853, quando già la famiglia si è trasferita a Mondonio, insieme a più di 800 (!) cresimandi confluiti dai paesi vicini, riceve la Conferma­zione dalle mani di mons. Luigi Moreno, vescovo di Ivrea.

Il pulpito barocco, scolpito in legno di noce, ci ricorda le prime esperienze di predicazione del giovane don Bosco. La tribuna dell'organo lo ha visto piccolo cantore sotto la guida del sarto Giovanni Roberto (cf MO 54).



11.2 3.4.2. La casa canonica

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Si trova a sinistra, appena imboccata la strada che dalla piazza scende verso il paese. Secondo le notizie raccolte da don Lemoyne, Giovanni la frequenta nelle va­canze del 1832, dopo il primo anno di scuola pubblica a Chieri, perchè il parroco don Bartolomeo Dassano - vistolo studiare mentre pascola il bestiame - pieno di ammirazione, gli offre alcune ripetizioni di latino aiutato anche dal viceparroco. Il giovane studente lo ripaga accudendogli il cavallo; ha così la possibilità di acquistare destrezza nel cavalcare (MB 1, 273).

Il parroco successivo, don Antonio Cinzano, che gli è mol­to affezionato, lo ospita nei cinque mesi dopo l'ordinazione e lo vorrebbe tenere come viceparroco. Ma egli, seguendo il con­siglio di don Cafasso, si trasferisce in Torino a perfezionare i suoi studi. Il rapporto tra i due rima­ne ottimo e la canonica sarà considerata da don Bosco come una seconda casa. In occasione delle famose "passeggiate autunna­li", la casa parrocchiale di Castelnuovo è sempre la prima tap­pa. Ci racconta don Lemoyne che don Cinzano, invitato a presie­dere la festa del Rosario ai Becchi, “esigeva che Don Bosco e i suoi andassero a restituirgli la visita, e, fatti venire i suoi massari e apparecchiato un fornello posticcio all'angolo del cortile, si preparava una colossale polenta”. Nell'attesa, “i cantori, per contentare il buon Vicario che voleva sentire del­la musica buona e classica, salivano in orchestra per eseguire vari pezzi riservati per quella occasione”. (MB 5, 351).

Nell'archivio parrocchiale è conservato il registro dei battesimi su cui è annotato anche quello di Giovanni Bosco.


11.3 3.4.3. La scuola pubblica

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Dopo pochi metri, continuando la discesa, si fiancheggia­no sulla destra le scuole di Castelnuovo, costruite sul luogo stesso dell'antico edificio scolastico che ospitò come studenti Giuseppe Cafasso e Giovanni Bosco. Quest'ultimo le frequentò nell'anno scolastico 1830-1831.

Al tempo, per le scarse disponibilità finanziarie dell'am­ministrazione comunale, gli insegnanti erano soltanto due: il maestro delle scuole comunali (cioè del biennio elementare) e il professore delle scuole pubbliche (in Castelnuovo esistevano unicamente le scuole dette "di latinità inferiore": Sesta, Quinta e Quarta). Quest'ultimo doveva curare una classe di ol­tre settanta allievi che svolgevano programmi diversi, a secon­da del corso frequentato.

Professore di Giovanni è don Emanuele Virano, giovane sa­cerdote, molto energico ed abile nell'insegnamento, che si af­feziona all'allievo - un po' più grandicello rispetto ai compa­gni - e lo incoraggia. Nell'aprile, però, viene promosso parro­co di Mondonio e sostituito dal settantaseienne don Nicola Moglia, zio di quel Luigi Moglia che generosamente aveva accol­to Giovannino come garzone nella cascina di Moncucco. Il nuovo maestro si dimostra incapace di dominare una classe così nume­rosa e forse prevenuto nei riguardi del giova­ne Bosco, che segue il programma di Sesta. Il profitto è molto scarso e finisce per mandare “quasi al vento quanto nei mesi precedenti aveva imparato” (MO 55).

Dopo i primi giorni di scuola, risultando eccessivamente gravoso il cammino da percorrere, mamma Margherita risolve la situazione con l'aiuto del sarto di Castelnuovo, Giovanni Ro­berto. Egli dapprima offre a Giovannino il pranzo e in seguito la pensione completa. Lo studente può così sfruttare meglio il tempo e, nei momenti liberi dallo studio, apprende il taglio e il cucito. Il sarto è anche organista e maestro di coro. Il no­stro Giovanni, che è dotato di una bella voce ed ha buone di­sposizioni per la musica, impara a suonare il cembalo e il vio­lino e diventa cantore nelle funzioni parrocchiali.

Don Bosco ci descrive così la sua residenza presso Giovan­ni Roberto:


Fui pertanto messo in pensione con un onest'uomo di nome Roberto Gioanni di professione sarto, e buon dilet­tante di canto gregoriano e di musica vocale. E poiché la voce mi favoriva alquanto, mi diedi con tutto cuore all'arte musicale e in pochi mesi potei montare sull'or­chestra e fare parti obbligate con buon successo. Di più desiderando di occupare la ricreazione in qualche cosa, mi posi a cucire da sarto. In brevissimo tempo divenni capace di fare i bottoni, gli orli, le cuciture semplici e dop­pie. Appresi pure a tagliare le mutande, i corpetti, i calzoni, i farsetti; e mi pareva di essere divenuto un va­lente capo sarto” (MO 54).


Quando è libero dagli impegni scolastici il giovane Bosco presta la sua opera anche presso il fabbro Evasio Savio (+ 1868). Questi nel 1834 avrà un ruolo determinante nell'evitare l'entrata di Giovanni tra i Francescani, incoraggiandolo a chiedere consiglio a don Cafasso ed insistendo presso il nuovo parroco don Cinzano perché lo aiuti ad entrare in seminario (cf MB 1, 303-305).


Non sappiamo dove si trovassero la casa del sarto Roberto e l'officina del fabbro Evasio Savio.



11.4 3.4.4. La cappella di san Bartolomeo

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Di fronte alla scuola una strada immette sulla piazza del municipio. Nel 1834 era sindaco il cav. Giovanni Pescarmona che, insieme al sig. Sartoris e a don Cinzano, aiutò economica­mente Giovanni Bosco a concludere gli studi nelle pubbliche scuole di Chieri e l'anno successivo collaborò per la formazio­ne del corredo chiericale (cf MB 1, 304 e 367).

Sulla sinistra una rampa conduce alla chiesa di san Bartolomeo. È indicata da alcune testimonianze come il luogo di una delle prime predicazioni del chieri­co Bosco, coronata da grande successo: il 24 agosto 1840, venuto a mancare il predi­catore che doveva tenere il panegirico del santo, egli lo so­stituì all'ultimo momento, con esiti brillanti (cf MB 1, 489-490).


11.5 3.4.5. La chiesa dedicata alla "Madonna del Castello"

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Nella parte più alta del paese, sul luogo del medioevale castello dei Rivalba, sorge un piccolo santuario consacrato alla Vergine Maria: la “Madonna del Castello” o “della cintura”, festeggiata il 15 agosto. Giovanni vi saliva spesso, particolarmente nelle feste mariane.



12 3.5. MONDONIO

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12.1 3.5.1. Casa di Domenico Savio

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A circa 2 chilometri da Castelnuovo, sulla strada per Gal­lareto e Montechiaro (4 chilometri da Morialdo, per chi segue la strada sulla collina), si incontra Mondonio, paese in cui il 9 marzo 1857 muore Domenico Savio.

Carlo Savio (1815-1891) e Brigida Gajato (1820-1871), sposatisi il 1 marzo 1840, si erano qui trasferiti con i figli, nel febbraio 1853, andando ad abi­tare la prima casa che si incontra, a sinistra, salendo lungo la strada principale del paese. La casa, affittata dai fratelli Bertello, fu abitata dai Savio fino all'anno 1879. I Salesiani la acquistarono nel 1917, pagandola 2000 lire.

Al pian terreno, da destra a sinistra, si incontra la cu­cina (nella parete si intravede il luogo del focolare) che co­munica con la stanza nella quale il 9 marzo 1857 morì Domenico.

Don Bosco ci descrive la morte di Domenico con queste pa­role:


Dopo aver recitato con lui alcune preghiere, il parro­co era per uscire, quando Savio lo chiamò dicendo: Signor prevosto prima di partire mi lasci qualche ricordo. - Per me, rispose, non saprei più che ricordo lasciarti. - Qualche ricordo, che mi conforti. - Non saprei dirti altro se non che ti ricordi della passione del Signore. - Deo gratias, rispose, la passione di nostro Signor Gesù Cristo sia sem­pre nella mia mente, nella mia bocca, nel mio cuore. Gesù, Giuseppe e Maria, assistetemi in questa ultima agonia; Ge­sù, Giuseppe e Maria spiri in pace con voi l'anima mia. Dopo tali parole si addormentò e prese mezz'ora di riposo. Indi svegliatosi volse uno sguardo a’ suoi parenti: papà, disse, ci siamo.

- Eccomi, figliuol mio, che ti abbisogna?

- Mio caro papà, è tempo; prendete il mio Giovane prov­veduto (ndr.: si tratta di un manuale di preghiere scritto da don Bosco per i suoi ragazzi) e leggetemi le preghiere della buona morte.

A queste parole la madre ruppe in pianto e si allontanò dalla camera dell'infermo. Al padre pure scoppiava il cuore di dolore, e le lagrime gli soffocavano le parole; tuttavia si fece coraggio e si mise a leggere quella preghiera. Egli ripeteva attentamente e distintamente ogni parola; ma in­fine di ciascuna parte voleva dire da solo: Misericordioso Gesù, abbiate pietà di me. Giunto alle parole: Quando fi­nalmente l'anima mia comparirà davanti a voi, e vedrà per la prima volta lo splendore immortale della vostra maestà; non la rigettate dal vostro cospetto; ma degnatevi di ri­cevermi nel seno amoroso della vostra misericordia, affin­ché io canti eternamente le vostre lodi. Ebbene, soggiun­se, questo è appunto quello che io desidero. Oh caro papà, cantare eternamente le lodi del Signore! Poscia parve prendere di nuovo un po' di sonno a guisa di chi riflette profondamente a cosa di grande importanza. Di lì a poco si risvegliò e con voce chiara e ridente: Addio, caro papà, addio: il prevosto voleva ancora dirmi altro, ed io non posso più ricordarmi... Oh! che bella cosa io vedo mai... Così dicendo e ridendo con aria di paradiso spirò colle mani giunte innanzi al petto in forma di croce senza fare il minimo movimento” (DS 117-119).


Dalla stanza in cui morì Domenico (che serviva probabil­mente da dispensa e laboratorio di sartoria per mamma Brigida), una scala in legno conduceva al piano superiore. Ora non esiste più, ma se ne può indovinare la posizione nella luce di una porta che era collocata sulla parete a settentrione e immette­va in un altro vano, al tempo utilizzato come ripostiglio e cantina.

Oggi si sale al piano superiore attraverso una scala, di costruzione più recente, che fa parte della casa vicina. Anche il ballatoio esterno non esisteva.

Al piano superiore, sopra la cucina era collocata la came­ra dei genitori e, accanto, quella dei figli. Il locale che si trova sopra il vano-cantina, e al quale si accede anche dalla strada sul retro della casa, veniva utilizzato da papà Carlo come officina per la sua attività di fabbro.

I coniugi Savio ebbero dieci figli. Sei morirono bambini o giovanissimi: Domenico Giuseppe Carlo (3-18 novembre 1840), san Domenico Giuseppe (1842-1857), Carlo (15-16 febbraio 1844), M. Teresa Adelaide (1847-1859), Giuseppe Guglielmo (1853-1865), Maria Luigia (1863-1864).

Papà Carlo, morta la moglie Brigida Gajato (1871), dopo a­ver accasato le tre figlie Maria Caterina Raimonda (1845-1912), Maria Caterina Elisabetta (1856-1915?) e Maria Firmina Teresa (1859-1933), nel 1878, lasciato il figlio Giovanni Pietro (1850-1894), si trasferì con don Bosco a Valdocco, do­ve morirà il 16 dicembre 1891 all'età di 76 anni.


Di fronte alla casetta si trova il primo monumento dedica­to a Domenico Savio. Fu inaugurato nel 1920 dal card. Gio­vanni Cagliero, che era stato assistente e maestro di musica di Domenico all'Oratorio di Valdocco.



12.2 3.5.2. Chiesa parrocchiale e scuola

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Inerpicandosi lungo la strada che costeggia la casa di Do­menico Savio si arriva alla chiesa parrocchiale, dedicata a san Giacomo. Qui Domenico, fino alla sua partenza per Valdocco e poi durante i brevi giorni di vacanza, partecipa ogni giorno alla Messa. Preferisce pregare davanti ad una statua della Ma­donna del Rosario, collocata in una nicchia in fondo alla chie­sa, a destra di chi entra. Oggi quella statua non c'è più: nel 1863 è stata trasferita nella chiesetta di Santa Maria di Rasetto, località vicina a Castelnuovo, ove abitava il nonno di Domenico. La festa patronale del paese si celebrava il giorno della Madonna del Rosario, la prima domenica di ottobre, come ai Becchi aveva iniziato a fare don Bosco dal 1848. È proprio il lunedì 2 ottobre 1854, giorno successivo alla festa, che papà Carlo e Domenico - per inte­ressamento di don Cugliero, maestro di scuola nel paese - si recarono ai Becchi per incontrare don Bosco.


Il parroco di Mondonio don Domenico Grassi (1804-1860), assiste il Savio durante l'ultima malattia, lo confessa, gli porta il santo Viatico e il mattino 9 marzo 1857 gli amministra il sacramento degli infermi e la benedizione papale. Quella stessa sera, verso le venti e trenta, visita Domenico per l'ultima volta e, dopo aver recitato con lui alcune preghiere, richiesto di un pensiero come ricordo, raccomanda al morente di pensare alla passione del Signore.


Poco oltre la facciata della chiesa, una stradicciola che sale a sinistra conduce davanti ad un edificio, che dall'Otto­cento fino a tempi relativamente recenti è stato utilizzato per la scuola e­lementare del paese. Domenico Savio la frequenta dal febbraio 1853 al giugno 1854, sotto la guida del maestro don Giuseppe Cugliero.

Qui avviene il fatto ricordato nella biografia scritta da don Bosco. Accusato ingiustamente di una grave mancanza disci­plinare, subisce in silenzio i rimproveri e il castigo del mae­stro, per evitare l'espulsione dei veri colpevoli. Sulla porta della scuoletta una lapide, collocata nel 1952, ricorda il fatto (però, la data di frequenza alla scuola indicata sulla lapide è errata: non 1852, ma 1853).


12.3 3.5.3. Cappella cimiteriale

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Poco al di sotto della casa dei Savio, presso la strada provinciale, esiste ancora la cappella dell'antico cimitero di Mondonio nel quale furono sepolti Domenico, i suoi fratellini e la mamma. Nel cimitero (che è stato smantellato nel 1942) i resti di Domenico rimasero sino al 1914, quando, all'aprirsi del processo apostolico per la causa di beatificazione, furono trasferiti a Torino in Maria Ausiliatrice.

Domenico era stato interrato in una semplice fossa. Due anni dopo, un pio signore di Genova, che ne aveva letta la bio­grafia scritta da don Bosco (1859), ammirato per le sue virtù, fece collocare su quella tomba una piccola lastra di marmo con questa iscrizione: “Domenico Savio - modello di virtù - ai gio­vanetti - morto - il nove marzo - MDCCCLVII - in età d'anni quindici”. Nel 1866 la salma, riesumata dalla fossa in piena terra, fu composta in una cassa nuova e deposta in un loculo entro il muro posteriore della cappella, all'altezza della base dell'altare. La lapide del signore genovese venne fissata sulla stessa parete esterna. Oggi la piccola lastra è stata collocata nel giardinetto dietro la cappella, sul luogo della primitiva sepoltura. Nel 1907, cinquantesimo anniversario della morte, le spoglie del giovane furono ricomposte in un sarcofago in marmo bianco ancora visibile nella cappella. L'iscrizione latina, dettata dal salesiano don Giovanni Battista Francesia (1838-1930), suo antico maestro, suona così: “Hic - in pace Christi quiescit - Dominicus Savio - Joannis Bosco sac. - alumnus piis­simus - anno MCMVII - ad ejus excessu L”, cioè: “Qui nella pace di Cristo riposa Domenico Savio, piissimo alunno del sac. Giovanni Bosco. 1907, cinquantesimo della sua morte”. Al di sotto è riportato un versetto tratto dal Siracide (51, 35): “Modicum laboravi et inveni mihi multam requiem” (Faticai per un poco ed ho trovato molta pace).

La traslazione della salma a Torino nel 1914 fu avventuro­sa. Quando il 19 ottobre autorità religiose e civili si presen­tarono a Mondonio per il trasporto, trovarono tutti gli abitan­ti del paese schierati attorno alla cappella per impedirlo, in atteggiamento minaccioso: non volevano perdere il loro piccolo protettore. Per il momento si procedette alla ricognizione, ri­nunciando al trasporto. Di recuperare la salma fu incaricato allora don Cesare Albisetti, futuro grande missionario, che era alla vigilia della sua partenza per il Brasile. Egli, dalla ca­sa salesiana di Castelnuovo, arrivò a piedi a Mondonio (27 ot­tobre); trovata la cappella aperta, asportò l'urna che nel pri­mo tentativo era già stata estratta dal sarcofago, e la trasfe­rì a Torino con l'aiuto di un automobilista precedentemente av­visato. Gli abitanti di Mondonio si accorsero subito del fatto, ma non giunsero in tempo per impedirlo.



13 3.6. BUTTIGLIERA D'ASTI

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Centro agricolo collocato ai margini della fertile piana chierese a 299 metri sul livello del mare, contava nella prima metà dell'Ottocento 1600 abitanti circa (oggi quasi 2000). Si trova sulla strada che collega Riva di Chieri a Ca­stelnuovo, a 4 chilometri dai Becchi.


13.1 3.6.1. La chiesa parrocchiale

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La chiesa parrocchiale di san Biagio, che conserva nei mu­ri laterali esterni vestigia della precedente costruzione in stile gotico, risale, nella attuale strutturazione barocca pro­gettata dal Guarini, al 1686. Fu allungata dalla parte del coro e della sacrestia nel 1785 su disegno del chierese Mario Ludovico Quari­ni, del quale è anche lo splendido campanile, terminato nel 1790. La facciata e la decorazione della volta sono recenti (1960-64).


13.1.1 Il Giubileo del 1829 e l’incontro tra Giovannino Bosco e don Calosso

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Nel 1829, tra il 5 e il 9 novembre, a Buttigliera si pre­dica un triduo per l'acquisto delle indulgenze legate al Giubi­leo straordinario indetto da Pio VIII. Vi partecipa anche la gente dei paesi vicini e, tra gli altri, don Calosso, nuovo cappellano di Morialdo, e Giovanni Bosco, appena tornato a casa dalla cascina Moglia. Sulla strada del ritorno il sacerdote ha modo di verificare le doti del ragazzo e gli offre il suo aiu­to. Un incontro tra saggezza ed esperienza spirituale dell'an­ziano e fresca recettività dell'adolescente, che si rivelerà provvidenziale e fecondo.

Don Bosco ci descrive il fortunato avvenimento con vivaci­tà di particolari:


In quell'anno una solenne missione che ebbe luogo nel paese di Buttigliera, mi porse opportunità di ascoltare parecchie prediche. La rinomanza dei predicatori traeva gente da tutte parti. Io pure ci andava con molti altri. Fatta una istruzione ed una meditazione in sulla sera, la­sciavansi liberi gli uditori di recarsi alle case loro.

Una di quelle sere di aprile (ndr.: sappiamo che in realtà si trattava del mese di novembre) mi recava a casa in mezzo alla moltitudine, e tra noi eravi un certo D. Ca­losso di Chieri, uomo assai pio, il quale sebbene curvo dagli anni faceva quel lungo tratto di via per recarsi ad ascoltare i missionari. Desso era cappellano di Murialdo. Il vedere un fanciullo di piccola statura, col capo sco­perto, capelli irti ed inanellati camminare in gran silen­zio in mezzo agli altri, trasse sopra di me il suo sguardo e prese a parlarmi così:

- Figlio mio, donde vieni? sei forse andato anche tu alla missione?

- Sì, signore, sono andato alla predica dei missionari.

- Che cosa tu avrai mai potuto capire! Forse tua Mamma ti avrebbe fatta qualche predica più opportuna, non è ve­ro?

- È vero, mia Madre mi fa sovente delle buone predi­che; ma vado anche assai volentieri ad ascoltare quelle dei missionari e mi sembra di averle capite.

- Se tu sai dirmi quattro parole delle prediche di quest'oggi io ti do quattro soldi.

- Mi dica soltanto se desidera, che io le dica della prima o della seconda predica.

- Come più ti piace, purché tu mi dica quattro parole. Ti ricordi di che cosa si trattò nella prima predica?

- Nella prima predica si parlò della necessità di darsi a Dio per tempo e non differire la conversione.

- E che cosa fu detto in quella predica? soggiunse il venerando vecchio alquanto maravigliato.

- Me ne ricordo assai bene e se vuole gliela recito tutta.

E senza altro attendere cominciai ad esporre l'e­sordio, poi i tre punti (...). Egli mi lasciò continuare per oltre mezz'ora in mezzo alla moltitudine; di poi si fece ad interrogarmi così: - Come è tuo nome, i tuoi pa­renti, hai fatto molte scuole?

- Il mio nome è Gioanni, mio padre morì quando io era ancor bambino. Mia madre è vedova con cinque creature da mantenere. Ho imparato a leggere e un poco a scrivere.

- Non hai studiato il Donato (ndr.: la grammatica lati­na), o la gramatica?

- Non so che cosa siano.

- Ameresti di studiare?

- Assai, assai.

- Che cosa ti impedisce?

- Mio fratello Antonio.

- Perché Antonio non vuole lasciarti studiare?

- Perché non avendo egli voluto andare a scuola, dice che non vuole che altri perda tempo a studiare come egli l'ha perduto; ma se io ci potessi andare, sì che studierei e non perderei tempo.

- Per qual motivo desidereresti studiare?

- Per abbracciare lo stato ecclesiastico.

- E per qual motivo vorresti abbracciare questo stato?

- Per avvicinarmi, parlare, istruire nella religione tanti miei compagni, che non sono cattivi, ma diventano tali, perché niuno di loro ha cura.

Questo mio schietto e, direi, audace parlare fece grande impressione sopra quel santo sacerdote, che mentre io parlava non mi tolse mai di dosso lo sguardo. Venuti intanto ad un punto di strada, dove era mestieri separar­ci, mi lasciò con queste parole: Sta di buon animo; io penserò a te e al tuo studio. Domenica vieni con tua Madre a vedermi e conchiuderemo tutto” (MO 44-47).


13.1.2 La Cresima di Giovanni Bosco

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La chiesa parrocchiale vede anche un'altra tappa fondamen­tale della vita cristiana di Giovanni. Egli, all'età di diciot­to anni, vi riceve il sacramento della Confermazione (domenica 4 agosto 1833), insieme a ben 1335 altri cresimandi, per mano di mons. Giovanni Antonio Gianotti (1784-1863), arcivescovo di Sassari, poi di Saluzzo. Padrini di tutti i cresimandi sono il sindaco Giuseppe Marzano e la nobildonna Giuseppina Melyna contessa del Capri­glio.


Il rito è descritto in un’ampia cronaca del parroco dell’epoca, il teologo Giuseppe Vaccarino (1805-1891), che resse la parrocchia di Buttigliera per 59 anni (1832-1891). Il documento, pubblicato dal prof. Elso Gramaglia alla vigilia delle feste centenarie di don Bosco, attesta tra l’altro:

Dopo le messa di lui e di un altro prete (...) recossi (mons. Gianotti) in casa parrocchiale a prendere il caffè; quindi tornato in chiesa vestito semplicemente di cappa – atteso l’eccessivo calore – colla mitra e pastorale, cantato il Veni Creator, e lette alcune preci rivolto verso i cresimandi, cominciò dare la cresima.

Se ne fecero due fornate: la prima, che era composta si può dire di soli buttiglieresi, durò dalle 8 circa alle 11 e più; la seconda, che cominciò alle 11.30 dopo che Monsignore prese un po’ di respiro in casa della damigella (ndr.: la contessa Melyna), ebbe fine alle ore 2 pomeridiane. Il numero de’ cresimati ascende a 1335, dei quali 618 sono di Buttigliera, 467 di Castelnuovo, 184 di Moriondo, il rimanente di vari altri paesi”.

(Da E. Gramaglia [ed.], La Cresima di Don Bosco a Buttigliera, in Grandangolo 4 [1987] 3, p. 3)

13.2 3.6.2. I legami di Buttigliera con don Bosco e la Famiglia Salesiana

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A Buttigliera e ai suoi abitanti don Bosco rimane affezio­nato, per amicizia con il parroco teologo Vaccarino e con la madrina contessa Melyna, che diverrà sua benefattrice. Quan­do a piedi percorre la strada tra Torino e i Becchi egli fa lo­ro visita. Al ritorno dalle passeggiate autunnali, ogni anno, la contessa e il parroco ospitano i giovani di Valdocco ed of­frono loro un rinfresco. Don Bosco era amico di don Giuseppe Vaccarino, perché prete molto zelante e vicino al popolo: non soltanto aveva introdotto nel paese l'industria casalinga dei telai e fondato un piccolo ospedale, ma anche un oratorio, ispirato a quello di Valdocco, e l'asilo infantile.


Buttigliera ci ricorda anche una delle prime Figlie di Ma­ria Ausiliatrice, la beata Maddalena Morano (Chieri 1847 - Catania 1908). La sua famiglia si era qui trasferita quando Maddalena aveva due anni. Rimasta orfana di padre nel 1855, lavorando e studiando si diplomò maestra. Il parroco teologo Vaccarino, aperto un asilo infantile, l'aveva assunta co­me educatrice già all'età di quattordici anni. Dopo il diploma fu incaricata delle scuole femminili di Montaldo Torinese fin quando, per consiglio del padre gesuita Francesco Pellico, fra­tello di Silvio, entrò tra le suore di don Bosco. In Sicilia, prima come direttrice e poi, dal 1886, come ispettrice, fondò numerose opere per la gioventù femminile.



13.3 3.6.3. La cascina Càmpora

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A circa 2 chilometri dal centro, sul dorso della collina, è situata la cascina Càmpora, che fa parte della frazione Serra. Mamma Margherita conosce il proprietario, un certo Turco di Ca­stelnuovo. Nell'autunno 1827, periodo di gravi ristrettezze e­conomiche aggravate dalla tensione col fratello Antonio, Gio­vanni è inviato dalla madre alla cascina come garzone. Vi rima­ne solo poche settimane perché, data la stagione, lavoro e pane scarseggiano anche per i proprietari.


13.4 3.6.4. Frazione Crivelle

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A poca distanza da Buttigliera si trova la frazione Crivelle, indicata da don Bosco come Croveglia. Qui abitava uno zio materno di Giovanni. Un anno, nel corso delle vacanze estive, il chierico Bosco fu invitato ad u­na festa. Durante il pranzo avvenne il noto episodio del violi­no:


Volendosi celebrare la festa di S. Bartolomeo, fui in­vitato da altro mio zio ad intervenire per aiutare nelle sacre funzioni, cantare ed anche suonare il violino, che era stato per me un istrumento prediletto, a cui aveva ri­nunciato. Ogni cosa andò benissimo in chiesa. Il pranzo e­ra a casa di quel mio zio, che era priore della festa, e fino allora niente era a biasimarsi. Finito il desinare i commensali mi invitarono a suonare qualche cosa a modo di ricreazione. Mi sono rifiutato. Almeno, disse un musi­cante, mi farà l'accompagnamento. Io farò la prima, ella farà la seconda parte. Miserabile! Non seppi rifiutarmi e mi posi a suonare e suonai per un tratto, quando si ode un bisbiglio ed un calpestio che segnava moltitudine di gente. Mi faccio allora alla finestra e miro una folla di persone che nel vicino cortile allegramente danzava al suono del mio violino. Non si può esprimere con parole la rabbia da cui fui invaso in quel momento. Come, dissi ai commensali, io che grido sempre contro ai pubblici spetta­coli, io ne son divenuto promotore? Ciò non sarà mai più. Feci in mille pezzi il violino e non me ne volli mai più servire, sebbene siansi presentate occasioni e convenienza nelle funzioni sacre” (MO 99).



14 3.7. MONCUCCO E FRAZIONE MOGLIA

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Lungo la strada che da Castelnuovo porta a Chieri, poco dopo Moriondo, si incontra a destra la deviazione per Moncucco e Cinzano. Un chilometro circa prima del paese, si svolta a si­nistra per la frazione Moglia, che prende il nome dalla fami­glia che vi abitava.


14.1 3.7.1. La cascina Moglia

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Nel febbraio 1828, in uno dei periodi più critici per i gravi problemi economici e le tensioni con il fratello Antonio (che essendo il maggiore si sente responsabile della gestione familiare), mamma Margherita ritiene opportuno allontanare mo­mentaneamente Giovannino da casa. Fallito il tentativo di col­locare il figlio alla cascina Càmpora di Buttigliera, lo invia nuovamente in cerca di un impiego verso Mondonio e Moncucco. Forse i Moglia, suoi conoscenti, che coltivano fertili terreni e abitano in una borgata ben esposta, ai confini tra Moncucco e Mombello, lo accoglieranno. Luigi, il capo famiglia, ha sposato Dorotea Filippello di Castelnuovo e ha già due figli: Caterina, di cinque anni e Giorgio di tre. Con lui abitano gli zii Gio­vanni e Giuseppe e le sorelle Anna e Teresa, rispettivamente di diciotto e quindici anni.

Quando verso sera il ragazzo, che in quella giornata inva­no ha già bussato a più cascine, si presenta a Luigi Moglia, questi gli risponde che nei mesi invernali il lavoro scarseggia anche per i suoi familiari e vuole rimandarlo. Sono i buoni uf­fici della moglie Dorotea e le insistenze della sorella Teresa, che preferisce lasciare la cura del bestiame, a convincere il padrone di accettarlo in prova. Giovannino si conquista subito la stima di tutti. Dopo pochi giorni Dorotea gli affida la guida del Rosario e delle preghiere della sera (che si reci­tavano di fronte ad un'immagine di Maria SS., conservata oggi ai Becchi nella casa del fratello Giuseppe. La settimana suc­cessiva Luigi contatta mamma Margherita per stabilire il sala­rio, fissato in quindici lire annuali più il manteimento. Quando un paio d'anni dopo (primi di novembre 1829) Giovanni tornerà a casa, sarà rimpianto come uno della famiglia.

D’autunno, alla Moglia viene anche lo zio don Nicola, maestro comunale. Nei momenti liberi fa a Giovanni un po' di ripetizione per completare le conoscenze da lui acquisite alla scuola di Capriglio. Tre anni dopo lo ritroverà allievo alle scuole di Castelnuovo, ma avrà un atteggiamento poco incoraggiante nei suoi confronti.

Giorgio, il figlio del padrone, gli si affeziona e lo se­gue ovunque. Don Bosco negli anni conserverà questa amicizia; lo inviterà più volte a pranzo all'Oratorio e, in autunno, gli porterà i suoi birichini a rallegrarlo. Sarà proprio lui - mor­to a Torino nel 1923 quasi centenario - a riferire tanti parti­colari di quel periodo e dell'amicizia dei Moglia per don Bo­sco.

Maria, figlia di Giorgio, andrà in sposa ad Ottavio Casa­legno. Carlo, loro figlio, è padre di Giovanni Casalegno, l'ultimo proprietario della cascina.


La cascina ha conservato l'antica stalla, il fie­nile e la vigna dietro casa, dove Giovannino versò i suoi sudo­ri. La grande cucina di un tempo è oggi dimezzata, ma la stanza in cui egli dormiva con il piccolo Giorgio è rimasta intatta. Nel cortile c'è un gelso centenario: è forse lo stesso all'ombra del quale il giovane garzone raccoglieva i fanciulli della borgata per il catechismo e i suoi fantastici racconti. Anche il pozzo e la cantina sono gli stessi.


Nei primi giorni del novembre 1829 passa dalla Moglia lo zio Michele Occhiena. Vede il nipote e, constatato il persistere del suo vivo desiderio di studiare, lo incoraggia a tornare ai Becchi assumendosi l'impegno di dirime­re le tensioni con Antonio e di aiutarlo. Giovanni lascia così la casa dei Moglia. Sarà proprio questo provvidenziale invito dello zio a permettere l'incontro, di lì a pochissimi giorni, con don Calosso sulla strada di Buttigliera.


14.2 3.7.2. La chiesa di Moncucco

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A mezz'ora buona di cammino dalla frazione Moglia, per sentieri campestri, si giunge a Moncucco.

Ogni sabato sera Giovannino chiede ai padroni il permesso di recarsi alla chiesa parrocchiale, dedicata a san Giovanni Battista, sul far del mattino, per la prima Messa. Essi non comprendono il motivo di questo anticipo, visto che poi egli partecipa anche alla "Messa grande" e a tut­te le funzioni del pomeriggio. Perciò una domenica la signora Dorotea lo precede e si apposta in casa di un'amica. Lo vede entrare nella chiesa e lo segue: Giovanni si accosta al confes­sionale del parroco, teologo Francesco Cottino (1768-1840), e poi riceve la santa Comunione, che al tempo si distribuiva anche prima della Messa. Da quel giorno gli viene concessa piena libertà di movi­mento.

Vedendo il suo impegno e la sua capacità di attirare ed a­nimare i ragazzi, don Cottino lo incoraggia. Gli ottiene anche la sala della scuola comunale per i giorni freddi e piovosi: nasce così un primo abbozzo di oratorio festivo.


15 3.8. SAN GIOVANNI DI RIVA

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15.1 3.8.1. Casa nativa di san Domenico Savio

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A 2 chilometri da Riva di Chieri, in una borgata che ap­partiene alla frazione di S. Giovanni, c'è la casa in cui è na­to Domenico Savio (2 aprile 1842).

È stata restaurata con cura in questi ultimi anni ad ope­ra dei Giovani Cooperatori e dei Giovani Exallievi salesiani di Torino che - adattando e in parte ricostruendo totalmente altri ambienti - l'hanno trasformata in un centro di accoglienza e di spiritualità per comunità giovanili.

Anticamente la casa, che Carlo Savio affittava da Gaetano Gastaldi, si presentava così: al pian terreno la cucina e, sul retro, un locale ad uso cantina o ripostiglio dal quale, attra­verso una porta tuttora esistente, si passava in un portico, oggi abbattuto; al piano superiore, al di sopra della cucina, la camera da letto dei genitori (dove il 2 aprile 1842 è nato Domenico) e, dietro, la camera dei bambini. Si accedeva al pia­no superiore per mezzo di una scala in legno appoggiata alla facciata della casa, proprio come alla "Casetta" dei Becchi.

Il laboratorio da fabbro di papà Carlo era collocato, pre­sumibilmente, nel portico che si trovava dietro la casa, oppure nel locale situato tra la cucina e il portico. La scala che da questo locale oggi ci porta al primo piano, fu costruita nel 1930, dal proprietario Giuseppe Gastaldi (1891-1964), nipote di quel Gaetano che aveva affittato la casa a Carlo Savio. In quell'occasione si fece un restauro generale e il tetto, che prima era ad un solo spiovente appoggiato a quello della casa vicina, fu trasformato in quattro spioventi, con la sostituzio­ne di travi greggi e tarlati. È stato lo stesso Giuseppe Ga­staldi a cedere nel 1954 il terreno sul quale è sorto il monu­mentino a Domenico Savio.

I Savio vissero qui solo un paio di anni, fino al novembre 1843, poi si spostarono a Morialdo.


15.2 3.8.2. Il centro di accoglienza giovanile

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La casetta e il cascinale attiguo, acquistati nel 1978 da­gli eredi di Giuseppe Gastaldi per interessamento dell' Ispet­toria salesiana Centrale, sono affidati dal 1981 ai membri laici della Famiglia Salesiana, Cooperatori ed Exallievi, perché ne curino la conservazione e la destinazione ad usi giovanili.

I lavori si sono svolti in due fasi successive. Nel 1983 è stata rimessa a nuovo la parte abitata dai Gastaldi, ricavando­ne cucina, sala mensa, alcune camere, servizi igienici e termi­ci adatti all'accoglienza di 22 persone. Nel 1985 sono iniziati i lavori di risanamento della casetta e di ristrutturazione degli edifici circostanti. Si sono ricavati così tre grossi locali per la notte, tre saloni per incontri, camere e ambienti per servizi vari. La capacità di ricezione è salita ad oltre 50 posti letto. Il complesso è stato inaugurato nel maggio 1987.

Tre sono gli scopi dell'opera: 1) conservare dignitosamen­te la casa del giovane allievo di don Bosco; 2) rendere effica­ce il suo ricordo con una struttura a servizio dei giovani; 3) offrire ai membri laici della Famiglia Salesiana occasione di gestire direttamente una struttura per fini educativi e pasto­rali.

Nella casetta di Domenico Savio, restaurata, l'antica cu­cina è stata adibita ad uso cappella. Al suo fianco sorge un piccolo museo che richiama l’attività del padre di Domenico (fabbro) e l’antica cultura contadina. Le due stanze del piano superiore contengono testimonianze della vita del giovane Santo, oggetti d'uso familiare dell'epoca, ed alcune espressioni devozionali che testimoniano il particolare legame tra le mamme e Domenico Savio.





16 II PARTE

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GIOVANNI BOSCO A CHIERI


(1831-1841)








17 GLI ANNI DELL’ADOLESCENZA E DELLA GIOVINEZZA

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18 1. SIGNIFICATO E TESTIMONIANZA

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18.1 1.1. I dieci anni di Chieri nella vita di don Bosco

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Nella città di Chieri Giovanni Bosco dimorò dal novembre 1831 al maggio 1841: gli anni decisivi dell'adolescenza e della giovinezza, durante i quali andò strutturando e consolidando la sua personalità.

Arrivò sedicenne, ragazzo di campagna, pieno di buona vo­lontà e ne partì prete ventiseienne, spiritualmente solido, cul­turalmente preparato, con una gran voglia di tuffarsi nel mini­stero pastorale, particolarmente a favore dei giovani.

Un itinerario percorso in due grandi tappe: le scuole pub­bliche (1831-1835) e il seminario (1835-1841).


Gli anni della scuola pubblica sono il periodo più trava­gliato ed insieme vivace. Travagliato perchè maggiormente segna­to dalle privazioni economiche, dal lavoro intenso e sacrifica­to, dalle lunghe nottate di studio e di lettura e, ancor più, dalla tensione spirituale nella ricerca della propria vocazione. Ma anche tempo vivace, perché ricco di interessi, nel quale e­splode in Giovanni l'intensa carica di doti umane e spirituali, di esuberanti energie, di allegria e cordialità. L'ambiente se­reno della cittadina si rivela ideale per la sua maturazione. Gli studenti vengono seguiti e curati in ogni momento della loro giornata dalla presenza esigente, ma sempre umana e spesso cor­dialmente amica, dei professori, del Prefetto degli studi (re­sponsabile degli aspetti disciplinari) e del Direttore spiritua­le. L'influsso formativo dell'ambiente scolastico trova un com­plemento adeguato nell'attenzione delle famiglie, presso cui gli alunni dimorano a pensione, e nelle amicizie profonde tra i gio­vani, fatte di chiassose e allegre compagnie, di scambi intensi (Società dell'Allegria).


Nel periodo del seminario, abbandonato gradualmente il vi­vacissimo e giocoso ritmo di vita degli anni precedenti, il chierico Bosco concentra i suoi sforzi nella qualificazione cul­turale e nell'impegno spirituale per plasmarsi secondo il model­lo sacerdotale che gli viene proposto, senza però perdere mai la sua cordiale umanità.

Come programma di partenza assume l'impegno della fedeltà costante ai doveri quotidiani scanditi dal severo regolamento seminaristico. Agli obblighi scolastici, richiesti dai programmi, aggiunge una lettura vorace di opere a carattere storico, bibli­co, teologico ed ascetico, sfruttando ogni briciolo di tempo li­bero. Contemporaneamente affina la propria maturazione umana e spirituale. Docile e affezionato verso i superiori, si rende di­sponibile alle esigenze molteplici della vita comunitaria e al­laccia amicizie spiritualmente feconde con i migliori tra i suoi compagni. Insieme a loro condivide ricreazioni, studio, preghie­ra e ideali ascetici. Col passar degli anni cresce nella tensio­ne interiore ed amplia gli interessi culturali. Si immerge nel­la lettura di opere sempre più impegnative, utilizzando anche i mesi delle vacanze autunnali.

Lo sforzo, il lavoro intenso, l'ascetico tenore di vita in­deboliscono la sua salute e più di una volta è sul punto di soc­combere; ma la fibra robusta di Giovanni non viene spezzata. L'amico Luigi Comollo, invece, ne è stroncato e muore a ventidue anni non ancora compiuti.


Quando il 5 giugno 1841 don Bosco viene ordinato sacerdote a Torino, la sua formazione culturale e spirituale è ormai asso­data. Don Cafasso lo inviterà al Convitto Ecclesiastico per una maggiore qualificazione pastorale, ma le solide basi poste nel decennio chierese e le ricchezze accumulate in questi anni na­scosti e intensi riveleranno la loro fecondità in tutta la sua esistenza di educatore e pastore dei giovani.



18.2 1.2. Valori pedagogici e spirituali emergenti

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Gli anni dell'adolescenza e della giovinezza di don Bosco a Chieri ci suggeriscono preziose indicazioni di ordine pedagogico e spirituale. Schematicamente ne presentiamo alcune:


- Studio e cultura come indispensabile itinerario ascetico di costruzione della propria personalità, perseguito con costanza e fedeltà quotidiana.


- Lavoro manuale e intraprendenza personale per cooperare attivamente alle sollecitudini dei genitori.


- Sport, gioco, vita attiva - sapientemente dosati con i propri doveri - per uno sviluppo fisico, psichico e spiri­tuale armonico.


- Amicizie tra compagni, ben scelte ed arricchenti; asso­ciazionismo, interessi condivisi; aiuto reciproco, mettendo le proprie doti a disposizione.


- Rapporti di amicizia e di confronto anche con adulti si­gnificativi, che possono diventare maestri e modelli di vi­ta e di valore.


- Scelta di un confessore stabile, col quale avere incon­tri frequenti e confidenti.


- Umiltà di confrontarsi e di chiedere consiglio sulle questioni decisive per il proprio futuro.


- Vita di preghiera solida, con momenti fissi di orazione e meditazione personale ogni giorno.


- Liturgia eucaristica settimanale e quotidiana.


- Devozione alla Madonna, madre, aiuto e modello di vita.


- Tensione vocazionale per discernere la volontà di Dio sulla propria vita e la missione che egli affida.

19 2. NOTE STORICO-GEOGRAFICHE E BIOGRAFICHE

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19.1 2.1. Arrivo di Giovanni Bosco a Chieri

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Con la separazione dei beni paterni (1830), il trasloco al Sussambrino e il matrimonio di Antonio (1831), la situazione fa­miliare dei Bosco migliora. Mamma Margherita, sostenuta dal fra­tello Michele, prende la coraggiosa risoluzione di iscrivere Giovanni alle scuole pubbliche di Chieri.

Questa scelta comporta nuovi problemi, soprattutto di ordi­ne economico. Le spese, infatti, per quanto moderate, costitui­scono un aggravio notevole per l'esiguo bilancio familiare. Si deve pensare a vitto e alloggio, alle tasse scolastiche, alle spese per libri, cancelleria e vestiario.

Margherita non si scoraggia: “Col solito sorriso gliene diede il lieto annunzio, e cominciò a preparargli il corredo ne­cessario. Ma Giovanni, accortosi che le strettezze familiari la mettevano in qualche imbarazzo, senz'altro le disse: “Se voi siete contenta, io mi prendo due sacchi e mi presento ad ogni famiglia della nostra borgata per fare una colletta”. Margherita acconsentì. Era questo per Giovanni un sacrificio assai duro d'amor proprio, dovendo chiedere la carità per se stesso; ma vinse la ripugnanza e si sottomise all'umiliazione” (MB 1, 245).

Il senso di solidarietà contadina e di carità cristiana dei borghigiani, del parroco don Dassano e di alcuni signori di Ca­stelnuovo, permettono di mettere insieme quanto serve per il ve­stiario e le prime necessarie spese. Giovanni Bechis, non avendo nulla da donare, si incarica di trasportare col carro il baule del corredo e i sacchi contenenti due emine (= 46 litri) di gra­no e mezza di miglio (= 11,5 litri) che devono servire per paga­re una parte della pensione. Il 3 novembre 1831 il giovane stu­dente si reca a Chieri e prende alloggio in piazza san Guglielmo presso la casa Marchisio.

20 2.2. Tavola cronologica

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Anno scol.ClasseInsegnanteAbitazioneAvvenimenti


1831-1832SestaV. Pugnetticon Lucia MattaSocietà dell’Allegria

QuintaP. ValimbertiMuore P. Braja

Quarta V. Cima


1832-1833GrammaticaG. Giusiana “


1833-1834UmanitàP. BanaudiCaffè PiantaAmicizia con Giona

Gara col saltimbancoAmmissione tra i Francescani

1834-1835RettoricaG.F. BoscoSarto CuminoIncontra L. Comollo

Decide la sua vocazione

Esame di Vestizione


1835-18361° FilosofiaI. ArduinoSeminarioVacanze: ripetizione di greco

a Montaldo


1836-18372° Filosofia “ “L. Comollo in seminario


1837-18381° TeologiaL. Prialis

I . Arduino “


1838-18392° TeologiaL. Prialis “Sacrestano

G.B. Appendini02.04.1839: muore L. Comollo


1839-18403° Teologia “ “25.04.1840: Tonsura

e Ordini minori

Autunno: esami di 4° Teologia


1840-18415° Teologia “ “Prefetto di camerata

19.09.1840: Suddiaconato

29.03.1841: Diaconato

05.06.1841: Presbiterato


21 2.3. Itinerari e suggerimenti

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Sono state le ricerche appassionate di Secondo Caselle (+ 1992) a mettere in luce luoghi e nomi di personaggi legati ai dieci anni trascorsi da Giovanni Bosco a Chieri. Grazie a lui oggi possiamo seguire le tracce della sua presenza in città.

Consigliamo, per praticità, di visitare i luoghi che videro Giovanni Bosco studente e seminarista a Chieri iniziando il per­corso dall'Istituto Salesiano san Luigi.


* Percorso lungo (3 ore circa).

Piccolo gruppo, ben preparato, di adulti e giovani-adulti.


Istituto Salesiano san Luigi e chiesa di santa Margherita (3.1) → Casa nativa di M. Maddalena Morano (3.2) → Chiesa e convento di san Domenico (3.3) → Via della Pace (3.4: antico Ghetto: bottega del libraio Elia e casa di Giona; convento della Pa­ce) → Seminario e chiesa di san Filippo (3.5) → Chiesa di san Guglielmo (3.6.1) → Casa del teologo Maloria (3.6.2) → Casa Marchisio, abitazione di Lucia Matta (3.6.3) → Antico palazzo municipale (3.6.4) → Bottega del falegname Barzochino (3.6.5) → Scuole pubbliche (3.7) → Piazza Cavour e adiacenze (3.8: chiesa di sant'Antonio; albergo del Muletto; caffè Pianta; Casa del sarto Cumino; stalla del panettiere M. Cavallo) → Il duomo (3.9) → Casa Bertinetti e Istituto santa Teresa (3.10) → Antico viale di Porta Torino (3.11: solo di pas­saggio, arrivando o partendo da Chieri).


Luoghi adatti per un momento di riflessione e di preghiera o per la Messa: Istituto Salesiano - San Domenico - San Filippo - Duo­mo - Istituto santa Teresa.


* Percorso medio (2 ore circa).

Gruppo medio-piccolo, preparato, di adulti o giovani.


Istituto Salesiano san Luigi e chiesa di santa Margherita (3.1) → Chiesa e convento di san Domenico (3.3) → Semina­rio e chiesa di san Filippo (3.5) → Chiesa di san Gugliel­mo (3.6.1) → Casa del teologo Maloria (3.6.2) → Casa Mar­chisio, abitazione di Lucia Matta (3.6.3) → Scuole pubbli­che (3.7) → Piazza Cavour e adia­cenze (3.8: chiesa di sant'Antonio; albergo del Muletto; Caffè Pianta) → Il duomo (3.9).


Luoghi adatti per un momento di riflessione e di preghiera o per la Messa: Istituto Salesiano - San Domenico - San Filippo - Duomo.


* Percorso breve (1 ora circa).

Gruppo grande, medio o piccolo, informato, di adulti, gio­vani e ragazzi.


Istituto Salesiano san Luigi e chiesa di santa Margherita (3.1) → Seminario e chiesa di san Filippo (3.5) → Scuole pubbliche (3.7) → Caffè Pianta (3.8.3: esterno) → Il duomo (3.9).


Luoghi adatti per un momento di riflessione e di preghiera o per la Messa: Istituto Salesiano - San Filippo – Duomo.

22 3. VISITA DEI LUOGHI

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22.1 3.1. ISTITUTO SALESIANO SAN LUIGI E CHIESA DI SANTA MARCHERITA

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(via Vittorio Emanuele, n. 80)


22.2 3.1.1. Scuola

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L'opera salesiana è iniziata nel 1891, quando don Michele Rua, primo successore di Don Bosco, volle aprire un oratorio per i giovani di Chieri, dedicandolo a san Luigi Gonzaga. Chiesa, e­difici, rustico e terreno agricolo facevano parte di un ex con­vento di suore Domenicane, soppresso dal governo napoleonico nel 1802, poi proprietà del conte Balbiano. Don Rua, nel 1891, avendo ricevuto in eredità dal canonico Angelo Giuseppe Caselle (compa­gno di don Bosco nelle scuole pubbliche di Chieri) la cascina Gamennone, sul confine tra Chieri e Andezeno, la permutò con questi possedimenti del conte Balbiano. Qui istituì un convitto liceale e un oratorio festivo. Si venne così a compiere un desi­derio che don Bosco non aveva potuto realizzare precedentemente per l'opposizione del parroco del duomo canonico Andrea Oddenino (1829-1890).

Successivamente, all'oratorio si affiancò lo studentato teologico salesiano (1926-1938) e, quando questo fu trasferito, un aspirantato che oggi si è trasformato in Scuola Media per ra­gazzi esterni.


22.3 3.1.2. La chiesa di santa Margherita

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È una bella costruzione barocca, ultimata nel 1671 su di­segni di Pellegrino Tibaldi (1527-1596), poi restaurata nel 1851, unica parte superstite dell'antico convento delle Domeni­cane.

L'interno, a croce greca, è decorato con pregevoli stucchi di Giovanni Battista Barberini (1666), autore anche delle quat­tro statue angolari rappresentanti Davide, Salomone, Ester e Giuditta. Gli affreschi della cupola sono dovuti a Gianpaolo Recchi (1670), mentre la pala d'altare, rappresentante l'incoro­nazione di Maria tra i santi, è di Guglielmo Caccia detto il Moncalvo (1568-1625).

Sugli altari laterali due dipinti di Mario Càffaro Rore raffigurano il Sacro Cuore con san Francesco di Sales e san Lui­gi Gonzaga il primo; Maria Ausiliatrice, don Bosco, Domenico Sa­vio e don Rua il secondo.

In una cappelletta posta sul fondo della chiesa, a sinistra di chi entra dalla porta principale, è collocata la statua lignea dell’Immacolata, opera di Ignazio Perrucca (1750), che un tempo si trovava nella cappella interna del seminario. Di fronte a questa statua, ogni giorno, il chierico Bosco per sei anni ha nutrito la sua devozione mariana.

Sopra il portale, una lapide ricorda mamma Margherita, che portava il nome della santa titolare della chiesa.


22.4 3.1.3. Oratorio Salesiano

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Il recente edificio dell'oratorio è collocato tra la chiesa di santa Margherita e alcune costruzioni risalenti al sec. XIII. Queste comprendono i resti della cappella di san Leonardo e la cappellina dell'Ospedale di santa Croce annesso alla Precettoria dei Templari, con affreschi del primo Quattrocento in cattivo stato.



23 3.2. CASA NATIVA DI MADRE MADDALENA MORANO

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(Via Vittorio Emanuele, n. 101)


Sulla strada principale, proprio di fronte all'oratorio, c'era la casa in cui il 15 novembre 1847 nacque la beata suor Maddalena Mo­rano, una delle prime Figlie di Maria Ausiliatrice, che fondò molte opere salesiane in Sicilia. Il padre era commerciante in telerie e, nel 1849, si trasferì con la famiglia a Buttigliera d’Asti. Maddalena studiò da maestra ed ottenne l'insegnamento a Montal­do. Desiderosa di consacrarsi a Dio nella vita religiosa non trovò congregazioni disposte ad accoglierla, perchè non più gio­vane. Su consiglio di padre Francesco Pellico S.J., fratello di Silvio, si affidò a don Bosco che l'accolse nel principiante I­stituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice (1879). Nel 1886 venne nomi­nata ispettrice della Sicilia. Si spense a Catania il 26 marzo 1908. A motivo delle sue virtù, del suo zelo pastorale e carita­tivo e della forte tempra spirituale è stata proclamata beata nel 1994 dal papa Giovanni Paolo II.


24 3.3. CHIESA E CONVENTO DI SAN DOMENICO

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(ad angolo tra via Vittorio Emanuele e via san Domenico)


Questa chiesa, ultimata forse intorno al 1317 e consacrata nel 1388, subì vari rimaneggiamenti. Il campanile cuspidato, con monofore e bifore, è stato terminato nel 1381, mentre la faccia­ta attuale fu costruita nel sec. XV, come pure le imposte lignee del grande portale gotico. L'interno è diviso in tre ampie nava­te con pilastri cruciformi i cui capitelli in pietra portano la data 1317.

Il presbiterio e il coro furono ristrutturati all'inizio del '600 dall'arcivescovo Carlo Broglia (+ 1617), della potente famiglia chierese che, trasferitasi in Francia nella seconda me­tà del secolo, assumerà il cognome de Broglie. I dipinti latera­li e gli affreschi della volta, rappresentanti scene del Vangelo e della vita di san Domenico, sono opera del Moncalvo (1606). Gli stalli del coro, elegantemente intagliati, sono del 1613.

Sulla sinistra di chi guarda il presbiterio si trova la cappellina di san Tommaso d'Aquino dove, in un reliquiario in stile goti­co (1892), è conservato il cingolo che, secondo la tradizione, gli an­geli avrebbero consegnato al Santo dopo una dura tentazione vit­toriosamente superata.

Sulla destra, verso il centro della costruzione, c'è la cappella della Madonna del Rosario, dove attualmente è conserva­to il SS. Sacramento. Lo splendido altare barocco in legno pro­viene da una confraternita di Riva di Chieri. Il quadro centrale è opera del Moncalvo (1606-1608).

A questo altare don Bosco, l'8 giugno 1841, celebrò la sua terza Messa dopo l'ordinazione, invitato dal padre Giacinto Giu­siana O.P., che era stato suo professore nel corso di Grammatica (1832-1833). Durante quella messa - scrisse don Bosco - egli pianse sempre per commozione. Ho passato con lui tutto quel giorno, che posso chiamare giornata di paradiso” (MO 111).


25 3.4. VIA DELLA PACE

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Usciti da san Domenico si svolta a sinistra su via Vittorio Emanule. Dopo pochi passi, sulla destra si incontra via della Pa­ce. Gli edifici che si affacciano su di essa costituivano il ghetto degli Ebrei.

25.1 3.4.1. Bottega del libraio Elia

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Verso la metà del vicolo, a destra (al n. 10), c'era la ca­sa e la bottega del libraio Foa Elia che Giovanni Bosco, studen­te di Umanità e Rettorica, si era fatto amico. Da lui otteneva a prestito, ad un soldo l'uno, i volumetti della Biblioteca Popo­lare Pomba, che leggeva voracemente al ritmo di uno al giorno. Scriverà in seguito:


L'anno di quarta Ginnasiale l'impiegai nella lettura degli autori italiani. L'anno di Retorica mi posi a fare studi sui classici latini, e cominciai a leggere Cornelio Nipote, Cicerone, Salustio (sic), Quinto Curzio, Tito Livio, Cornelio Tacito, Ovidio, Virgilio, Orazio Flacco ed altri. Io leggeva que’ libri per divertimento e li gustava come se li avessi capi­to interamente. Soltanto più tardi mi accorsi che non era vero, perciocché fatto sacerdote, messomi a spiegare ad altri quelle classiche celebrità, conobbi che appena con grande studio e con molta preparazione riusciva a penetrarne il giusto senso e la bellezza loro” (MO 83).



25.2 3.4.2. Casa di Giona

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Sullo stesso lato, nell'edificio in fondo alla strada, ad angolo con via di Albussano (con entrata dal n. 14 di via della Pace), abitava Giacobbe Levi detto Giona che, tramite l'amicizia con Giovanni, abbracciò il cristianesimo e fu battezzato nel 1834, cambiando il nome in Luigi Bolmida (cf MO 73-76).


25.3 3.4.3. Convento francescano e chiesa della Pace

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La strada conduce al convento della Pace dove, al tempo della permanenza di Giovanni Bosco in Chieri, viveva una comuni­tà francescana con numeroso noviziato.

Durante l'anno di Umanità, all'età di diciannove anni, egli si trovò nel momento più critico per la scelta vocazionale. Si sentiva chiamato dal Signore al sacerdozio, ma la situazione e­conomica familiare non gli offriva alcuna speranza di continuare negli studi: aveva di fronte ancora un anno di scuola pubblica, un biennio di filosofia e altri cinque anni di teologia. Si do­mandò, allora, dove veramente Dio lo chiamasse. Il contatto con i Francescani gli suggerì l'idea di abbracciare la vita religio­sa in quell'Ordine. Presentò domanda nel marzo 1834 e sostenne positivamente l'esame di ammissione al noviziato presso il con­vento di santa Maria degli Angeli in Torino, il 18 dello stesso mese.

Insieme con lui affrontò l'esame anche un compagno di scuo­la, Eugenio Nicco da Poirino, che di fatto entrò in convento.

Due eventi lo indussero a sospendere l'ingresso nel novi­ziato francescano: uno strano sogno che lo lasciò perplesso e l'incontro con Evasio Savio. Don Bosco ricorda questo momento di difficile discernimento vocazionale con ricchezza di particolari:


Intanto si avvicinava la fine dell'anno di Retorica, epoca in cui gli studenti sogliono deliberare intorno alla loro vocazione. Il sogno di Murialdo mi stava sempre impresso; anzi mi si era altre volte rinnovato in modo assai più chiaro, per cui, volendoci prestar fede, doveva scegliere lo stato ecclesiastico; cui appunto mi sentiva propensione; ma non volendo credere ai sogni, e la mia maniera di vivere, certe abitudini del mio cuore, e la mancanza assoluta delle virtù necessarie a questo stato, rendevano dubbiosa e assai difficile quella deliberazione.

Oh se allora avessi avuto una guida, che si fosse presa cura della mia vocazione! Sarebbe stato per me un gran tesoro, ma questo tesoro mi mancava! Aveva un buon confessore, che pensava a farmi buon cristiano, ma di vocazione non si volle mai mischiare.

Consigliandomi con me stesso, dopo avere letto qualche libro, che trattava della scelta dello stato, mi sono deciso di entrare nell'Ordine Francescano. Se io mi fo cherico nel secolo, diceva tra me, la mia vocazione corre gran pericolo di naufragio. Abbraccerò lo stato ecclesiastico, rinuncerò al mondo, andrò in un chiostro, mi darò allo studio, alla meditazione, e così nella solitudine potrò combattere le passioni, specialmente la superbia, che nel mio cuore aveva messe profonde radici. Feci pertanto dimanda ai conventuali riformati, ne subii l'esame, fui accettato e tutto era preparato per entrare nel convento della Pace in Chieri. Pochi giorni prima del tempo sta­bilito per la mia entrata ho fatto un so­gno dei più strani. Mi parve di vedere una moltitudine di que' religiosi colle vesti sdruscite indosso e correre in senso oppo­sto l'uno dall'altro. Uno di loro vennemi a dire: Tu cerchi la pace, e qui pace non troverai. Vedi l'atteggiamento de' tuoi fratelli. Altro luogo, altra messe Dio ti prepara. Voleva fare qualche dimanda a quel religioso; ma un rumore mi svegliò e non vidi più cosa alcuna” (MO 85).


Recatosi a Castelnuovo per chiedere al parroco gli attestati richiesti e non avendolo tro­vato, si imbattè nel fabbro Evasio Savio che gli era amico e lo apprezzava. Costui, saputo il motivo della sua visita, lo consi­gliò a soprassedere e si diede da fare per ottenere gli aiuti necessari al proseguimento degli studi di Giovanni (cf MB 1, 301-307).

Sarà poi il consiglio di don Giuseppe Comollo, zio dell'a­mico Luigi, unitamente a quello di don Cafasso a orientarlo de­cisamente verso il seminario.

Attualmente nel convento della Pace vivono i padri Lazzaristi di san Vincenzo de' Paoli, detti anche Preti della Missione.



26 3.5. SEMINARIO E CHIESA DI SAN FILIPPO NERI

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(via Vittorio Emanuele, n. 63)


26.1 3.5.1. Il seminario

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In questo palazzo, già convento dei padri Filippini, nel 1829 venne aperto il terzo seminario maggiore della archidiocesi di Torino (gli altri due erano a Torino e Bra). Lo aveva voluto l'arcivescovo mons. Colombano Chiaveroti per accogliere e forma­re con maggior cura i chierici studenti di filosofia e teologia, che andavano aumentando sempre più. Qui terminò gli studi teolo­gici san Giuseppe Cafasso. Don Bosco vi dimorò per sei anni (1835-1841). Più tardi vi studierà anche il beato Giuseppe Allamano, canonico e fondatore dei Missionari della Consolata.

26.1.1 L’edificio

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L'edificio risale in gran parte al XVII secolo. Era pro­prietà dei Broglia che lo donarono ai padri Filippini, i quali lo ampliarono e vi insediarono una comunità, costruendovi accanto la bella chiesa di san Filippo (1664-1673). L'opera fu incorag­giata e sostenuta dal beato Sebastiano Valfrè (1629-1710), uno dei fondatori dell'Oratorio filippino di Torino e modello, insieme a san Fran­cesco di Sales, dei preti piemontesi.

I Padri dell'Oratorio vissero in questo convento fino alla soppressione napoleonica del 1802. Nella Restaurazione tentarono invano di ricostituirvi una comunità. Gli ambienti vennero uti­lizzati fino al 1828 dall'Amministrazione cittadina come sede delle scuole, degli archivi civici e caserma dei carabinieri. Poi passarono alla diocesi.

Nel 1949 il seminario venne trasferito a Rivoli e lo stabi­le fu affidato ai padri Salvatoriani che vi aprirono un collegio. Successivamente fu acquistato dal comune di Chieri che lo ha re­staurato e adibito a scuola.


La costruzione a forma di "U" è raccolta attorno ad un va­sto cortile interno, dove una bella meridiana attirò l'attenzio­ne del chierico Bosco e del suo amico Garigliano al loro primo ingresso. Vi è scritto: “Afflictis lentae - celeres gaudentibus horae”, cioè “Le ore passano lentamente per coloro che sono tri­sti, velocemente per chi è nella gioia”. Il motto fu subito scelto dai due come programma di vita: “Ecco, dissi all’amico, ecco il nostro programma: stiamo sempre allegri e passerà presto il tempo” (MO 90).

Al pian terreno si trovavano la portineria e il parlatorio, la cucina, il refettorio, la cappella interna e alcune aule. Al piano superiore c'erano le sale di studio, due camerate, l'al­loggio del rettore e la biblioteca. Nell'ultimo piano erano di­slocate le stanze dei superiori, l'infermeria e altre camerate.

Lo stanzone in cui dormiva don Bosco con i suoi compagni, al tempo della morte del chierico Luigi Comollo, si trova al primo piano sul lato della meridiana. Una lapide nel corridoio ricorda il fatto della rumorosa "manifestazione" notturna. Don Bosco così evoca l’intera vicenda:


Attesa l'amicizia, la confidenza illimitata che passava tra me e il Comollo, eravamo soliti parlare di quanto poteva ad ogni momento accadere, della nostra separazione pel caso di morte. Un giorno dopo aver letto un lungo brano della vita dei Santi, tra celia e serietà dicemmo che sarebbe stata una grande consolazione, se quello che di noi fosse primo a morire avesse portato notizie dello stato suo. Rinnovando più volte tal cosa abbiamo fatto questo contratto. Quello che di noi sarà il primo a morire, se Dio lo permetterà, recherà notizia di sua salvezza al compagno superstite. (...)

Moriva Comollo il due aprile 1839 e la sera del dì seguente era con gran pompa portato alla sepoltura nella chiesa di San Filippo. (...) La sera di quel giorno essendo già a letto in un dormitorio di circa 20 seminaristi, io era in agitazione, persuaso che in quella notte sarebbesi verificata la promessa. Circa alle 11 ½ un cupo rumore si fa sentire pei corridoi: sembrava che un grosso carrettone tirato da molti cavalli si andasse avvicinando alla portina del dormitorio. Facendosi ad ogni momento più tetro e a guisa di tuono fa tremare tutto il dormitorio. Spaventati i cherici fuggono dai loro letti per raccogliersi insieme e darsi animo a vicenda. Fu allora, ed in mezzo a quella specie di violento e cupo tuono che si udì la chiara voce del Comollo dicendo tre volte: Bosco, io son salvo. Tutti udirono il rumore, parecchi intesero la voce senza capirne il senso; alcuni però la intesero al par di me, a segno che per molto tempo si andava ripetendo pel seminario. Fu la prima volta che a mia ricordanza io abbia avuto paura; paura e spavento tali che caduto in grave malattia fui portato vicino alla tomba” (MO 103-104).

26.1.2 Organizzazione del seminario

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Quando nel novembre 1835 il chierico Bosco entra in semina­rio ne è rettore il canonico Sebastiano Mottura (1795-1876), uomo capace e buon amministratore, superiore severo ma equili­brato; dirige il seminario per 31 anni, dalla fondazione (1829-1830) fino all'estate del 1860. È coadiuvato da altri quat­tro superiori: il direttore spirituale, il professore di filoso­fia e quello di teologia, il rettore della chiesa di san Filip­po. Nel 1835 i superiori sono don Giuseppe Mottura (26 anni, direttore spirituale), il teologo Lorenzo Prialis (32 anni, pro­fessore di teologia), il teologo Innocenzo Arduino (30 anni, pro­fessore di filosofia, che ha sostituito nei primi giorni dell'anno scolastico il teologo Ternavasio) e don Matteo Testa (48 anni, rettore di san Filippo). Nel 1837-1838 il teologo Arduino as­sume l'incarico di Prefetto superiore e di Ripetitore in teolo­gia; l'insegnamento della filosofia è allora affidato al teologo Giovan­ni Battista Appendini (30 anni).

Una serie di mansioni minori, come l'assistenza nelle came­rate e nelle sale di studio, la direzione delle preghiere in cappella, la scuola di canto gregoriano, l'assistenza agli amma­lati e le incombenze di sacrestia sono affidate a chierici più anziani. In cambio di questi servizi vien loro condonata parte della pensione, che ammonta a 30 lire mensili. Giovanni Bosco, per un certo periodo è incaricato della sacrestia e, nell'anno scolastico 1840-1841 viene nominato Prefetto di camerata, cioè assistente.


Tappe importanti dell'anno seminaristico sono il triduo di inizio d'anno (una specie di ritiro spirituale per entrare nel clima formativo del seminario), gli esami autunnali, il confe­rimento degli ordini minori e maggiori che avviene alle Tempora di primavera (sabato precedente la domenica delle Palme) e di e­state (sabato dopo Pentecoste), gli esercizi spirituali dal mercoledì di Passione al mercoledì Santo e gli esami finali.

Il ritmo di vita e di lavoro del seminario è scandito da un regolamento molto dettagliato ed esigente. Studio, preghiera, obbedienza e disciplina sono le colonne della formazione semina­ristica.


La giornata degli studenti viene regolata in ogni minimo particolare. Al mattino la levata è fissata alle ore 5,30 nel periodo invernale (dal 1° novembre al 15 marzo), quindi antici­pata di un quarto d'ora ogni quindici giorni e portata alle 4,30 nel periodo estivo (dal 1° maggio al 30 giugno). Poi i seminari­sti scendono in cappella dove recitano le orazioni, fanno mezz'ora di meditazione e assistono alla Messa. Segue un'ora di studio. La colazione (una semplice pagnotta) si fa verso le 8,15; quindi, dopo una breve ricreazione, tre ore di scuola (8,45-11,45). Il pranzo (12,00) è preceduto dalla recita dell'Angelus in cappella e seguito da un quarto d'ora di visita comunitaria al SS. Sacramento prima della ricreazione pomeridia­na, la quale si protrae per un'ora circa.

Al pomeriggio si ripete uno schema analogo: mezz'ora di studio personale e mezz'ora di studio in gruppo, detta circolo (13,45-14,45), due ore di scuola seguite immediatamente dal Rosario in cappella; altre due ore di studio più un'ora di ripe­tizione (17,00-20,00); cena; ricreazione di tre quarti d'ora e preghiere della sera. Alle ore 21,30 ci si ritira per il riposo ed entro le 22,00 tutti i lumi devono essere spenti.

Durante il pranzo e la cena, per la maggior parte del tem­po, i chierici stanno in silenzio ascoltando una lettura fatta da un compagno. Nel periodo che va dalla prima settimana di Av­vento al termine della Quaresima, la lettura al sabato sera vie­ne sostituita da un discorsetto di venti minuti sul Vangelo del­la domenica, che i suddiaconi e i diaconi devono presentare a turno per allenarsi alla predicazione.

Al giovedì la scuola di filosofia e di teologia viene so­stituita da un'ora di canto gregoriano, un'ora di sacre cerimo­nie e un'ora di istruzione morale; al posto delle lezioni pome­ridiane c'è il passeggio a gruppi nei dintorni della cittadina e sono permesse le visite di parenti o amici ai seminaristi.

Durante lo studio del sabato sera sei o sette sacerdoti della città si mettono in cappella per le confessioni dei semi­naristi, i quali sono tenuti dal regolamento a confessarsi alme­no ogni quindici giorni. Durante le Messe feriali, secondo l'u­sanza del tempo, non si distribuisce la Comunione. Coloro che, col permesso del confessore, desiderano riceverla, possono re­carsi nella chiesa di san Filippo tra le 8,15 e le 8,45, cioè nel tempo della colazione.

Nel corso dei due mesi estivi l'orario subisce alcune modi­fiche; in particolare, poiché la levata è stata anticipata alle 4,30, si concedono tre quarti d'ora di riposo nel pomeriggio.

L'orario dei giorni festivi è meno impegnativo, ma sempre denso: levata ritardata di mezz'ora; ufficio di mattutino e lodi della B. Vergine Maria e Messa della comunione. Alla colazione segue un'ora e mezza di studio, poi tutti si portano in duomo per la Messa cantata. Lo studio del pomeriggio è dedicato al Nuovo Testamento e al Catechismo Romano; nel frattempo i semina­risti dell'ultimo anno si recano in duomo per la catechesi dei ragazzi. Poi la comunità celebra i vespri cantati, ascolta un'i­struzione religiosa e recita il Rosario. Seguono un'ora e mezza di studio, un'ora di ripetizione, cena, ricreazione, preghiere e riposo.


26.1.3 L'ordinamento degli studi

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Prevede un biennio di filosofia e un quinquennio di teolo­gia. La scuola è fatta dal professore titolare aiutato da un Ri­petitore. Non esistono libri di testo: i trattati, in latino, vengono "dettati" e spiegati dal professore mentre gli allievi prendono appunti; nella ripetizione della sera il Ripetitore riassume le lezioni del mattino affinchè i chierici possano ve­rificare i contenuti appuntati e presentare domande o chiarimen­ti.

L'anno scolastico inizia al primo di novembre con un triduo di introduzione e termina alla fine di giugno.


26.1.4 Il chierico Giovanni Bosco in seminario

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Per Giovanni Bosco, abituato ad una vita dura ma estrema­mente vivace, gli anni di seminario così regolati e ritirati co­stano non poco. Li accetta con buona volontà, tutto proteso ver­so la meta sacerdotale, nello studio, nell'impegno ascetico e spirituale. Egli, che vuole sfruttare al massimo le opportunità di studio e di lettura offerte dal seminario, utilizza le bri­ciole di tempo recuperate nel periodo della levata o in altri momenti. Anche nelle ricreazioni rinuncia a quanto potrebbe di­strarlo troppo nella sua tensione formativa:


Il trastullo più comune in tempo libero era il noto giuoco di Barra rotta. In principio ci presi parte con mol­to gusto, ma siccome questo giuoco si avvicinava molto a quelli dei ciarlatani, cui aveva assolutamente rinunziato, così pure ho voluto da quello cessare. In certi giorni era permesso il giuoco dei tarocchi, e a questo ci ho preso parte per qualche tempo. Ma anche qui trovava il dolce mi­sto coll'amaro (...). Nel giuoco io fissava tanto la mente, che dopo non poteva più né pregare, né studiare, avendo sempre l'immaginazione travagliata dal Re da Cope e dal Fante da Spada, dal 13 o dal quindici da Tarocchi. Ho per­tanto presa la risoluzione di non più prendere parte a que­sto giuoco, come aveva già rinunziato ad altri. Ciò feci alla metà del secondo anno di Filosofia 1836.

La ricreazione, quando era più lunga dell'ordinario, era allegrata da qualche passeggiata, che i seminaristi faceva­no spesso ne' luoghi amenissimi, che circondano la città di Chieri. Quelle passeggiate tornavano anche utili allo stu­dio, perciocché ciascuno procurava di esercitarsi in cose scolastiche, interrogando il suo compagno, o rispondendo alle fatte dimande (...).

Nelle lunghe ricreazioni spesso ci raccoglievamo in Re­fettorio per fare il così detto circolo scolastico. Ciascu­no colà faceva quesiti intorno a cose che non sapesse, o che non avesse ben intese nei trattati o nella scuola. Ciò mi piaceva assai, e mi tornava molto utile allo studio, al­la pietà ed alla sanità (...).

La mia ricreazione era non di rado dal Comollo interrot­ta. Mi prendeva egli per un brano dell'abito e dicendomi di accompagnarlo, conducevami in cappella per fare la visita al SS. Sacramento pegli agonizzanti, recitare il rosario o l'ufficio della Madonna in suffragio delle anime del purga­torio” (MO 93-95).

I frutti di questo continuo impegno sono buoni, ma la salu­te del chierico Bosco rimane compromessa e un paio di volte si trova in serio pericolo. L'amico Luigi Comollo, molto più graci­le, durante il primo corso teologico, si ammala seriamente e muore.


Se la disciplina del seminario e gli impegni della vita chiericale vengono affrontati con buona volontà e spirito di a­dattamento, tuttavia alcuni aspetti dell'ambiente seminaristico non lo lasciano completamente soddisfatto: innanzitutto un certo distacco affettivo tra superiori e studenti, che gli fa deside­rare “sempre di più - come scrive - di essere presto prete per trattenermi in mezzo ai giovanetti, per assisterli, ed appagarli ad ogni occorrenza” (MO 91-92); in secondo luogo la superficialità e la carenza di segni vocazionali in alcuni compagni seminari­sti. Fin dai primi giorni egli individua i chierici migliori e stringe amicizia con loro (tra questi Garigliano, Giacomelli e Comollo), tenendo verso gli altri un comportamento cortese ma riservato (cf MO 92). Tuttavia il suo atteggiamento conciliante, bonario e servizievole gli attira la simpatia di compagni e su­periori: “Nel seminario io sono stato assai fortunato ed ho sem­pre goduto l'affezione de' miei compagni e quella di tutti i miei superiori” (MO 104-105).


Tra gli avvenimenti di quegli anni ne ricordiamo alcuni, che hanno particolare importanza nella vita di Don Bosco.


Durante le vacanze del primo anno di seminario (1835-1836) il giovane chierico trascorre tre mesi nel castello di Montaldo To­rinese, dove i padri Gesuiti avevano trasferito da Torino gli allievi interni del Real Collegio del Carmine, per l'incombente pericolo del colera. Su segnalazione di don Cafasso, Giovanni viene invitato come ripetitore di greco e assistente di camerata (cf MO 107-108). Ha così modo di conoscere parecchi giovani ap­partenenti a distinte e nobili famiglie piemontesi, con i quali mantiene rapporti che gli risulteranno preziosi nel suo futuro ministero.


All'inizio del secondo corso di filosofia (1836-1837), Gio­vanni scopre il valore della Imitazione di Cristo, che segna l'inizio di una feconda lettura di opere ascetiche, religiose e storiche le quali arricchiscono il suo bagaglio culturale e pla­smano la sua mentalità.


Il secondo anno di teologia (1838-1839) è segnato drammatica­mente dalla morte dell'amico Luigi Comollo (2 aprile 1839, mar­tedì di Pasqua), che ha solo 22 anni.

In questo stesso anno Giovanni viene incaricato della sa­crestia e, in occasione degli esercizi spirituali, si incontra per la prima volta col teologo Giovanni Borel (1801-1873), co­lui che lo lancerà e lo sosterrà nei primi passi dell'Oratorio:


Nel secondo anno di Teologia fui fatto sacristano, che era una carica di poca entità, ma un prezioso segno di be­nevolenza dei superiori, cui erano annessi altri franchi sessanta (ndr.: di sconto sulla retta del seminario). Così che godeva già metà pensione, mentre il ca­ritatevole D. Caffasso provvedeva al rimanente. (...)

Fu in quest'anno che ebbi la buona ventura di conoscere uno de' più zelanti ministri del santuario venuto a dettar gli esercizi spirituali in seminario. Egli apparve in sa­cristia con aria ilare, con parole celianti, ma sempre con­dite di pensieri morali. Quando ne osservai la preparazione e il ringraziamento della messa, il contegno, il fervore nella celebrazione di essa, mi accorsi subito, che quegli era un degno sacerdote, quale appunto era il T. Gioanni Borrelli (ndr.: don Bosco scrive sempre così il cognome di questo suo grande collaboratore ed amico) di Torino. Quando poi cominciò la sua predicazione e se ne ammirò la popola­rità, la vivacità, la chiarezza e il fuoco di carità che appariva in tutte le parole, ognuno andava ripetendo che e­gli era un santo.

Di fatto tutti facevano a gara per andarsi a confessare da lui, trattare con lui della vocazione ed avere qualche particolare ricordo. Io pure ho voluto conferire col mede­simo delle cose dell'anima. In fine avendogli chiesto qualche mezzo certo per conservare lo spirito di vocazione lungo l'anno e specialmente in tempo delle vacanze, egli mi lasciò con queste memorande parole: Colla ritiratezza e colla frequente comunione si perfeziona e si conserva la vocazione e si forma un vero ecclesiastico” (MO 105-106).


Dopo il terzo anno di teologia (1839-1840) il chierico Bosco ottiene di passare direttamente al quinto corso, sostenendo gli esami del quarto anno alla fine dell'estate:

Mi presentai solo dall'Arcivescovo Fransoni, chiedendogli di poter istudiare i trattati del 4° anno in quelle vacanze e così compiere il quinquennio nel successivo anno scolastico 1840-1. Adduceva per ragione la mia avanzata età di 24 anni compiuti. Quel santo prelato (...) mi concedette il favore implorato, a condizione che io portassi tutti i trattati corrispondenti al corso, che io desiderava di guadagnare. Il T. Cinzano, mio vicario foraneo, era incaricato di eseguire la volontà del superiore. In due mesi ho potuto collo studio esaurire i trattati prescritti e per l'ordinazione delle quattro tempora di autunno sono stato ammesso al Suddiaconato” (MO 108-109).


Il giudizio globale dato da don Bosco sulla sua permanenza in seminario - nonostante i rilievi sul distacco dei superiori e sulla poca esemplarità di alcuni compagni - non è negativo. Quei sei anni furono per lui piacevoli. Scriverà più tardi:


Ma un giorno di vera costernazione era quello in cui doveva uscire definitivamente dal seminario. I superiori mi amavano, e mi diedero continui segni di benevolenza. I com­pagni mi erano affezionatissimi. Si può dire che io viveva per loro, essi vivevano per me. Chi avesse avuto bisogno di farsi radere la barba o la cherica ricorreva a Bosco. Chi avesse abbisognato di berretta da prete, di cucire, rappez­zare qualche abito faceva capo a Bosco. Perciò mi tornò dolorosissima quella separazione, separazione da un luogo dove era vissuto per sei anni; dove ebbi educazione, scien­za, spirito ecclesiastico e tutti i segni di bontà e di af­fetto che si possano desiderare” (MO 110).

In questo ambiente egli assimila gli elementi portanti del­la spiritualità proposta ai seminaristi: la pietà profonda e so­stanziosa, l'acquisizione di una mentalità sacerdotale attraver­so disciplina ed ascesi, l'impegno sodo nello studio e nel dove­re in vista del futuro ministero, la corrispondenza alla chiama­ta del Signore nel desiderio di consumare la propria vita per la salvezza e la santificazione del prossimo.


26.2 3.5.2. La chiesa di san Filippo

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Si tratta di un ampio ed armonico edificio barocco iniziato nel 1664, terminato nel 1673 e consacrato nel 1681. L'interno è dell'architetto tici­nese Antonio Bettino (che lavorò a Torino nella seconda metà del 1600), mentre la facciata esterna, su via Vittorio Emanuele, fu costruita posteriormente su disegno dell'architetto e incisore Mario Ludovico Quarini (1736-1800).

Sul primo altare a destra si trovava un bel dipinto di Claudio France­sco Beaumont (1694- 1766) rappresentante san Francesco di Sa­les di fronte alla Vergine con Bambino; era legato ad una confraternita dedicata al santo vescovo, molto attiva tra XVIII e XIX sec., che in questa chiesa si radunava per gli eser­cizi di pietà. Il quadro oggi si trova nella sacrestia del duomo. Il secondo altare è dedicato a san Filippo Neri, con tela del milanese Stefano Maria Legnani detto il Legnanino (1660-1715). Domina l'altar maggiore una splendida pala raffi­gurante Maria Immacolata, a cui è dedicata la chiesa, di Daniel Seyter (1649-1705). La sacrestia è arredata da pregevoli mobili settecente­schi intagliati da artigiani chieresi.

Sotto il presbitero, a sinistra presso la balautra, nella cripta funeraria, fu sepolto il chierico Luigi Comollo. Nell'au­tunno del 1986, per interessamento del cav. Secondo Caselle e del parroco del duomo mons. Gianni Carrù, si è riportato alla luce il luogo della sepoltura. Ora, attraverso una lastra di cristal­lo, si possono intravedere i resti del seminarista.


Nell'Ottocento un corridoio metteva in comunicazione chiesa e seminario. Di lì, ogni mattina durante il tempo della colazio­ne, passava il chierico Bosco con altri compagni, per ricevere dal rettore di san Filippo la Comunione. Infatti solo col per­messo del confessore si poteva accedere all'Eucaristia, e perse­verava l'usanza di distribuire la comunione ai seminaristi sol­tanto alla prima Messa della domenica (cf MO 93).

I seminaristi attendevano alla preghiera e alle celebrazio­ni liturgiche in una cappella interna, dedicata a Maria Immacolata, di fianco alla chiesa di san Filippo. Qui il chierico Bosco svolse il compito di sacrestano. L'ambiente esiste tutt'ora, ampliato però nella parte absidale verso la fine del secolo scorso. Dal tempo della chiusura del convitto salvatoriano è usato per conferenze e mostre. Vi si accede dal corridoio che collega l’edificio con il portale che dà su corso Vittorio Emanuele (numero civico 63).



27 3.6. PIAZZA MAZZINI E ADIACENZE

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Risalendo per via san Filippo, sul lato sinistro della chie­sa, si fiancheggia la bella facciata seicentesca in cotto (modi­ficata nel 1780) dell'ex convento filippino e si giunge in piazza Mazzini, anticamente piazza san Guglielmo.

Questo luogo nella prima parte dell'Ottocento era il cuore della cittadina. Vi si trovava il municipio ed era animato da un vivace mercato settimanale e dalle due fiere annuali dei santi Basilissa e Giuliano e di san Leonardo.

Sulla piazza si affacciano alcuni edifici legati al ricordo della permanenza di Giovanni Bosco a Chieri: la chiesa di san Gu­glielmo, la casa del teologo Maloria, la casa dove egli abitò presso Lucia Matta, il palazzo di città, il laboratorio del fale­gname Barzochino.


27.1 3.6.1. Chiesa di san Guglielmo

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La chiesa che dava il nome alla piazza è una costruzione di origini remote, più volte rifatta; l'attuale sistemazione risale al 1837. Anticamente era sede della Confraternita dei Disciplina­ti dello Spirito Santo, che aveva anche lo scopo di assistere gli ebrei convertiti al cristianesimo.

Nel 1833-1834 Giovanni Bosco, che si trovava ospite al caffè Pianta, fece amicizia con il giovane ebreo Giona, pseudonimo di Giacobbe Levi, e lo aiutò nel cammino di conversione. La prepara­zione al Battesimo fu curata dai padri Gesuiti di sant'Antonio. Il 10 agosto 1834 Giona, accompagnato processionalmente in duomo dai membri della Confraternita e da numeroso popolo, fu battezza­to e prese il nome di Luigi e il cognome Bolmida, in onore del padrino Giacinto Bolmida, banchiere. Madrina fu la signora Otta­via Maria Bertinetti. Secondo l'uso e gli statuti, la Confrater­nita dello Spirito Santo ascrisse tra i suoi membri il neo-convertito e gli assegnò un sussidio di 400 lire, dal momento che egli veniva espulso dalla comunità ebraica.

Rettore della chiesa di san Guglielmo era don Placido Valim­berti (don Bosco nelle MO lo chiama Eustachio), il primo sacerdote incontrato da Giovanni al suo arrivo in Chieri. “Egli - scrive don Bosco - mi diede molti buoni avvisi sul modo di tenermi lontano dai pericoli; mi invitava a servirgli la messa, e ciò gli porgeva occasione di darmi sempre qualche buon suggerimento. Egli stesso mi condusse dal prefetto delle scuole, mi pose in conoscenza cogli altri miei professori” (MO 56). Abitava nella casa a fianco della chiesa, al numero civico 4.

Don Valimberti era anche insegnante della Quinta. E Giovanni se lo ritrovò come professore quando, a due mesi dall'inizio dell'anno scolastico, venne promosso a quella classe. Due anni dopo il sacerdote gli affiderà le ripetizioni al fratello Luigi, studente di Latinità. In questo, come in altri simili casi, gli esiti furono tanto lusinghieri che la famiglia Valimberti, rico­noscente, considerò Giovanni come uno di casa, invitandolo ogni domenica a pranzo (cf MB 1, 358-360).


27.2 3.6.2. Casa del teologo Maloria (piazza Mazzini, n. 8)

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Di fronte alla chiesa, in casa Golzio, abitava il teologo Giuseppe Maria Maloria (1802-1857), dotto ecclesiatico, canoni­co del duomo. Aveva solo ventinove anni quando, nel 1835, venne scelto da Giovanni Bosco come confessore. Il giovane studente continuerà a confessarsi regolarmente dal teologo Maloria per tutto il tempo della sua residenza in Chieri, anche durante gli anni di seminario.

Giovanni aveva di lui una grande stima. Leggiamo nelle Memo­rie dell'Oratorio:


La più fortunata mia avventura fu la scelta di un con­fessore stabile nella persona del teologo Maloria, canonico della collegiata di Chieri. Egli mi accolse sempre con gran­de bontà ogni volta che andava da lui. Anzi mi incoraggiava a confessarmi e comunicarmi colla maggior frequenza. Era cosa assai rara a trovare chi incoraggiasse alla frequenza dei sacramenti. Non mi ricordo che alcuno de' miei maestri mi abbia tal cosa consigliata. Chi andava a confessarsi e a co­municarsi più d'una volta al mese era giudicato dei più virtuosi; e molti confessori nol permettevano. Io però mi credo debitore a questo mio confessore se non fui dai com­pagni strascinato a certi disordini che gli inesperti gio­vanetti hanno purtroppo a lamentare nei grandi collegi” (MO 64).

Tuttavia, per motivi che sfuggono a don Bosco e a noi, don Maloria non gli fu di aiuto quando si trattò di decidere la scel­ta della propria vocazione (cf MO 84 e 85).


27.3 3.6.3. Casa Marchisio, abitazione di Lucia Matta (piazza Mazzini, n. 1; ma l'ingresso era dall'antica via Mercanti, oggi via Carlo Alberto)

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Qui risiedeva, durante l'anno scolastico, un'amica di mamma Margherita, Lucia Pianta vedova Matta, originaria di Morialdo. Costei, accasata la figlia maggiore, si era trasferita a Chieri per seguire il figlio Giovanni Battista (1809-1878) studente, prendendo in affitto la casa di Giacomo Marchisio. Ella ospitava pure un paio di altri ragazzi, per poter arrotondare il bilancio fami­liare. Negli anni 1831-1832 e 1832-1833 accolse anche Giovanni per 21 lire al mese. La somma, pagabile pure in natura, era comunque no­tevole per la situazione economica dei Bosco. Giovanni allora cercò di contribuire alle spese impegnandosi in ogni modo nei piccoli lavori domestici.

Per la sua condotta esemplare e giudiziosa si guadagnò subi­to la stima di Lucia, che gli chiese di impartire ripetizioni scolastiche al figlio, già ventunenne ma piuttosto divagato. (Si noti che erano frequenti i casi di coloro che intraprendevano gli studi a giovinezza avanzata). Gli esiti furono soddisfacenti, tanto che Giovanni ottenne l'abbuono della pensione.

Giovanni Battista Matta, diventato speziale e, per molti an­ni, sindaco di Castelnuovo, avrà sempre grande stima per don Bo­sco; nel 1867 manderà a scuola a Valdocco il figlio Edoardo En­rico.

Probabilmente già nel suo primo anno di residenza in Chieri Giovanni fondò la Società dell'Allegria :


Io aveva fatto tre categorie di compagni: buoni, indif­ferenti, cattivi. Questi ultimi evitarli assolutamente e sempre appena conosciuti; cogli indifferenti trattenermi per cortesia e per bisogno; coi buoni contrarre famigliari­tà, quando se ne incontrassero che fossero veramente tali. Siccome in questa città io non conosceva alcuno, così io mi sono fatto una legge di famigliarizzare con nissuno. Tutta­via ho dovuto lottare non poco con quelli, che io per bene non conosceva. Taluni volevano guidarmi ad un teatrino, al­tri a fare una partita al giuoco, quell'altro ad andare a nuoto. Taluno anche a rubacchiare frutta nei giardini o nel­la campagna (...).

Siccome poi i compagni, che volevano tirarmi ai disordi­ni, erano i più trascurati nei doveri, così essi cominciaro­no a far ricorso a me, perché facessi la carità scolastica prestando o dettando loro il tema di scuola. Spiacque tal cosa al professore, perché quella falsa benevolenza fomenta­va la loro pigrizia, e ne fui severamente proibito. Allora mi appigliai ad una via meno rovinosa, vale a dire a spiega­re le difficoltà, ed anche aiutare quelli cui fosse mestie­ri. Con questo mezzo faceva piacere a tutti, e mi preparava la benevolenza e l'affezione dei compagni. Cominciarono quelli a venire per ricreazione, poi per ascoltare racconti, e per fare il tema scolastico e finalmente venivano senza nemmeno cercarne il motivo come già quei di Murialdo e di Castelnuovo. Per dare un nome a quelle riunioni solevamo chiamarle So­cietà dell'Allegria; nome che assai bene si conveniva, per­ciocché era obbligo stretto a ciascuno di cercare que' li­bri, introdurre que' discorsi, e trastulli che avessero potu­to contribuire a stare allegri; pel contrario era proibito ogni cosa che cagionasse malinconia, specialmente le cose contrarie alla legge del Signore. Chi pertanto avesse be­stemmiato o nominato il nome di Dio invano, o fatto cattivi discorsi, era immediatamente allontanato dalla società.

Trovatomi così alla testa di una moltitudine di compagni di comune accordo fu posto per base:

1° Ogni membro della Società dell'Allegria deve evitare ogni discorso, ogni azio­ne che disdica ad un buon cristiano;

2° Esattezza nell'a­dempimento dei doveri scolastici e dei doveri religiosi (...).

Lungo la settimana poi la Società dell'Allegria si rac­coglieva in casa di uno de' soci per parlare di religione. A questa radunanza interveniva liberamente chi voleva. Gari­gliano e Braje erano dei più puntuali. Ci trattenevamo al­quanto in amena ricreazione, in pie conferenze, letture re­ligiose, in preghiere, nel darci buoni consigli e nel notar­ci quei difetti personali, che taluno avesse osservato, o ne avesse da altri udito a parlare” (MO 59-62).


27.4 3.6.4. Antico Palazzo Civico (via Giacomo Nel, n. 2)

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A sinistra della chiesa di san Guglielmo, nell'edificio che fiancheggia la piazza - con facciata classicheggiante dell'archi­tetto Mario Ludovico Quarini su via G. Nel - aveva sede il muni­cipio. Qui rimase fino al 1842, quando fu trasferito nell'ex con­vento di san Francesco, sede attuale.

Probabilmente in questo edificio si svolsero le due accade­mie poetico-letterarie in onore del sindaco e della città di Chieri, ricordate da don Lemoyne, alle quali prese parte anche Giovanni Bosco con la declamazione di brani poetici classici (cf MB 1, 311).


27.5 3.6.5. Bottega del falegname Barzochino (via san Giorgio, n. 2)

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Da piazza Mazzini, continuando oltre l'ex palazzo civico, si imbocca via san Giorgio. Il primo edificio a destra, con tracce di architettura gotica, è il palazzo Valfrè, anticamente palazzo Ferreri. Al pian terreno, negli ambienti chiusi da grandi portoni di legno, si trovava il laboratorio del falegname Bernar­do Barzochino. Questi apparteneva ad una famiglia di artigiani ed artisti del legno molto stimata in Chieri.

Probabilmente è qui che Giovanni Bosco veniva nei momenti liberi a prestare i suoi servizi e ad imparare l'arte di costruire mobili. Infatti don Lemoyne, che lo apprese direttamente dal San­to, scrive: “In un laboratorio di falegnami suoi conoscenti, vi­cino alla sua abitazione, imparò con gran facilità a piallare, squadrare, segare il legno, ad adoperare il martello, lo scalpel­lo, le verrine, sicché riuscì abile a costrurre mobili” (MB 1, 259).



28 3.7. Scuole pubbliche del collegio di Chieri

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(via Vittorio Emanuele, n. 45/interno)


Da piazza Mazzini si scende attraverso vicolo Romano e si arriva in via Vittorio Emanuele. A destra, dopo pochi passi, al n. 45, si incontra un passaggio che porta agli edifici nei quali e­rano collocate le scuole pubbliche di Chieri. Il passaggio condu­ce diritto in un cortile che era detto cortile civile; sulla si­nistra, oltre un androne con trabeazione a cassettoni, se ne apre un altro detto cortile rustico. Gli edifici, ora ristrutturati, sono abitazioni private.

Il comune di Chieri aveva acquistato questi stabili - per la verità poco adatti a un'istituzione scolastica - nel 1829, in se­guito alla destinazione dell'ex convento di san Filippo ad uso seminario. I lavori di adattamento si protrassero fino all'autun­no 1831. Nel frattempo l'amministrazione comunale potè ancora u­tilizzare per le scuole alcuni ambienti del seminario, separati dal resto dell'edificio e con entrata da via san Filippo.

Proprio all'arrivo di Giovanni Bosco a Chieri, nel novembre 1831, si inauguravano i nuovi locali che ospitarono le scuole pubbliche fino all'anno scolastico 1838-1839; col novembre 1839 fu­rono trasferite in palazzo Tana.

28.1

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28.1.1 Distribuzione degli ambienti

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Nel cortile civile, le due stanze a pian terreno erano adi­bite alla Sesta e alla Quinta, mentre le stanze al piano superio­re ospitavano la Quarta e la Grammatica. Nel cortile rustico, il locale a piano terra era usato come cappella della scuola (detta Congregazione degli studenti), dove ogni mattina, anche nei gior­ni festivi, gli allievi recitavano le preghiere e assistevano al­la Messa. Al primo piano, in un unico ambiente, erano collocate le classi di Umanità e Rettorica, sotto la guida di un solo pro­fessore.

28.1.2 Impostazione delle scuole

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Le scuole secondarie degli stati sabaudi, fino alla riforma del ministro Boncompagni (1848), erano divise in sei classi di latinità (Se­sta, Quinta, Quarta, Grammatica, Umanità e Rettorica) più un biennio di filosofia. Venivano chiamate Scuole règie (quelle che si trovavano nelle città più importanti ed erano a carico delle regie finanze), oppure Scuole pubbliche (quelle che si trovavano dislocate nelle città minori ed erano a carico delle finanze comunali). O­gni classe aveva un solo professore. Il limite massimo di allievi per classe era settanta. Quando non si superava tale numero, due classi diverse potevano essere riunite sotto la guida di un unico professore.

L'anno scolastico iniziava il 3 di novembre e terminava a fine giugno per la filosofia, il 15 agosto per la classe di Ret­torica e a fine agosto per le altre classi.


Orario: ogni mattino si iniziava la scuola con l'assistenza obbligatoria alla Messa, celebrata dal Direttore spirituale, cui facevano seguito tre ore di scuola, più altre due ore e mezzo al pomeriggio. Nel biennio di filosofia la scuola era limitata ad un'ora e mezzo al mattino ed altrettanto al pomeriggio.


Esami: venivano affidati a un professore diverso da quello della classe. Il primo esame era quello di catechismo, indispen­sabile per poter accedere agli altri. Materia di esame erano:


Nelle classi di Sesta, Quinta e Quarta:

1. un componimento italiano da tradurre in latino;

2. un componimento latino da tradurre in italiano;

3. l'esame orale.


Nella classe di Grammatica:

1. e 2. come sopra;

3. una prosa poetica latina da ridurre in un determinato metro latino;

4. la composizione di una facile lettera in italiano;

5. l'esame orale sulle lezioni imparate a memoria lungo l'anno.


Nella classe di Umanità:

1. e 2. come sopra;

3. la composizione di una lettera o narrazione su un argomento assegnato;

4. una prosa poetica latina da ridurre in un determinato metro latino;

5. una prosa poetica italiana da ridurre in versi sciolti;

6. l'esame orale sulle lezioni imparate a memoria lungo l'anno.


Nella classe di Rettorica:

Tutto come sopra, tranne il terzo punto che consisteva in “una o­razione da scriversi a piacere degli esaminandi o in latino o in italiano” su un tema assegnato, rispettando regole e figure reto­riche.


I voti venivano espressi con i seguenti giudizi in latino: male, nescit, medie, fere bene, fere optime, optime, egregie.

Gli studenti che fossero stati bocciati per due volte veni­vano espulsi definitivamente dalla scuola.

28.1.3 Aspetti disciplinari

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Particolarmente curata era la disciplina, sia nella scuola, sia al di fuori dell'orario scolastico. Responsabile degli aspet­ti disciplinari era il Prefetto degli studi, carica ricoperta, al tempo della frequenza scolastica di Giovanni Bosco, dal domenicano Pio Eusebio Sibilla. Al Prefetto degli studi veniva riferito ogni comportamento scorretto degli studenti. Le disobbe­dienze o le mancanze di rispetto verso gli insegnanti erano puni­te con una sospensione di tre giorni e con le pubbliche scuse di fronte a tutta la classe. Nel regolamento si proibiva rigorosa­mente agli allievi il nuoto, l'ingresso nei teatri e la parteci­pazione ai “giuochi di trucco”, il portar maschere, l'andare ai balli, il frequentare botteghe da caffè o mangiare e bere negli alberghi e trattorie, come pure qualunque gioco nelle contrade. Un'assenza superiore ai quindici giorni, non motivata da malat­tia, escludeva automaticamente dalla struttura scolastica. Anche i libri erano soggetti al controllo del Prefetto: gli studenti non potevano leggere e tenere se non i testi visti e permessi dal medesimo.

Competeva pure al Prefetto degli studi dare l'approvazione per la sistemazione degli studenti presso famiglie private.


28.1.4 Formazione religiosa

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Era affidata in particolare al Direttore spirituale. Oltre alla Messa quotidiana gli studenti erano tenuti ad accostarsi una vol­ta al mese alla Confessione e almeno una volta all'anno alla Comunione, consegnando gli attestati re­lativi (“biglietti di Confessione e di Comunione”) al Prefetto degli studi, pena la non ammissione agli esami.

Ogni professore al sabato interrogava i suoi allievi anche sulla lezione di catechismo, assegnata dal Direttore spirituale la domenica precedente. Durante la Quaresima, poi, c'era una le­zione di catechismo tutti i giorni, prima dell'ora consueta della scuola.

La domenica e le feste gli studenti intervenivano mattina e pomeriggio, con il loro libro di preghiera alla Congregazione, cioè alla riunione nella cappella della scuola. La Congregazione aveva questo svolgimento:


Mattino:

- lettura spirituale nel quarto d'ora d'ingresso;

- canto del Veni Creator ;

- "Notturno" con letture ed "inno ambrosiano" (cioè il Te Deum) dell'Ufficio della Beata Vergine Maria;

- Messa;

- canto delle litanie della Madonna;

- istruzione religiosa;

- canto del salmo Laudate Dominum omnes gentes, col versetto e “l'orazione per Sua Sacra Real Maestà”.


Pomeriggio:

- lettura spirituale nel quarto d'ora d'ingresso;

- “canto delle solite preci colla recitazione degli atti di fede, speranza, carità e contrizione”;

- catechismo per tre quarti d'ora.


In preparazione al Natale era previsto un triduo, con due prediche al giorno.

Ogni anno scolastico si svolgevano anche gli esercizi spiri­tuali, dalla sera del venerdì precedente le Palme al mattino del mercoledì santo, secondo questa struttura:

- introduzione (sera del venerdì);

- quattro prediche al giorno (due "meditazioni" e due "istruzioni");

- ufficio quotidiano della Beata Vergine Maria;

- conclusione al mercoledì con la comunione pasquale.


Alla luce di questa impostazione si comprende come Don Bosco abbia potuto scrivere:


Questa severa disciplina produceva maravigliosi effetti. Si passavano anche più anni senza che fosse udita una be­stemmia o cattivo discorso. Gli allievi erano docili e ri­spettosi tanto nel tempo di scuola, quanto nelle proprie fa­miglie. E spesso avveniva che in classi numerosissime alla fine dell'anno erano tutti promossi a classe superiore. Nel­la terza, Umanità e Retorica, i miei condiscepoli furono sempre tutti promossi (...).

Voglio qui notare una cosa che fa certamente conoscere quanto lo spirito di pietà fosse coltivato nel collegio di Chieri. Nello spazio di quattro anni che frequentai quelle scuole non mi ricordo di avere udito un discorso od una so­la parola che fosse contro ai buoni costumi o contro alla re­ligione. Compiuto il corso della Retorica, di 25 allievi, di cui componevasi quella scolaresca, 21 abbracciarono lo stato ecclesiastico; tre medici, uno mercante” (MO 64; 86).

28.1.5 Giovanni Bosco studente

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Nell'anno scolastico 1831-1832 Giovanni è inserito nella clas­se Sesta (col prof. teologo Valeriano Pugnetti), poiché la prepara­zione ricevuta a Castelnuovo è risultata piuttosto lacunosa. Dopo due mesi, però, viene promosso alla Quinta (dove insegnava l'amico prof. don Placido Valimberti) e ancora nello stesso anno passa alla classe Quarta (prof. Vincenzo Cima). Era infatti consuetudine che quando uno studente dimostrava di possedere la materia e i contenuti del programma di una determinata classe, poteva essere ammesso a quel­la superiore anche nel corso dell'anno scolastico. Precisamente nella classe del prof. Cima avviene il noto episodio in cui Gio­vanni, tenendo in mano la grammatica, ripete alla perfezione un brano di autore latino appena udito, come se lo leggesse dal li­bro che, in realtà, ha dimenticato a casa (cf MO 58).

Nei tre anni successivi frequenta, con discreto successo, la Grammatica (1832-1833; prof. Giacinto Giusiana, domenicano); l'Umanità (1833-1834; prof. don Pietro Banaudi); la Rettorica (1834-1835; prof. teologo Giovanni Francesco Bosco).

Con gli insegnanti egli instaura ottimi rapporti, in parti­colare col padre Giusiana, che ha su di lui una benefica influen­za anche a livello formativo; don Bosco, riconoscente, celebrerà una delle sue prime messe nel convento del suo antico professore. Possiamo ricordare, tra l'altro, che l'intervento del Giusiana è determinante negli esami finali di quell'anno (1833), quando Gio­vanni rischia di essere bocciato per aver passato il compito ad alcuni compagni (cf MO 66).

Don Pietro Banaudi sarà ricordato come “un vero modello de­gli insegnanti. Senza mai infliggere alcun castigo - testimonia Don Bosco - era riuscito a farsi temere ed amare da tutti i suoi allievi. Egli li amava tutti quai figli, ed essi l'amavano qual tenero padre” (MO 71). La conclusione dell'anno con don Banaudi viene sottolineata da un’allegra gita di tutta la scolaresca in campagna. Purtroppo verso sera uno dei compagni, Filippo Camando­na, che nascostamente aveva voluto fare il bagno alla Fontana Rossa (sulla strada tra Chieri e Pino Torinese), rimane vittima della sua disobbedienza (cf MO 71-72). L'anno successivo (1834-1835) don Banaudi è trasferito a Barge (Cu­neo) e nelle vacanze pasquali Giovanni - a riprova del legame d'affetto che lo unisce a questo professore - si reca presso di lui per due giorni; della visita ci resta una commovente relazio­ne stilata nei giorni successivi dal giovane studente (cf MB 1, 349-351).

Rapporti di stima reciproca legano anche Giovanni e l'omoni­mo suo insegnane di Rettorica. Il teologo Giovanni Francesco Bosco, “appena terminato il corso, volle che Giovanni lo tenesse come a­mico e gli desse del tu” (MB 1, 365). Egli stesso racconterà ai Salesiani di essere rimasto ammirato per aver visto “il giovane Bosco che zappava la vigna del Cumino, suo padrone di casa; men­tre tenendo un libro aperto, sostenuto da un tralcio, studiava la lezione” (MB 1, 358).


I quattro anni della scuola pubblica poi, sono ricchi di in­tense amicizie con i compagni. Probabilmente già nell'anno 1831-1832 viene organizzata la Società dell'Allegria, nata sull'on­da degli entusiasmi per simili istituzioni che in quegli anni pullulavano in ogni ambito: si pensi alle società segrete di i­spirazione patriottica, ma anche a società di carattere lettera­rio o religioso.

Tra gli amici del suo primo anno scolastico don Bosco elen­ca, in modo specifico, Guglielmo Garigliano (1818-1902), che sarà suo compagno in seminario e nel Convitto Ecclesiastico, e Paolo Vittorio Braja (1819-1832), morto nel luglio di quello stesso anno, “vero modello di pietà, di rassegnazione, di viva fede” (MO 67).

L'amicizia più caratteristica è però quella con Luigi Comol­lo, che frequenta le scuole pubbliche di Chieri dall'anno scola­stico 1834-1835. Gracile fisicamente, ma di grande ricchezza spiri­tuale, egli ha un ruolo importante nella maturazione del giovane Bosco, che afferma: “l'ebbi sempre per intimo amico e posso dire che da lui ho cominciato ad imparare a vivere da cristiano. Ho messo piena confidenza in lui, egli in me” (MO 69). Giovanni, da parte sua, se ne fa difensore contro i soprusi dei compagni, ricorrendo una volta persino alle maniere forti (cf MO 69-70). Grazie anche a questa amicizia egli va chiarendo il suo indirizzo vocazionale e adotta un sistema di vita più consono ad esso. Scrive infatti: “negli anni addietro non era stato uno scellerato, ma dissipato, vanaglorioso, occupato in partite, giuochi, salti, trastulli ed altre cose simili, che rallegravano momentaneamente, ma che non appagavano il cuore" (MO 88-89).

Il gusto dei contatti personali e dell'amicizia spinge Gio­vanni a rendersi disponibile a tutti. In particolare viene ri­chiesto di dare ripetizioni scolastiche anche a compagni di classi superiori (cf MB 1, 276-277). La sua pazienza, l'innato "istinto" didattico e il suo carattere cordiale ottengono buoni esiti, non solo in campo scolastico. Ricordiamo ancora una volta, a questo proposito, l'influsso dello studente dei Becchi su Giovanni Bat­tista Matta, figlio della padrona di casa, e su Luigi, fratello del suo professore don Valimberti. Una cura particolare Giovanni la dedica per due anni a Carlo Palazzolo, trentacinquenne sacre­stano del duomo, che si preparava privatamente agli esami di Ret­torica per poter ricevere l'abito chiericale (cf MB 1, 293).

29 3.8. Piazza Cavour e adiacenze

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Proseguendo su via Vittorio Emanuele in direzione di Torino arriviamo nella rettangolare piazza Cavour, detta nell'800 piazza d'Arme. A destra, nella parte alta, si affaccia la bella chiesa di san Bernardino, costruita nei primi anni del secolo XVII. L'architetto Bernardo Antonio Vittone più tardi apportò alcune modifiche e ricostruì totalmente la cupola originaria (1740-1744). La facciata con i due bassi campanili sormontati da sta­tue, completata nel 1792, è di Mario Ludovico Quarini. All'inter­no due belle tele del Moncalvo ornano l'altar maggiore e l'alta­re laterale destro.


29.1 3.8.1. Chiesa di sant'Antonio abate

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Fiancheggia la piazza ed ha la facciata su via Vittorio Ema­nuele. Fu ricostruita su disegno di Filippo Juvarra (1767) su una precedente costruzione goti­ca di cui resta il campanile (1445). Nell'interno sono da segna­lare: un pulpito ligneo intagliato, del 1470; l'affresco sulla volta, di Vittorio Blanseri (1735-1775), raffigurante l'apoteo­si di sant'Antonio; la Via Crucis a bassorilievo, in scagliola, di Giovanni Battista Bernero (1736-1796). Chiesa ed edificio annesso furono affidati nel 1628 alla Compagnia di Gesù dal cardinale Maurizio di Savoia. Qui aveva sede lo Scolasticato dei Gesuiti.

Anche questa chiesa ci ricorda la presenza di Giovanni Bosco a Chieri: “Tutte le feste, dopo la congregazione del collegio (ndr.: l'istruzione religiosa nella cappella della scuola, obbli­gatoria per tutti gli studenti), andavamo alla chiesa di S. Anto­nio dove i Gesuiti facevano uno stupendo catechismo, in cui rac­contavansi parecchi esempi che tuttora ricordo” (MO 62).

Una lapide sul lato della chiesa, verso la piazza, ricorda la presenza a questi catechismi di Giovanni con gli amici della Società dell'Allegria.


29.2 3.8.2. Albergo del Muletto

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Sul lato sud di piazza Cavour, ad angolo tra via Vittorio E­manuele e via Palazzo di Città, dove oggi c'è il Caffè Nazionale, era aperto un albergo detto del Muletto. Ci ricorda l'allegra conclusione di un'epica sfida tra il giovane Bosco e un saltim­banco. La gara, voluta dall'insistenza degli amici studenti, si svolge lungo il viale di Porta Torinese in quattro momenti: corsa, salto, bacchetta magica e arrampicata sull'albero. Giovan­ni supera il professionista in tutte le prove e si guadagna la notevole cifra di 240 lire. Per non rovinare il poveretto, che vede sfumare tutti i suoi risparmi, gli restituisce il denaro a patto che questi gli offra un pranzo insieme agli amici della Società dell'Allegria. Il saltimbanco accetta di buon grado e invita Giovanni e i suoi compagni (ventidue persone in tutto) all'albergo del Muletto (cf MO 80-82).


29.3 3.8.3. Caffè Pianta (via Palazzo di Città, n. 3)

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A pochi passi dal piazza Cavour, in casa Vergnano, si trova­va il caffè Pianta. Giovanni Pianta, fratello di Lucia ved. Mat­ta, originario di Morialdo, nell'autunno 1833 viene in Chieri e apre un caffè con annessa sala da biliardo. Egli, dovendo inizia­re il suo esercizio, insiste presso mamma Margherita affiché Gio­vanni venga ad abitare presso di lui e lo aiuti nelle molteplici esigenze di un locale pubblico.

Il caffè viene aperto qualche tempo dopo l'inizio dell'anno scolastico. Il giovane studente nel frattempo, lasciata casa Mar­chisio, trova momentaneamente ospitalità presso il panettiere Mi­chele Cavallo, in casa Ricci che è adiacente alla casa del sarto Cumino.

Il caffè Pianta è composto da due sale, una aperta verso la pubblica via e l'altra, adibita a locale per il biliardo e il pianoforte, collocata verso il cortile interno. I due ambienti sono collegati da un vano di passaggio (lungo circa metri 3,50), addossato ad una scala, nel quale si trova anche un piccolo forno in mattoni per la preparazione del caffè e dei dolci. In questa specie di corridoio si apre un minuscolo sottoscala, nel quale viene collocata la brandina di Giovanni.

Nei momenti liberi dalla scuola egli aiuta il signor Pianta nel suo lavoro ed impara a preparare caffè, dolci e liquori. La sua presenza nella sala da biliardo come cameriere e contapunti è un efficace freno per le bestemmie e i discorsi sboccati di certi avventori.

Proprio in questo luogo Giovanni Bosco rafforza l'amicizia con l'ebreo Giona, già conosciuto nella bottega del libraio Elia. I due si intrattengono spesso a cantare, suonare il pianoforte e conversare: di qui inizia il cammino di maturazione verso la fede cristiana da parte del giovane israelita.

Nel caffè Pianta Giovanni non riceve stipendio, ma solo l'o­spitalità, un piatto di minestra ed ottiene il tempo necessario per poter studiare. La madre, come è consuetudine a quel tempo, gli provvede pane e pietanza, ma le ristrettezze economi­che non le permettono di inviare denaro. Per vestirsi, procurarsi parte del nutrimento e il necessario per la scuola lo studente dei Becchi deve contentarsi dei pochi soldi racimolati facendo qualche ripetizione. L'anno di Umanità (1833-1834) risulta così uno dei più sofferti.

Nella stessa casa, all'ultimo piano, abita la famiglia Blan­chard. L'alloggio è dalla parte del cortile, dove ancora oggi si vede un poggiolo antico con ringhiera in legno. Giuseppe, uno dei figli, amico di Giovanni (13 anni), per sfamarlo gli porta spesso della frutta, incoraggiato anche dalla madre. Don Bosco non dimentiche­rà mai questo gesto di carità e di amicizia (cf MB 1, 298-300).

A tali ristrettezze si deve aggiungere il fatto che in quest'anno il problema della scelta vocazionale raggiunge i mo­menti più critici e tormentati: nel marzo Giovanni si determina ad entrare nell'Ordine francescano e viene ammesso, poi sospende la decisione in attesa di un più chiaro discernimento.

Nonostante le difficoltà egli conduce una vita serena, atti­va e servizievole, come testimoniano Giuseppe Blanchard e Clotil­de Vergnano, figlia del proprietario della casa. Oltre allo stu­dio e agli impegni di lavoro nel caffè, la sua generosità lo spinge a rendersi utile a tutti: porta ogni giorno l'acqua attin­ta al pozzo (ora murato, ma ancora visibile sotto l'androne che dalla strada porta nel cortile) al vecchio don Carlo Arnaud che abita ai piani superiori della casa; trattiene inoltre in ricreazione o aiuta nei compiti un gruppo di sei o sette ragazzetti che stanno a pensione presso il veterinario Torta in una casa lì accanto (cf MB 1, 291-292).

Il caffè, comunque, non è certo un luogo dei più adatti per studiare con frutto. Domenico Pogliano, campanaro del duomo, che ammira Giovanni per la sua fervente devozione e il suo apostolato tra i coetanei, lo invita ad approfittare della sua abitazione per poter studiare con più frutto. Si prospetta però la necessità di trovare una diversa sistemazione per l'anno seguente (cf MB 1, 293).


29.4 3.8.4. Casa del sarto Tommaso Cumino (via Vittorio Emanuele, n. 24)

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Nell'anno scolastico successivo (1834-1835) Giovanni frequenta la classe di Rettorica. La decisione di entrare tra i Francescani è stata sospesa per l'intervento del parroco di Castelnuovo don Cinzano, che si impegna ad aiutare economicamente il giovane, e per consiglio di don Cafasso. Quest'ultimo gli ottiene un posto in casa del sarto Tommaso Cumino, presso il quale lui stesso era stato pensionante; don Cinzano, da parte sua, paga la pensione di lire 8 al mese (cf MB 1, 330).

Per alcuni mesi Giovanni alloggia in un seminterrato, che e­ra stato precedentemente usato come stalla. Egli poteva accedervi attraverso una porticina direttamente dal cortile di casa Cumino; ora la casa è stata completamente ristrutturata.

Per i buoni uffici di don Cafasso, in seguito gli verrà offerta una stanza al piano superiore.

In quest'anno di Rettorica ha come professore il giovane teologo Giovanni Francesco Bosco, col quale entra in confidenza, e incontra per la prima volta Luigi Comollo di Cinzano. Questi frequanta il corso inferiore (Umanità), ma si trovano nella stes­sa classe. Infatti a Chieri gli allievi di Umanità e Rettorica sono riuniti in un solo ambiente, sotto la guida di un unico pro­fessore.

Il sarto Cumino (che morirà nel 1840 a 74 anni) è uomo alle­gro, amante dello scherzo, ma un po' ingenuo e Giovanni si diver­te spesso a stupirlo con i suoi giochi di prestigio e di destrez­za. “Il buon Tommaso non sapeva più che dire - narra Don Bosco -. Gli uomini, diceva tra sé, non possono fare queste cose; Dio non perde tempo in queste inutilità; dunque è il demonio che fa tutto questo”. Preso da scrupoli riferisce la cosa a un tal don Berti­netti, il quale denuncia il tutto all'arciprete canonico Burzio, Prefetto delle scuole. Questi interroga Giovanni che gli dà sag­gio della sua abilità. “Rise non poco il buon canonico (...), e come potè conoscere il modo con cui le cose facevansi comparire e dispari­re, ne fu molto allegro, mi fece un piccolo regalo, e in fine conchiuse: Va a dire a tutti i tuoi amici che ignorantia est magistra admirationis (ndr.: l'ignoranza è maestra della meravi­glia)” (MO 78-79).


29.5 3.8.5. Stalla del panettiere Michele Cavallo (vicolo B. Valimberti)

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Usciti dal cortile della casa del sarto Cumino, ritornando verso piazza Cavour ci si porta a destra sul vicolo B. Valimberti e, dopo un negozio di casalinghi, alla fine dell'edificio si in­contra un vecchio muro in mattoni che recinge un cortiletto. Da questo si accedeva alla stalla del panettiere Michele Cavallo. Giovanni vi abita per alcuni giorni, in attesa di potersi trasfe­rire nel caffè Pianta (autunno 1833). Egli ricambia l'ospitalità lavorando la vigna del suo padrone e accudendogli il cavallo.



30 3.9. Il duomo

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Da via Palazzo di Città si gira nella prima traversa a sini­stra, in via Cottolengo, e si incontra la casa in cui morì san Giuseppe Benedetto Cottolengo (30 aprile 1842), presso il fratel­lo don Luigi, canonico del duomo di Chieri. Proseguendo si giunge alla piazza in cui sorge il duomo, uno degli esempi più illustri dell'architettura gotica piemontese, intitolato a S. Maria della Scala.

L'edificio sacro fu costruito tra il 1405 e il 1436, al po­sto di una precedente chiesa edificata nel sec. XI sui ruderi di edifici romani. Sul fianco destro sporgono il campanile a mono­fore e bifore (eretto tra il 1329 e il 1492) e il battistero, ri­maneggiato nel sec. XV, ma costruito su un battistero paleocri­stiano. L'interno è ricchissimo di testimonianze artistiche di o­gni secolo. Segnaliamo soltanto - ai fini della storia giovanile di Don Bosco - la quarta cappella di sinistra, dedicata alla Ma­donna delle Grazie.

La cappella fu costruita per voto, fatto dal consiglio comu­nale il 2 agosto 1630 in occasione della famosa peste "manzonia­na". L'attuale struttura architettonica è opera di Bernardo Anto­nio Vittone (1757-1759), abbellita nel 1780, terzo cinquantenario del voto. La statua lignea (1642) è di Pietro Botto da Savigliano (1603-1662); i quadri laterali, che raffigurano scene della pe­ste, sono del ticinese Giuseppe Sariga (+ 1782). Ogni anno fin dal tempo del voto, le autorità municipali rendono omag­gio alla Vergine, nel giorno della sua festa, con il canto della Salve Regina.

Giovanni Bosco, studente della scuola pubblica, ogni giorno, mattino e sera, viene a pregare di fronte a questa statua, memore della raccomandazione della madre: “Sii divoto della Madonna!” (MB 1, 268). Pregando in questa cappella insieme all'amico Comollo ottiene luce per discernere la propria vocazione. Ci racconta, infatti, il Santo:


Siccome gli ostacoli erano molti e duraturi, così io ho de­liberato di esporre tutto all'amico Comollo. Esso mi diede per consiglio di fare una novena durante la quale egli av­rebbe scritto al suo zio prevosto. L'ultimo giorno della no­vena in compagnia dell'incomparabile amico ho fatto la con­fessione e la comunione, di poi udii una messa, e ne servii un'altra in duomo all'altare della Madonna delle Grazie. An­dati poscia a casa trovammo di fatto una lettera di D. Co­mollo concepita in questi termini: Considerate attentamen­te le cose esposte, io consiglierei il tuo compagno di so­prassedere di entrare in un convento. Vesta egli l'abito chericale, e mentre farà i suoi studi conoscerà viemeglio quello che Dio vuole da lui. Non abbia alcun timore di perdere la vocazione, perciocché colla ritiratezza e colle pratiche di pietà egli supererà tutti gli ostacoli” (MO 85).


Negli ambienti annessi alla sacrestia Giovanni prepara il sacrestano Carlo Palazzolo all'esame di Rettorica. Sempre in que­sta chiesa conosce il campanaro Domenico Pogliano, che lo invita nella quiete della propria casa per studiare.

Da chierico seminarista ogni domenica viene in duomo a can­tare la Messa "grande" con i suoi compagni e, durante l'ultimo anno di teologia (1840-1841), presta la sua opera come catechista dei ragazzi e dei giovani.

Il 9 giugno 1841, all'altare della Madonna delle Grazie, sa­cerdote novello, celebra la sua quarta Messa.

Ricordiamo anche che in questa chiesa, il 18 settembre 1735, fu battezzato Filippo Antonio Bosco, nonno paterno di Giovanni.



31 3.10. Casa Bertinetti e Istituto santa Teresa

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(via Palazzo di Città, n. 5)


Le Figlie di Maria Ausiliatrice lavorano in questo edificio, con un oratorio e una scuola per ragazze, fin dal 1878, inviate da Don Bosco e da santa Maria Domenica Mazzarello. I coniugi Car­lo e Ottavia Bertinetti, la madrina di Battesimo di Giona, nel 1868 avevano lasciato in eredità a don Bosco la loro casa, con il terreno circostante, perchè vi aprisse un'opera a favore dei gio­vani chieresi. Ma una serie di difficoltà, in particolare l'oppo­sizione di don Andrea Oddenino, parroco del duomo, impedirono per il mo­mento la fondazione.

L'oratorio maschile, allora, fu organizzato nei locali della parrocchia di san Giorgio, sotto la direzione di don Matteo Sona e di don Domenico Cumino, sacerdoti chieresi. Più tardi, in casa Bertinetti, damigella Carlotta Braja, sorella dell'antico compagno di scuola Paolo Braja (morto il 10 luglio 1832), con l'aiuto delle amiche Rosa Ciceri, Maddalena Avataneo, l'ultima domenica dell' ottobre 1876 avviò un piccolo oratorio femminile. Un salesiano inviato da don Bosco inaugurò l'istituzione l'8 dicembre successivo, e benedisse una statua di Maria Ausiliatrice, tutt'oggi venerata nell'Istituto santa Tere­sa. La statua è un regalo del Santo, il quale, presentandola, disse: “Per ora vi mando la Madre, poi verranno le Figlie”. Due anni dopo, infatti, le Figlie di Maria Ausiliatrice presero pos­sesso della casa assumendo la direzione dell'oratorio e aprendovi un collegio. Col passare degli anni l'Istituto diventò casa di formazione e fu, in periodi diversi, aspirantato, postulantato, noviziato e juniorato delle FMA. Qui ricevettero la loro forma­zione numerose suore delle prime generazioni, che contribuirono a diffondere l'opera salesiana nel mondo.

Più volte don Bosco fu in questo edificio: sono conservati lo scrittoio e la sedia da lui usate.

Ma già durante il periodo giovanile, nel 1835, Giovanni era entrato in questa stessa casa per due volte. Una prima volta fu convocato dal canonico Massimo Burzio (che abitava una casa adiacente, acquistata da Carlo Bertinetti nel 1848) per chiarire i "segreti" dei suoi giochi di prestigio. In seguito, dopo aver superato positivamente l'anno di Rettorica, sostenne qui l'esame prescritto per essere ammesso al­la vestizione chiericale. Di norma tale esame doveva essere fatto a Torino nella curia arcivescovile. Quell'anno però il pericolo del colera sconsigliò di radunare in città giovani provenienti da tutta la diocesi e il canonico arciprete Burzio fu incaricato di esaminare i candidati della zona chierese, tra cui il nostro Gio­vanni.


Oggi della casa Bertinetti restano solo alcuni elementi incorporati nella nuova costruzione. Degli an­tichi edifici rimane una vasta sala del sec. XV, dal soffitto a cassettoni decorato con gli stemmi (forse) dei crociati piemontesi.

Anticamente era collegata al vicino palazzo dei Tana, fami­glia alla quale apparteneva la madre di san Luigi Gonzaga. Il no­bile Santo, secondo una tradizione, abitò per un certo periodo a Chieri, ospite dei nonni. In palazzo Tana si conserva la camera in cui dormì e dove si sarebbe flagellato. San Luigi è sempre stato venerato in Chieri con particolare devozione: nell'800 era pre­sentato agli studenti come modello di vita cristiana e di virtù giovanile. Nelle scuole pubbliche la sua festa veniva sottolinea­ta da una novena di preparazione, da solenni funzioni religiose e da un'accademia letteraria e musicale. Don Bosco manterrà questa devozione, riproponendola ai suoi giovani.

Palazzo Tana, che era proprietà dei fratelli Gustavo e Ca­millo Cavour, dal novembre 1839 ospitò il collegio delle scuole pubbliche e un convitto per studenti.


32 3.11. Antico viale di Porta Torino

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Continuando su via Vittorio Emanuele in direzione di Torino, usciti dalla parte antica della città si fiancheggia sulla destra un'alberata di tigli e platani: è tutto ciò che resta dell'antico viale di Porta Torino, ombreggiato al tempo di Don Bosco da mae­stosi olmi. Qui, nel corso dell'anno scolastico 1833-1834, si svol­se la quadruplice gara tra il saltimabanco e lo studente dei Becchi, allievo della classe di Umanità (cf MO 80-82-77).








III PARTE



DON BOSCO A TORINO


(1841-1849)



GLI ANNI DELLE PRIME ESPERIENZE PASTORALI


1. SIGNIFICATO E TESTIMONIANZA




33 1.1. Qualificazione e scelte pastorali

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Dopo l'ordinazione e i cinque mesi di esperienza sacerdotale a Castelnuovo, don Giovanni Bosco entra al Convitto Ecclesiastico di san Francesco d'Assisi a compiervi gli studi di teologia mora­le richiesti per poter essere ammesso all'esame di Confessione.


Il teologo Luigi Guala (1775-1848) e don Giuseppe Cafasso hanno dato al Convitto un'impostazione seria per quanto riguarda lo studio, la disciplina e la cura spirituale dei giovani sacerdoti, ed insieme assai aperta quanto agli indirizzi pastorali. La scuola di im­pronta alfonsiana, gli autori adottati e suggeriti, le letture comunitarie e personali, la direzione spirituale e lo stesso rit­mo quotidiano di vita, mirano al consolidamento di una figura di sacerdote interiormente solido, zelante e infaticabile nell'ope­ra apostolica, aperto sia alle necessità religiose che ai bisogni materiali del popolo.

Le istruzioni e le meditazioni redatte dal Cafasso per gli esercizi spirituali al clero ci illuminano abbondantemente sul modello ascetico e presbiterale a partire dal quale vengono forma­ti gli allievi: l'aspetto spirituale e quello pastorale si fonda­no talmente in questa scuola che non pare possa esistere per il sacerdote altra via alla santità se non la cura infaticabile, in­fiammata di carità ed affetto, per le anime affidategli.

Don Bosco, nei tre anni di permanenza al Convitto Ecclesia­stico, viene plasmato su questo modello che mette al centro la celebrazione frequente della Confessione, il culto devoto del­l'Eucaristia, l’unione con Dio, l'intensa preghiera, diffusa in ogni momento della giornata attraverso pratiche semplici e fervorose (oltre che quo­tidiane, settimanali, mensili e annuali), con una forte accentua­zione mariana.


Già dai primi giorni della sua permanenza in città, il Santo può rendersi conto della complessa realtà socio-religiosa torine­se, ben diversa da quella tranquilla e tradizionale degli ambien­ti nei quali fino ad allora era vissuto. Il Convitto gli è di aiuto nella lettura e nella interpretazione di questa realtà. In­fatti esso è pure ottima palestra di attività apostoliche, anche di frontiera, e osservatorio privilegiato delle problematiche pa­storali, delle esperienze e dei tentativi di soluzione che vanno fermentando in città. Gli stessi tradizionali impegni del sacerdote come confessioni, catechismi e predicazione, si vestono di moda­lità e metodologie inedite, in una situazione ecclesiale diversa per il nuovo clima culturale e le categorie sociali emergenti che si formano nel popolo cristia­no.

Don Bosco è guidato dal Cafasso e dal teologo Borel, attra­verso i quali viene pure introdotto nel mondo vivacissimo della "carità" torinese.

Le tante iniziative assistenziali e benefiche - tra le quali emergono per originalità quelle del Cottolengo e della marchesa di Barolo - stanno sviluppando un'idea di "carità cristiana" già avviata nel secolo precedente, in cui l'assistenza religiosa si fonde con lo sforzo di ordinata azione sociale. Si tratta di dare una risposta imme­diata alle urgenze materiali e spirituali ed insieme porre le ba­si per superare risposte di fortuna e giungere a soluzioni stabi­li. Lo scopo è dunque far passare le categorie più povere, disa­giate o anche devianti dall'emarginazione socio-religiosa ad una integrazione raggiunta autonomamente dalle persone, preventivamente illuminate sui valori e sugli obiettivi e fornite di strumenti sufficienti per raggiungerli.

Buoni cristiani e onesti, laboriosi cittadini”, è l'espres­sione che don Bosco forgerà per sintetizzare lo scopo della sua opera. In questi primi nove anni di vita pastorale egli si av­via progressivamente alla chiarificazione di tale obiettivo e del metodo conseguente. Trovandosi di fronte ragazzi orfani, abbando­nati, emarginati, con bisogni primari da soddisfare e carenze re­ligiose e morali da colmare, egli offre immediatamente quel­le risposte che la sua sensibilità umana, il suo ruolo sacerdota­le, la sua cultura e i mezzi disponibili gli suggeriscono e gli permettono. Poi, via via, con fantasia e felice intuito, articola la sua azione, sviluppa le iniziative, inventa e crea.

Però fin dal primo inizio, nella sacrestia di san Francesco d'Assisi, egli mette in moto la componente più caratteristica e sua: l'affetto sentito e dimostrato che, incontrando la sete di amore e considerazione dei giovani abbandonati, subito suscita una risposta positiva, la volontà di ripresa, la partecipazione e la responsabi­lizzazione.

Si tratta non solo di fornire ai giovani poveri i mezzi per la sopravvivenza, ma di far scaturire in essi energie e poten­zialità, rendendoli indipendenti e facendone dei protagonisti. Questo obiettivo - intuisce don Bosco - sarà raggiunto solo se si curano tutte le dimensioni della persona: quelle civili e profes­sionali, quelle culturali e relazionali, quelle morali e spiri­tuali. Ecco perché accanto alla Confessione, alla catechesi, all'istruzione religiosa e alla preghiera vengono messe in atto scuole di prima alfabetizzazione, formazione artigianale, can­to, musica e festa; ecco perché viene creata una vivace comunità giovanile, in cui ognuno è coinvolto nella partecipazione e nella gestione.


La scelta preferenziale dei giovani pericolanti ed emargina­ti, condivisa da tutto il gruppo dei sacerdoti degli Oratori (don Cocchi, il teologo Borel, don Bosco, il teologo Càrpano, don Trivero, il teologo Vola, don Ponte, i cugini Murialdo e tanti altri) non sempre li trova concordi nel metodo. Don Bosco, che in questi primi anni di ministero si sta formando idee precise, se ne ac­corge presto e punta subito sia alla formazione di collaboratori impregnati del suo spirito, sia all'indipendenza amministrativa e organizzativa dei suoi tre oratori: san Francesco di Sales a Valdocco (1846), san Luigi a Porta Nuova (1847) e Angelo Custode in Vanchiglia, rilevato da don Cocchi nel 1849.

L'arcivescovo mons. Luigi Fransoni lo capisce ed appoggia. Sarà la crisi politica del 1848-1849 a contribuire decisamente alla definizione delle diverse posizioni. Don Bosco - e con lui alcuni altri - fa la scelta esclusiva degli ambiti educativo e pastorale e sottrae la sua opera alla fluttuazione degli entusia­smi e degli interessi momentanei per la politica; si dedica alla definizione di obiettivi, di contenuti e all'elaborazione di un metodo che daranno al suo oratorio stabilità e flessibilità in­sieme. Di qui scaturiranno quella vivacità, quella capacità di a­dattamento e quella efficacia nell'affrontare le problematiche giovanili di allora e di poi che caratterizzano l'opera salesia­na.



34 1.2. Valori pedagogici e spirituali emergenti

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Questi primi anni dell'attività pastorale di don Bosco so­no caratteristici perché in essi troviamo il giovane sacerdote che va affinando la sua formazione e insieme il pa­store e l'educatore già impegnato nel mettere a frutto e nell'e­laborare le intuizioni e le esperienze pedagogiche e spirituali acquisite.

I valori che emergono dalla lettura di questi anni stimolano sia quanti sono attenti alla propria crescita umana e cri­stiana, sia coloro che si dedicano alla missione pastorale ed e­ducativa.

L'elenco che presentiamo è soltanto un saggio della fecondi­tà di suggestioni ed insegnamenti che si possono cogliere nel confronto tra l'esperienza storica di don Bosco e l'attuale va­riegato contesto esistenziale.


- Continua ricerca e attento discernimento della volontà di Dio sulla propria vita e della missione che egli ci affida.


- Cura incessante della crescita personale a livello umano-relazionale, culturale, spirituale e professionale.


- Confessione frequente e direzione spirituale come momenti preziosi di confronto, revisione di vita, discernimento e occasione per ritemprare le energie spirituali.


- Consapevolezza della radicalità della scelta compiuta e conseguente dedizione incondizionata.


- Radicamento storico e fedeltà al proprio tempo; capacità di lettu­ra dei "segni dei tempi" e attenzione agli appelli che pro­vengono da avvenimenti e persone.


- Tempestività e concretezza nella risposta alle urgenze del momento e insieme ricerca intelligente di obiettivi e stra­tegie a lungo termine.


- Centralità della persona del ragazzo nell'integralità del­le sue varie dimensioni e attenzione alla singola personali­tà in formazione.


- Accostamento con preoccupazione "preventiva" al mondo gio­vanile.


- "Amorevolezza": volontà di intessere rapporti di amicizia, di familiarità e di simpatica comprensione tra educatore ed educandi.


- Importanza del valore religioso nella formazione della personalità: una religiosità semplice, razionalmente motiva­ta, liberamente accolta e progressivamente interiorizzata.


- Capacità di coinvolgimento di giovani ed adulti nel lavoro educativo e pastorale, nella convinzione che educazione e formazione sono opera di "comunità".


- Convinzione del ruolo decisivo giocato dalla formazione culturale e dalle idee nella maturazione della persona, in vista del suo inserimento operativo nella società e nella Chiesa.


- Allegria, gioco, festa come elementi irrinunciabili per la costruzione della personalità e di un ambiente formativo.




2. NOTE STORICO-GEOGRAFICHE E BIOGRAFICHE



35 2.1. I problemi sociali e pastorali di Torino negli anni '40

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Il decennio 1840-1850 è connotato a Torino da due principali serie di problemi: l'una di carattere politico, l'altra di indole socio-economica, entrambe con notevoli risvolti pastorali.


I moti liberali verso una nuova concezione dello Stato e l'anelito all'unità nazionale evolvono una situazione che diver­sifica idealmente le posizioni delle parti. Ai fautori di nuovi indirizzi politici si contrappongono i conservatori e i reaziona­ri legati al mondo dell' ancien régime.

Con gli eventi del '48 crolla il mito neoguelfo e con esso le speranze di quanti vagheggiavano una soluzione statutaria e confederale del problema italiano che armonizzasse gli aneliti patriottici e l'auspicata riforma politica e sociale con i valori ideali cristiani. Anche fra i preti torinesi le idee e le scelte sono discordanti.

Per la diversa concezione di Stato e di società propugnata dalla classe politica emergente, d'ispirazione liberale, si ap­profondisce la frattura fra i due opposti schieramenti (quello liberale e quello cattolico, a loro volta internamente diversifi­cati) e si va preparando lo scontro frontale tra Stato e Chiesa. Questo scontro - manifestatosi inizialmente nell'opposizione di alcuni laici ed ecclesiastici, come ad esempio mons. Luigi Fransoni, su problemi di carattere contingente o sul punto nodale delle liber­tà sancite dallo Statuto albertino - giungerà ben presto a posi­zioni irreversibili con le leggi in materia ecclesiastica (1850 e 1855).


La grande crisi economica che aveva colpito l'Europa intera a partire dal 1815 viene lentamente superata alla fine degli an­ni Trenta e col 1840 si manifestano i primi segni di ripresa. An­che in Torino, la borghesia e le classi aristocratiche più aperte si impegnano in attività imprenditoriali, commerciali e finanzia­rie improntate su nuove basi, da cui scaturirà il futuro sviluppo industriale della città.

Di conseguenza va modificandosi con l'assetto economico an­che quello urbano e sociale. L'inurbamento delle masse rurali, già manifestatosi per la crisi agricola, acquista dimensioni sempre crescenti. Prima è un fenomeno prevalentemente stagionale, poi, verso la fine del decennio, diventa migrazione definitiva e porta ad un rapido sviluppo demografico. Le tradizionali struttu­re civili e parrocchiali cittadine si trovano impreparate e non riescono ad integrare nel loro tessuto le prime ondate migrato­rie. Si constata con preoccupazione il calo nella percentuale di chi soddisfa il precetto festivo e pasquale, la diserzione dei catechismi parrocchiali, il dilagare della bestemmia, il diffon­dersi dell'alcolismo, l'aumento degli illegittimi.


La città in questi anni vede il sorgere di periferie popola­ri, l'impiantarsi di piccole aziende artigianali e dei primi opi­fici industriali, lo sviluppo di imprese commerciali di vario ge­nere.

Cresce numericamente il ceto povero ed infimo della popolazione, fatto di manovali ed operai dipendenti non qualificati, per la maggior parte giornalieri, relegato nelle zone più misere di Borgo Van­chiglia e Borgo Dora, in abitazioni malsane, costretto a condi­zioni di vita penose.

L'orario di lavoro, a seconda delle stagioni e del tipo di attività manifatturiera, dura dalle 11 alle 14 ore giornaliere ed anche più, in momenti di punta; la retribuzione è misera ed ob­bliga all'impiego prematuro dei fanciulli in lavori spesso bru­tali, con conseguenze fisiche e morali disastrose.

L'alimentazione è povera e insufficiente; l'igiene nulla, con esiti funesti: epidemie ricorrenti ed alto tasso di mortalità infantile. Gli unici mezzi di sollievo sono costituiti dalla fre­quentazione di osterie e bettole, dal vino, dal gioco e dallo sfogo sessuale.

Bande di ragazzi e giovani, manovali o apprendisti, nei giorni festivi si riversano sulle piazze, nelle strade e sui pra­ti delle periferie, sporchi, totalmente abbandonati, analfabeti, precocemente iniziati all'alcolismo, al furto e all'immoralità, destinati ad un triste avvenire.


La situazione è percepita con drammaticità da uomini di go­verno, da ecclesiastici e da esponenti delle classi medio-alte più attenti alle problematiche popolari. Alcuni sono preoccupati delle conseguenze sociali, altri di quelle politiche, altri anco­ra di quelle religiose e morali. Si riflette, si avanzano propo­ste e ci si impegna nella ricerca di soluzioni immediate e a lun­go termine. Beneficenza privata e pubblica, alfabetizzazione, i­struzione popolare, qualificazione professionale, cura religiosa, iniziative sociali e prime esperienze cooperativistiche caratte­rizzano gli interventi di quanti, prevalentemente ma non unica­mente in ambito cattolico, tentano risposte operative, mentre a livello legislativo ancor nulla si muove.


In questo contesto, il problema dell'istruzione popolare assume un rilievo singolare. Due elementi vengono a convergere: da una parte la convinzione di molti che la scolarizzazione sia il rimedio più efficace ai mali sociali sopra richiamati, dall'altra l'anelito popolare ad emergere socialmente attraverso l'istruzione. Di qui l'intensificarsi di iniziative, sia private sia pubbliche, che affondano le loro radici già nell'Illuminismo e nell'epoca rivoluzionaria e che qualche frutto hanno già dato nei decenni precedenti. Dal 1835 al 1847 si assiste ad esempio al moltiplicarsi di una copiosa pubblicistica in favore dell'istru­zione popolare; nascono associazioni per la diffusione degli asi­li infantili e l'alfabetizzazione delle classi rurali; nel 1844 l'abate Aporti tiene all'Università le sue celebri lezioni di Me­todo didattico; nel 1845 inizia la pubblicazione del periodico l'Educatore primario, espressione di un vivace gruppo di pedagogisti torine­si; negli stessi anni vengono avviate scuole domenicali e serali per lavoratori.

Di fronte a questo fermento anche l'autorità statale si in­teressa più direttamente del problema. I vari presidenti che si succedono al Magistrato della Riforma (cioè l'organismo addetto all'istruzione pubblica), ordinano una serie di inchieste e cen­simenti per avere un quadro esatto della situazione scolastica. Emanano poi frequenti disposizioni ed Istruzioni per gli inse­gnanti, soprattutto elementari. Finalmente, il 30 novenbre del 1847 viene istituita la Segreteria di Stato per la Pubblica I­struzione, il cui Ministro, Carlo Boncompagni, ottiene l'approva­zione di una notevole riforma dell'organismo scolastico statale (4 ottobre 1848).


Don Bosco arriva a Torino nel 1841, proprio mentre stanno e­mergendo i primi sintomi delle problematiche politiche, sociali e religiose suaccennate. Li interpreta con la sua mentalità prati­ca, la sensibilità dell'educatore nato, la preoccupazione pasto­rale e la grande carica affettiva che lo caratterizzano. Si sente immediatamente spinto ad agire, a dare risposte concrete e ad in­ventare mezzi di redenzione e di prevenzione che a quei ragazzi offrano la possibilità - come già avvenne per lui stesso adole­scente - di emergere, di costruirsi un futuro dignitoso e confor­me alle loro aspirazioni.

36 2.2. Tavola cronologica

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DateLuoghiPersone e avvenimenti


26.05.1841Chiesa della VisitazioneDon Bosco inizia gli esercizi spirituali

per l’ordinazione presbiterale

05.06.1841Chiesa dell’ArcivescovadoMons. Fransoni ordina d. Bosco sacerdote

06.06.1841Chiesa di S. Francesco d’AssisiDon Bosco celebra la prima Messa

07.06.1841Santuario della ConsolataDon Bosco celebra la seconda Messa


03.11.1841Convitto di S. Francesco d’AssisiIl teol. Guala e don Cafasso accolgono don Bosco

per lo studio della Morale (1841-1844)

08.12.1841Sacrestia di S. Francesco d’AssisiDon Bosco incontra Bartolomeo Garelli

dic. 1841-ott. 1844S. Francesco d’AssisiDon Bosco raduna i ragazzi


20.10.1844Rifugio della BaroloDon Bosco vi abita e vi trasferisce l’Oratorio

08.12.1844Ospedaletto di S. FilomenaBorel e don Bosco benedicono la cappella

dell’Oratorio di S. Francesco di Sales

dic. 1844-magg. 1845 Ospedaletto di S. Filomena. Oratorio festivo

all’Ospedaletto

25.05.1845S. Pietro in VincoliDon Bosco, i ragazzi dell’Oratorio

e la serva di don Tesio

giu.-inizi lugl. 1845Ospedaletto e varie chieseOratorio itinerante

13.07.-dic. 1845S. Martino ai MolassiDon Bosco e Borel radunano i ragazzi al pom.

Varie chiese in città e fuoriMessa e Confessione al mattino

nov. 1845-feb. 1846Casa MorettaDon Bosco raduna i giovani per le scuole

festive e serali e i catechismi

Varie chiese in città e fuoriMessa e Confessioni al mattino

febb.-5.04.1846Prato FilippiDon Bosco e Borel radunano i ragazzi al pom.

Varie chiese in città e fuoriMessa e Confessioni al mattino

08.03.1846Prato FilippiDon Bosco incontra Pancrazio Soave

tra 4 e 13.03.1846Tettoia PinardiIl Borel e don Bosco affittano la tettoia di

Casa Pinardi (contratto postdatato al 1° aprile)

mar.-apr. 1846 Tettoia PinardiLavori di adattamento


12.04.1846Cappella Pinardi Inizio dell’Oratorio

e terreno circostante in Casa Pinardi

05.06.1846Casa PinardiIl Borel e don Bosco affittano tre stanze

fine maggio 1846Palazzo BaroloLa Barolo licenzia don Bosco per fine agosto

luglio 1846OspedalettoGrave malattia di don Bosco

inizio agosto 1846Casa PinardiAffitto di un’altra stanza

ag.-ott. 1846BecchiConvalescenza di don Bosco

03.11.1846Casa PinardiDon Bosco e mamma Margherita

vi si stabiliscono

01.12.1846 “Affitto di tutta la casa


maggio 1847 “Un orfano della Valsesia è ospitato da don Bosco

20.06.1847Cappella PinardiMons. Fransoni amministra le Cresime

08.12.1847Oratorio S. LuigiInaugurazione

presso Porta Nuova

19.02.1851Casa PinardiDon Bosco compera la casa e il terreno




37 2.3. Itinerari e suggerimenti

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Oltre alla ricostruita Cappella Pinardi, il luogo maggior­mente significativo fra quelli presentati in questa terza parte è senz'altro la chiesa di san Francesco d'Assisi, alla quale con­viene dedicare tempo ed attenzione particolari.

I tre itinerari suggeriti (il primo con inizio dalla chiesa della Visitazione) risultano particolarmente suggestivi se per­corsi a piedi.


* Percorso lungo (da 3 a 4 ore)

Piccolo gruppo, preparato, di adulti o giovani.


Chiesa della Visitazione (3.1) → via Arcivescovado - a des. via Arsenale → Chiesa dell'Arcivescovado (3.2) → via Arsena­le - a sin. via santa Teresa - a des. via san Francesco → Chiesa di san Francesco d'Assisi e Convitto Ecclesiastico (3.3) → a des. via san Francesco - via Milano - a sin. via Corte d'Ap­pello - a des. via delle Orfane → Palazzo Barolo (3.4.1) → via delle Orfane - a sin. vicolo della Consolata → Santuario della Consolata (3.8.1) → via delle Orfane - a des. via Giu­lio → piazza della Repubblica (Porta Palazzo) → attraver­sarla in direzione nord-est → Piazza Albera (luogo dove sorgeva­no i Molini Dora e la cappella di S. Martino: 3.5.2) → a sin. via Noè - via Borgo Dora - a sin. via Andreis - a des. via san Pietro in Vincoli → Cimitero di san Pietro in Vincoli (3.5.1) → a sin. via Robassomero - a sin. via Cigna - a sin. via Cottolengo → Rifugio (3.4.2) e Ospedaletto (3.4.3) → a des. via Cottolengo - via Maria Ausiliatrice → luogo di prato Filippi (3.5.4) e casa Moretta (3.5.3) → via Maria Ausilia­trice - piazza Maria Ausiliatrice → Cappella Pinardi (3.6).


Luoghi adatti per un momento di riflessione e di preghiera o per la Messa: Chiesa della Visitazione - San Francesco d'Assisi - Consolata - Cappella Pinardi.


* Percorso medio (da 2 a 3 ore)

Gruppo medio, preparato, di adulti, giovani o anche ragazzi.


Cappella Pinardi (3.6) → a sin. via Maria Ausiliatrice → luogo di casa Moretta (3.5.3) e prato Filippi (3.5.4) → via Cottolengo → Opere della Barolo (esterno: 3.4.2 e 3.4.3) → a des. via Ariosto - attraversare corso Regina - via della Consolata → Santuario della Consolata (3.8.1) → a sin. poi a des. via delle Orfane → Palazzo Barolo (esterno: 3.4.1) → a sin. via Corte d'Appello - a des. via Milano - via san Francesco → Chiesa di san Francesco d'Assisi (3.3.1).


Luoghi adatti per un momento di riflessione e di preghiera o per la Messa: Cappella Pinardi - Consolata - San Francesco d'Assisi.


* Percorso breve (da 1 ora a 1 ora e mezzo)

Gruppo grande, medio o piccolo, informato, di adulti, giova­ni e ragazzi.

Cappella Pinardi (3.6.1) → corso Regina - a des. via della Consolata → Santuario della Consolata (3.8.1) → via della Consolata - piazza Savoia - a sin. via Corte d'Appello - a des. via Milano - via san Francesco → Chiesa di san Francesco d'Assisi (3.3.1).


Luoghi adatti per un momento di riflessione e di preghiera o per la Messa: Cappella Pinardi - Consolata - San Francesco d'Assisi.


3. VISITA AI LUOGHI


38 3.1. Chiesa della Visitazione

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(angolo via XX Settembre - via Arcivescovado)


Il chierico Giovanni Bosco fece gli esercizi spirituali, prima delle sacre ordinazioni, in Torino. Il compito di preparare i chierici agli ordini mediante la predicazione degli esercizi e­ra affidato, nella diocesi di Torino, ai Lazzaristi, religiosi fondati da san Vincenzo de' Paoli, detti anche Preti o Signori della Missione (o, più semplicemente, Missionari).


38.1 3.1.1. Casa dei Preti della Missione (via XX Settembre, n. 23)

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La casa che oggi vediamo è stata ricostruita nel dopoguerra, sulle rovine dell'antico monastero della Visitazione (suore di san Francesco di Sales), fondato nel 1638 da santa Giovanna Fran­cesca di Chantal che per l'occasione si fermò sette mesi in Tori­no.

Le suore Visitandine vissero qui fino alla soppressione de­gli ordini religiosi attuata dal governo francese nel 1802. La loro presenza a Torino contribuì alla diffusione del culto e della spiritualità di san Francesco di Sales, uno dei santi più amati negli Stati Sabaudi. Nella Restaurazione le suore salesiane furo­no trasferite nel monastero di santa Chiara e questo edificio venne affidato ai Missionari di san Vincenzo de' Paoli (1830).

I Preti della Missione, sotto la guida del padre Marcantonio Durando, subito costruirono una nuova ala dell'edificio (proprio sull'attuale via XX Settembre) allo scopo di accogliere ecclesia­stici e laici per gli esercizi spirituali. I lavori terminarono nel 1832. Mons. Colombano Chiaveroti, arcivescovo di Torino (1818-1831), infatti, già da qualche anno aveva affidato a questi religiosi la formazione dei chierici della città che non vivevano in seminario e la predicazione degli esercizi spirituali a tutti coloro che si preparavano a ricevere gli ordini. Fu una scelta felice, poiché i Lazzaristi influenzarono notevolmente e positi­vamente il clero torinese, veicolando gli elementi più vitali della spiritualità sacerdotale italiana e francese (specialmente quella derivata dall'Oratorio francese del Bèrulle e da san Fran­cesco di Sales) e propugnando un modello di prete zelante nell’azione pastorale e santo nella vita personale.

Anche san Giovanni Bosco per tre volte, in questa casa, fe­ce gli esercizi spirituali: in preparazione del suddiaconato (settembre 1840), del diaconato (marzo 1841) e del presbiterato (dal 26 maggio al 5 giugno 1841).

Scrive egli a proposito del ritiro spirituale in occasione del suddiaconato:


Per l'ordinazione delle quattro tempora di autunno (ndr.: 19 settembre 1840) sono stato ammesso al suddiacona­to. Ora che conosco le virtù che si ricercano per quell'im­portantissimo passo, resto convinto che io non era abbastan­za preparato; ma non avendo chi si prendesse cura diretta della mia vocazione, mi sono consigliato con D. Caffasso che mi disse di andare avanti e riposare sopra la sua paro­la. Nei dieci giorni di spirituali esercizi fatti nella casa della Missione in Torino ho fatto la confessione generale, affinché il confessore potesse avere un'idea chiara di mia coscienza e darmi l'opportuno consiglio” (MO 109).


I propositi fatti durante gli esercizi spirituali per il presbiterato rispecchiano tematiche care alla spiritualità e al modello sacerdotale propugnato dai Lazzaristi e diffuso anche da don Cafasso, con un significativo richiamo al metodo pastorale di san Francesco di Sales:


Ho cominciato gli esercizi spirituali nella casa della Missione il giorno 26 maggio festa di S. Filippo Neri 1841 (...).

Conclusione degli esercizi fatti in preparazione della celebrazione della prima S. Messa, fu: Il prete non va da solo al cielo, non va da solo all'in­ferno. Se fa bene andrà al cielo con le anime da lui salvate col suo buon esempio; se fa male, se dà scandalo andrà alla perdizione colle anime dannate pel suo scandalo.

Risoluzioni:

1° Non fare mai passeggiate se non per gravi necessità: vi­site a malati etc.

2° Occupare rigorosamente bene il tempo.

3° Patire, fare, umiliarsi in tutto e sempre, quando tratta­si di salvare anime.

4° La carità e la dolcezza di S. Francesco di Sales mi gui­dino in ogni cosa.

5° Mi mostrerò sempre contento del cibo che mi sarà appre­stato, purché non sia cosa nocevole alla sanità.

6° Berrò vino adacquato e soltanto come rimedio: vale a dire solamente quando e quanto sarà richiesto dalla sanità.

7° Il lavoro è un'arma potente contro ai nemici dell'anima, perciò non darò al corpo più di cinque ore di sonno ogni notte. Lungo il giorno, specialmente dopo pranzo, non pren­derò alcun riposo. Farò qualche eccezione in casi di malat­tia.

8° Ogni giorno darò qualche tempo alla meditazione, alla lettura spirituale. Nel corso della giornata farò breve vi­sita o almeno una preghiera al SS.mo Sacramento. Farò almeno un quarto d'ora di preparazione, ed altro quarto d'ora di ringraziamento alla S. Messa.

9° Non farò mai conversazione con donne fuori del caso di a­scoltarle in confessione o di qualche altra necessità spiri­tuale”


(F. Motto [Ed.], Memorie dal 1841 al 1884-5-6 pel Sac. Gio. Bosco a’ suoi figliuoli Salesiani, in RSS 4 [1985] 88-90).


Nell'attuale casa della Missione, in una stanza al pian terreno, sono conservati numerosi ricordi di san Vincenzo de' Pao­li: reliquie, scritti, abiti e oggetti personali. Di particolare importanza alcune lettere spedite da san Vincenzo ai primi Mis­sionari mandati a Torino nel 1655, conservate nell’archivio della Casa.


Il padre lazzarista beato Marcantonio Durando (1801-1880) - superio­re di questa casa fin dal 1831 e visitatore della Provincia Vin­cenziana dell'Alta Italia dal 1837 - è stato uno dei personaggi più significativi ed influenti della chiesa torinese nell'Otto­cento. Apparteneva ad una famiglia della borghesia piemontese. Due suoi fratelli furono noti liberali ed ebbero parte attiva nell'unificazione italiana: Giovanni (1804-1869) fu prima gene­rale dell'esercito pontificio (1847-1848), poi di quello piemon­tese, quindi senatore del nuovo Regno d'Italia (1860); Giacomo (1807-1894) fu generale, deputato, Ministro della Guerra e Mi­nistro degli Esteri (1862), infine Presidente del Senato (1884).

Il padre Durando si impegnò attivamente su più fronti: for­mazione del giovane clero; predicazione di esercizi spirituali e di missioni popolari; direzione e organizzazione della Figlie della Carità (per suo interessamento e sotto la sua guida le loro case passarono da due a quaranta tra 1831 e 1848); fondazione delle Dame di Carità (1836); grande im­pulso alle Missioni Estere in America del Nord, Etiopia, Medio O­riente e Cina; diffusione dell'Opera di Propaganda Fide in Pie­monte ed Italia; collaborazione con la marchesa Barolo nella fon­dazione delle suore Maddalene (1839); sostegno nella fondazione delle suore Clarisse-Cappuccine (1856); fondazione delle suore Nazarene, con l'aiuto di suor Luisa Borgiotti (1865); impulso e collaborazione a molte opere caritative, tra cui le Misericordie e le Conferenze di san Vincenzo. Fu anche consigliere di mons. Fransoni, intervenendo attivamente, con equilibrio e prudenza, in difesa dell'arcivescovo e dei diritti della Chiesa nei momenti di tensione con l'autorità civile; inoltre, in occasione delle leggi di soppressione (1855 e 1866), si impegnò per riaprire il dialogo tra vescovi e governo liberale.

Il padre Durando ebbe rapporti molto cordiali anche con don Bosco e nel 1864 esaminò, per conto dell'autorità diocesana, i primi abbozzi delle Costituzioni della Società Salesiana, dando un apporto decisivo nel chiarire problemi di indole giuridica e l'impostazione della vita religiosa (cf MB 6, 723-725). In seguito esaminò anche le Costituzioni delle Figlie di Maria Ausiliatrice.

È stato proclamato beato da Giovanni Paolo II il 20 ottobre 2002.


38.2 3.1.2. Chiesa della Visitazione

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Piccola ma graziosa costruzione barocca a croce greca, che si apre ad angolo tra via XX Settembre e via Arcivescovado. Se­condo il Cibrario, sarebbe stata innalzata nel 1661 su disegno di Francesco Lanfranchi; altri la datano 1667 e l'attribuiscono all'archi­tetto conte Amedeo di Castellamonte. Originariamente la cupola e­ra stata affrescata dal pittore Luigi Vannier, di Chambéry. Il pregevole pulpito è dello scultore Giovanni Valle (1688). L'icona centrale raffigurante la visitazione di Maria a santa Elisabetta è di Ignazio Nepote; il quadro sull'altare a sinistr, con san Francesco di Sales che porge le Costituzioni alla Chantal, è ope­ra di Alessandro Trono; quello sull'altare a destra, con san Vincenzo de' Paoli, è dovuto al novarese Andrea Miglio. I piccoli riquadri sulle colonne rappresentano scene della vita di san Francesco di Sales.

Tra 1860 e 1861 il padre Durando fece restaurare tutta la chiesa. In quella occasione i dipinti della cupola furono rifatti dal Morgari; l'antico coro delle Visitandine venne trasformato in cappella dedicata alla passione del Signore, con decorazioni dello stesso Morgari (1866); già prima però, questo coro serviva come cappella per gli esercitan­di.

È questo l'ambiente nel quale don Bosco trascorse le fervi­de ore di preghiera e di adorazione nei giorni immediatamente precedenti alla consacrazione sacerdotale.


39 3.2. Chiesa dell'Arcivescovado

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(via Arsenale, n. 16; Palazzo: via Arcivescovado, n. 12)


In questa chiesa, dedicata all'Immacolata Concezione di Ma­ria, Giovanni Bosco ricevette la tonsura e gli ordini minori (29 marzo 1840), il suddiaconato (19 settembre 1840), il diaconato (29 marzo 1841) e il presbiterato (5 giugno 1841) dalle mani di mons. Luigi Fransoni arcivescovo di Torino. Con l'ordinazione sa­cerdotale si conclude la prima grande tappa del cammino, lungo e sofferto, seguito da don Bosco nella ricerca della volontà di Dio e nella preparazione alla missione che gli verrà affidata.

La chiesa, con l'annesso palazzo arcivescovile, fu edificata ad opera dei padri Lazzaristi, mandati a Torino dallo stesso san Vincenzo de' Paoli il 10 novembre 1655. La casa venne costruita tra 1663 e 1667; la chiesa, iniziata nel 1675, forse su disegno dell'archi­tetto Guarino Guarini, fu portata a termine nel 1697. La facciata fu conclusa nel 1730, anno della beatificazione di Vincenzo de’ Paoli.

L’altar maggiore, opera di marmorari luganesi, completato nel 1709, è ornato da una bella icona ovale raffigurante l’Immacolata con Bambino.

Il sacro edificio conserva quadri pregevoli. A destra: sul primo altare, san Pietro liberato dal carcere, della scuola del Caravaggio; sul secondo altare, morte di san Giuseppe, di Ales­sandro Mari (1650-1707). A sinistra: sul primo altare san Vincen­zo de' Paoli che predica, di Alessandro Trono (1738) e, sulla volta, af­freschi notevoli del veneziano Giovanni Battista Crosato (1685-1758); sul secondo altare, Anania e san Paolo, di Sebastiano Ta­ricco (1641-1710).

I Missionari di san Vincenzo furono invitati a lasciare que­sta loro prima residenza nel 1776, per sostituire i Gesuiti, sop­pressi da papa Clemente XIV, nel ministero presso la chiesa dei SS. Martiri nell’attuale via Garibaldi. La casa, rimasta libera, venne as­segnata all'arcivescovo di Torino (1777), che da oltre duecento anni era privo di una sede stabile.


39.1

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39.1.1 Don Bosco e i suoi arcivescovi.

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Mons. Luigi Fransoni (1789-1862) abitò il palazzo dal 1832 al 1850, anno della sua cacciata in esilio (morirà a Lione). Di lui don Bosco ebbe grande stima e venerazione, cercando sempre il suo consiglio e approvazione nelle decisioni più importanti.

Ancor chierico, nell'estate 1840, Giovanni venne a visitare l'arcivescovo, “chiedendogli di poter istudiare i trattati del 4° anno in quelle vacanze e così compiere il quinquennio nel succes­sivo anno scolastico 1840-1”. L'accoglienza ricevuta rimane inde­lebilmente impressa nella sua memoria: “Quel santo Prelato mi accolse con molta bontà, e verifi­cato l'esito de' miei esami fino allora sostenuti in semina­rio, mi concedette il favore implorato” (MO 109).


Negli anni successivi tornerà più volte nel palazzo arcive­scovile, o per consigliarsi e raccomandare a mons. Fransoni i suoi progetti e il nascente Oratorio, o per consolare il superio­re osteggiato e perseguitato. Anche durante gli anni dell'esilio lionese manterrà con lui stretti rapporti epistolari. L'arcive­scovo fin dall'inizio incoraggiò e favorì l'opera di don Bosco, che sapeva uomo equilibrato e prete zelante, anche nei momenti più difficili, quando veniva criticato da più parti, ostacolato dalle autorità e abbandonato dai collaboratori. Nelle Memorie dell'Oratorio vengono riportati diversi suoi interventi favorevo­li, alcuni dei quali risultarono decisivi per il proseguimento dell'Oratorio. Il suo appoggio fu determinante specialmente quan­do il marchese Michele Cavour (padre di Camillo), Vicario di Cit­tà, che pure era amico del teologo Borel e di don Bosco, aveva deciso di troncare l'esperimento dell'Oratorio. I tempi erano difficili, frequenti i moti popolari ed egli vedeva con timore le rumorose riunioni domenicali di tanti poveri giovani. Ci racconta don Bosco di una discussione avvenuta proprio in arvivescovado:


Quando seppe (ndr.: il marchese Cavour) che io aveva sempre proceduto col consenso dell'Arcivescovo, convocò la così detta Ragioneria nel palazzo vescovile, essendo quel prelato allora alquanto ammalato (...).

Quando io vidi tutti quei magnati, disse di poi l'Arci­vescovo, a raccogliersi in questa sala, mi parve doversi te­nere il giudizio universale. Si disputò molto pro e con­tro; ma in fine si conchiuse doversi assolutamente impedire e disperdere quegli assembramenti, perché compromettevano la pubblica tranquillità (...).

Il conte Collegno, che silenzioso aveva assistito a tutta quella viva discussione, quando osservò che se ne proponeva l'ordine di dispersione e definitivo scioglimento, si alzò, chiese di parlare e comunicò la sovrana intenzione, e la protezione che il Re intendeva di prendere di quella micro­scopica istituzione.

A quelle parole tacque il Vicario e tacque la Ragioneria” (MO 162-163).


Durante il periodo dell'esilio di Fransoni, il suo vicario generale, il canonico Giuseppe Zappata, continuò a mostrarsi be­nevolo nei riguardi di don Bosco. Questi, d'altronde, rendeva un prezioso servizio alla diocesi sia perché, essendo chiuso il se­minario, ospitava a Valdocco vari chierici e ne curava la forma­zione; sia perché dalla sua scuola uscivano ogni anno molte voca­zioni per la diocesi.

Tuttavia i rapporti tra don Bosco e i suoi arcivescovi non furono sempre così buoni. Particolarmente dolorose furono le ten­sioni verificatesi nel periodo dell'episcopato di mons. Lorenzo Gastaldi (1873-1883). I due, che pure erano stati grandi amici, per una serie di incomprensioni e di malintesi, amplificati da uomini del loro entourage, ebbero a soffrirne notevolmente. Tale situazione si risolse grazie all'intervento diretto di Leone XIII e alla grande umiltà di don Bosco.

Negli ultimi anni della vita del Santo fu arcivescovo di Torino il card. Gaetano Alimonda (1883-1891) con il quale le re­lazioni ridivennero ottime. Il cardinale, che aveva immensa vene­razione per lui, lo visiterà più volte, particolarmente nell'ultima malattia.



40 3.3. San Francesco d'Assisi

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(via san Francesco d'Assisi, n. 11)


Il 6 giugno 1841, domenica della SS. Trinità, Don Bosco sa­cerdote novello celebra la sua prima messa in questa chiesa, all'altare dell'Angelo Custode. È assistito dal suo direttore spirituale san Giuseppe Cafasso che, nei locali annessi alla chiesa, collabora con il teologo Luigi Guala nella direzione del Convitto Ecclesiastico. Dal novembre successivo, fino all'estate 1844, don Bosco abiterà in questi ambienti.


40.1 3.3.1. La chiesa e il convento di san Francesco

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La costruzione originaria risale al sec. XIII e si dice fon­data da san Francesco stesso, in occasione del suo viaggio in Francia (1215), o dai suoi primi compagni. Il convento era abita­to dai Minori conventuali ed acquistò presto grande importanza in città, tanto che - tra sec. XIII e sec. XIV - fu sede dell'archi­vio e del tesoro comunale. Nel vasto refettorio poi, si radunava spesso il Consiglio della città e si tenevano i pubblici esami di laurea per gli studenti di legge.

Nel corso dei secoli chiesa e convento subirono restauri e ritocchi. Tra 1602 e 1610 si pose mano ad una generale ristruttu­razione degli edifici che persero totalmente le primitive linee architettoniche gotiche. Un secondo notevole restauro fu effet­tuato nel 1761: in quell'occasione vennero ricostruite la faccia­ta e la cupola, su disegno dell'architetto Bernardo Vittone. Gli ultimi interventi di un certo rilievo risalgono agli anni 1863-1865.

Tra le opere d'arte segnaliamo: nel prebiterio, l'altare in marmo risalente al 1673, gli affreschi della volta (sec. XVII) ritoccati dal Morgari, e la vetrata raffigurante san Fran­cesco che riceve le stimmate, dei fratelli Bertini di Milano (sec. XIX); nella prima cappella a destra, due tele (Annunciazio­ne e Visitazione) di Giovanni Antonio Molineri (1577-1645); nella seconda cappella a destra, il bel crocifisso attribuito al luganese Carlo Giuseppe Plura (1655-1737); nell'ultima cappella a sinistra, il quadro dell'Angelo Custode di Pietro Ayres (1794-1878).

Il primo confessionale nella navata sinistra è quello in cui san Giuseppe Cafasso trascorreva molte ore della sua giornata. Attraverso il sacramento della Penitenza egli era guida spiritua­le di numerosi sacerdoti, di personaggi influenti della vita cit­tadina, ma anche di molti popolani. Aveva il dono di intuire le coscienze e convertire anche i cuori più duri. A lui si ricorreva nei casi disperati; in particolare gli si affidavano i condannati a morte più restii alla conversione.


40.2 3.3.2. Il Convitto Ecclesiastico

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I Francescani furono allontanati dal convento annesso alla chiesa durante l'occupazione francese e lo stabile venne venduto in gran parte a privati. La parte adiacente alla chiesa fu desti­nata ad alloggio militare e ad abitazione per il rettore della chiesa stessa.

40.2.1 Il teologo Guala e le origini del Convitto

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A questo compito nel 1808 fu nominato il teologo Luigi Guala (1775-1848). Egli era membro delle Amicizie Cattoliche, un'as­sociazione fondata dall'ex gesuita Nicolao de Diessbach (1732-1798) negli ul­timi decenni del Settecento e riorganizzata dal padre Pio Brunone Lanteri (1759-1830; fondatore degli Oblati di Maria Vergine), che tra i suoi scopi aveva la formazione del giovane clero e la diffusione di buoni libri tra il popolo.

Il Guala, constatando il vuoto formativo in cui, anche per le difficoltà del momento storico, erano lasciati i neo-sacerdoti, appena nominato rettore iniziò a tenere lezioni di teologia morale ad alcuni di essi. Con la Restaurazione l'inizia­tiva si consolidò ed egli ottenne l'uso degli ambienti rimasti invenduti dell'antico convento. Su suggerimento del Lanteri vi a­prì un Convitto Ecclesiastico (1817) al fine di perfezionare la formazione culturale, pastorale e spirituale di coloro che termi­navano gli studi seminaristici.


40.2.2 Impostazione del Convitto

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I corsi duravano un biennio ed offrivano lezioni di teologia morale speculativa e pratica, affrontando problemi etici e modo di confessare e dirigere spiritualmente la varie categorie di persone. Erano anche offerte lezioni di omiletica.

La linea teologica adottata dal Lanteri e dal Guala era quella ignaziana ed alfonsiana, più benigna e positiva rispetto a quella rigorista tradizionalmente insegnata alla Facoltà Teologi­ca dell'Universita e perseguita da gran parte del clero piemonte­se.

Gli allievi venivano anche avviati all’attività pastorale con diverse esperienze nelle parrocchie della città. Si curava poi in modo particolare la loro vita spirituale e la preghiera. A questo scopo, ogni anno erano tenuti a frequentare gli esercizi spiri­tuali al santuario di sant'Ignazio di Lanzo, restaurato apposita­mente dal Guala che ne era anche rettore.

La giornata dei preti studenti si svolgeva secondo il se­guente orario:

Mattino: ore 5,30 levata, preghiera vocale e meditazione in comune; dalle 6,45 alle 9,00 tempo dedicato allo studio, durante il quale ognuno celebra privatamente la santa Messa e l'Ufficio; alle ore 9,00 tutti insieme assistono ad una Messa; dalle 9,30 alle 11,00 nuovamente un periodo di studio, cui fa seguito un "saggio" dello studio fatto e la lezione del Ripetitore; alle 12,00, dopo l'Angelus e l'ora media, pranzo con lettura, seguito da un momento di ricreazione.

Pomeriggio: ore 14,00 visita breve al SS. Sacramento e pas­seggio; 14,45 conferenza morale "pubblica", cioè aperta anche ai sacerdoti della città; 16,15 passeggio; 17,00 Rosario in comune e studio; 19,00 conferenza di morale e di confessione pratica; 20,00 lettura spirituale comunitaria su testi di ascetica; 20,30 cena e ricreazione; 21,45 silenzio, preghiere comuni, esame di coscienza e riposo.


40.2.3 Don Cafasso al Convitto

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Don Giuseppe Cafasso, entrato al Convitto come studente nel 1834, e rimastovi poi come collaboratore del Guala, gli succedet­te prima come professore Ripetitore (1836), poi come professore principale (1843), infine, alla sua morte (1848), come rettore della chiesa e direttore del Convitto. Mons. Fransoni aveva tale fiducia nei due sacerdoti che affidava loro la scelta dei vice­parroci.

Sotto la direzione del Cafasso (1848-1860) il Convitto visse il suo periodo aureo. Uomo equilibratissimo e saggio, di­rettore spirituale ricercato, fu maestro di vita spirituale per il clero e contribuì in maniera determinante a quel fiorire di­ santità sacerdotale che è caratteristico dell'Ottocento torinese.


40.2.4 Cenni sulle vicende successive

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Dopo la scomparsa del Cafasso il Convitto continuò sulla scia tracciata dal santo. Nel 1877 però, l'arcivescovo Gastaldi - che non condivideva le dottrine troppo benigniste propugnate dal direttore teologo Giovanni Battista Bertagna - intervenne pesan­temente, prima imponendo un altro direttore, poi, per la reazione degli studenti, chiudendo il Convitto (1878).

L'istituzione fu riaperta nel 1882, per incarico dello stes­so arcivescovo, dal canonico beato Giuseppe Allamano (nipote del Cafas­so e fondatore delle Missioni della Consolata), nei locali adia­centi al santuario della Consolata.


40.2.5 Don Bosco allievo del Convitto

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Il 3 novembre 1841 don Bosco, seguendo il consiglio del Ca­fasso - che gli aveva detto: “Voi avete bisogno di studiare la morale e la predicazione. Rinunciate per ora ad ogni proposta e venite al Convitto” (MO 116) - si trasferisce a Torino.

Del Convitto Ecclesiastico don Bosco darà questa sintetica descrizione:


Il Convitto Ecclesiastico si può chiamare un complemento dello studio teologico, perciocché ne' nostri seminarii si studia soltanto la dommatica, la speculativa. Di morale si studia soltanto le proposizioni controverse. Qui si impara ad essere preti. Meditazione, lettura, due conferenze al giorno, lezioni di predicazione, vita ritirata, ogni comodi­tà di studiare, leggere buoni autori, erano le cose intorno a cui ognuno deve applicare la sua sollecitudine” (MO 116).


Egli viene accolto gratuitamente dal teologo Guala, del quale ha un'ottima impressione:


Uomo disinteressato, ricco di scienza, di prudenza e di coraggio, si era fatto tutto a tutti in tempo del governo di Napoleone I (...). Era agitatissima la questione del proba­bilismo e del probabiliorismo (ndr.: due scuole di interpre­tazione morale, una meno e l'altra più rigorista).

(...)

Il T. Guala si mise fermo in mezzo ai due partiti, e per centro di ogni opinione mettendo la carità di N.S.G.C. riuscì a ravvicinare quegli estremi. Le cose giunsero a tal segno che, mercé il T. Guala, S. Alfonso divenne il maestro delle nostre scuole con quel vantaggio, che fu lungo tempo desiderato, e che oggidì se ne provano i salutari ef­fetti” (MO 117-118).


40.2.6 Don Cafasso maestro di Don Bosco

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Per il giovane sacerdote il maestro vero è però il Cafasso alle mani del quale egli si abbandona con fiducia.

Alla scuola di questo formatore don Bosco accresce la sua cultura ecclesiastica e pastorale; è iniziato ad una robusta spi­ritualità sacerdotale; viene progressivamente introdotto a cono­scere, analizzare ed affrontare situazioni pastorali completamen­te diverse da quelle degli ambienti provinciali da cui proviene.

Don Cafasso gli insegna a coniugare santità personale, zelo apostolico ed arte pastorale. Lo avvia particolarmente alla cura di quelle categorie di persone che restano ai margini della ordinaria azione parrocchiale. Conosciuta la sua spiccata propensione al lavoro tra i giovani, lo mette a contatto con le fasce giova­nili più povere e abbandonate della città. Lo coinvolge nei cate­chismi ai piccoli muratori e agli spazzacamini; lo impegna nella assistenza spirituale presso i nuovi istituti di carità e di i­struzione che stanno sorgendo nella capitale (Cottolengo, Opera Pia Barolo, scuole della Regia Opera della Mendicità Istruita dirette dai Fratelli delle Scuole Cristiane); lo porta con sé nelle carceri; gli facilita la conoscenza con don Cocchi e gli altri sacerdoti che, in quegli anni, stanno iniziando l'esperien­za degli oratori.

Di questo maestro eccezionale Don Bosco testimonia:


Don Caffasso, che da sei anni era mia guida, fu eziandio mio Direttore spirituale, e se ho fatto qualche cosa di be­ne lo debbo a questo degno ecclesiastico nelle cui mani riposi ogni mia deliberazione, ogni studio, ogni azione del­la mia vita” (MO 119).


Grazie alla scuola del Cafasso e alle esperienze pastorali in cui egli lo coinvolge, il nostro Santo intuisce già l'impor­tanza di un metodo educativo e pastorale "preventivo", soprattut­to a favore di certe categorie di giovani più esposte al perico­lo:


Per prima cosa egli prese a condurmi nelle carceri, dove imparai tosto a conoscere quanto sia grande la malizia e la miseria degli uomini. Vedere turbe di giovanetti, sull'età dei 12 ai 18 anni; tutti sani, robusti, d'ingegno svegliato; ma vederli là inoperosi, rosicchiati dagli insetti, stentar di pane spirituale e temporale, fu cosa che mi fece inorri­dire (...). Ma quale non fu la mia maraviglia e sorpresa quando mi accorsi che molti di loro uscivano con fermo pro­posito di vita migliore ed intanto erano in breve ricondotti al luogo di punizione, da cui erano da pochi giorni usciti.

Fu in quelle occasioni che mi accorsi come parecchi erano ricondotti in quel sito, perché abbandonati a se stessi. Chi sa, diceva tra me, se quei giovanetti avessero fuori un amico, che si prendesse cura di loro, li assistesse e li i­struisse nella religione nei giorni festivi, chi sa che non possano tenersi lontani dalla rovina o almeno diminuire il numero di coloro, che ritornano in carcere? Comunicai que­sto pensiero a D. Caffasso, e col suo consiglio e co' suoi lumi mi sono messo a studiar modo di effettuarlo, abbando­nandone il frutto alla grazia del Signore, senza cui sono vani tutti gli sforzi degli uomini” (MO 119-120).


40.2.7 Nascita dell'Oratorio

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Il fascino esercitato dal giovane sacerdote sui ragazzi si manifesta fin dai primi giorni della sua permanenza in Torino: e­gli lo interpreta come un appello del Signore a fare qualcosa di concreto per loro:


Appena entrato nel Convitto di S. Francesco, subito mi trovai una schiera di giovanetti, che mi seguivano pei via­li, per le piazze e nella stessa sacristia della chiesa dell'Istituto. Ma non poteva prendermi diretta cura di loro per mancanza di locale” (MO 120-121).


L'occasione per iniziare gli è offerta dall'incontro provvi­denziale con Bartolomeo Garelli nella sacrestia di san Francesco, a poco più di un mese dal suo arrivo al Convitto, l'8 dicembre 1841, festa dell'Immacolata:


Il giorno solenne dell'Immacolata Concezione di Maria (8 dicembre 1841) all'ora stabilita era in atto di vestirmi dei sacri paramentali per celebrare la santa messa. Il cherico di sacristia, Giuseppe Comotti, vedendo un giovanetto in un canto lo invita di venirmi a servire la messa. Non so, e­gli rispose tutto mortificato.

- Vieni, replicò l'altro, voglio che tu serva messa.

- Non so, replicò il giovanetto, non l'ho mai servita.

- Bestione che sei, disse il cherico di sacristia, tutto furioso, se non sai servire messa, a che vieni in sacristia?

Ciò dicendo dà di piglio alla pertica dello spolverio, e giù colpi sulle spalle o sulla testa di quel poverino. Men­tre l'altro se la dava a gambe: Che fate? gridai ad alta voce. Perché battere costui in cotal guisa? che ha fatto?

- Perchè viene in sacristia, se non sa servir messa?

- Ma voi avete fatto male.

- A Lei che importa?

- Importa assai, è mio amico; chiamatelo sull'istante, ho bisogno di parlare con lui.

- Tuder, tuder, si mise a chiamare; e correndogli die­tro, e assicurandolo di miglior trattamento me lo ricondus­se vicino.

L'altro si approssimò tremante e lagrimante per le busse ricevute. Hai già udita la messa? gli dissi colla amorevolezza a me possibile.

- No, rispose l'altro.

- Vieni adunque ad ascoltarla; dopo ho piacere di parlar­ti di un affare, che ti farà piacere. Me lo promise. Era mio desiderio di mitigare l'afflizione di quel poveretto e non lasciarlo con quella sinistra im­pressione verso ai direttori di quella sacristia. Celebrata la santa messa e fattone il dovuto ringraziamento, condussi il mio candidato in un coretto. Con faccia allegra ed assi­curandolo, che non avesse più timore di bastonate, presi ad interrogarlo così:

- Mio buon amico, come ti chiami?

- Mi chiamo Bartolomeo Garelli.

- Di che paese tu sei?

- D'Asti. - Vive tuo padre? - No, mio padre è morto. - E tua madre? - Mia madre è anche morta.

- Quanti anni hai? - Ne ho sedici.

- Sai leggere e scrivere? - Non so niente.

- Sei stato promosso alla s. comunione? - Non ancora.

- Ti sei già confessato?

- Sì, ma quando ero piccolo.

- Ora vai al catechismo? - Non oso. - Perché?

- Perché i miei compagni più piccoli sanno il catechismo; ed io tanto grande ne so niente. Perciò ho rossore di recar­mi a quelle classi.

- Se ti facessi un catechismo a parte, verresti ad ascol­tarlo?

- Ci verrei molto volentieri.

- Verresti volentieri in questa cameretta?

- Verrò assai volentieri, purché non mi diano delle ba­stonate.

- Sta tranquillo, ché niuno ti maltratterà. Anzi tu sarai mio amico, e avrai da fare con me e con nissun altro. Quando vuoi che cominciamo il nostro catechismo?

- Quando a Lei piace. - Stasera? - Sì.

- Vuoi anche adesso?

- Sì, anche adesso, con molto piacere.

Mi alzai, e feci il segno della S. Croce per cominciare, ma il mio allievo nol faceva, perché ignorava il modo di farlo. In quel primo catechismo mi trattenni a fargli ap­prendere il modo di fare il segno della Croce e a fargli co­noscere Dio Creatore e il fine per cui ci ha creati” (MO 121-122).


Un particolare, qui taciuto da don Bosco, sarà da lui rife­rito nel 1885 ai salesiani. Dopo il segno della croce aveva­no detto insieme un'Ave Maria: “Tutte le benedizioni piovuteci dal cielo sono frutto di quella prima Ave Maria detta con fervore e con retta intenzione insieme col giovanetto Bartolomeo Garelli là nella chiesa di S. Francesco d'Assisi” (MB 17, 510).


Dopo quel primo incontro, ogni domenica, si raduna al Con­vitto un gruppetto di ragazzi che va crescendo: nel febbraio suc­cessivo sono una ventina; trenta alla fine di marzo; quasi un centinaio per sant'Anna (26 luglio), festa patronale dei murato­ri.

I ragazzi che in questi primi tempi frequentano il nascente oratorio sono in prevalenza operai e manovali che trascorrono a Torino soltanto una parte dell'anno, quella libera dalle attività agricole (dal tardo autunno alla fine di giugno). Si tratta di “Savoiardi, Svizzeri, Valdostani, Biellesi, Novaresi, Lombardi” (MO 142). “In generale - don Bosco ci informa - l'Oratorio era composto di scalpellini, muratori, stuccatori, selciatori, qua­dratori e di altri che venivano di lontani paesi. Essi non essen­do pratici né di chiese né di compagni erano esposti ai pericoli di perversione, specialmente nei giorni festivi” (MO 124).

Questo tipo di giovani, migratori stagionali, continuerà ad essere prevalente nell'Oratorio di don Bosco fin verso la metà degli anni Cinquanta, quando l'immigrazione in Torino divenne stabile.

È ancora don Bosco che ci descrive lo svolgimento di quelle riunioni domenicali al Convitto:


Qui l'Oratorio si faceva così: Ogni giorno festivo si dava comodità di accostarsi ai santi sacramenti della con­fessione e comunione; ma un sabato ed una domenica al mese era stabilita per compiere questo religioso dovere. La sera, ad un'ora determinata si cantava una lode, si faceva il ca­techismo, poi un esempio colla distribuzione di qualche co­sa ora a tutti ora tirata in sorte (...).

Il buon Teologo Guala e D. Caffasso godevano di quella raccolta di fanciulli e mi davano volentieri immagini, fo­glietti, libretti, medaglie, piccole croci da regalare. Tal­volta mi diedero mezzi per vestire alcuni che erano in mag­gior bisogno; e dar pane ad altri per più settimane, fino a tanto che col lavoro potessero guadagnarsene da sé. Anzi, essendo cresciuto assai il loro numero, mi concedettero di poter qualche volta radunare il mio piccolo esercito nel cortile annesso per fare ricreazione. Se la località l'aves­se permesso, saremmo presto giunti a più centinaia, ma do­vemmo limitarci ad ottanta circa.

Quando si accostavano ai santi sacramenti lo stesso T. Guala e D. Caffasso solevano sempre venirci a fare una visi­ta e raccontarci qualche episodio edificante” (MO 123-125).


Durante la settimana, nei momenti di ricreazione, don Bosco teneva contatto con i ragazzi:


Andava a visitarli in mezzo ai loro lavori nelle offici­ne, nelle fabbriche. Tal cosa produceva grande consolazione ai giovanetti, che vedevano un amico prendersi cura di loro; faceva piacere ai padroni, che tenevano volentieri sotto la loro disciplina giovanetti assistiti lungo la settimana e più ne' giorni festivi che sono giorni di maggior pericolo.

Ogni sabato mi recava nelle carceri colle saccoccie piene ora di tabacco, ora di frutti, ora di pagnottelle sempre nell'oggetto di coltivare i giovanetti che avessero la di­sgrazia di essere colà condotti; assisterli, rendermeli ami­ci, e così eccitati di venire all'Oratorio, quando avessero la buona ventura di uscire dal luogo di punizione” (MO 125).


L'amicizia, l'assistenza e l'attenzione personale ottengono risultati insperati anche per i ragazzi più difficili e convinco­no don Bosco dell'importanza di elaborare un metodo pedagogico e pastorale preventivo, basato su “amorevolezza, religione e ragio­ne”:


Fu allora che io toccai con mano, che i giovanetti usci­ti dal luogo di punizione, se trovano una mano benevola, che di loro si prenda cura, li assista nei giorni festivi, studi di collocarli a lavorare presso di qualche onesto padrone, e andandoli qualche volta a visitare lungo la settimana, que­sti giovanetti si davano ad una vita onorata, dimenticavano il passato, divenivano buoni cristiani ed onesti cittadini” (MO 122-123).


Alla conclusione del triennio trascorso al Convitto, Don Bosco, che sente sempre più forte la chiamata ad essere pastore dei giovani, resta tuttavia ancora incerto sulle scelte concrete a cui lo chiama il Signore:


Un giorno D. Caffasso mi chiamò a sé e mi disse: Ora avete compiuto il corso de' vostri studi; uopo è che andiate a lavorare. In questi tempi la messe è copiosa assai. A qua­le cosa vi sentite specialmente inclinato?

- A quella che Ella si compiacerà di indicarmi.

- Vi sono tre impieghi: Vicecurato a Buttigliera d'Asti; Ripetitore di morale qui al Convitto; Direttore del piccolo Ospedaletto accanto al Rifugio. Quale scegliereste?

- Quello che Ella giudicherà.

- Non vi sentite propensione ad una cosa più che ad un'altra?

- La mia propensione è di occuparmi per la gioventù. Ella poi faccia di me quel che vuole; io conosco la volontà del Signore nel suo consiglio.

- In questo momento, che cosa occupa il vostro cuore, che si ravvolge in mente vostra?

- In questo momento mi pare di trovarmi in mezzo ad una moltitudine di fanciulli, che mi dimandano aiuto.

- Andate adunque, a fare qualche settimana di vacanza. Al vostro ritorno vi dirò la vostra destinazione.

Dopo quelle vacanze D. Caffasso lasciò passare qualche settimana senza dirmi niente; io gli chiesi niente affatto.

- Perché non dimandate quale sia la vostra destinazione? mi disse un giorno.

- Perché io voglio riconoscere la volontà di Dio nella sua deliberazione e voglio metter niente del mio volere.

- Fatevi il fagotto e andate col T. Borrelli (ndr.: il teologo Borel); là sarete direttore del piccolo Ospedale di S. Filomena; lavorerete anche nell'Opera del Rifugio. Intan­to Dio vi metterà tra mano quanto dovrete fare per la gio­ventù” (MO 127-128).



41 3.4. Don Bosco e le opere della marchesa Barolo

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Dopo i tre anni di Convitto Ecclesiastico, don Bosco viene assunto dalla marchesa Barolo come cappellano del nascente Ospe­daletto di santa Filomena e come aiuto del teologo Giovanni Borel nell'assistenza spirituale alle varie opere fondate dalla nobil­donna.

Don Bosco conosceva il Borel: lo aveva incontrato la prima volta in seminario, in occasione di un triduo d'inizio d'anno scolastico e, al Convitto, ebbe l'opportunità di conoscerlo molto meglio. Il teologo Giovanni Borel (1801-1873) era un sacerdote totalmente de­dito alle attività pastorali, infaticabile e dimentico di sé. Era stato cappellano di corte e si era fatto un vasto giro di cono­scenze tra la nobiltà piemontese. Dopo qualche tempo aveva rinun­ciato all'incarico per dedicarsi esclusiva­mente ad attività pastorali tra i giovani, specialmente i più bi­sognosi: fu direttore spirituale delle pubbliche scuole di san Francesco da Paola prima, cappellano del Rifugio e impegnato in vari istituti di educazione e nelle carceri poi.

Come il Cafasso fu maestro di vita spirituale per don Bosco, così il teologo Borel fu sua guida e valido sostegno nella vita pastorale pratica e nel mettere le basi di un oratorio più stabi­le e organizzato:


Dal primo momento che ho conosciuto il T. Borrelli ho sempre osservato in lui un santo sacerdote, un modello degno di ammirazione e di essere imitato. Ogni volta che poteva trattenermi con lui aveva sempre lezioni di zelo sacerdota­le, sempre buoni consigli, eccitamenti al bene. Nei tre anni passati al Convitto fui dal medesimo più volte invitato a servire nelle sacre funzioni, a confessare, a predicare seco lui. Di modo che il campo del mio lavoro era già conosciuto e in certo modo famigliare.

Ci siamo parlato a lungo più volte intorno alle regole da seguirsi per aiutarci a vicenda nel frequentare le carceri, e compiere i doveri a noi affi­dati, e nel tempo stesso assistere i giovanetti, la cui mo­ralità ed abbandono richiamava sempre di più l'attenzione dei sacerdoti” (MO 128).


Si deve notare, anzi, che da questo momento in poi, per i quattro anni successivi, sarà il teologo Borel ad assumersi la responsabilità dell'Oratorio di fronte alle autorità religiose e civili. Le domande di aiuto, i contratti di affitto e di compera che verranno stilati recano sempre la sua firma e poi anche, ma non sempre, quella di don Bosco.

Don Cafasso, che ben conosceva il nostro Santo ed era con­vinto della sua vocazione a realizzare qualcosa di particolare e di nuovo, ritenne indispensabile affiancarlo al Borel e inserirlo nelle molteplici attività della marchesa Barolo: un originale "laboratorio" pastorale e assistenziale che poteva offrire possi­bilità uniche all'apostolo dei giovani. Pregò dunque il Borel di presentare don Bosco alla marchesa. Questa lo accettò come diret­tore spirituale dell'Ospedaletto che si stava ancora costruendo, e lo assunse subito, per consiglio del Borel, al fine di non la­sciarsi sfuggire un elemento tanto valido (cf MB 2, 225-226).



41.1 3.4.1. Palazzo Barolo (via delle Orfane, n. 7)

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In questo palazzo don Bosco, accompagnato dal teologo Borel, si incontrò, nell'autunno del 1844, con la marchesa Giulia di Ba­rolo.

L'edificio, dalla splendida facciata barocca, fu iniziato verso il 1635, concluso nel 1692 dal guariniano Gian Francesco Baroncelli e decorato nel 1743 sotto la direzione di Benedetto Alfieri (1700-1767).

Il povero prete dei Becchi entrò altre volte nell'elegante atrio del palazzo e salì il solenne scalone a doppia rampa per raggiungere i sontuosi ambienti del primo piano dove la marchesa aveva lo studio e le sale di ricevimento.

In questi ambienti don Bosco ebbe modo di stringere amicizia con Silvio Pellico che dal 1834, reduce da dieci anni di carcere al­lo Spielberg, era bibliotecario e segretario personale della mar­chesa. Il noto patriota e scrittore, comporrà per i ragazzi dell'Oratorio il testo di alcune canzoncine sacre, delle quali Angioletto del mio Dio sarà la più conosciuta. Egli muore pro­prio in questo palazzo il 31 gennaio 1854.


Giulia Vittorina Colbert di Maulévrier, vedova Barolo (1785-1864), nata in Vandea e discendente dal grande Colbert, ministro di Luigi XIV, nel 1807 aveva sposato il marchese Tancredi Fallet­ti di Barolo, conosciuto a Parigi alla corte dell'imperatore Na­poleone I.

I due coniugi erano ricchissimi, più degli stessi Savoia, e figure di primo piano della nobiltà torinese. Il loro salotto veniva frequentato dai più importanti personaggi del tempo: nobi­li, politici (tra cui il Cavour), diplomatici, alti ufficiali ed artisti.

Molto religiosi (di entrambi è stato avviato recentemente il processo di beatificazione), non avendo figli decisero di destinare le loro consistenti sostanze a vantaggio di opere sociali e carita­tive. A questo scopo fondarono un'istituzione, l'Opera Pia Baro­lo, tuttora esistente, con sede in questo palazzo.

La marchesa aveva trovato Torino in condizioni disastrose. La miseria dilagava tra il popolo; non esistevano ricoveri per i ma­lati, istituti per la vecchiaia, asili e scuole per i meno ab­bienti.

Sin dal 1832, insieme al marito, istituì nel suo palazzo una scuola gratuita e una mensa per i poveri: si servivano 250 mine­stre al giorno; alla domenica si aggiungeva un piatto di carne e legumi e, al lunedì, dodici poveri venivano serviti a mensa dal­la stessa marchesa. D'inverno, poi, ad ognuno veniva distribuita legna sufficiente per tutta la settimana. La nobildonna, inoltre, si occupava personalmente dei malati dispensando medicina­li, curandoli come infermiera e visitando i più gravi nelle loro povere case.

Morto il marito nel 1838, ella consacrò gran parte del suo tempo nel fondare e mantenere istituzioni a vantaggio di ragazze povere, malate, orfane, prostitute e carcerate. Il suo interesse per queste categorie di persone era iniziato nel 1819 dopo un'oc­casionale visita alle carceri cittadine che l'aveva lasciata sconvolta. Da quel giorno si interessò direttamente delle carce­rate, passando nelle celle lunghe ore, insegnando loro principi di igiene e di vivere civile, cucito e ricamo, catechismo. Per suo interessamento in Torino si costruì per la prima volta un carcere femminile, fu avviata una riforma carceraria globale e si introdussero i cappellani delle prigioni.

Da questa prima esperienza scaturì una lunga serie di ini­ziative assistenziali e caritative inedite nell'ambiente torine­se.

Nel 1821 chiamò da Chambery le suore di san Giuseppe per l'educazione delle fanciulle del popolo, avviando così in Torino le prime scuole femminili popolari.

Nello stesso anno costruì a Valdocco il Rifugio, un centro che accoglieva 250 ragazze traviate e offriva loro, in un ambien­te opportunamente attrezzato, istruzione, avviamento al lavoro, formazione religiosa e la possibilità di riabilitarsi ed inserir­si onorevolmente nella società.

Nel 1825, d'intesa con il re Carlo Felice, invitò a Torino le Dame del Sacro Cuore per la formazione delle figlie dell'alta società.

Nel 1832, per favorire quelle giovani del Rifugio che desi­deravano consacrarsi a Dio con la professione religiosa e tendere alla perfezione cristiana nella preghiera, nella penitenza e nel lavoro, fondò lì accanto il Monastero di santa Maria Maddalena, donde il nome di suore Maddalene. Affiancò a questo convento un istituto per le fanciulle abbandonate inferiori ai dodici anni di età, affidandole all'educazione delle Maddalene stesse. Queste ragazzine erano comunemente chiamate le Maddalenine.

Sempre nel 1832 gettò le basi di un nuovo istituto di suore: l'Educatorio di sant'Anna per la formazione e l'istruzione delle ragazze del ceto medio poco agiato (via Consolata, angolo corso Regina Margherita). Accanto alle suore di sant'Anna costruì una casa per accogliere trenta orfane, le Giuliette che, compiuta la loro educazione, ottenevano una dote di 500 franchi.

Si preoccupò anche delle giovani che desideravano dedicarsi alla vita contemplativa: contribuì alla costruzione del monastero delle Adoratrici del SS. Sacramento assicurando loro una cospicua rendita annuale. Introdusse inoltre a Torino, città del SS. Sa­cramento, l'Associazione per l'adorazione perpetua.

Per quelle giovani del Rifugio che si distinguevano nell'im­pegno e nella pietà, ma non erano chiamate alla vita religiosa, fondò le Terziarie di santa Maria Maddalena (1844). Dovevano, con l'esempio, essere di stimolo al bene per le altre ospiti del Ri­fugio e si impegnavano in vari servizi di carità.

Nel 1845 costruì l'Ospedaletto di santa Filomena, con 160 posti per bambine storpie o malate tra i tre e i dodici anni, di­retto dalle suore di san Giuseppe coadiuvate dalle Terziarie di santa M. Maddalena.

Altra geniale intuizione della marchesa fu l'istituzione delle Famiglie di Maria, di san Giuseppe e di sant'Anna, un anti­cipo delle "comunità alloggio". Ognuna di tali famiglie era posta sotto la direzione di una Madre, alla quale veniva dato alloggio e assegno mensile affinché accogliesse un gruppo di fanciulle de­siderose di apprendere una professione (generalmente erano sarte, crestaie e guantaie). Le ragazze si recavano al mattino nelle va­rie botteghe presso artigiani di sperimentata onestà. La Madre della Famiglia aveva il compito di esercitare le Figlie nello studio del catechismo, nel leggere, nello scrivere, nel conteg­giare e nei lavori casalinghi. Frequentavano tutte insieme la Messa domenicale e anche quella quotidiana, se lo potevano. Rag­giunti i ventuno anni, dopo aver appreso una professione e messa da parte una dote sufficiente, le Figlie erano libere di accasar­si.

Per l'assistenza religiosa e la cura pastorale di uno dei quartieri più popolari e poveri del tempo, Borgo Vanchiglia, pro­gettò e sostenne la costruzione della parrocchia di santa Giulia. I lavori, iniziati nel 1862, terminarono nel 1875, dopo la morte della marchesa. In questa chiesa sono conservate le sepolture dei due coniugi Barolo.

Infine, tra altre iniziative sociali, ricordiamo le scuole speciali, aperte a sue spese, per le ragazze cattoliche delle valli valdesi e il Collegio Barolo per ragazzi poveri, istituito nell'antico castello di Barolo (Cuneo).

L'Opera Pia Barolo continuò ad amministrare le varie fonda­zioni, molte delle quali sussistono ancor oggi.


41.2 3.4.2. L'Oratorio di don Bosco al Rifugio (via Cottolengo, n. 26)

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Quando don Bosco fu presentato dal teologo Borel alla marchesa Baro­lo, questa si rese subito conto delle doti di cui il giovane pre­te era fornito. Per indurlo ad accettare l'incarico di direttore spirituale dell'Ospedaletto, non solo gli concesse di essere li­beramente visitato da tutti i giovani che sarebbero venuti a lui per imparare il catechismo, ma acconsentì che radunasse il suo O­ratorio festivo presso il nuovo edificio non ancora terminato dell'Ospedaletto di santa Filomena.

Nei giorni immediatamente precedenti al 20 ottobre 1844, don Bosco trasferì la sua abitazione al Rifugio. La camera a lui de­stinata si trovava sopra il vestibolo della prima porta d'entrata al Rifugio, accanto a quelle del teologo Borel e di don Sebastia­no Pacchiotti (1806-1884), altro cappellano delle opere Barolo, che pure lo aiuterà nell'assistenza religiosa degli oratoriani.

La camera che è destinata per Lei - gli aveva detto il teo­logo Borel - può per qualche tempo servire a raccogliere i giova­netti che intervenivano a S. Francesco d'Assisi. Quando poi po­tremo andare nell'edifizio preparato pei preti accanto all'Ospe­daletto, allora studieremo località migliore” (MO 128-129). Così la domenica 20 ottobre, avvenne il trasferimento dell'Oratorio al Rifugio. Don Bosco lo descrive nelle sue Memorie, raccontandoci anche i disagi delle domeniche successive:


Un po' dopo il mezzodì ecco una turba di giovanetti di varia età e diversa condizione correre giù in Valdocco in cerca dell'Oratorio novello.

Dov'è l'Oratorio? dov'è D. Bosco? si andava da ogni parte chiedendo. Niuno sapeva dirne parola, perché niuno in quel vicinato aveva udito a parlare né di D. Bosco né dell'Oratorio. I postulanti, credendosi burlati, alzavano la voce e le pretese. Gli altri, credendosi insultati, oppone­vano minacce e percosse. Le cose cominciavano a prendere se­vero aspetto quando io e il T. Borrelli, udendo gli schia­mazzi, uscimmo di casa. Al nostro comparire cessò ogni rumo­re, ogni alterco. Corsero in folla intorno a noi, dimandando dove fosse l'Oratorio.

Fu detto che il vero Oratorio non era ancora ultimato, che per intanto venissero in mia camera, che, essendo spa­ziosa, avrebbeci servito assai bene. Di fatto per quella dome­nica le cose andarono abbastanza bene. Ma la domenica suc­cessiva, agli antichi allievi aggiungendosene parecchi del vicinato, non sapeva più ove collocarli. Camera, corridoio, scala, tutto era ingombro di fanciulli. Al giorno dei Santi col T. Borrelli essendomi messo a confessare, tutti volevano confessarsi, ma che fare? Eravamo due confessori, erano ol­tre dugento fanciulli. Uno voleva accendere il fuoco, l'al­tro si adoperava di spegnerlo. Costui portava legna, qell'altro acqua, secchia, molle, palette, brocca, catinella, sedie, scarpe, libri ed ogni altro oggetto era messo sossopra, men­tre volevano ordinare ed aggiustare le cose. Non è più possibile andare avanti, disse il caro Teologo, uopo è prov­vedere qualche locale più opportuno. Tuttavia si passarono sei giorni festivi in quello stretto locale, che era la ca­mera superiore al vestibolo della prima porta di entrata al Rifugio” (MO 131-132).


In questa situazione, infatti, rimasero per tutte le domeni­che di novembre: al mattino i ragazzi partecipavano alla Messa in san Francesco d'Assisi e al pomeriggio si radunavano nella stanza di don Bosco per il catechismo, le confessioni e le altre iniziative possibili.

Era però necessario un maggior spazio se si voleva continua­re l'attività. L'arcivescovo Fransoni, interpellato in proposito, domandò innanzitutto se quei ragazzi non potevano recarsi nelle loro parrocchie. “Sono giovanetti per lo più stranieri - rispose­ro don Bosco e il Borel - i quali passano a Torino soltanto una parte dell'anno. Non sanno nemmeno a quale parocchia appartenga­no. Di essi molti sono mal messi, parlano dialetti poco intellig­gibili, quindi intendono poco e poco sono dagli altri intesi. Al­cuni poi sono già grandicelli e non osano associarsi in classe coi piccoli”. Il prelato decise allora che era “necessario un luogo a parte, adatto per loro” (MO 132), approvò, incoraggiò a continuare e benedisse l'iniziativa, dicendosi disponibile ad appoggiarla. Sappiamo che questa promessa fu mantenuta.

La marchesa Barolo, compresa l'urgenza, permise che due spa­ziose stanze dell'Ospedaletto, che si stava costruendo presso il Rifugio, fossero trasformate temporaneamente in cappella.


41.3 3.4.3. L'Oratorio di don Bosco all'Ospedaletto di santa Filomena (via Cottolengo, n. 24)

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Gli ambienti concessi dalla marchesa si trovavano nella par­te già ultimata dell'Ospedaletto di santa Filomena, al terzo pia­no, dove ella aveva intenzione di radunare in comunità i sacerdo­ti che assistevano spiritualmente le sue varie opere. L'edificio si trova a metà del vicolo che dal portone di via Cottolengo n. 22 porta al monastero delle Maddalene. Una porticina, oggi murata, ma ancora visibile, serviva da accesso indipendente alla scala che conduce al terzo piano.


Là era il sito scelto dalla Divina Provvidenza per la prima chiesa dell'Oratorio. Esso cominciò a chiamarsi di S. Francesco di Sales per due ragioni: 1a perché la marchesa Barolo aveva in animo di fondare una Congregazione di preti sotto a questo titolo, e con questa intenzione aveva fatto eseguire il dipinto di questo Santo che tuttora si rimira all'entrata del medesimo locale; 2a perché la parte di quel nostro ministero esigendo grande calma e mansuetudine, ci e­ravamo messi sotto alla protezione di questo Santo, affinché ci ottenesse da Dio la grazia di poterlo imitare nella sua straordinaria mansuetudine e nel guadagno delle anime. Altra ragione era quella di metterci sotto alla protezione di que­sto santo, affinché ci aiutasse dal cielo ad imitarlo nel combattere gli errori contro alla religione, specialmente il protestantesimo, che cominciava insidioso ad insinuarsi nei nostri paesi e segnatamente nella città di Torino” (MO 132-133).


La cappellina venne benedetta il giorno dell'Immacolata, 8 dicembre 1844. Era un giorno freddissimo, nevicava abbondantemen­te e, ricorda don Bosco, “parecchi giovanetti fecero la loro con­fessione e comunione, ed io compii quella sacra funzione con un tributo di lagrime di consolazione, perché vedeva in modo, che parevami stabile, l'Opera dell'Oratorio collo scopo di trattene­re la gioventù più abbandonata e pericolante dopo aver adempiuti i doveri religiosi in chiesa” (MO 133).


Presso l'Ospedaletto, che intanto stava per essere termina­to, l'oratorio domenicale, tra inverno e primavera, prese un ot­timo avvio. Lo schema seguito era quello già sperimentato al Con­vitto, con qualche miglioria: Confessioni e Comunione di primo mattino; seguiva la Messa con breve spiegazione del Vangelo adat­ta alla capacità di comprensione e al linguaggio dei ragazzi; nel pomeriggio, catechismo, canto di lodi sacre, breve istruzione, litanie della Madonna e benedizione. Nel resto del tempo i giova­ni venivano impegnati in giochi diversi nel piccolo viale sotto­stante. In queste attività don Bosco e il Borel lavoravano insie­me, aiutati anche da don Pacchiotti.

Si continuò così per sette mesi. Verso la fine del maggio 1845 la marchesa Barolo, “sebbene vedesse di buon occhio ogni o­pera di carità”, cominciò a far pressioni perché si cercasse un'altra sistemazione, dovendosi presto aprire il suo Ospedalet­to (cf MO 135). L'inaugurazione avvenne il 10 agosto e probabil­mente in quel periodo i cappellani della Barolo si trasferirono nelle stanze per loro preparate al terzo piano, presso quella che era stata la cappel­lina provvisoria dell'Oratorio.


Oggi l'Ospedaletto funziona come ambulatorio medico e come casa di riposo per signore anziane. Nella cappella interna, al primo piano, sono conservati con venerazione il calice usato da don Bosco per la celebrazione quotidiana della Messa e l'inginoc­chiatoio sul quale faceva la preparazione e il ringraziamento.

Gli ambienti del terzo piano in cui fu collocata la primiti­va cappella di san Francesco di Sales e dove abitò don Bosco, og­gi sono trasformati in camerette per le suore dell'Ospedaletto.



42 3.5. L'Oratorio itinerante

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(25 maggio 1845-12 aprile 1846)


Il Borel e don Bosco erano decisi a continuare l'attività domenicale intrapresa. Si diedero perciò da fare, su pressione della marchesa, per localizzare un altro ambiente nelle vici­nanze, possibilmente una cappella, in cui trasferire l'Oratorio festivo. “È vero che il locale destinato a cappella, a scuola o a ricreazione dei giovani (ndr.: nell'Ospedaletto) non aveva al­cuna comunicazione coll'interno dello stabilimento; le medesime persiane erano fisse e rivolte all'insù; nulla di meno si dovette ubbidire” (MO 135). D'altronde il numero degli oratoriani aumen­tava sempre più. Erano per la maggior parte ragazzi di strada, o almeno pericolanti, e sembrava poco opportuno alla marchesa che continuassero a radunarsi presso il Rifugio per le ragazze tra­viate, l'Ospedaletto e il monastero delle Maddalene.



42.1 3.5.1. L'Oratorio a san Pietro in Vincoli (via san Pietro in Vincoli)

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A poca distanza dal Rifugio si trova il piccolo cimitero di san Pietro in Vincoli, costruito nel 1777 dall'architetto conte Francesco Dellala di Beinasco (1731-1803). È una costruzione quadrangolare, con vasti portici sui tre lati interni e una cap­pella sul quarto; di fronte all'ingresso, allora come oggi, si e­stendeva un piazzale. Si trovava nell'estrema periferia della città e, per motivi di igiene, già dal 1829 si era cessato di seppellire i cadaveri in terra; fin verso il 1860-1870 si conti­nuarono però ad usare alcuni sepolcri di famiglia nei sotterra­nei. Il cimitero era proprietà del Municipio che stipendiava un sacerdote per il servizio religioso della cappella e delle poche famiglie della zona.

Il luogo parve adatto per le riunioni dell'Oratorio: nella cappella si sarebbero potute celebrare le funzioni religiose e fare i catechismi; sul piazzale c'era spazio sufficiente per i giochi. A seguito di intesa verbale con le autorità municipali e con l'approvazione del cappellano don Tesio, la domenica 25 mag­gio 1845, don Bosco e il Borel vi portano i ragazzi dell'Orato­rio.


A semplice richiesta, e con raccomandazione dell'Arcive­scovo, si ottenne di poterci raccogliere nel cortile e nella chiesa del Cenotafio del SS.mo Crocifisso, detto volgarmen­te S. Pietro in Vincoli (...).

Il lungo porticato, lo spazioso cortile, la Chiesa adat­tata per le sacre funzioni, tutto servì ad eccitare entusia­mo nei giovanetti, sicché parevano frenetici per la gioia.

Ma in quel sito esisteva un terribile rivale, da noi i­gnorato. Era questi non un defunto, che in gran numero ripo­savano nei vicini sepolcri; ma una persona vivente, la serva del cappellano. Appena costei cominciò a udire i canti e le voci e, diciamo, anche gli schiamazzi degli allievi, uscì fuori di casa tutta sulle furie, e colla cuffia per traverso e colle mani sui fianchi si diede ad apostrofare la moltitu­dine dei trastullanti. Con lei inveiva una ragazzina, un ca­ne, un gatto, tutte le galline, dimodoché sembrava essere imminente una guerra europea. Studiai di avvicinarmi per acquetarla, facendole osservare che quei ragazzi non avevano alcuna cattiva volontà, che si trastullavano, né facevano alcun peccato. Allora si volse contro di me e diedemi il fatto mio.

In quel momento ho giudicato di far cessare la ricreazio­ne, fare un po' di Catechismo, e recitato il Rosario in Chiesa, ce ne partimmo colla speranza di ritrovarci con mag­giore quiete la Domenica seguente. Ben il contrario. Allora che in sulla sera giunse il Cappellano, la buona domestica se gli mise attorno e chiamando D. Bosco e i suoi figli ri­voluzionari, profanatori dei luoghi santi e tutto fior di canaglia, spinse il buon padrone a scrivere una lettera al Municipio.

Scrisse sotto il dettato della fantesca ma con tale acrimonia, che fu immediatamente spedito ordine di cat­tura per chiunque di noi fosse colà ritornato. Duole il dirlo, ma quella fu l'ultima lettera del Cappel­lano D. Tesio, il quale scrisse il Lunedì, e poche ore dopo, era preso da colpo apoplettico che lo rese cadavere quasi sull'istante. Due giorni dopo simile sorte toccava alla fantesca” (MO 138-140).


Don Lemoyne, per una errata interpretazione di un documento da lui ritrovato nell'archivio comunale, aggiunge a questa ver­sione la notizia che già durante la Quaresima precedente alcune classi di catechismo sarebbero state radunate nella cappella del cimitero.

Le ricerche hanno permesso di chiarire il reale svolgimento dell'intera vicenda: in effetti ci furono alcune riunioni di catechisti a san Pie­tro in Vincoli, ma non si trattava dei catechisti dell'Oratorio, bensì di quelli della Congregazione dei Catechisti di santa Pelagia; tali riunioni poi si svolsero in maggio e non in Quaresima. La Ragioneria comu­nale però, il 23 maggio proibì quelle riunioni per motivi impre­cisati. La proibizione non era ancora stata notificata il 25, quando don Bosco con i suoi ragazzi si recò al cimitero. La dome­nica successiva, invece, il bando era affisso all'ingresso del cimitero e le guardie civiche avevano l'ordine di farlo esegui­re. Don Bosco, non conoscendo lo svolgimento dei fatti, pensò che la disposizione fosse stata emanata per i suoi ragazzi in seguito all'incidente della domenica precedente.

Don Tesio non poté evidentemente chiarire l'equivoco, essen­do morto mercoledì 28, come appare dai documenti. Consta che la domestica del cappellano, Margherita Sussolino, si fermò alcuni giorni per ritirare le cose sue e del defunto; poi non si hanno più sue notizie.

Subito dopo la morte del cappellano, come è testimoniato dai documenti, anche don Borel, don Pacchiotti e don Bosco presenta­rono unitamente domanda per farsi assegnare la cappellania vacan­te. La loro richiesta però non fu accettata e l'incarico affidato ad un altro (18 giugno). Alla fine di quel mese i tre inoltrarono domanda scritta di poter almeno radunare i ragazzi alla domenica in san Pietro in Vincoli. Anche questa domanda venne respinta (3 luglio).

Allora, mossi dall'urgenza di trovare una sede per l'Orato­rio, ritornarono alla carica tra il 4 e il 9 luglio con una nuova petizione: poter utilizzare ogni domenica, per alcune ore, la cappella dei Mulini Dora. Questa volta (10 luglio) l'istanza venne accolta (cf F. Motto, L’“oratorio” di Don Bosco presso il cimitero di S. Pietro in Vincoli in Torino. Una documentata ricostruzione del noto episodio, in RSS 5 [1986] 199-220).

Fino a questa data le riunioni domenicali continuarono ad effettuarsi presso l'Ospedaletto e alcune chiese fuori città: Sassi, Madonna del Pilone, Madonna di Campagna, Monte dei Cappuc­cini e Superga.


42.2 3.5.2. Cappella di san Martino ai Molassi (zona dove si estende attualmente piazza Albera)

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Ottenuto il permesso di usufruire della chiesetta dei Mulini Dora, la domenica 13 luglio 1845 l'Oratorio spostò le tende.

I Mulini Dora o Molassi, oggi non esistono più. Si trattava di un complesso notevole di edifici adibiti alla macinazione del grano, ma anche alla torchiatura delle olive e alla sfilacciatura della canapa. Nello stesso luogo si trovavano pure i forni comu­nali per la cottura del pane. Le ruote dei mulini erano azionate dall'acqua di un capace canale (Canale dei Mulini) che attingeva dal fiume Dora, ad alcuni chilometri di distanza. Dell'acqua di questo canale si servivano anche le varie piccole industrie che in quegli anni stavano sorgendo nella bassa periferia di Valdocco e Borgo Dora.

La cappella di san Martino serviva per l'assistenza religio­sa degli addetti ai Mulini, tutti dipendenti comunali, e delle loro famiglie. Il Municipio concedette al Borel e a don Bosco l'uti­lizzo della chiesetta soltanto dalle ore 12 alle ore 15 per i cate­chismi; proibiva però ai ragazzi “di inoltrarsi nel recinto delle case de' Mulini” e di disturbare le funzioni sacre celebrate “a profitto degli impiegati tutti de' Molini”.

Il trasferimento e il memorando discorso tenuto nell'occa­sione dal teologo Borel ci sono stati tramandati con ricchezza di particolari:


Ed eccoci una domenica del mese di Luglio 1845, si pren­dono panche, inginocchiatoi, candelieri; alcune sedie, cro­ci, quadri e quadretti, e ciascuno portando quell'oggetto, di cui era capace, a guisa di popolare emigrazione, fra gli schiamazzi, il riso ed il rincrescimento siamo andati a stabilire il nostro quartiere generale nel luogo sopra indi­cato.

Il T. Borrelli fece un discorso di opportunità tanto pri­ma della partenza, quanto nell'arrivo alla novella chiesa.

Quel degno ministro del santuario con una popolarità, che si può chiamare piuttosto unica che rara, espresse questi pensieri: I cavoli, o amati giovani, se non sono trapian­tati non fanno bella e grossa testa. Diciamo lo stesso del nostro Oratorio. Finora fu spesso trasferito di luogo in luogo, ma ne' vari siti dove fece qualche fermata ebbe sem­pre un notabile incremento con non leggero vantaggio dei giovani che sono intervenuti (...).

Qui staremo molto tempo? nol sappiamo; speriamo di sì, ma comunque sia, noi crediamo che, come i cavoli trapiantati, il nostro Oratorio crescerà nel numero di giovani amanti della virtù, crescerà il desiderio del canto, della musica, delle scuole serali ed anche diurne (...).

A quella solenne funzione era presente una folla immensa di giovanetti; e colla massima emozione si cantò un Te Deum di ringraziamento.

Le pratiche religiose qui si compievano come al Rifugio. Ma non si poteva celebrar Messa, né dare la benedizione alla sera, quindi non poteva avere luogo la comunione, che è l'e­lemento fondamentale della nostra istituzione. La stessa ri­creazione era non poco disturbata, incagliata a motivo che i ragazzi dovevano trattenersi nella via e nella piazzetta si­tuata avanti la chiesa per dove passavano spesso gente a piedi, carri, cavalli e carrettoni. Non potendo avere di me­glio ringraziavamo il cielo di quanto ci aveva concesso, a­spettando località migliore” (MO 135-137).


Qui don Bosco e i suoi si radunarono ogni domenica sino alla fine di dicembre 1845, ma solo per i catechismi pomeridiani. Per la Messa e le Confessioni ci si doveva spostare in diverse chiese dentro e fuori la città.

Risale a quest'epoca il primo incontro tra don Bosco e Mi­chele Rua, che aveva otto anni. Avvenne in settembre, presso il portico che oggi mette in comunicazione piazza della Repubblica e piazza Albera.

In seguito alle proteste degli addetti ai Mulini, che non potevano “tollerare i salti, i canti e talvolta gli schiamazzi” dei ragazzi, la Ragioneria, nella seduta del 18 novembre 1845, fissò il termine della concessione al 1° gennaio 1846.


42.3 3.5.3. Casa Moretta (area dell'attuale chiesa "succursale"; piazza Maria Ausiliatrice, n. 15/A)

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Pur avendo ancora due mesi di tempo, il Borel e don Bosco si muovono subito alla ricerca di una nuova sede. La chiesa di san Martino ai Molassi risulta insufficiente per i catechismi; inoltre si sta già pensando di avviare scuole serali e domenicali per i piccoli artigiani: è necessario quindi reperire locali adatti e riscalda­bili.

Nella zona di Valdocco (pressappoco dove oggi si trova la chiesa "succursale", in piazza Maria Ausiliatrice n. 15/A) il sacer­dote Giovanni Battista Antonio Moretta (+ 1847) possedeva una casa a due piani, che in parte affittava. Egli volentieri venne incontro al­le esigenze dei due confratelli affittando loro tre stanze nel novembre 1845.

Casa Moretta aveva cantina e stalla, nove stanze abitabili al pian terreno e altre nove al piano superiore, alle quali si accedeva da un lungo ballatoio.


Intanto eravamo al mese di novembre (1845), stagione non più opportuna per fare passeggiate o camminate fuori città. D'accordo col T. Borrelli abbiamo preso a pigione tre camere della casa di D. Moretta, che è quella vicina, quasi di fronte all'attuale chiesa di Maria Ausil. (...). Colà passam­mo quattro mesi angustiati pel locale, ma contenti di poter almeno in quelle camerette raccogliere i nostri allievi, i­struirli e dar loro comodità specialmente delle confessioni. Anzi in quello stesso inverno abbiamo cominciato le scuole serali. Era la prima volta che nei nostri paesi parlavasi di tal genere di scuole; perciò se ne fece gran rumore, alcuni in favore, altri in avverso” (MO 141).


Le scuole serali, sono uno sviluppo delle scuole domenicali già avviate al Rifugio; continueranno poi in modo regolare l'anno successivo, quando l'Oratorio troverà finalmente la sua stabile dimora. Intanto nelle tre stanze di casa Moretta si radunano per la scuola circa duecento allievi, pigiatissimi.

Don Bosco e il teologo Borel sono coadiuvati in questo impe­gno dai teologi Felice Paolo Chiaves e Giacinto Carpano e da don Luigi Musso. Ma, aumentando le classi, don Bosco trova modo di farsi aiutare da un gruppo di giovani studenti della città ai quali egli fa ripetizione in cam­bio dell'aiuto prestato: “Questi miei maestrini,- scrive don Bo­sco - allora in numero di otto o dieci, continuarono ad aumentare in numero, e di qui cominciò la categoria degli studenti” (MO 165). Ricorre anche a persone adulte volenterose, in genere arti­giani e piccoli commercianti della città, che possiamo considera­re come i primi suoi "cooperatori".

Il metodo utilizzato nelle scuole domenicali e sviluppato poi in quelle serali prevedeva


un solo ramo di insegnamento per volta. Per esempio, si faceva una domenica o due passare e ripas­sare l'alfabeto e la relativa sillabazione; poi si prendeva subi­to il piccolo catechismo intorno a cui si faceva leggere e silla­bare fino a tanto che fossero in grado di leggere una o due delle prime dimande del catechismo, e ciò serviva di lezione lungo la settimana. La successiva domenica si faceva ripetere la stessa materia, aggiungendo altre dimande e risposte. In questa guisa in otto giorni festivi ho potuto ottenere che taluni giungessero a leggere e a studiare da sé delle intere pagine di catechismo” (MO 164-165).


I risultati sono positivi: “Le scuole serali producevano due buoni effetti: animavano i giovanetti ad intervenire per istruir­si nella letteratura, di cui sentivano grave bisogno; nel tempo stesso davano grande opportunità per istruirli nella religione, che formava lo scopo delle nostre sollecitudini” (MO 165).

Questi consolanti sviluppi dell'attività oratoriana sono pe­rò amareggiati da una serie di accuse e di incomprensioni: “Talu­ni chiamavano D. Bosco rivoluzionario, altri il volevano pazzo oppure eretico. La ragionavano così: Questo Oratorio allontana i giovanetti dalle parocchie (...). D. Bosco mandi i fanciulli alle loro parocchie e cessi di raccoglierli in altre località” (MO 141-142). Quest'ultima accusa viene presto chiarita con i parroci della città: si fa loro notare come i giovani dell'Oratorio so­no "stagionali" e non si inseriscono in alcuna struttura parroc­chiale; i parroci allora comprendono ed incoraggiano don Bosco a proseguire. Ma le altre dicerie ed incomprensioni continuano.

Nelle tre stanze di casa Moretta ci si ferma per quattro me­si circa, finché, alla fine di febbraio, don Moretta si vede co­stretto a licenziare l'Oratorio per le proteste degli altri in­quilini della casa.

Qualche anno dopo (9 marzo 1848), in seguito alla morte di don Moretta, don Bosco acquisterà all'a­sta la casa e il terreno annesso, con l'intenzione di adat­tarla e trasportarvi parte dell'Oratorio e il nascente Ospizio. Dovrà rinunziare a questo proposito per il cattivo stato della struttura edilizia e quindi rivenderla (primavera 1849). Nel 1875, però, ricomprerà la vecchia casa Moretta e il terreno, per fondarvi l'anno successivo il primo Oratorio femminile affi­dandolo alle Figlie di Maria Ausiliatrice.


42.4 3.5.4. Prato Filippi (via Cigna, angolo via Maria Ausiliatrice)

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Probabilmente nel febbraio 1846 don Bosco e il Borel affittarono un prato lì accanto, di proprietà dei fratelli Filippi, per raccogliervi la crescente massa di gio­vani ed evitare un ulteriore sfratto per occupazione di suolo pubblico o disturbo di privati.

Il prato si trovava a levante di casa Moretta, era cinto da una siepe e fornito di una vecchia baracca nella quale essi pote­vano riporre gli strumenti dei giochi (vedi fig.8).

Grazie al bel tempo primaverile lo spazio erboso poté servi­re sia per i giochi e la ginnastica che per la scuola di musica, il canto, la preghiera, le confessioni e la predicazione.


Alla bella meglio qui si faceva il Catechismo, si canta­vano lodi, si cantavano i Vespri, quindi il T. Borrelli od io montavamo sopra di una riva o sopra di una sedia e indi­rizzavamo il nostro sermoncino ai giovani, che ansiosi veni­vano ad ascoltarci.

Le confessioni poi si facevano così: Ne' giorni festivi di buon mattino io mi trovava nel prato dove già parecchi attendevano. Mettevami a sedere sopra di una riva ascoltando le confessioni degli uni mentre altri ne facevano la prepa­razione od il ringraziamento, dopo cui non pochi ripigliava­no la loro ricreazione. Ad un certo punto della mattinata si dava un suono di tromba, che radunava tutti i giovanetti, altro suono di tromba indicava il silenzio, che mi dava campo a parlare e segnare dove andavamo ad ascoltare la Santa Messa e fare la Comunione.

Talvolta, come si disse, andavamo alla Madonna di Campa­gna, alla Chiesa della Consolata, a Stupinigi o nei luoghi sopra mentovati” (MO 144).


I rumorosi assembramenti giovanili, però, cominciarono a preoccupare il marchese Michele Cavour, Vicario di Città, timoro­so di possibili disordini e tumulti. Egli convocò don Bosco, per conoscere direttamente il motivo e l'esatto svolgimento degli in­contri domenicali. Non soddisfatto, ne parlò con l'arcivescovo e per un certo periodo fece controllare le riunioni dell'Oratorio dalle guardie civiche. I controlli continueranno anche nei mesi successivi.

Ad aggravare la situazione giunse inaspettato lo sfratto an­che da parte dei fratelli Filippi, perché, dicevano, i ragazzi “calpestando ripetutamente il nostro prato faranno perdere fino la radice dell'erba”; i padroni erano disposti persino a condona­re la quota d'affitto purché il prato fosse lasciato libero entro quindici giorni (MO 148-149).

Di fronte a queste continue difficoltà parecchi amici e col­laboratori del Santo si scoraggiarono e lo invitarono ad “ab­bandonare l'inutile impresa”; alcuni, vedendolo preoccupato e sempre circondato da ragazzi, cominciarono a sospettare del suo equilibrio mentale. Persino il Borel ebbe un momento di dubbio e suggerì di ridurre temporaneamente tutta l'attività ad un cate­chismo per una ventina dei più piccoli (cf MO 149).

Probabilmente è questo il periodo nel quale due sacerdoti a­mici di don Bosco, preoccupati per la sua salute, tentarono inu­tilmente di farlo ricoverare in casa di cura (cf MO 152-153).

Fu in questa disperata situazione che, in una delle ultime domeniche trascorse sul prato Filippi, forse l’8 marzo 1846, si aprì uno spiraglio insospettato e decisivo:


In sulla sera di quel giorno rimirai la moltitudine di fanciulli, che si trastullavano; e considerata la copiosa messe, che si andava preparando pel sacro ministero, per cui era solo di operai, sfinito di forze, di sanità male anda­ta senza sapere dove avrei in avvenire potuto radunare i miei ragazzi. Mi sentii vivamente commosso.

Ritiratomi pertanto in disparte, mi posi a passeggiare da solo e forse per la prima volta mi sentii commosso fino alle lacrime. Passeggiando e alzando gli occhi al Cielo, mio Dio, esclamai, perché non mi fate palese il luogo in cui vo­lete che io raccolga questi fanciulli? O fatemelo conoscere o ditemi quello che debbo fare.

Terminava quelle espressioni, quando giunge un cotale di nome Pancrazio Soave che balbettando mi dice: È vero che cerca un sito per fare un laboratorio?

- Non un laboratorio, ma un Oratorio.

- Non so se sia lo stesso Oratorio o laboratorio; ma un sito c'è, lo venga a vedere. È di proprietà del Sig. Giu­seppe Pinardi,(ndr.: correggi in Francesco) onesta persona. Venga e farà un buon contratto” (MO 153-154).


La datazione di questi avvenimenti nelle Memorie dell'Orato­rio e nei testi che da esse dipendono, è un po' incerta. Sulla scorta di documenti recentemente ritrovati è possibile indicare questa successione dei fatti:

- affitto di prato Filippi nel febbraio 1846;

- i fratelli Filippi disdicono l'affitto all’inizio di marzo, con il termine di quindici giorni;

- incontro col Pancrazio Soave la domenica 8 marzo;

- contratto per l'affitto di una tettoia tra il teol. Borel e Francesco Pinardi nei giorni immediatamente successivi (datato però al 1° aprile 1846);

- tra la stesura del contratto e domenica 12 aprile si effet­tuano i lavori di adattamento della tettoia ad uso cappella;

- nel frattempo si continua ad utilizzare il prato Filippi, probabilmente fino alla domenica 5 aprile;

- 12 aprile, domenica di Pasqua, trasferimento ufficiale dell'Oratorio nella Cappella Pinardi.

A conferma della successione di questi avvenimenti abbiamo una lettera, trovata recentemente, al Vicario di Città in data 13 marzo 1846, nella quale don Bosco scrive tra l’altro:


Durante quest’inverno l’abbiamo fatto (ndr.: il catechismo) parte in nostra casa e parte in varie camere prese a pigione. Finalmente la settimana corrente siamo venuti a trattativa di un sito col Sig.r Pinardi con cui fu pattuita la somma di franchi ducento ottanta per una camera grande, che può servire di Oratorio, più altre due camere con sito aderente. Questo luogo ci sembra essere conveniente sia perché trovasi molto vicino al Rifugio, come anche per essere in un posto affatto distante da ogni Chiesa, e vicino a parecchie case; resta solo che Ella ci manifesti se vada bene in ciò che concerne alla società civile, ed esteriore”.

(G. Bosco, Epistolario. Introduzione, testi critici e note a cura di F. Motto, vol. 1: [1835-1863], Roma, LAS 1991, pp. 66-67).


43 3.6. L'Oratorio a casa Pinardi

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(dal 12 aprile 1846)



Quando don Bosco, accompagnato da Pancrazio Soave e da Fran­cesco Pinardi visita per la prima volta la tettoia appoggiata sul lato nord di casa Pinardi, rimane interdetto e sulle prime rifiu­ta la proposta: “Non mi serve, perchè troppo bassa”. Ma, per le insistenze del Pinardi che si dice disposto ad adattare l'ambien­te e ad abbassare il pavimento di mezzo metro circa per renderla agibile, don Bosco cede. Viene fissato un fitto di 320 lire annue per l'uso della tettoia e della striscia di terreno che le sta di fronte e a lato (cf MO 155).

I lavori di adattamento vengono svolti tra marzo e la prima decade d'aprile, cosicché per il giorno di Pasqua (12 aprile 1846) la tettoia, trasformata in cappella, accoglie i ra­gazzi dell'Oratorio. Viene benedetta dal teologo Borel il giorno successivo.

Conviene notare, che in tutto questo periodo don Bosco con­tinua ad abitare insieme al teologo Borel presso le opere della Barolo e a svolgervi il suo ministero di cappellano.


43.1 3.6.1. La Cappella Pinardi

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La tettoia affittata per l'Oratorio era di costruzione re­cente. Infatti quando Francesco Pinardi, il 14 luglio 1845, aveva stipulato con i tre fratelli Giovanni, Antonio e Carlo Filippi il contratto di acquisto della casa e del terreno (per 14.000 lire), essa non esisteva. L'aveva costruita nel novembre successivo, con l'intenzione di adibirla a magazzino oppure ad officina artigia­nale.

Quando, sei mesi dopo, il Borel, a nome di don Bosco, firmò il contratto d'affitto, probabilmente non era ancora stata usata da alcuno.

43.1.1 L'ambiente

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Dopo i lavori di adattamento eseguiti dal Pinardi, la tet­toia risultò divisa in tre locali: la cappella propriamente det­ta, che era uno stanzone stretto e lungo una quindicina di metri; altre due stanzette utilizzate l'una come sacrestia e l'altra co­me coretto e deposito (vedi fig. 5).

Si entrava nella cappella da ponente, scendendo due scalini, per cui “d'inverno - scrive don Bosco - e nel tempo piovoso e­ravamo allagati, mentre di estate eravamo soffocati dal caldo e dal tanfo eccessivo” (MO 206). La stanza era illuminata da sette piccole finestrelle aperte nel muro verso il cortile, mentre non aveva alcuna comunicazione con la casa Pinardi cui era addossata. Di fianco al povero altare una porta volante immetteva in sacre­stia.

Le travi che reggevano il tetto a spiovente erano state co­perte da un controsoffitto orizzontale in legno; così l'al­tezza dell'ambiente superava di poco i due metri. In tal modo, sul piccolo pulpito, collocato a metà della cappella contro la parete a nord, potevano salire soltanto il Borel e don Bosco che erano bassi di statura. E quando, il 29 giugno 1847, mons. Fran­soni venne per la prima volta nella cappella ad amministrare le Cresime, dovette fare a meno della mitra per non urtare contro il soffitto (cf MO 179).

Progressivamente don Bosco arredò la cappella con povere e poche effigi sacre, espressione di quella spiritualità e di quel­le devozioni che diventeranno tradizionali all'Oratorio.

L'altare, in legno, era quello della primitiva cappella dell'Ospedaletto e fu collocato verso levante. Su di esso venne appeso un quadro di san Francesco di Sales, portato dal Rifugio. Al santo vescovo continuò ad essere dedicato l'Oratorio come pure la cappella.

In una nicchia nel muro a destra della porta di ingresso si collocò una statuetta di san Luigi Gonzaga. Per suscitare negli oratoria­ni la devozione a questo modello di santità giovanile, don Bosco introdusse la pratica delle sei domeniche e della no­vena in suo onore, stampandone le preghiere in un libretto appo­sito. Il 21 maggio 1847 venne fondata la Compagnia di san Luigi (il cui regolamento era stato approvato in aprile da mons. Fran­soni), alla quale appartenevano i ragazzi migliori. Inoltre, a partire dall'autunno del 1847 fin quasi al termine del 1848, in o­gni prima domenica del mese veniva fatta una piccola processione nel recinto dell'Oratorio, portando la statuetta del santo.

Per le feste e le processioni della Madonna, si utilizzava una statua di Maria Consolatrice, acquistata il 2 settembre 1847 al prezzo di 27 lire e collocata in una nicchia quasi di fronte al piccolo pulpito. Oggi questa artigianale statua costituisce l'unico ricordo della primitiva cappella.

Sulle pareti vi erano poi quattordici quadretti della Via Crucis, comperati per 12 lire e benedetti il 1° aprile 1847, Gio­vedì Santo. In quell'occasione si eseguì per la prima volta la breve pratica devozionale della Via Crucis, nella versione adat­tata da don Bosco per i ragazzi e pubblicata nel Giovane provve­duto, cioè nel libro di preghiere edito pochi mesi prima.

Fin dalle riunioni domenicali in san Francesco d'Assi­si il canto sacro aveva acquistato un ruolo caratterizzante nelle attività dell'Oratorio. Perciò don Bosco, appena se ne presentò l'occasione, fece l'acquisto di un minuscolo organetto per soste­nere le voci dei ragazzi; lo pagò 35 lire, il 5 novembre 1847.

Povere suppellettili completavano l'arredamento della chie­setta: 24 piccoli banchi e due inginocchiatoi, tendine rosse alle finestre, alcuni vasi di fiori ed una lampada di cristallo presso l'altare (cf ODB 67-75).

Ad indicare la presenza della cappella e a scandire i ritmi della vita oratoriana, sul culmine del tetto, in un rudimentale campanile, era stata posta una campana di 22 Kg. circa, offerta dal teologo Ignazio Vola nel novembre del 1846 (ODB 96).

Le due stanzette collocate dietro la cappella avevano ognuna una finestra, una porta aperta sul cortile e un caminetto con cappa in legno. Dopo qualche tempo don Bosco, per allungare la cappella ormai insufficiente, eliminò il primo di questi locali, spostando la sacrestia nel secondo.

La tettoia Pinardi fu usata come cappella per sei anni, cioè fino al 20 giugno 1852, data di inaugurazione della chiesa di san Francesco di Sales. Venne quindi adibita a sala di studio e di ricreazione ed anche a dormitorio fino al 1856, quando la si de­molì insieme a casa Pinardi.


43.1.2 Gli avvenimenti

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L'Oratorio finalmente ha trovato un ambiente stabile, anche se povero: il numero dei ragazzi, attratti dalle funzioni solen­ni, dalla musica e dai giochi, aumenta notevolmente; parecchi sa­cerdoti collaboratori, che si erano ritirati nei mesi precedenti, ritornano ad aiutare don Bosco.

La vita oratoriana assume un ritmo più regolare intorno alla cappella, che si rivela subito il cuore dell'Oratorio:


Le funzioni si facevano così. Ne' giorni festivi di buon mattino si apriva la chiesa: e si cominciavano le confessio­ni, che duravano fino all'ora della messa. Essa era fissata alle ore otto, ma per appagare la moltitudine di quelli, che desideravano confessarsi, non di rado era differita fino al­le nove ed anche di più. Qualcuno de' preti, quando ce n'e­rano, assisteva, e con voce alternata recitava le orazioni. Tra la messa facevano la s. comunione quelli che erano pre­parati. Finita la messa e tolti i paramentali io montava sopra una bassa cattedra per fare la spiegazione del Vange­lo, che allora si cangiò per dare principio al racconto re­golare della Storia Sacra. Questi racconti, ridotti a forma semplice e popolare, vestiti dei costumi dei tempi, dei luo­ghi, dei nomi geografici coi loro confronti, piacevano assai ai piccolini, agli adulti ed agli stessi ecclesiastici che trovavansi presenti. Alla predica teneva dietro la scuola che durava fino a mezzo giorno.

Ad un'ora pom. cominciava la ricreazione, colle bocce, stampelle, coi fucili, colle spade in legno, e coi primi at­trezzi di Ginnastica. Alle due e mezzo si dava principio al catechismo. L'ignoranza in generale era grandissima. Più volte mi avvenne di cominciare il canto dell'Ave Maria, e di circa quattrocento giovanetti, che erano presenti, non uno era capace di rispondere, e nemmeno di continuare, se cessa­va la mia voce.

Terminato il catechismo, non potendosi per allora cantare i Vespri, si recitava il Rosario. Più tardi si cominciò a cantare l'Ave Maris Stella, poi il Magnificat, poi il Dixit (ndr.: il salmo 109), quindi gli altri salmi; e in fine un'Antifona e nello spazio di un anno ci siamo fatti capaci di cantare tutto il Vespro della Madonna.

A queste pratiche teneva dietro un breve sermoncino, che per lo più era un e­sempio, in cui si personificava un vizio o qualche virtù. O­gni cosa aveva termine col canto delle Litanie, e colla bene­dizione del SS. Sacramento.

Usciti di chiesa cominciava il tempo libero in cui cia­scuno poteva occuparsi a piacimento. Chi continuava la clas­se di catechismo, altri del canto, o di lettura, ma la mag­gior parte se la passava saltando, correndo e godendosela in varii giuochi e trastulli (...).

Sul far della notte, con un segno di campanello erano tutti raccolti in chiesa, dove si faceva un po' di preghiera o si recitava il Rosario coll'Angelus, ed ogni cosa compie­vasi col canto di Lodato sempre sia etc.

Usciti di chiesa mettevami in mezzo di loro, li accompa­gnava mentre essi cantavano o schiamazzavano. Fatto la sali­ta del Rondò si cantava ancora qualche strofa di laude sa­cra, di poi si invitavano per la seguente domenica, ed augu­randoci a vicenda ad alta voce la buona sera, ognuno se ne andava pei fatti suoi” (MO 158-161).


L'esperienza che va crescendo intorno alla cappella-tettoia attira l'attenzione da più parti. Diverse persone in questi primi tempi visitano l'opera. La marchesa Barolo, che segue con simpa­tia, ma anche con crescente apprensione don Bosco e la sua atti­vità, è tra le prime a recarvisi, nell'estate del 1846: vista la miseria e i disagi dell'ambiente, tenta ancora una volta di con­vincere il Santo a dedicarsi totalmente al Rifugio e all'Ospeda­letto preoccupata del suo stato di salute.

Nel corso del 1848-1849, quando don Bosco si ritrova nuova­mente abbandonato dalla maggior parte dei collaboratori (questa volta per motivi politici), riceve la visita di due sacerdoti a lui sconosciuti, uno dei quali è il celebre Antonio Rosmini. Le modalità dell'incontro sono curiose:


Nel cominciare il catechismo era tutto in moto per ordi­nare le mie classi, allora che si presentano due ecclesia­stici, i quali in contegno umile e rispettoso venivano a rallegrarsi con me e dimandavano ragguaglio sull'origine e sistema di quella istituzione. Per unica risposta dissi: - Abbiano la bontà di aiutarmi. Ella venga in coro, ed avrà i più grandicelli; a Lei, dissi all'altro di più alta statura, affido questa classe che è di più dissipati. - Essendomi accorto che facevano a maraviglia il catechismo, pregai uno a regalare un sermoncino ai nostri giovani, e l'altro a com­partirci la benedizione col Venerabile. Ambidue accondisce­sero graziosamente.

Il Sacerdote di minore statura era l'Abate Antonio Rosmi­ni, fondatore dell'Istituto della Carità; l'altro era il Can. Arciprete De Gaudenzi, ora Vescovo di Vigevano, che d'allora in poi l'uno e l'altro si mostrarono sempre benevo­li, anzi benefattori della Casa” (MO 203).


Ma non mancarono visite che certo non erano di cortesia: quelle - per un certo periodo assidue - delle guardie inviate dal marchese Cavour.


Mandava ogni domenica alcuni arceri o guardie civiche a passare con noi tutta la giornata, vegliando sopra tutto quello che in chiesa o fuori di chiesa si diceva o si face­va.

- E bene, disse il Marchese Cavour ad una di quelle guar­die, che cosa avete veduto, udito in mezzo a quella marma­glia?

- Sig. Marchese, abbiamo veduto una moltitudine immensa di ragazzi a divertirsi in mille modi: abbiamo udito in chiesa delle prediche che fanno paura. Si raccontarono tante cose sull'inferno e sui demonii, che mi fecero venir volontà di andarmi a confessare.

- E di politica?

- Di politica non si parlò punto, perché quei ragazzi non ne capirebbero niente” (MO 164).


L'ordine sospettoso del Marchese - commenta don Lemoyne - produsse un gran bene spirituale a quasi tutte le guardie. Esse (...), che mai non avevano sentito predicare queste ve­rità e che da anni non si erano più confessate, commosse e piene di spavento, appena D. Bosco finiva la predica, gli si accostavano chiedendo che volesse udirle in confessione” (MB 2, 447).


Ben presto l'assistenza religiosa e l'istruzione catechisti­ca offerta nella cappella Pinardi producono effetti positivi. Don Bosco può iniziare a selezionare alcuni dei suoi stessi giovani in vista di una eventuale condivisione dell'impegno apostolico. A questo scopo, nel 1848, inizia la tradizione degli esercizi spi­rituali:


Io adoperava tutti i mezzi per conseguire eziandio uno scopo mio particolare, che era studiare, conoscere, sceglie­re alcuni individui che avessero attitudine e propensione alla vita comune e riceverli meco in casa.

Con questo medesimo fine in questo anno (1848) ho fatto esperimento di una piccola muta di esercizi spirituali” (MO 188-189).


Fin da questi primi anni si manifesta la benedizione del Si­gnore sull'opera dell'Oratorio anche attraverso particolari segni prodigiosi riferiti da don Lemoyne, come la moltiplicazione delle ostie durante una festa della Madonna nel 1848 (cf MB 3, 441-442) o quella delle castagne nel novembre 1849, sulla porta di cappella Pinardi (cf MB 3, 575-578).

43.1.3 La cappella attuale

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Nel 1856 furono abbattute casa e cappella Pinardi per la co­struzione di un edificio più solido e capiente. Sull'area occupa­ta dall'antica chiesetta venne ricavato un vano adibito a refet­torio per don Bosco e i primi Salesiani. Alla sua povera mensa si sedettero tanti amici e benefattori, tra cui Giuseppe Sarto e A­chille Ratti che diventeranno rispettivamente Pio X e Pio XI (cf ODB 80). I superiori maggiori della Congregazione utilizzarono questo refettorio fino al 1927. In quell'anno don Filippo Rinal­di, terzo successore di don Bosco, volle che l'ambiente fosse trasformato in cappella, a ricordo della primitiva chiesetta dell'Oratorio.

La cappella, inaugurata il 31 gennaio 1928, viene chiamata ancor oggi, anche se impropriamente, Cappella Pinardi.

Sulla parete dietro l'altare, una tela del pittore Paolo Giovanni Crida rappresentante la Risurrezione di Cristo, ricorda la Pasqua 1846, giorno in cui Don Bosco inaugura l'antica cappella Pinardi. immagine efficace della santità giovanile proposta a Valdocco: una vita liberata dal peccato e rigenerata nella grazia del Risorto, piena di gioia e di luce.

L'altare, progettato dall'architetto Valotti, è sorretto da quattro colonne di onice. Il mosaico sottostante rappresenta l'A­gnello immolato che redime l'umanità col suo sangue. Egli è la vite alla quale sono innestati i tralci degli Apostoli, raffigurati nei simboli del loro martirio. Le parole di Gesù, con il mandato di annunciare il Vangelo a tutti i popoli, ricordano l'origine e lo scopo dell'Oratorio: “Euntes docete omnes gentes, praedicate evangelium universo mundo” (Andate a insegnate a tutte le genti, predicate il Van­gelo a tutto il mondo). Il tabernacolo, in rame sbalzato e smal­tato, opera della scuola Beato Angelico di Milano, col simbolo del pesce e la scritta Emmanuel adorabilis, allude alla presenza eucaristica del "Dio con noi".

Nella volta sopra l'altare, dominata dall'emblema eucaristico, si leggono le parole: “Haec dies quam fecit Dominus: exultemus et laetemur in ea” (Questo è il giorno che ha fatto il Signore: esultiamo e rallegriamoci in es­so), che ricordano la letizia della Risurrezione e la gioia del­la Pasqua memoranda del 1846. I simboli dell'uva e delle spighe, ripresi anche nella balaustra in ferro battuto - immagini del “cibo di vita eterna” che unisce il lavoro dell'uomo al sacrificio eucaristico -, sono un rimando alla spiritualità del dovere quotidiano e all'impegno di don Bosco per la Comunione frequente.

Nell'arco antistante l'altare si legge la sequenza Victi­mae paschali, mentre nel sott'arco sono graffite le allegorie dei sette sacramenti. Il sacramento della Penitenza, ritenuto da don Bosco elemento chiave della vita spirituale, è collocato al centro con la scritta Claves Regni Cœlorum (chiavi del regno dei cieli).

Il secondo arco al centro della cappella, con l'antifona pasquale Regina Cœli, simboleggia Maria santissima modello di virtù. Le raffigurazioni allegoriche richiamano aspetti che caratterizzano la verginità della Madre di Gesù: l'amore ardente, l'intimità con Dio e la custodia del cuore; l'impenetrabilità al peccato, la disponibilità alla chiamata e la fecondità verginale. Il giglio tra le spine, al centro della volta, rievoca l'importanza attribuita da Don Bosco alla castità, virtù insidiata ma non impossibile con l'aiuto della Vergine.

Presso l'altare, a destra, la statua della Conso­lata riproduce quella antica, collocata nella primitiva cappella nel 1847 ed ora conservata nel museo delle camere di don Bosco: unico cimelio rimasto del­la primitiva cappella Pinardi. Nel 1856, quando casa Pinardi fu abbattuta, don Francesco Giacomelli, antico compagno di semina­rio, si fece regalare la statua da don Bosco. La tenne presso di sé all'Ospedaletto, dov'era cappellano; poi, nel 1882 la collocò in un pilone votivo ad Avigliana, suo paese natale. Ivi rimase per 46 anni finché, nel 1929, fu restituita ai Salesiani.

Nelle volte sono incisi i monogrammi di Cristo e di Maria circondati da rose selvatiche e passiflora, richiamo alla fecondità della sofferenza accettata con amore.

Una fascia di piccole croci partendo dall'altare avvolge tutta la cappella: le nostre croci quotidiane, unite a quella di Gesù, sono strumenti di purificazione personale e di trasformazione cristiana dell'ambiente.

Sulla parete di fondo, ove anticamente era l'entrata della tettoia-cappella, un'artistica lapide sintetizza la fase itine­rante dell'Oratorio. Un'altra lapide, sulla parete sinistra ri­corda l'ospitalità concessa da don Bosco ad Achille Ratti, il futuro pa­pa Pio XI, che avrà la sorte di beatificarlo nel 1929 e proclamarlo santo nel 1934. Una terza lapide, infine, commemora la presenza di don Bosco che qui “pregò e celebrò - dispensando ai suoi giovani i divini misteri - e poi per circa trent'anni - tra queste pareti - divise coi suoi figli - il pane della Provvidenza - mentre dava loro a gustare - anche le dolcezze della sua paternità”.


43.2 3.6.2. Don Bosco a casa Pinardi

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Il 5 giugno 1846 don Bosco otteneva in subaffitto da Pancra­zio Soave tre camere attigue, al piano superiore di casa Pinardi, verso levante. Nel contratto il canone era fissato in lire 5 al mese per ciascuna camera, a decorrere dal 1° luglio 1846 fino al 1° gennaio 1849. Il Santo era giunto a questa decisione nella previsione di un distacco definitivo dalle opere della Barolo. Si stava infatti manifestando l'incompatibilità dei due impegni, vi­sto che l'Oratorio diventava qualcosa di molto più articolato e impegnativo di una semplice riunione domenicale.


43.2.1 Avvenimenti della primavera-estate 1846

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Con l'inaugurazione della cappella don Bosco dedica il mas­simo delle energie al consolidamento dell'Oratorio, senza peral­tro trascurare gli impegni assunti all'Ospedaletto e le moltepli­ci attività pastorali che gli vengono proposte un po' ovunque. La sua salute ne risente notevolmente e la marchesa Barolo, sincera­mente preoccupata, interviene con decisione. Si incontra con don Bosco per invitarlo a moderare la sua attività frenetica e scrive al Borel una lunga lettera (18 maggio 1846) per chiarire il suo pensiero: non vuole la fine dell'Oratorio, ma teme per la stessa vita di don Bosco. Tra l'altro scrive:


Poche settimane dopo che fu stabilito con Lei, M.R.do Sig. Teologo, tanto la Superiora del Rifugio come io, abbiamo veduto che la sua salute non gli permetteva nessuna fatica. Si ricorderà quante volte le ho raccomandato di averne riguardo e lasciarlo riposare ecc. ecc. Non mi dava retta; diceva che i preti dovevano lavorare ecc.

La salute di D. Bosco peggiorò sino alla mia partenza per Roma; intanto egli lavorava, era ammalato, sputava sangue. Fu allora che ricevei una lettera di Lei, Sig. Teologo, dove mi diceva che D. Bosco non era più nel caso di coprire l’impiego confidatogli. Subito risposi che io era pronta a continuare a D. Bosco il suo stipendio, con patto che non facesse più nulla, e son pronta a tenere la mia parola. Ella, Sig. Teologo, crede che non è far nulla confessare, esortare centinaja di ragazzi; io credo che nuoce a D. Bosco, e credo necessario che si allontani abbastanza da Torino per non essere nel caso di stancare così i suoi polmoni. (...)

Ella ha tanta carità, Sig. Teologo, che sicuramente mi sono meritata l’opinione sfavorevole che ha di me, facendomi chiaramente conoscere che io voglio impedire la Dottrina che si fa la domenica ai ragazzi e le cure che se ne prendono lungo la settimana. Credo l’opera ottima in sé e degna delle persone che l’hanno intrapresa; ma credo da una parte che la salute di D. Bosco assolutamente non gli permetta di continuare, e da altra parte credo che la radunanza di questi ragazzi che prima aspettavano il loro Direttore alla porta del Rifugio, e adesso lo aspettano alla porta dell’Ospedaletto, non è conveniente. (...)

Per riassumere, [1.] approvo e lodo l’opera dell’istruzione ai ragazzi, ma trovo soggetta a pericolo la radunanza alle porte de’ miei stabilimenti per la natura delle persone che ivi si trovano. 2. Come credo in coscienza che il petto di D. Bosco ha bisogno d’un riposo assoluto, non gi continuerò il piccolo stipendio che egli vuol ben gradire da me, fuorché a condizione che si allontani abbastanza da Torino, per non essere nell’occasione di nuocere gravemente alla sua salute, la quale mi preme tanto più quanto più lo stimo.

Io so, M. R.do Sig. Teologo, che non siamo dello stesso sentimento su questi punti. Se non sentissi la voce della mia coscienza, sarei come al solito pronta a sottomettermi al suo giudizio”.


(Da: Archivio Salesiano Centrale – Roma, Fondo Don Bosco, microf. 541.B5-8).


Verso la fine di maggio, la marchesa, visti inutili gli sforzi precedenti, pone don Bosco di fronte ad una scelta: se vuol continuare a ricevere lo stipendio deve troncare quel ritmo, a suo parere eccessivo, di impegno oratoriano. Il giovane prete, che ormai è certo della sua missione, risponde: “Ci ho già pensa­to, signora Marchesa. La mia vita è consacrata al bene della gio­ventù. La ringrazio delle profferte che mi fa, ma non posso al­lontanarmi dalla via che la divina Provvidenza mi ha tracciato” (MO 151). Viene così fissato il termine del suo impiego come Di­rettore dell'Ospedaletto con la fine dell'agosto 1846.


Nel frattempo, come prevedeva la marchesa, la salute di don Bosco raggiunge uno stato preoccupante:


I molti impegni che io aveva nelle carceri, nell'Opera Cottolengo, nel Rifugio, nell'Oratorio e nelle scuole fa­cevano sì, che dovessi occuparmi di notte per compilare i libretti che mi erano assolutamente necessari. Per la qual cosa la mia sanità, già per se stessa assai cagionevole, de­teriorò al punto che i medici mi consigliarono a desistere da ogni occupazione. Il Teologo Borrelli, che assai mi ama­va, per mio bene mi mandò a passare qualche tempo presso al curato di Sassi. Riposava lungo la settimana; la domenica mi recava a lavorare all'Oratorio. Ma ciò non bastava. I giova­netti a turbe venivano a visitarmi; a costoro si aggiunsero quelli del paese. Sicché era disturbato più che a Torino, mentre io stesso cagionava immenso disturbo ai miei piccoli amici” (MO 170-171).


Un giorno, sul principio di luglio, giunge a Sassi uno stuo­lo (circa 400!) di allievi dei Fratelli delle Scuole Cristiane, per confessarsi poiché avevano terminato gli esercizi spirituali. Don Bosco, insieme ad altri sacerdoti del posto, si presta al ministero, ma la fatica è tale da causare il tracol­lo:


Venuto a casa, fui preso da sfinimento, portato a letto. La malattia si manifestò con una bronchite, cui si aggiunse tosse ed infiammazione violenta assai. In otto giorni fui giudicato all'estremo della vita. Aveva ricevuto il SS. Via­tico, l'Olio santo. Mi sembra che in quel momento fossi pre­parato a morire; mi rincresceva di abbandonare i miei giova­netti, ma era contento che terminava i miei giorni dopo aver dato una forma stabile all’Oratorio” (MO 172).


I giovani dell'Oratorio, saputo che don Bosco era in fin di vita, spinti dall'affetto grande che li legava all'amico, si ag­grapparono disperatamente alla preghiera:


Spontaneamente pregavano, digiunavano, ascoltavano mes­se, facevano comunioni. Si alternavano passando la notte in preghiera e la giornata avanti l'immagine di Maria Consola­trice. Al mattino si accendevano lumi speciali, e fino a tarda sera erano sempre in numero notabile a pregare e scon­giurare l'augusta Madre di Dio a voler conservare il povero loro D. Bosco.

Parecchi fecero voto di recitare il Rosario intiero per un mese, altri per un anno, alcuni per tutta la vita. Né mancarono quelli che promisero di digiunare a pane ed acqua per mesi, anni ed anche tutta la vita. Mi consta che parec­chi garzoni muratori digiunarono a pane ed acqua delle inte­re settimane punto non rallentando da mattino a sera i pe­santi loro lavori. Anzi, rimanendo qualche breve tratto di tempo libero andavano frettolosi a passarlo davanti al SS. Sacra­mento.

Dio li ascoltò! Era un sabato a sera e si credeva quella notte essere l'ultima di mia vita; così dicevano i medici, che vennero a consulto; così ne era io persuaso, scorgendomi affatto privo di forze con perdite continue di sangue. A tarda notte mi sentii tendenza a dormire. Presi sonno, mi svegliai fuori di pericolo” (MO 172-173).


Per recuperare le forze gli fu consigliato di ritirarsi al­meno per tre mesi ai Becchi, e così fece. Prima di partire, sul principio di agosto, appigionò da Pietro Clapié, inquilino del Soave, una quarta stanza di casa Pinardi, sempre al piano supe­riore (cf MB 2, 500). Il teologo Borel si incaricò di seguire i lavori di riparazione e pulitura degli ambienti, in modo che don Bosco potesse trasferirvisi.

Nel frattempo le riunioni domenicali dell'Oratorio e le scuole continuavano sotto la direzione del Borel, coadiuvato dai teologi Vola e Càrpano, da don Trivero e da don Pacchiotti.


43.2.2 Trasferimento in casa Pinardi

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Il 3 novembre 1846, terminata la convalescenza ai Becchi, don Bosco si trasferisce nelle quattro stanzette di casa Pinardi. È accompagnato da mamma Margherita, decisa a seguire il figlio, che ora è senza impiego e senza alcun introito, per aiutarlo e sostenerlo nel lavoro apostolico. La sua presenza a Valdocco, dettata anche da motivi di prudenza, dato il tipo di gente che a­bitava la zona, risulta determinante quando il figlio deciderà di accogliere in casa i primi orfani.

Nelle quattro stanzette si viveva nella povertà e nella pre­carietà. Il solo fitto della cappella e delle stanze arrivava al­le 600 lire annue; a questo si aggiungevano le spese di sussi­stenza e quelle per le feste, le lotterie, le merende e i soccor­si ai ragazzi più poveri dell'Oratorio. Si affidarono alla Prov­videnza e gli aiuti giunsero da più parti. Da un quadernetto del teologo Borel sappiamo che don Cafasso pagava i fitti e che di­verse elemosine giungevano da ecclesiastici e laici di ogni con­dizione. Anche la marchesa Barolo continuò i suoi aiuti, sia pure in modo anonimo, attraverso don Cafasso.

Le difficoltà economiche non spaventano don Bosco il quale continua ad ampliare le sue attività. A questo scopo, il 1° di­cembre 1846 subaffitta tutta casa Pinardi, col terreno circostan­te. Pancrazio Soave però utilizza ancora il pian terreno per il suo lavoro, fino al 1° marzo 1847. Spirato il contratto col Soa­ve, il teologo Borel contrae una nuova locazione direttamente col proprietario Pinardi, dal 1° aprile 1849 fino al 31 marzo 1852. Il Pinardi nel contratto dichiara di concedere l'affitto a sole lire 1150 per favorire l'opera benefica intrapresa nella sua casa. Tuttavia il 19 febbraio 1851, un anno prima della scadenza dei termini d'affitto, Francesco Pinardi venderà per 28.500 lire “in comune ai sacerdoti G. Bosco, teol. Giov. Borel, teol. Rober­to Murialdo, Giuseppe Cafasso, i terreni e fabbricati che avevano per coerenti i fratelli Filippi a levante e a notte, la strada della Giardineria a giorno, e la signora Bellezza a ponente” (ODB 99).


43.2.3 Come si presentava la casa

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La facciata era rivolta a mezzogiorno, e solo da questo la­to aveva porte e finestre. La parte ad uso abitazione era compo­sta di un piano terreno e di un piano superiore molto bassi, ed occupava lo spazio degli attuali portici presso la chiesa di San Francesco di Sales per una lunghezza di poco più di 20 metri e 6 di larghezza. L'altezza della casa non oltrepassava i sette me­tri.

A metà circa, in faccia alla scala, si apriva un stretta porta d'entrata, presso la quale all'esterno, dalla parte di le­vante, era fissata al muro una vasca di pietra con una pompa che gettava acqua abbondante e fresca. La casa aveva una dozzina di stanze. Nell'interno del pian terreno, dietro alla pompa, una porticina metteva in una stanzetta oblunga con una sola finestra, che servì in seguito anche da sala da pranzo a don Bosco e ai suoi primi collaboratori.

Per la scaletta di legno di una sola rampa, costruita dal Pinardi e rifatta poi in pietra da don Bosco, salivasi al piano superiore, e quivi per un pianerottolo entravasi a sinistra in u­na stanzuccia corrispondente alla sottostante camera da pranzo; di fronte si usciva sopra un ballatoio di legno che correva per tutta la lunghezza della facciata, e sul quale si aprivano le porte di quattro stanze che avevano ciascuna anche una finestra. Nel medesimo ordine stavano altre quattro stanze al pianterreno. Un abbaino dava luce e aria ai sottotetti, e quasi nel mezzo del­la casa era scavata la piccola cantina.

Dietro a questa abitazione era appoggiata, come già fu det­to, la tettoia-cappella press'a poco colle stesse dimensioni del­la casa in lunghezza e larghezza.

Accanto alla casa Pinardi, sul luogo dove ora sta l'androne che mette dal primo nel secondo cortile, eravi un altro poveris­simo locale più basso, e che occupava quasi tutto il fianco dell'intero edifizio.

Composto di due vani uguali, quello a mezzogiorno con porta e finestra, prima aveva servito per stalla, mutata poi in stanza; quello a mezzanotte era usato per legnaia.

Sopra eravi lo spazio pel fienile (...).

Nel contratto d'affitto che don Bosco rinnovò dall'aprile del 1849 al marzo del 1852, si fa anche cenno d'una tettoia che unisce la casa colla cinta a notte. Fu il primo e l'unico amplia­mento (se così possiamo chiamarlo) dell'Oratorio, prima della co­struzione della chiesa di San Francesco di Sales, e serviva so­prattutto per la ricreazione al coperto.

Nell'estate del 1849 don Bosco fece riattare il misero edi­fizio che era appoggiato al fianco orientale della casa, formando della legnaia, della stalla e della nuova tettoia una sola stanza abbastanza vasta, da servire per le accademie e per le recite teatrali, specialmente nella cattiva stagione, quando non poteva servire il palco che veniva collocato all'aperto, nel cortiletto accanto alla cappella” (ODB 100-102).


43.2.4 Il terreno circostante

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Il terreno attorno a casa Pinardi misurava mq. 3697 ed era quasi tutto coltivato a prato con alberi.

La striscia a settentrione (vedi fig. 7, n. 1), dietro la cappella, lunga u­na sessantina di metri, ma larga soltanto 8, fu il primo cortile dell'Oratorio.

Ad occidente, dov'era l'entrata della cappella, sull'area in cui oggi sorge la chiesa di san Francesco di Sales, un prato ir­regolare (vedi fig. 7, n. 2) di circa metri 31 per 20 fu destinato da don Bosco a centro della ricreazione dei giovani, impiantandovi anche l'alta­lena con altri attrezzi di ginnastica.

La parte di terreno ad oriente, tra la stalla e la pro­prietà dei fratelli Filippi (vedi fig. 7, n. 3), era riservata per il foraggio dei conigli.

Infine, sul fronte di casa Pinardi (vedi fig. 7, n. 4), gran parte del ter­reno fu coltivata ad orto (cf ODB 102-104). Questo veniva chiama­to l'orto di mamma Margherita: una risorsa provvidenziale per la buona donna, che lo curava con sollecitudine. Più tardi sarà eli­minato per dare più spazio alle ricreazioni dei ragazzi, i quali, nella foga del gioco, spesso lo invadevano. Si ricorda in parti­colare la "devastazione" operata dai ragazzi durante le finte battaglie organizzate da Brosio il Bersagliere, nel periodo di infatuazione patriottica popolare tra 1848 e 1849 (cf MB 3, 439-440).


43.2.5 La stanza di don Bosco in casa Pinardi

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Non sappiamo quale delle quattro stanze affittate al primo piano fosse quella occupata da don Bosco nel novembre del 1846. Sappiamo però con certezza che, dopo qualche tempo, per sfuggire a rumori notturni prodotti in soffitta da cause misteriose, si spostò nella prima stanza a levante, e qui rimase fino alla costruzione del nuovo edificio (1853). I disturbi che non lo facevano dormire continuarono anche nella nuova sistemazione, fino a quan­do don Bosco non collocò un quadretto della Madonna nel solaio. L'ambiente gli serviva anche da studio e da stanza di ricevimen­to. Sull'architrave esterna della porta aveva fatto scrivere la giaculatoria Sia lodato Gesù Cristo.

In questa stanza avviene il celebre sogno del pergolato di rose. Don Bosco vede la missione sua e dei suoi collaboratori a favore dei giovani come un lungo cammino, solo apparentemente fa­cile, in realtà irto di difficoltà (le spine nascoste sotto le rose del sentiero). Tuttavia, sotto la guida della Vergine e spinti da una grande carità pastorale (simboleggiata dalla rosa), don Bosco e quelli che hanno il coraggio di seguirlo riusciranno a compiere la missione loro affidata (cf MB 3, 32-37).

Mamma Margherita abitava la stanza accanto a quella del fi­glio (MB 3, 228-230).


43.2.6 Organizzazione e sviluppo dell'Oratorio in casa Pinardi

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Il fatto di aver trovato una sede stabile e definita all'O­ratorio, permette a don Bosco di riflettere sull'esperienza fin qui condotta e di fissare le basi organiche degli aspetti orga­nizzativi, disciplinari, formativi ed amministrativi dell'opera:


Stabilita così regolare dimora in Valdocco mi sono mes­so con tutto l'animo a promuovere le cose che potevano con­tribuire a conservare l'unità di spirito, di disciplina e di amministrazione. Per prima cosa ho compilato un Regolamento, in cui ho semplicemente esposto quanto si praticava nell'O­ratorio, e il modo uniforme con cui le cose dovevano essere fatte (...). Il vantaggio di questo piccolo Regolamento fu assai notabile: ognuno sapeva quello che aveva da fare, e siccome io soleva lasciare ciascuno risponsale (ndr.: re­sponsabile) del suo uffizio, così ognuno si dava sollecitu­dine per conoscere e compiere la parte sua” (MO 177).


Sul principio del 1847 don Bosco inizia la stesura del Rego­lamento dell'Oratorio al quale lavorerà, perfezionandolo, per qualche anno e che pubblicherà nel 1877 (OE 29, 31-94). Per compi­larlo egli si documenta: si procura i regolamenti di Oratori an­tichi, come quelli di san Filippo Neri e di san Carlo Borromeo e di analoghe esperienze contemporanee. Soprattutto studia le Rego­le dell'Oratorio di S. Luigi eretto in Milano nel 1842 e le Rego­le per i figliuoli dell'Oratorio sotto il patronato della Sacra Famiglia. L'impostazione di quegli Oratori, però, non lo soddi­sfa: per la categoria di ragazzi e giovani che egli accoglie è necessario qualcosa di nuovo. Elimina disposizioni ormai superate e tutto ciò che sa di coercizione nell'impegno religioso, ad esempio il biglietto di Confessione, la Comunione fatta per ordine di banchi, la Confessione per classi e la distribuzione della colazione solo a quanti facevano la Comunione.

Il documento è diviso in tre parti. Nella prima si presenta lo scopo dell'Oratorio e il ruolo delle varie figure che collabo­rano con il Direttore. La seconda parte si interessa delle prati­che religiose che i giovani devono compiere e del contegno che debbono tenere in chiesa e fuori. La terza parte, redatta poste­riormente, contiene indicazioni sulle scuole diurne e serali ed una serie di avvertenze generali.

Un regolamento più particolare, elaborato in questi stessi mesi, riguarda un gruppo specifico di giovani. Si tratta delle Regole della Compagnia di S. Luigi, già ricordate, approvate da mons. Fransoni il 12 aprile 1847 ed inserite in seguito nel rego­lamento generale dell'Oratorio (si possono leggere in MB 3, 216-220).


Don Bosco dedicò particolare cura alla organizzazione della vita di preghiera per la quale ideò un nuovo e facile manuale a­datto ai ragazzi del suo tempo: Il giovane provveduto (Paravia 1847), che durante la vita del Santo raggiunse le 122 e­dizioni e si continuò a pubblicare ed usare nelle opere salesiane fino al 1961.

Tra le pratiche religiose più valorizzate già dai primi mesi del 1847, l'Esercizio della buona morte merita un accenno partico­lare, perché caratterizzò il ritmo di preghiera giovanile delle istituzioni salesiane fino a tempi recenti . Veniva svolto la prima do­menica di ogni mese e consisteva nell'accostarsi alla Confessione e alla Comunione come se fossero le ultime della vita e nella re­cita comunitaria di una preghiera per implorare la grazia di non morire improvvisamente. Per distinguere questa domenica dalle al­tre, dopo la Messa veniva distribuita a tutti i partecipanti una buona colazione (cf MB 3, 19).

Anche le feste che ritmavano l'anno oratoriano, all'aspetto religioso (novena di preparazione, Confessione e Comunione ben fatte, buoni propositi) univano sempre attività ricreative: gio­chi speciali al pomeriggio, illuminazioni, globi aerostatici, fuochi artificiali, musica strumentale e teatro, visita di ospiti illustri, lotterie. Il tutto serviva a sottolineare e dimostrare come dalla grazia di Dio scaturisce la pienezza della gioia. Oltre alle tradiziona­li solennità cristiane, quasi ogni mese, si celebravano festività particolari: quelle di san Francesco di Sales, di san Luigi Gon­zaga, dell'Angelo Custode e della Madonna (Annunciazione, Assun­zione, Nascita di Maria, Madonna del Rosario, Immacolata).

Accanto alle preghiere recitate in comune veniva pro­posta ai ragazzi una serie di pratiche religiose lasciate alla libera iniziativa di ciascuno, per stimolare la crescita personale nella vita spirituale. Ricordiamo, ad esempio, la visita al SS. Sacramento, alcune coroncine, le consacrazioni e varie preghiere. Ai ragazzi migliori don Bosco proponeva la partecipazione agli esercizi spi­rituali: la prima volta (1847) furono predicati dal giovane teologo Fe­derico Albert (1820-1876), futuro parroco di Lanzo Torinese, oggi bea­to.


Nelle stanze di casa Pinardi l'esperimento delle scuole fe­stive e delle scuole serali progredisce e si consolida. Don Bosco unisce alle materie tradizionali anche l'aritmetica, il disegno, la declamazione, il canto e la musica.

Il metodo utilizzato in queste scuole costituisce una novi­tà. Molti tra le autorità, i pedagogisti e le persone interessate alla elevazione delle classi popolari, vengono a studiarlo e a constatarne l'efficacia. Don Bosco, da parte sua, cerca di far conoscere e diffondere in ogni modo tali scuole, convinto della loro importanza per il bene dei giovani lavoratori. Così già nei primi mesi del 1847 egli offre un saggio dei risultati ottenuti dai suoi allievi, invitando insigni pedagogisti e uomini di scuo­la della città: l'abate Ferrante Aporti (1791-1858), Carlo Boncompagni (1804-1880), il prof. Gian Antonio Rayneri (1809-1867), il teologo Pietro Baricco (1819-1877), Fratel Michele, superiore delle Scuole Cristiane ed altri. L'iniziativa ha fortuna e l'anno successivo (1848) sia il municipio che la Regia Opera della Men­dicità Istruita aprono diverse scuole serali adottando il metodo di Valdocco. Una commissione comunale poi, verificati metodo ed esiti delle scuole serali dell'Oratorio, fa stanziare per il pro­seguimento di questa iniziativa un assegno annuo di lire 300, che sarà versato fino al 1878 (cf MO 192; MB 3, 26-28).

Alla cura di don Bosco per queste scuole è dovuta anche la compilazione di alcuni testi appositamente studiati, che ebbero una buona fortuna: Storia ecclesiastica ad uso delle scuole (1845), Il sistema metrico decimale ridotto a semplicità... ad u­so degli artigiani e della gente di campagna (1846), Storia sacra per uso delle scuole (1847) e, più tardi, La storia d'Italia rac­contata alla gioventù (1855).


Un'iniziativa che si colloca in questo filone e che pure ha un notevole successo è la scuola di canto. Dopo aver iniziato con il semplice insegnamento di lodi sacre, don Bosco passa ben pre­sto ad insegnare la lettura della musica, compilando appositi cartelloni didattici: “Essendo la prima volta che avevano luogo pubbliche scuole di musica, la prima volta che la musica era in­segnata in classe a molti allievi contemporaneamente, vi fu un concorso stragrande. I famosi Maestri Rossi Luigi, Blanchi Giu­seppe, Cerutti, Can.co Luigi Nasi, venivano ansiosi ad assistere ogni sera le mie lezioni (...). Essi per altro venivano per os­servare come era eseguito il nuovo metodo, che è quello stesso che oggidì è praticato nelle nostre case” (MO 182).

Nelle attività scolastiche festive e serali don Bosco si av­vale anche della collaborazione di giovani studenti, come già si è accennato. Per loro, al giovedì pomeriggio apre l'Oratorio, si mette a disposizione per le ripetizioni, offre possibilità di mo­menti di ricreazione e di formazione. Il numero degli studenti che frequentano casa Pinardi in quel giorno aumenterà sempre più, così che viene a formarsi una nuova categoria di oratoriani. Mol­ti studenti sono anche catechisti o svolgono ruoli di appoggio. Verso sera don Bosco riunisce questi primi "animatori" e con lo­ro prepara i catechismi e le attività domenicali (cf MB 3, 175-176).


43.2.7 I nuovi ospiti di casa Pinardi

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La situazione sociale di Torino era talmente drammatica che molti fra i giovani operai stagionali e gli orfani non avevano neppure un ambiente in cui riparare alla notte. Le stalle degli alberghi e delle locande, le baracche e i depositi dei cantieri, le squallide soffitte, alla sera venivano ricercate come rifugio di fortuna da molti di essi. Le conseguenze dal punto di vista i­gienico e morale sono facilmente immaginabili.

Don Bosco, mentre studiava il modo di venire incontro a que­ste situazioni di emergenza, aveva sistemato sul fienile alcuni giacigli di paglia pulita e si era procurato lenzuola e coperte. Ma era stato mal ripagato dai suoi ospiti: “gli uni ripetutamente portarono via le lenzuola, altri le coperte; infine la stessa pa­glia fu involata e venduta” (MO 180).

Era necessario pensare ad una soluzione meno precaria. Anche questa volta, come nel caso di Bartolomeo Garelli, fu un evento apparentemente marginale ad avviare un'iniziativa che diventerà stabile e caratterizzante l'opera salesiana:

Ora avvenne che una piovosa sera di maggio sul tardi si presentò un giovanetto sui quindici anni tutto inzuppato dall'acqua. Egli dimandava pane e ricovero. Mia madre l'ac­colse in cucina, l'avvicinò al fuoco, e mentre si riscaldava e si asciugava gli abiti, diedegli minestra e pane da risto­rarsi. Nello stesso tempo lo interrogai se era andato a scuola, se aveva parenti, e che mestiere esercitava. Egli mi rispose: Io sono un povero orfano, venuto da Valle di Se­sia per cercarmi lavoro. Aveva meco tre franchi, i quali ho tutti consumati prima di poterne altri guadagnare, e adesso ho più niente, e sono più di nissuno.

- Sei già promosso alla s. comunione?

- Non sono ancora promosso.

- E la cresima?

- Non l'ho ancora ricevuta.

- E a confessarti?

- Ci sono andato qualche volta.

- Adesso dove vuoi andare?

- Non so, dimando per carità di poter passare la notte in qualche angolo di questa casa.

Ciò detto, si mise a piangere; mia madre piangeva con lui, io era commosso.

- Se sapessi che tu non sei un ladro, cercherei di aggiu­starti, ma altri mi portarono via una parte delle coperte e tu mi porterai via l'altra.

- Non signore. Stia tranquillo; io sono povero, ma non ho mai rubato niente.

- Se vuoi, ripigliò mia madre, io l'accomoderò per questa notte, e dimani Dio provvederà.

- Dove? - Qui in cucina. - Vi porterà via fin le pentole.

- Provvederò a che ciò non succeda.

- Fate pure.

La buona donna, aiutata dall'orfanello, uscì fuori, rac­colse alcuni pezzi di mattoni, e con essi fece in cucina quattro pilastrini, sopra cui adagiò alcuni assi, e vi soprapose un saccone, preparando così il primo letto dell'O­ratorio. La buona mia madre fecegli di poi un sermoncino sulla necessità del lavoro, della fedeltà e della religione. Infine lo invitò a recitare le preghiere. - Non le so, rispose. - Le reciterai con noi, gli disse; e così fu.

Affinché poi ogni cosa fosse assicurata, venne chiusa a chiave la cucina, nè più si aprì fino al mattino.

Questo fu il primo giovane del nostro Ospizio (...). Cor­reva l'anno 1847" (MO 180-182).


Nello stesso anno venne accolto anche un secondo ragazzo: i due rimasero in casa Pinardi fino alla stagione dei lavori agri­coli. A partire dalla fine di quell'anno, quando don Bosco poté disporre di tutti gli ambienti della casa, il numero dei piccoli ospiti aumentò gradatamente. Però il Santo accolse anche alcuni pensionanti a pagamento: il figlio del cav. Pescarmona di Castel­nuovo, studente presso il prof. Bonzanino, e due sacerdoti suoi amici, don Carlo Palazzolo (l'ex-sacrestano aiutato da don Bosco studente a Chieri) e don Pietro Ponte. I due sacerdoti durante la settimana svolgevano i loro impegni pastorali e alla domenica lo aiutavano nell'Oratorio, ma non resistettero più di un anno all'ascetico ritmo di vita di casa Pinardi (cf MB 3, 252-253).

Con la chiusura del seminario per l’occupazione militare dei locali (1848) si aggiunsero a questi ospiti anche alcuni chierici. Si andavano così configurando fin dal principio le tre categorie tipiche dell'antica comunità di Valdocco: artigiani, per la maggior parte orfani, studenti e chierici.

Tra i primi ragazzi accolti in questi inizi si ricordano an­che Felice Reviglio e Carlo Gastini (cf MB 3, 338-345).

Don Bosco, vista l'utilità e l'efficacia di questa iniziati­va, deciderà di svilupparla con sempre maggiori ampliamenti edi­lizi. Nascerà così l'Ospizio o Casa annessa all'Oratorio.

43.2.8 Strategia pastorale

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Il numero dei ragazzi che frequentano l'Oratorio di casa Pi­nardi aumenta sempre più, sia per attrattiva spontanea che per i­niziativa personale di don Bosco. Sua preoccupazione principale è quella di cercare i più poveri e abbandonati per toglierli dalla strada e prevenire pericoli maggiori. A questo scopo mette in at­to tecniche diverse, tutte basate comunque sul contatto personale e l'amicizia che conquista i cuori.

A volte passa di fronte alle officine e ai cantieri proprio nell'ora del pranzo, si inserisce nei crocchi di apprendisti e dialoga con loro, interessandosi ai loro problemi; altre volte, quando si imbatte in gruppi di adolescenti che giocano a carte e a dadi, si siede con loro, anch’egli puntando la sua quota; ai mo­nelli più piccoli offre frutta e dolci; entra nelle locande, nei caffè e nelle botteghe da barbiere, intesse amicizia con padroni ed apprendisti, invitando questi ultimi all'Oratorio.

Il luogo privilegiato per questi incontri è Piazza Emanuele Filiberto (oggi Piazza della Repubblica) detta già allora Porta Palazzo. Essendo piazza del mercato, era quotidianamente invasa da frotte di ragazzini, adolescenti e giovani appartenenti alle categorie più povere: merciai ambulanti, venditori di zolfanelli e di giornali, lustrascarpe, spazzacamini, mozzi di stalla, fattorini, facchini e tanti altri poveri ragazzi che vivevano alla giornata. Quasi tutti erano legati alle Cocche di Borgo Vanchiglia, vere bande di piccoli delinquenti. Fin verso il 1856 don Bosco ogni mattina at­traversa questa piazza e con i pretesti più vari avvicina quelli che incontra. Poco alla volta li conosce tutti per nome e li lega all'Oratorio.


43.3 3.6.3. I dintorni di casa Pinardi

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La proprietà Pinardi si trova ai piedi della discesa che dal Rondò della forca degrada, prima rapidamente e poi dolcemente, verso il fiume Dora. Zona di prati, di orti e di rare casupole, fino ai primi anni Settanta immersa nella campagna che a venta­glio, tra levante, settentrione e ponente, la circonda. In questa estrema periferia, ricca di spazi, bagnata da canali e ruscelli irrigui, dove nei decenni successivi sorgeranno i primi opifici meccanici, ora razzolano ancora le galline e si odono non lontani muggiti dalle superstiti cascine al di qua del fiume.

Il piccolo appezzamento di terreno su cui sorge casa Pinardi confina a sud con via della Giardiniera, che lo separa da un va­sto campo di proprietà del seminario; ad ovest con la proprietà Bellezza; a nord e ad est, con la proprietà Filippi.


43.3.1 Via della Giardiniera e Casa Bellezza

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Si accede a casa Pinardi percorrendo via della Giardiniera, un vicolo che diagonalmente collega la strada campestre, detta poi via Cottolengo e oggi via Maria Ausiliatrice, con casa Bellezza.

Questa casa, di proprietà della signora Teresa Caterina No­vo, vedova Bellezza, si trova a ponente dell'Oratorio, distante una ventina di metri dalla porta della cappella Pinardi, proprio dove oggi sorge l'edificio con i laboratori di meccanica e di e­lettromeccanica. Nella casa è gestita una bettola di infima cate­goria, chiamata La Giardiniera, in cui alla sera e particolarmen­te nei giorni festivi si raccolgono persone poco raccomandabili: bestemmie, schiamazzi e anche risse disturbano notevolmente le attività oratoriane.

Don Bosco si impegna subito per far cessare quel disordine e allontanare il pericolo morale che rappresenta per i giova­ni. I suoi sforzi risultano inutili per qualche anno; infatti né la padrona vuol vendere la casa, né la locandiera perdere i gua­dagni. Soltanto nel gennaio del 1854 il Santo riesce a rilevare l'osteria dalla persona che la gestisce, comperandone però a caro prezzo tutta la suppellettile (MO 205-206).

Più tardi potrà affittare tutto l'edificio, ripulirlo e col­locarvi nuovi inquilini di sua fiducia.

La signora Teresa Caterina Novo proprietaria dell'edificio, pur essendo amica e benefattrice dell'Oratorio, declina costante­mente l'invito a vendere la casa. Alla sua morte (1883) i figli decidono la cessione del fabbricato e del vasto terreno antistan­te, necessario a don Bosco per l'ampliamento dell'Oratorio festi­vo; il contratto viene stipulato l'8 marzo 1884. La somma richie­sta, in verità esorbitante (oltre 100 mila lire!), è donata dal conte Colle di Tolone.

La costruzione verrà abbattuta soltanto nel 1922 (cf ODB 234-236).


43.3.2 Proprietà dei fratelli Filippi

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Il vasto terreno che a nord e ad est circonda la proprietà Pinardi appartiene ai tre fratelli: Giovanni, Antonio e Carlo Filippi. A levante, quasi in linea retta con casa Pinardi, si innalza un edificio a due piani lungo 35 metri, a forma di U, utilizzato co­me setificio. Di fronte, lungo via della Giardiniera, ad angolo col terreno Pinardi, si estende una vasta tettoia. L'appaltatore Visca l'ha presa in affitto dai Filippi e vi tiene i cavalli e i carriaggi del municipio. Qui, oltre ai carrettieri, si rifugiano alla sera una quantità di poveri di ogni specie, ubriaconi e be­stemmiatori (cf MB 3, 79).


43.3.3 Il prato del seminario

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Di fronte a casa Pinardi, al di là di via della Giardiniera, proprio dove ora di estende la Basilica di Maria Ausiliatrice, un vasto terreno coltivato a prato apparteneva al seminario arcive­scovile. Nella tradizione salesiana viene designato come il campo dei sogni, perché la Vergine lo ha indicato in sogno a don Bosco come sede della sua chiesa e luogo del martirio dei santi Soluto­re, Avventore ed Ottavio.

Il 20 giugno 1850 il Santo, che aspira a spazi sempre più vasti per i suoi giovani, compera il terreno. Pochi anni dopo però, in un mo­mento di gravi ristrettezze economiche, lo rivende all'abate An­tonio Rosmini (10 aprile 1854). Quest'ultimo ha intenzione di co­struirvi un istituto per i suoi religiosi, anche allo scopo di aiutare don Bosco nel ministero degli Oratori. Il progetto non può essere realizzato, così don Bosco, che ha già in mente la co­struzione della chiesa di Maria Ausiliatrice, l'11 febbraio 1863, ricompra l'appezzamento.



44 3.7. Gli altri Oratori di Don Bosco

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La situazione sociale creatasi in Torino negli anni Quaranta con il fluire di masse popolari e giovanili, provoca anche proble­mi di indole religiosa e pastorale. Le esperienze che, come quel­le di don Cocchi e di don Bosco, si sono rivelate efficaci, ot­tengono l'appoggio e la simpatia delle persone più attente al be­ne sociale e religioso del popolo. Superate ormai le prevenzioni e i timori messi in campo dai parroci, si avverte la necessità di impiantare altri oratori nelle zone periferiche a maggior espan­sione popolare.

Don Bosco, che nel poco spazio di casa Pinardi deve acco­gliere centinaia di ragazzi provenienti da ogni parte della cit­tà, ritiene indispensabile decongestionare Valdocco per una mag­giore efficienza pastorale.

44.1 3.7.1. L'Oratorio di san Luigi (corso Vittorio Emanuele II, n. 13)

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In una domenica dell'agosto 1847, constatando il numero ec­cessivo dei ragazzi convenuti a Valdocco, don Bosco prospetta al Borel l'ipotesi dell'apertura di un secondo oratorio. Un numero notevole di giovani proviene dalle zone di piazza Castello, piaz­za san Carlo, Borgo Nuovo e san Salvario, percorrendo a piedi una distanza notevole: sembrerebbe opportuno scegliere una di quelle zone per realizzare il progetto.

L'arcivescovo, interpellato, approva e suggerisce come luogo ideale la periferia sud della città. Anche il curato della locale parrocchia di santa Maria degli Angeli accoglie la proposta con entusiasmo.

Un giorno don Bosco e il Borel si recano a perlustrare la zona di Porta Nuova, lungo il cosiddetto Viale del Re, oggi corso Vittorio Emanuele II, in direzione del Po. È una zona libera, fuori città, frequentatissima da bande di ragazzi alla ricerca di spazi per giocare. Trovano una casetta con una misera tettoia ed un cortile, appartenenti ad una certa signora Vaglienti la quale si dice disposta ad affittare il locale per 450 lire annue. Il povero edificio ed il cortiletto erano ubicati sul luogo ove ora sorge la chiesa di san Giovanni Evangelista.


Per avere quella casa si dovette sostenere una battaglia assai accanita cogli abitanti. Era occupata da parecchie la­vandaie, le quali credevano dover succedere la fine del mon­do, qualora avessero dovuto abbandonare l'antica loro dimo­ra. Ma, prese alle buone e mediante qualche indennità si poterono comporre le cose senza che le parti belligeranti venissero alle ostilità” (MO 183).

L'Oratorio viene inaugurato l'8 dicembre 1847 e intitolato a san Luigi. La direzione è affidata al teologo Giacinto Càrpano (1821-1894), il quale utilizza lo stesso regolamento compilato per Valdocco. Collaboratori sono i cugini Roberto (1815-1883) e san Leonardo Murialdo (1828-1900). Al Càrpano che dirige l'Ora­torio per alcuni anni, succedono don Pietro Ponte (1821-1892), giovane cappellano della marchesa Barolo e, in seguito, il teolo­go Paolo Francesco Rossi (1828-1856), uomo zelante, amato e ve­nerato dai ragazzi, consumato all'età di 28 anni da un tumore ma­ligno.

L’Oratorio di san Luigi rimane così senza un sacerdote che lo diriga a tempo pieno; la direzione viene allora affidata da don Bosco al giovane avvocato Gaetano Bellingeri che, per un anno intero (1856-1857), dedicherà ogni momento di tempo libero all'opera. Ci sono diversi ecclesia­stici che si prestano per il ministero, ma nessuno di essi è in grado di assumersi la responsabilità di reggere l'Oratorio, anche per gli oneri di tempo e di denaro che questo comporta. Don Bo­sco, dopo alcuni tentativi e lunga riflessione, propone la cosa al giovane teologo Leonardo Murialdo che, fin dagli studi semina­ristici si è prestato nella catechesi in questo Oratorio, in quello dell'Angelo Custode come in quello di Valdocco. In effetti la scelta si rivelerà fortunata perché il Murialdo, lavorando a fianco di don Bosco, ne aveva assimilato il metodo e lo spirito. Egli prende in carico la direzione del san Luigi nel 1857 e il Santo di Valdocco gli affianca come assistenti e catechisti i suoi primi e più cari chierici: Michele Rua, Celestino Durando, Giuseppe Laz­zèro, Francesco Cerutti, Francesco Dalmazzo, Giovanni Cagliero, Angelo Savio ed altri grandi Salesiani. Nella conduzione dell'O­ratorio vengono coinvolti anche molti laici qualificati, come l'avvocato Gaetano Bellingeri, già citato, il conte Francesco Viancino, il marchese Scarampi di Pruney, il conte Pensa, l'avvocato Ernesto Mu­rialdo, fratello di Leonardo, il prof. Mosca e l'ing. Giovanni Battista Ferrante.

L'Oratorio di Porta Nuova, come quello di Valdocco, è assai povero: la cappella è misera, i locali attigui angusti e poco so­lidi. Il teologo Murialdo si sobbarca spese anche ingenti di propria tasca: fa costruire in marmo il tabernacolo e i gradini dell'altare; paga tutti i premi delle feste e lotterie e i capi di vestiario necessari ai più poveri. Come don Bosco, egli fonda una scuola serale di canto nella quale viene adottato e sperimen­tato il metodo del meloplasto del maestro Luigi Rossi (1823-1903). Più tardi la di­rezione di tale scuola sarà assunta dal maestro Elzeario Scala. Costituisce anche la banda musicale, ma deve presto discioglierla per motivi disciplinari. Erige un piccolo edificio diviso in due da un tramezzo di legno (asportabile quando si fa il teatro) allo scopo di impiantare due classi elementari per un centinaio dei ragazzi più poveri, rifiutati dalle altre scuole.

L'Oratorio si trova ben presto a dover fronteggiare l’opera di propaganda messa in atto dai Valdesi che, con lo Statuto albertino del 1848, hanno ottenuto l'emancipazione piena. Essi, a poca distanza dal san Luigi, fissano il quartier generale e, più tardi, costruiranno il loro tempio, l'ospedale e altre o­pere sociali.

Il Murialdo dirige l'Oratorio fino al 1865 quando, per appa­gare un bisogno di maggior qualificazione pastorale e spirituale, si trasferisce per un anno nel seminario di san Sulpizio a Pari­gi. La direzione viene allora assunta per lungo tempo dal dotto e zelante abate Teodoro Scolari di Maggiate (1837-1893). In seguito l'Oratorio sarà diretto esclusivamente da Salesiani.

Oggi, come si è già accennato, sul luogo dell'antico Orato­rio sorge la chiesa di san Giovanni Evangelista, costruita da don Bosco tra 1878 e 1882, su disegno dell'architetto Edoardo Arborio Mella (1808-1884).

L'Oratorio san Luigi continua attualmente la sua attività nell'edificio con entrata da via Ormea n. 4.


44.2 3.7.2. L'Oratorio dell'Angelo Custode (Sorgeva ad angolo tra via santa Giulia e via Tarino)

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Il primo Oratorio di Torino l'aveva fondato nel 1840 don Giovanni Cocchi (1813-1895), per i ragazzi abbandonati che va­gavano per le vie e le piazze dell'Annunziata, parrocchia nella quale egli era viceparroco. Si trovava nella regione del Moschino dislocata sulla riva sinistra del Po, nei pressi dell'attuale piazza Vittorio Veneto. “Un agglomerato più di covili di belve che di abitazioni umane. Ricetto ai banditi della peggior specie, nido di una “cosca” temuta, specie di associazione di giovani malviventi, pericoloso di giorno ed inaccessibile di notte, per­sino alla polizia, che vi penetrava di rado e solo con formidabi­li armamenti. La via principale aveva sintomaticamente nome “Con­trà dle Pùles” (ndr.:contrada delle pulci)” (Da: A. Viriglio, Torino e i torinesi. Minuzie e memorie, Torino, A. Viglongo e C. Ed. 19803, p. 149).

Nel 1841 don Cocchi trasportò l'Oratorio verso il centro di Vanchiglia sotto la tettoia di un orto in casa Bronzino, nel cui cortile rustico edificò una povera cappella ed un teatrino. L'o­pera fu intitolata all'Angelo Custode, dal nome di una società di giovani sacerdoti torinesi che si interessavano della gioventù abbandonata.

Scopo dell'Oratorio era quello di occupare i ragazzi del ca­techismo prima e dopo le lezioni. Ma ben presto venne frequentato anche da un numero notevole di giovanotti operai e manovali gior­nalieri. Tra i giochi e le varie attività, don Cocchi introdusse anche la ginnastica, che era una novità, soprattutto per le clas­si popolari.

Nel fervore patriottico suscitato dalla prima guerra di in­dipendenza, una squadra di giovani dell'Oratorio di Vanchiglia decise di arruolarsi tra i volontari dell'esercito. Don Cocchi, sinceramente entusiasmato dall'idea nazionale, non si sentì di abbandonarli e li seguì nella marcia verso Novara (marzo 1849). Non furono accettati e dovettero ritornarsene alla cheti­chella.

La vicenda suscitò scalpore e mons. Fransoni decise la tem­poranea chiusura dell'Oratorio. Ma, per le pressioni del Cafasso, del Borel e di don Bosco, preoccupati della sorte dei ragazzi del borgo, nell'ottobre successivo l'arcivescovo ne permise la riapertu­ra, affidandolo alla responsabilità di don Bosco. Questi, in società col Borel, appigionò nuovamente i locali e delegò la di­rezione prima al teologo Càrpano, poi al teologo Giovanni Vola. Essi però, sfiduciati per le difficoltà e il tipo di ragazzi che frequentavano l'Oratorio, lo lasciarono ben presto. Nell'ottobre del 1851, sempre alle dipendenze di don Bosco, si sobbarcò l'im­pegno della direzione il teologo Roberto Murialdo, aiutato dal cugino Leonardo che, fino al 1856, sarà la vera anima dell'opera.

L'Oratorio dell'Angelo Custode continuò in quella sede fino al 1871. In quell'anno don Bosco lo cedette al parroco di santa Giulia, il quale lo trasferì in ambienti più idonei accanto alla parrocchia, recentemente eretta (1866).


Quando don Giovanni Cocchi, nel 1849, lasciò l'Oratorio dell'Angelo Custode, si impegnò in altre iniziative a carattere sociale e pastorale. Tra tutte ricordiamo la fondazione di un'o­pera per accogliere i ragazzi più poveri, che non sapevano ove a­bitare né avevano di che campare. Già ne aveva ospitati tempora­neamente alcuni nel teatrino del suo Oratorio, poi li alloggiò in alcune camere di casa Moncalvo, in Vanchiglia e diede loro il no­me di Artigianelli, essendo tutti apprendisti e piccoli operai. Per sostenere l'impresa fondò l'Associazione di carità a pro dei giovani poveri, orfani ed abbandonati, costituita da laici ed ec­clesiastici. Lo statuto di questa associazione, datato 11 marzo 1850, venne firmato in una sala della parrocchia della SS. Annun­ziata da don Cocchi e dai teologi Giacinto Tasca, Roberto Murial­do e Antonio Bosio. Il nascente istituto si trasferì più volte fino al 1863, quando si installò in un edificio proprio, costrui­to in corso Palestro e tuttora esistente.

Il Cocchi non diresse a lungo il suo istituto; sul finire del 1852 era già impegnato nella fondazione di una colonia agri­cola nei pressi di Cavoretto. La direzione degli Artigianelli passò al Tasca e al teologo Pietro Berizzi, i quali consolidarono progressivamente l'opera stabilendo laboratori artigianali inter­ni che, col passar degli anni, divennero vere scuole professiona­li. Nel 1866 la direzione fu assunta "provvisoriamente" da san Leonardo Murialdo che, invece, la mantenne per 34 anni. In questo luogo egli fondò la Congregazione religiosa dei Giuseppini.


45 3.8. Le chiese della fase itinerante

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Dall'estate 1845 alla primavera del 1846 don Bosco, non a­vendo a disposizione un ambiente apposito e capiente per le fun­zioni religiose del suo Oratorio, porta i giovani in diverse chiese della città e dei dintorni. Generalmente questo avviene soltanto al mattino, per la Messa e le Confessioni, mentre il po­meriggio lo si trascorre nelle strutture temporaneamente ottenute (Ospedaletto, Molassi, casa Moretta, prato Filippi). Altre volte, con il bel tempo, don Bosco trasforma la necessità in una festosa passeggiata da mattino a sera, offrendo ai ragazzi anche una buo­na merenda.

Tra le chiese raggiunte da don Bosco, ne ricordiamo alcune, le più note nella tradizione salesiana.


45.1 3.8.1. La Consolata

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È il Santuario mariano più caro ai torinesi e più frequen­tato da don Bosco e dai suoi ragazzi nei primi tempi dell'Orato­rio.

Ha origini risalenti alla fine del secolo IV e legate alla venerazione di una antica effige della Madonna. L'attuale edifi­cio è composto di tre chiese intercomunicanti: la chiesa ellittica di sant'Andrea, il Santuario propriamente detto, in forma esagonale, e la cappella sot­terranea di N.S. delle Grazie. La struttura barocca che vediamo è stata edificata nel 1679 su disegno di Guarino Guarini, al po­sto di un precedente edificio romanico dei secoli X-XI di cui si ammira ancora il maestoso campanile.

La cupola del santuario, eretta nel 1703, venne affrescata da G.B. Crosato nel 1740. L'attuale rivestimento in marmi e stuc­chi fu ideato da C. Ceppi nel 1904.

Nella cappella di sant'Andrea sono conservate, a destra, le spoglie di san Giuseppe Cafasso, qui trasportate dal cimitero ge­nerale a cura del nipote can. Giuseppe Allamano, rettore del San­tuario. Lì accanto una scala conduce alla sottostante cripta o cappella della Madonna delle Grazie, che forse costituiva il primitivo oratorio del IV secolo.

Dalla chiesa di sant'Andrea una mestosa gradinata e un ricco cancello in ferro battuto, dono del marchese Tancredi Falletti di Barolo, immettono nel Santuario della Consolata. Sull'altare cen­trale, opera di Filippo Juvarra (1729), si venera l'immagine del­la Vergine con Bambino. Dalla tradizione è identificata con la primitiva icona del IV secolo; in realtà si tratta di un dipinto su legno eseguito sullo scorcio del sec. XV, copia dell'effige che si trova in Santa Maria del Popolo a Roma (sec. XIV).

Sul piazzale laterale una colonna corinzia regge la statua della Vergine: fu eretta dalla Città di Torino in ringraziamento per la liberazione dell’epidemia di colera del 1835.

Don Bosco già da seminarista aveva pregato in questo Santua­rio in occasione delle sue venute in Torino. Nell'attiguo conven­to, appartenuto ai Cistercensi prima della Rivoluzione francese, abitavano in quel tempo gli Oblati di Maria Vergine del padre Pio Brunone Lanteri, tra i quali era entrato anche il suo compagno di scuola ed amico Giuseppe Burzio. Il convento, dopo la legge di soppres­sione (1855), passò alla diocesi e, dal 1882, divenne sede del Convitto Ecclesiastico, nella nuova impostazione data dal canonico Giuseppe Allamano.

Nella chiesa il Santo celebrò la sua seconda messa (lunedì dopo la SS. Trinità, 7 giugno 1841), “per ringraziare la gran Vergine Maria - come egli ci attesta - degli innumerabili favo­ri, che mi aveva ottenuto dal suo Divin Figliuolo Gesù” (MO 111).

Durante la gravissima malattia del luglio 1846, che portò don Bosco sull'orlo della tomba, i poveri ragazzi dell’Oratorio accorsero numerosi ai piedi della Consolata e con le loro preghiere e la­crime ottennero l'insperata grazia della guarigione:

Durante il periodo del Convitto e per lunghi anni in segui­to, finché la salute e gli impegni glielo permisero, don Bosco prestò regolarmente il suo ministero di confessore in questa chiesa.

Nei primi anni dell'Oratorio il coro dei ragazzi di Valdocco fu invitato più volte a solennizzare con il canto le funzioni del santuario. Specialmente il 20 giugno, festa della Consolata, gli oratoriani non mancavano di prendere parte alla processione.

Ai piedi di Maria Consolatrice don Bosco si recò spesso nel­le situazioni più difficili della sua vita. Ricordiamo che in un momento particolarmente doloroso, il 25 novembre 1856, quando alle tre del mattino, mamma Margherita cessò di vivere, e­gli, accompagnato da Giuseppe Buzzetti, si portò immediatamente al Santuario. Celebrò affranto la santa Messa nella cappella sot­terranea, poi si soffermò a lungo in lacrime davanti all'effige della Madonna: “Io e i miei figliuoli siamo ora senza madre quag­giù; deh! siate voi per lo innanzi in particolar modo la Madre mia e la Madre loro!” (MB 5, 566).

Mons. Lorenzo Gastaldi, arcivescovo di Torino, la sera del 24 marzo 1883 si fece accompagnare alla Consolata: “Andiamo a trovare la nostra cara madre, a metterci sotto il suo manto. Sot­to il manto di Maria è consolante vivere e morire”. Queste e­spressioni ci sono testimoniate dal canonico Tommaso Chiuso, suo segretario. Il mattino successivo, 25 marzo, Pasqua di Risurre­zione, l'arcivescovo moriva improvvisamente.


45.2 3.8.2. Basilica di Superga

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Meta affascinante, particolarmente adatta per passeggiate di una giornata, era la Basilica di Superga, che domina la città dalla cima di un colle (m. 669), distante una decina di chilome­tri dal centro di Torino.

La maestosa Basilica, dedicata alla Natività di Maria, fu e­dificata tra 1717 e 1731 su disegno di Filippo Juvarra, in adem­pimento di un voto fatto da Vittorio Amedeo II durante l'assedio franco-spagnolo di Torino (1706).

La costruzione di pianta circolare, che anticipa elementi neoclassici, è affiancata da due eleganti campanili barocchi tra i più notevoli del Piemonte. La cupola, luminosa e slanciata rag­giunge i 65 metri di altezza.

Tre scalinate conducono ad un alto e spazioso pronao sor­retto da otto monumentali colonne, che introduce nell'edificio.

All'interno vediamo: nella prima cappella a destra san Mau­rizio, di Sebastiano Ricci da Belluno (1659-1734); nella seconda Natività di Maria, altorilievo di Agostino Cornacchini da Pescia (1685-1740); nella terza la Beata Margherita di Savoia, di Clau­dio F. Beaumont da Torino (1694-1766).

Sovrasta l'altar maggiore un grande altorilievo in marmo di Bernardino Cametti da Gattinara (1682-1736) rappresentante la Vergine, il beato Amedeo di Savoia e la battaglia di Torino del 1706.

Dal presbitero una porta a sinistra immette nella cappella della Madonna delle Grazie, o cappella del Voto, simile nelle di­mensioni ad una chiesetta esistente sul luogo prima del 1715. Vi è conservata la statua della Madonna di fronte alla quale Vitto­rio Amedeo II formulò il voto di erigere la Basilica.

Ritornando nella chiesa, si incontra nella terza cappella a sinistra un buon quadro del Beaumont rappresentante san Carlo; nella seconda l'Annunciazione, altorilievo del Cametti; nella terza san Luigi di Francia, di S. Ricci.

Il vasto edificio situato dietro la chiesa fu costruito dal Juvarra per la Congregazione di sacerdoti regolari voluta da Vit­torio Amedeo II (1730) per la formazione dell'alto clero. Qui dal 1835 al 1855 ebbe sede un'Accademia Ecclesiastica, sostenuta dal re Carlo Alberto per la ricerca scientifica e l'ulteriore quali­ficazione culturale dei migliori studenti laureati in teologia all'Università di Torino. La ricca biblioteca dell'Accademia si trova ora nella Biblioteca Reale di Torino. In una sala a piano terra sono esposti i ritratti dei papi, da san Pietro a Giovanni Paolo II.

Per mezzo di uno scalone si scende nei sotterranei costruiti nel 1777 per accogliere le tombe dei Savoia. Vi sono sepolti i re sabaudi da Vittorio Amedeo II a Carlo Alberto.

Oggi edificio e chiesa sono custoditi ed officiati dai Servi di Maria.


Sul lato posteriore della collina una lapide ricorda il tra­gico incidente aereo avvenuto il 4 maggio 1949, nel quale periro­no 31 persone tra cui i giocatori della squadra di calcio del Torino.


La prima passeggiata a Superga effettuata da don Bosco con i giovani dell'Oratorio è da lui ricordata con ricchezza di detta­gli:


Poco dopo le 9 partimmo alla volta di Superga. Chi por­tava canestri di pane, chi di cacio o salame o frutta od al­tre cose necessarie per quella giornata. Si osservava silen­zio sin fuori delle abitazioni della città, di poi comincia­vano gli schiamazzi, canti e grida, ma sempre in fila e or­dinati.

Giunti a’ piedi della salita, che conduce a quella basi­lica, trovai uno stupendo cavallino che, bardato a dovere, il Sac. Anselmetti, Curato di quella Chiesa, mi aveva manda­to. Là pure riceveva una letterina del T. Borrelli, che ci aveva preceduti, nella quale diceva: "Venga tranquillo coi cari nostri giovani; la minestra, la pietanza, il vino sono preparati". Io montai sopra quel cavallo e poi lessi ad alta voce quella lettera. Tutti si raccolsero intorno al cavallo, e, udita quella lettura unanimi si posero a fare applausi (...). In mezzo a que' trambusti avevamo la nostra musica che consisteva in un tamburo, in una tromba ed in una chi­tarra. Era tutto disaccordo, ma servendo a fare rumore col­le voci dei giovani bastava per fare una maravigliosa armo­nia.

Stanchi dal ridere, scherzare, cantare e direi di urla­re, giungemmo al luogo stabilito. I giovanetti, perché suda­ti, si raccolsero nel cortile del santuario e furono tosto provveduti di quanto era necessario pel vorace loro appeti­to. Dopo alquanto riposo li radunai tutti e loro raccontai minutamente la storia maravigliosa di quella Basilica, delle tombe reali che esistono sotto alla medesima, e dell'Accade­mia Ecclesiastica ivi eretta da Carlo Alberto e promossa dai Vescovi degli Stati Sardi.

Il T. Guglielmo Audisio, che ne era preside, fece la graziosa spesa di una minestra colla pietanza a tutti gli o­spitati. Il parroco donò vino e frutta. Si concedette lo spazio di un paio d'ore per visitare i locali, di poi ci siamo radunati in Chiesa, dove era pure intervenuto molto popolo. Alle 3 pomeridiane ho fatto un breve discorso dal pulpito, dopo cui alcuni più favoriti dalla voce cantarono un Tantum ergo in musica, che per la novità delle voci bian­che trasse tutti in ammirazione. Alle sei si fecero salire alcuni globi areostatici, di poi tra vivi ringraziamenti a chi ci aveva beneficati partimmo alla volta di Torino. Il medesimo cantare, ridere, correre, e talvolta pregare occupò la nostra via. Giunti in città, di mano in mano che alcuno giungeva al sito più vicino alla propria casa, cessava dalle file e si ritirava in famiglia. Quand'io giunsi al Rifugio, aveva an­cora con me 7 od 8 giovani dei più robusti, che portavano gli attrezzi usati nella giornata” (MO 144-146).


45.3 3.8.3. Monte dei Cappuccini

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Su un rilievo boscoso, proteso dalla collina verso il Po, detto Monte dei Cappuccini, si eleva una bella chiesa dedicata a santa Maria del Monte, costruita a partire dal 1683 da Ascanio Vittozzi da Orvieto (1539-1615). L'edificio, a forma di croce greca sormontato da cupola su alto tamburo ottagonale, venne a­perto al culto nel 1611. Nell'interno sono notevoli i quattro al­tari angolari disegnati da Benedetto Alfieri nel 1746, con sta­tue lignee di Stefano Maria Clemente (1719-1794) rappresentanti quattro santi Cappuccini. Il san Francesco con Madonna e Bambino sull'altare destro è copia di una tela di G.B. Crespi detto Ce­rano (1575-1632), esposta nella Galleria Sabauda; il san Maurizio sull'altare sinistro è del Moncalvo.

Accanto alla chiesa c'è il convento dei Cappuccini, edifica­to dal Vittozzi ma più volte rimaneggiato. In una parte del con­vento è collocato il Museo Nazionale della Montagna.

Dalla balconata antistante la chiesa si gode uno splendido panorama della città. Per la sua posizione strategica, sull’altura, fin dal sec. XIII furono edificate fortificazioni legate alle battaglie più importanti nella storia di Torino.


Don Bosco più volte, per la vicinanza alla città e la bellez­za del luogo, vi condusse i suoi birichini, sempre ben accolto dai buoni padri Cappuccini.

Una di quelle gite, fatta nel periodo in cui l'Oratorio si raccoglieva sul prato Filippi (marzo 1846), ci viene raccontata da un ragazzo del tempo:


Avevamo terminato la partita, quando il suono di una tromba impose silenzio a tutti. Ognuno lasciando i trastul­li, si raccolse intorno al prete, che poi seppi essere D. Bosco: - Giovani cari, disse questi ad alta voce, è ora del­la santa Messa: questa mattina andremo ad ascoltarla al Mon­te dei cappuccini; dopo la Messa avremo una piccola colezio­ne. Quelli a cui mancò tempo di confessarsi oggi, potranno confessarsi altra domenica; non dimenticate che ogni domeni­ca vi è comodità di confessarvi.

Detto questo, suonò di nuovo la tromba e tutti si posero ordinatamante in cammino. Uno dei più adulti cominciò la re­cita del Rosario, a cui tutti gli altri rispondevano. La camminata era quasi di tre chilometri (...). Quando eravamo per intraprendere la salita che conduce a quel Convento, si cominciarono le litanie della B. V. Questo mi ricreò assai, perciocchè le piante, gli stradali, il boschetto che coprono le falde del monte risuonavano del nostro canto e rendevano veramente romantica la nostra passeggiata.

Venne celebrata la Messa, in cui parecchi giovani si ac­costarono alla santa Comunione. Dopo breve predica e suffi­ciente ringraziamento, andarono tutti nel cortile del Con­vento per fare la colezione” (MB 2, 386-387).


45.4 3.8.4. Madonna del Pilone (corso Casale, n. 195)

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La chiesa, dedicata all'Annunciazione di Maria, fu co­struita nel sec. XVII sul luogo di un antico pilone con l'immagi­ne dell'Annuziata (1587), ora inglobato nell'altar maggiore. Il santuario fu eretto in parrocchia nel 1807 per il servizio reli­gioso del borgo circostante.

Al tempo del primitivo Oratorio, per raggiungere il luogo e­ra necessario traghettare il fiume su barche. La passeggiata in­solita risultava spettacolare quand'era animata dalle trovate di don Bosco, come accadde nel 1843, al tempo in cui l'Oratorio si radunava ancora al Convitto:


Un giorno D. Bosco condusse i suoi giovani alla Madonna del Pilone. Su tre barche attraversarono il Po, e quando fu­rono in mezzo al fiume intonarono una bella lode. I popola­ni, che si trovavano sulle sponde, al sentire quel canto si fermarono ascoltando; quindi, innamorati dell'armonia, si misero a seguire il corso delle barche, camminando per lo stradone. Siccome tra di loro vi erano alcuni trombettieri, questi diedero fiato alle loro trombe e si misero ad accom­pagnare quel motivo facile, producendo un effetto magico. Tutti gli abitanti della Madonna del Pilone uscirono fuor delle case, e quando le barche approdarono, circa un mi­gliaio di persone si erano raccolte ad attendere e attornia­re i giovani cantori” (MB 2, 134-135).


45.5 3.8.5. Madonna di Campagna (via Massaia, n. 98)

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Questo sacro edificio, anch'esso dedicato all'Annunciazione di Ma­ria, risale al sec. XIV. Più volte rifatta, distrutta nei bombar­damenti aerei della seconda guerra mondiale, è stata ricostruita negli anni Cinquanta. Al suo interno è conservata la tomba del maresciallo Ferdinando de Marsin, che capitanava l'esercito fran­cese nell’ assedio di Torino del 1706.

Nell'Ottocento la chiesa era officiata dai Cappuccini, che abitavano nel vicino convento fin dal 1567.

Più volte don Bosco portò i giovani oratoriani in questo luogo, ai suoi tempi circondato da verdi campagne, e collegato alla strada di Lanzo da un maestoso viale a tre file di olmi cen­tenari.

Quando nel marzo 1846 i fratelli Filippi disdissero il con­tratto del loro prato, don Bosco condusse in pellegrinaggio i suoi giovani alla Madonna di Campagna, distante circa due chilo­metri da Valdocco, per ottenere dalla Madre di Dio la grazia di trovare un luogo stabile per l'Oratorio. Era probabilmente il mattino della do­menica 8 marzo. Come in altre analoghe circostanze, lungo la via recitarono il Rosario e cantarono lodi sacre.


Quando furono sull'ombroso viale, che dalla strada mae­stra mette al Convento, con grande maraviglia di tutti le campane della chiesa presero a suonare a distesa. Dissi con grande maraviglia di tutti, perché quantunque si fossero già recati colà parecchie altre volte, non mai il loro arrivo e­ra stato festeggiato col suono dei sacri bronzi. Questa di­mostrazione parve così insolita e fuor d'uso, che si sparse la voce, che le campane si fossero poste a suonare da se stesse. Il certo si è che il Padre Fulgenzio, Guardiano del Convento ed allora Confessore del re Carlo Alberto, assicurò che né egli né altri della famiglia aveva ordinato di suona­re le campane in quell'occasione, e per quanto brigasse di sapere chi le avesse suonate, non gli venne mai fatto di scoprirlo.

Entrati in chiesa, assistettero alla Messa (...). D. Bo­sco tenne un bel discorso di opportunità. Paragonando i suoi fanciulli ad uccelli, cui veniva gettato a terra il nido, e­gli li animò a pregare la Madonna, che loro ne volesse pre­parare un altro più stabile e sicuro; ed essi La pregarono con lui veramente di cuore, pieni di fiducia che li avrebbe esauditi. Ristorati, ritornarono in città, per raccogliersi nelle ore pomeridiane per l'ultima volta nel prato” (MB 2, 419-420).


Proprio quel giorno, nel tardo pomeriggio, Pancrazio Soave si avvicinò a don Bosco per proporgli l'affitto della tettoia Pi­nardi.









IV PARTE




DON BOSCO

SVILUPPA L'ORATORIO






(1850 - 1888)







GLI ANNI DELLA MATURITA’


1. SIGNIFICATO E TESTIMONIANZA


46 1.1. Le scelte della maturità

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Questa quarta parte del sussidio abbraccia gli ultimi 38 an­ni della vita di don Bosco: il periodo più fecondo. Sono gli anni della maturità, densi di avvenimenti, di iniziative, di frutti.

Il giovane prete noto a Torino per le attività in favore dei ragazzi poveri e abbandonati e per il suo efficace e personale metodo educativo fatto di “religione, ragione e amorevolezza”, diventa progressivamente un personaggio che si impone all'atten­zione di una cerchia sempre più vasta di persone. Le preoccupa­zioni educative che lo animano, gli obiettivi a cui tende, i va­lori religiosi e civili che propone assumono dimensioni universa­li grazie ad un suo atteggiamento di fondo che è di carattere re­ligioso e, insieme, frutto di intelligenza e sensibilità socio-culturale.

L'attenzione e la totale disponibilità alla volontà di Dio e alle ispirazioni dello Spirito, nella consapevolezza della mis­sione pastorale ricevuta, gli danno anche flessibilità e capacità di discernimento degli eventi storici. Egli riesce così a coniu­gare l'efficace azione religiosa e formativa con una riuscita formula pedagogica e con scelte operative lucide e indovinate.


Così l'Oratorio iniziale si evolve in forme ed attività sem­pre più articolate e rispondenti ad attese e bisogni giovanili e sociali nuovi. All'assistenza religiosa e alla catechesi si ag­giungono le scuole serali e festive di prima alfabetizzazione; un convitto per i più abbandonati impostato sul modello della convi­venza familiare; i contratti di formazione professionale prima, e i laboratori artigianali interni poi; il pensionato per studenti delle scuole ginnasiali, allo scopo di favorire i figli del popo­lo dotati ma assolutamente impossibilitati a frequentare le pub­bliche scuole, ecc.: è tutto un crescendo determinato da fede, senso civile, fantasia ed affetto per i giovani.

In una formula felice egli sintetizza l'obiettivo di ogni suo sforzo: formare buoni cristiani e onesti, utili cittadini. Questa meta da raggiungere - e con urgenza, per prevenire ed ar­ginare mali irreparabili - gli permette di superare una mentalità di impronta conservatrice nella quale egli è cresciuto, che av­rebbe potuto chiuderlo e paralizzarlo in schemi rigidi e immobi­li. Don Bosco si ispira invece, a livello operativo, ad un model­lo di società e di uomo impregnato di valori cristiani e di soli­de virtù civili, ma contemporaneamente aperto agli sviluppi sto­rici: un insieme armonico di antico e di nuovo o, come dice lui, “l'uomo antico rinnovato secondo i bisogni dei tempi”.


Mentre è attento alle esigenze native dei giovani (affetto, amicizia, allegria, vita attiva, comunità, associazionismo, pro­tagonismo, partecipazione, forti motivazioni ideali, crescita professionale e culturale...), non si lascia sfuggire le opportu­nità offerte dall'incalzare degli eventi sociali e politici. Va­rie sue iniziative ce lo dimostrano:

- le leggi di soppressione di ordini e corporazioni religio­se (1855) lo indirizzano verso un modello più malleabile di società e congregazione religiosa;

- le leggi di riforma della scuola (1848 e 1859) lo stimolano a ricercare soluzioni che rispondano ai suoi progetti educativi ed insieme si inseriscano nella concezione liberale della società;

- il crescere e l'articolarsi progressivo del cooperativismo nelle sue varie forme gli offre spunti per l'ideazione di un va­sto movimento di cooperatori a servizio della Chiesa e della so­cietà civile;

- la diffusione dell'interesse missionario da una parte e il massiccio flusso migratorio verso il Nuovo Mondo dall'altra, gli ispirano un progetto missionario che è insieme evangelizzazione, civilizzazione, opera educativa, in cui si affiancano iniziative missionarie classiche e attività socio-religiose tra gli emigrati italiani simili a quelle di Valdocco;

- la crescente sete di cultura presso il popolo, la voglia di leggere e di informarsi, come pure il dilagare di idee contra­stanti con quelle cattoliche, lo spingono ad inventare e collau­dare forme di comunicazione estremamente agili ed economiche per la diffusione dei valori e dei modelli cristiani; i suoi libretti sono diffusi capillarmente con la cooperazione di una vasta rete di simpatizzanti e ottengono un successo notevole per il linguag­gio facile, per lo stile che privilegia narrazioni e fatti esem­plari, per l'anima e i sentimenti, che sono popolari;

- la mancanza di intesa e le tensioni gravi tra autorità statale e gerarchia cattolica, che hanno determinato una situa­zione per cui moltissime sedi vescovili rimangono sprovviste di pastori, con danno delle popolazioni, lo rendono - lui, prudente conservatore, ma preoccupato innanzitutto della cura pastorale - mediatore convinto della necessità di una conciliazione basata su un rinnovato concetto del rapporto Chiesa-Stato;

- anche l'urgenza di reperire fondi per costruire le sue o­pere e la basilica del Sacro Cuore, che lo obbliga ai grandi viaggi in Italia, Francia e Spagna, diventa occasione di ministe­ro pastorale, di predicazione, di invito alla conversione e all'impegno nel bene e nel servizio dei più poveri; si trasforma in momento di coagulo e di incontro tra cattolici, in stimolo all'azione e all'unione; risulta mezzo efficace di trasmissione del suo metodo educativo, delle sue ansie di salvezza e salva­guardia della gioventù, di una caratteristica devozione alla Ma­donna che unifica la tensione verso la perfezione cristiana con il massimo impegno storico e sociale.


Fatiche e sofferenze, fede e donazione incondizionata, di­sponibilità al servizio della Chiesa e del papa fanno sì che ne­gli ultimi anni di vita la sua figura raggiunga vertici e dimen­sioni imponenti: diventa un punto di riferimento per i cattolici contemporanei, ma nello stesso tempo rimane il prete dei giovani; è visto come un profeta dei tempi nuovi, la meraviglia del secolo XIX, ma il suo messaggio resta semplicissimo:


- darsi a Dio totalmente, fin dalla giovinezza;

- operare incessantemente e in ogni modo per compiere il be­ne ed evitare il male;

- vivere la carità, trattare con amorevolezza il prossimo;

- i sacramenti dell'Eucarestia e della Penitenza sono il se­greto della santità;

- venerare la Vergine Maria come modello e aiuto nella vita cristiana;

- amare e servire la Chiesa e il papa;

- “Se facciamo bene, troveremo bene in questa vita e nell'altra”;

- “Un pezzo di paradiso aggiusta tutto!”.



47 1.2. Valori pedagogici e spirituali emergenti

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In trentott'anni di vita, tanto densi e fecondi, i valori da evidenziare sono molti. Noi ci limitiamo a suggerirne alcuni in riferimento agli ambienti visitati, e particolarmente quelli che interessano i giovani e coloro che si impegnano al loro servizio nell'opera educativa e pastorale.

Naturalmente, anche per Valdocco, rimangono validi molti dei valori suggeriti nelle parti precedenti di questo libro, alle quali rimandiamo, soprattutto per ciò che si riferisce al clima di famiglia tra giovani ed educatori creato da don Bosco a Valdocco, alla quali­ficazione professionale e culturale, al cammino di vita cristiana e di crescita spirituale. Don Bosco ripropone ai suoi ragazzi quei valori che sono stati significativi per lui giovane ed hanno fondato la sua personalità umana e cristiana.


La chiesa di san Francesco di Sales ci rammenta che:

- i giovani hanno una nativa connaturalità con i valori as­soluti, desiderano ricevere forti proposte spirituali e san­no rispondere con totalità, se aiutati, stimolati e seguiti;

- la preghiera giovanile non deve fermarsi alla forma e alle emozioni o a momenti isolati: deve animare la vita, ispirare e sostenere le scelte, diffondersi nella giornata;

- la grazia, il rapporto sacramentale con Cristo, operano meraviglie nei cuori giovanili e possono portarli alle vette della contemplazione;

- il sacramento della Penitenza è uno strumento indispensa­bile nel cammino cristiano, come medicina, prevenzione, for­za, verifica, confronto;

- i modelli concreti di vita cristiana, vicini alla condi­zione e alla mentalità giovanile, sono potenti ed efficaci veicoli di valori;

- le verità cristiane, la liturgia e i sacramenti, la devo­zione mariana, la Sacra Scrittura... debbono essere presen­tati e fatti sperimentare nella loro totalità, ma in forme percepibili dai giovani e dai ragazzi: la pastorale giovani­le non è una pastorale minore o parziale, anche se privile­gia linguaggi e forme giovanili.



La Casa annessa all'Oratorio di S. Francesco di Sales, con la sua vita comunitaria, con le sue attività e i suoi ritmi ci insegna che:

- il giovane ha un prepotente bisogno di comprensione, di a­micizia, di essere amato per se stesso, di confidenza; ma anche di modelli adulti riusciti, di paternità spirituale (non paternalismo!);

- la comunità giovanile positiva e serena, ricca di valori e di impegno, è uno dei più efficaci fattori di formazione;

- i migliori apostoli dei giovani sono i giovani stessi;

- per educare come don Bosco bisogna essere in tanti e ben affiatati, animati da carità, generosità e abnegazione, i­spirati da motivazioni religiose, perennemente ottimisti sull'uomo e sulla storia (che è storia di salvezza!);

- il ragazzo di oggi è l'uomo di domani: ogni scelta ogni attività, anche quelle di carattere ludico, contribuiscono alla formazione dell'uomo; l'educatore deve essere previ­dente, rispettoso, intuitivo, qualificato; la sua è una mis­sione storica;

- la pastorale giovanile e l'azione educativa sono monche e inutili, se non sfociano nella formazione vocazionale e pro­fessionale;

- è indispensabile un progetto, condiviso e attuato da una comunità educativa, in cui si vengano coordinate e finaliz­zate attività e scelte, orari e impegni, doveri e svaghi, catechesi e formazione, preghiera e cultura...

- la prevenzione è costruzione di valori e atteggiamenti po­sitivi, prima che argine al male;

- la formazione delle idee e delle convinzioni che passa at­traverso l'esercizio critico della ragione non determina plagi e fanatismi, ma crea persone libere, malleabili ed e­quilibrate;

- compito dell'educatore è anche quello di scoprire e susci­tare talenti, di offrire occasioni di espressione e di cre­scita;

- la qualificazione culturale e professionale non può essere delegata acriticamente: infatti non si tratta solo di comu­nicare competenze tecniche, ma di formare mentalità e visio­ni del mondo e dei valori.




2. NOTE STORICO-GEOGRAFICHE E BIOGRAFICHE


48 2.1. Azione sociale e pastorale nella seconda metà dell'Ottocento

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Dopo il crollo del neo-guelfismo con i fatti del 1848-1849, si approfondisce il solco tra le classi liberali, che assumono le leve del governo, e il mondo cattolico che non approva la posi­zione antiromana del movimento di unificazione nazionale e si ar­rocca su posizioni conservatrici. Le tensioni vanno crescendo con le leggi in materia ecclesiastica, con quelle di soppressione delle congregazioni religiose e di riforma della scuola, aggrava­te da ondate di anticlericalismo da una parte e di rigida intran­sigenza dall'altra. Si giunge alla rottura totale del dialogo con l'occupazione dei territori pontifici e la presa di Roma (1870). Una delle conseguenze più dolorose ed evidenti è che molte sedi vescovili, con la morte degli Ordinari, restano vacanti. Anche la situazione economica delle chiese locali, poi, si aggrava per i nuovi oneri fiscali e per l'incameramento dei benefici ecclesia­stici. Di riflesso si manifesta una forte crisi vocazionale che potrà essere superata soltanto verso gli anni Ottanta.

Vani risultano per il momento i tentativi di conciliazione condotti dagli esponenti più aperti delle due parti.


Nel 1861 il teologo Giacomo Margotti sul giornale torinese l'Armonia aveva lanciato il motto: “né eletti, né elettori”, in­vitando i cattolici ad esimersi da qualsiasi forma di partecipa­zione alla vita politica, come protesta contro le posizioni libe­rali. Nel 1868 la Sacra Penitenzieria teorizza questa posizione nel principio del non expedit, ripreso e confermato nel 1874 dal papa Pio IX. Sull'interpretazione più o meno intransigente del non expedit, i cattolici assumono posizioni diverse, finché il Santo Ufficio nel 1886 lo interpreta ufficialmente come proi­bizione ai cattolici di qualsiasi impegno diretto nella vita po­litica.


Di fatto, comunque, fin dagli anni Cinquanta i cattolici, ritirati da ogni compromesso col potere, impegnano le loro forze nel campo più squisitamente religioso, educativo, assistenziale e, più tardi, sociale. Ecclesiastici e laici avviano una serie di attività che vanno dalle missioni popolari, dal rinnovamento del­le antiche confraternite e dalla costituzione di nuove associa­zioni religiose, fino alla fondazione di collegi e scuole, di a­sili infantili, case di riposo, ospedali, casse rurali e società operaie e di mutuo soccorso. Si viene così formando quel fitto tessuto di iniziative e di intese che coagulerà nell'Opera dei Congressi (1874-1904) e in un movimento cattolico di massa dalle forti connotazioni sociali.


Gerarchia e clero concentrano le loro attenzioni e cure su­gli aspetti più propriamente religiosi e pastorali della vita ec­clesiale. Assistiamo così ad una ripresa generale nel mondo cat­tolico in Europa e in Italia che porta, ad esempio, a un rinnova­mento nel campo degli studi teologici (neotomismo), biblici e li­turgici (movimento biblico e liturgico), della catechesi (nascita dei vari movimenti catechistici), dell'impegno missionario, ecc.

Negli ambienti cattolici degli ultimi decenni del secolo si assiste anche ad un rinnovamento della vita spirituale e allo sviluppo di un accentuato interesse per il soprannaturale e il taumaturgico, favorito dalle apparizioni straordinarie (le più note sono quelle di Lour­des e La Salette) e dalla forza di attrazione esercitata da figure carismatiche come lo stesso don Bosco.

Un settore che subisce uno sviluppo vistoso è quello della vita consacrata. La crisi dei grandi ordini religiosi da una par­te e, dall'altra, l'impellente necessità di operatori nel campo della pastorale, dell'assistenza e dell'educazione, portano ad u­na fioritura di piccole e medie congregazioni femminili, soprattutto, e ma­schili, dai caratteri prevalentemente locali, che rispondono ef­ficacemente a questi bisogni.

Tutte queste scelte determinano di fatto una nuova saldatura tra gerarchia cattolica e ambienti popolari, tra clero e laicato, preludio ad un modello di chiesa che troverà la sua piena espli­citazione nel secolo successivo.


L'azione di don Bosco, insieme a quella di altri operatori della “carità cristiana” che sono spinti dalle urgenze e dalle gravi necessità dei giovani e del popolo, in qualche modo apre la strada al cristianesimo sociale di fine secolo. Il nostro Santo è fondamentalmente un pragmatico che cerca di affrontare la situa­zione aggirando gli ostacoli e muovendosi negli spazi di manovra consentiti. Si adatta di fatto alla impostazione ed alle leggi della società liberale, che presenta i caratteri della libera concorrenza, del pluralismo, della concezione laica dello stato.

Le sue opere acquistano in tal modo dinamismo ed adattabili­tà, ed anche i destinatari privilegiati della sua azione, “i gio­vani poveri e abbandonati, pericolanti”, vanno articolandosi in categorie più complesse: dai garzoni stagionali degli anni Quaranta-Cinquanta, ai figli degli operai dei quartieri popolari, ai giovani studenti che formeranno la classe media del nuovo sta­to italiano e le future leve del clero, fino agli emigrati nelle Americhe e ai “selvaggi” della Terra del Fuoco immersi nelle te­nebre del paganesimo.


Così don Bosco, a partire dall'esperienza di Valdocco, si manifesta per quello che è il vero santo: l'uomo fedele a Dio, ma anche il testimone privilegiato del suo tempo, capace di suscita­re risposte concrete alle attese del futuro.



49 2.2. Tavola cronologica 1

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(delle costruzioni: 1851-1888)



DateAcquisti e costruzioni


1851-1852Chiesa di san Francesco di Sales

1852-1853Casa don Bosco e prima parte dell'ala Camerette

1856 Abbattimento e ricostruzione di casa Pinardi

Due aule per scuole elementari diurne su via Giardiniera e stanzino del portinaio


1859 Capannone con 3 aule ginnasiali nel cortile a nord

1859-1860Portineria più ampia

1860 Acquisto di casa e terreno Filippi

Nuova sacrestia per la chiesa di san Francesco di Sales

1861 Sistemazione e ampliamento di casa Filippi

Primo ampliamento dell'ala Camerette

1862 Portico e terrazzo sul fronte delle Camerette

Costruzione a due piani lungo via Giardiniera per tipografia, dormitori e nuova portineria

1863-1864Costruzione di un edificio a 3 piani per le scuole, appoggiato al muro di levante (casa Audisio)


1863 Ricompera il "campo dei sogni" venduto ai Rosminiani

1863-1868Santuario di Maria Ausiliatrice


1870 Ricompera da Modesto Rua il grande orto a settentrione, già proprietà Filippi

1873 Compera e demolisce casa Coriasco

1874-1875Costruzione dell'edificio dell'attuale portineria

1876-1877 Ultimo ampliamento dell'ala Camerette


1880 Acquisto di casa Nelva e terreno per l'Oratorio festivo

1881 Ampliamento dell'orto a settentrione

1881-1883Costruzione di nuovi locali per la tipografia

1883-1884Costruzione del laboratorio per fabbri-meccanici

1884 Acquisto di terreno e casa Bellezza


(Cf F. Giraudi, L'Oratorio di don Bosco. Inizio e progressivo sviluppo edilizio della Casa Madre dei Salesiani in Torino, Torino, SEI 19352).

50 2.3. Tavola cronologica 2

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(degli avvenimenti: 1850-1888)



DateAvvenimenti


1850Don Bosco fonda la Società degli operai o di mutuo soccorso

1852Mons. Fransoni nomina don Bosco direttore degli Oratori

1853Inizia la pubblicazione delle Letture Cattoliche

Laboratori interni per calzolai e sarti

1854Primo nucleo della futura Società Salesiana: si chiamano "Salesiani"

Laboratorio dei legatori di libri

Arrivo di Domenico Savio a Valdocco

1855Prima classe interna (3a ginnasiale) affidata al chierico Francesia



1856Laboratorio di falegnameria

Altre due classi interne (1a e 2a ginnasiale)

Istituzione della Compagnia dell'Immacolata

1857Istituzione della Compagnia del SS. Sacramento e di una

Conferenza giovanile di san Vincenzo de' Paoli

1858Don Bosco fa il primo viaggio a Roma e presenta a Pio IX il suo progetto di società religiosa e il primo abbozzo di Costituzioni

Fondazione del Piccolo Clero

1859Viene completato il ginnasio interno (5 classi)

Istituzione della Compagnia di san Giuseppe

Nascita ufficiale della Società Salesiana

1860Ingresso dei primi soci laici (= coadiutori) nella Società Salesiana


1861Fondazione della tipografia

1862Laboratorio dei fabbri-ferrai

1863Primo istituto fuori Torino, a Mirabello Monferrato (AL), sotto la direzione di don M. Rua

1864Fondazione del collegio di Lanzo Torinese (TO)

Decretum laudis per la Società Salesiana

Primo incontro con Maria Domenica Mazzarello

1865Progetto di Biblioteca degli scrittori latini



1867Secondo viaggio a Roma

1868Consacrazione della Basilica di Maria Ausiliatrice

1869Approvazione pontificia della Società Salesiana

Apertura dell'istituto di Cherasco (CN)

Inizia la Biblioteca della gioventù italiana

Terzo viaggio a Roma

1870Fondazione del Collegio-Convitto municipale di Alassio (SV)

Quarto viaggio a Roma

Trasferimento dell'istituto di Mirabello a Borgo S. Martino (AL)



1871Fondazione della scuola artigianale a Marassi (GE) trasferita l'anno successivo a Sampierdarena

Fondazione delle Figlie di Maria Ausiliatrice

Due viaggi a Roma (in giugno e in settembre)

Mons. Gastaldi vescovo di Torino

Apertura della casa di Varazze (SV)

1872Accettazione del collegio di Valsalice in Torino

1873Prime tensioni col Gastaldi

Settimo e ottavo viaggio a Roma

1874Approvazione definitiva delle Costituzioni della Società Salesiana

Primo Capitolo Generale delle Figlie di Maria Ausiliatrice, con l'elezione della Mazzarello a superiora generale

1875Nono viaggio a Roma

Prima spedizione missionaria in Argentina



1876Decimo e undicesimo viaggio a Roma

Approvazione pontificia dei Cooperatori salesiani

Contatti in Francia per eventuali fondazioni

1877Tre viaggi a Roma

Apertura del Patronato di san Pietro a Nizza (Francia)

Primo Capitolo Generale della Società Salesiana

Fondazione del Bollettino Salesiano

1878Morte di Pio IX ed elezione di Leone XIII, mentre don Bosco è a Roma nel corso del suo quattordicesimo viaggio

Prima udienza con Leone XIII

Benedizione della pietra angolare della chiesa di san Giovanni Evangelista in Torino

1879Quindicesimo viaggio a Roma

Inaugurazione del noviziato di San Benigno Canavese (TO)

1880Sedicesimo viaggio a Roma

Don Bosco accetta di completare la costruzione della Basilica del Sacro Cuore in Roma


1881Prima fondazione in Spagna: Utrera (Siviglia)

Diciassettesimo viaggio a Roma

Morte della Mazzarello

1882Viaggio in Francia e nuovo viaggio a Roma

Consacrazione della chiesa di san Giovanni Evangelista

1883Il card. Alimonda vescovo di Torino

Visita l'Oratorio don Achille Ratti, il futuro Pio XI

Nomina di don Cagliero a vicario apostolico della Patagonia

1884Importante viaggio in Francia, nonostante la malferma salute

Diciannovesimo viaggio a Roma

Lettera da Roma sullo stato dell'Oratorio

Partecipazione delle scuole di don Bosco alla Esposizione Nazionale

dell'Industria di Torino, con apposito padiglione

Consacrazione episcopale di mons. Cagliero

  1. Nonostante la salute malferma, don Bosco fa un nuovo viaggio

in Francia

Nomina di don Rua a suo vicario, con diritto di successione


1886Viaggio in Spagna

1887Ultimo viaggio a Roma per la consacrazione della Basilica del Sacro Cuore

1887 Don Bosco celebra l'ultima Messa l’11 dicembre

1888 31 gennaio: morte di don Bosco




51 2.3. Itinerari e suggerimenti

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La visita a Valdocco si presenta molto semplice e può essere articolata in base alle esigenze dei vari gruppi e al tempo di­sponibile.


Consigliamo di partire dall' attuale cappella Pinardi (pp. 158-159), di passare poi alla chiesa di san Francesco di Sales (pp. 295-213), quindi di sa­lire alle Camerette (pp. 224-236) e di concludere con la Basilica di Maria Ausiliatrice (pp. 237-264).


È consigliata anche la visita al Centro Salesiano di Documentazione Storica e Popolare Mariana (pp. 258-259), collocato sotto la Basilica, soprattutto per i gruppi più qualificati.



Luoghi adatti per un momento di riflessione e di preghiera o per la Messa:

Cappella Pinardi - Chiesa di san Francesco di Sales - Cap­pella delle Camerette - Basilica, previo accordo con il rettore.

Ci sono poi in Valdocco alcune sale di varia capienza, utilizza­bili d'intesa con il rettore della Basilica o il direttore della Comunità salesiana.




3. VISITA AI LUOGHI

Illustriamo gli edifici che costituiscono la cittadella sa­lesiana di Valdocco seguendo un criterio prevalentemente cronolo­gico:


1) il nucleo storico costituito dagli edifici innalzati tra il 1851 e il 1856 (compresi gli adattamenti e le aggiunte degli anni successivi): chiesa di san Francesco di Sales e annesso palazzo con l'ala delle Camerette;

2) santuario di Maria Ausiliatrice (costruito tra 1863 e 1868, con gli ampliamenti eseguiti nel 1935-1938);

3) altri edifici costruiti da don Bosco, tuttora esistenti: casa della portineria e adiacenze (1874-1875) e casa della tipografia (1881-1883);

4) costruzioni risalenti a don Bosco, ma poi riedificate: ex casa Filippi (adattata e ampliata nel 1861, rifatta total­mente nel 1952), ex casa Audisio (edificata tra 1863 e 1864, abbattuta e ricostruita nel 1954);

5) edifici innalzati dopo la morte di don Bosco: casa del Capitolo Superiore della Congregazione; complesso edilizio delle Scuole Profes­sionali; edifici della Scuola Media e teatro; set­tore dei servizi di cucina, lavanderia, refettori; le co­struzioni dell'Oratorio;

6) costruzioni che si affacciano su piazza Maria Ausiliatri­ce.



52 3.1. Il nucleo storico

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(edifici innalzati tra 1851 e 1856)


Il consolidamento e lo sviluppo progressivo delle attività scaturite nell'alveo del primitivo Oratorio, insieme al numero straripante di frequentatori festivi e quotidiani, convinsero don Bosco dell'assoluta necessità di passare ad una seconda fase: quella della costruzione di nuovi ambienti finora soltanto sogna­ti. Fede nella Divina Provvidenza unita ad arguta e coraggiosa intraprendenza, diedero al povero prete il coraggio di metter ma­no ad un'impresa proibitiva per chi, come lui, non possedeva al­cuna risorsa economica: ricorso alla carità privata e pubblica e organizzazione di lotterie saranno le principali fonti dei suoi introiti.

La necessità prima era quella di costruire una chiesa più capiente e dignitosa della povera cappella-tettoia; urgeva poi ampliare i locali della casa annessa all'Oratorio con l'erezione di un edificio atto ad accogliere in modo meno precario i giovani apprendisti e studenti, in prevalenza orfani e totalmente abban­donati, che don Bosco andava ospitando.


52.1 3.1.1. Chiesa di san Francesco di Sales (1851-1852)

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Don Bosco si era visto costretto ad allungare la cappella Pinardi con l'eliminazione della primitiva sacrestia, adattando a questo uso una stanza di casa Pinardi, ma l'ambiente era scomodo, come scrive don Bosco, “per la capacità, e per la bassezza. Sic­come per entrarvi bisognava discendere due scalini, così d'inver­no e in tempo piovoso eravamo allagati, mentre di estate eravamo soffocati dal caldo e dal tanfo eccessivo. Pel che passavano po­chi giorni festivi senza che qualche allievo venisse preso da sfinimento e portato fuori come asfissiato. Era dunque necessità che si desse mano ad un edifizio più proporzionato al numero dei giovanetti, più ventilato e salubre” (MO 206-207).

Il disegno della nuova chiesa, con facciata su via della Giardiniera, fu affidato all'architetto Federico Blachier e la sua realizzazione all'impresario Federico Bocca, il quale già dal 1847 aiutava l'Oratorio con offerte. Il Consiglio Edilizio Comu­nale approvò il progetto il 24 giugno 1851, ma i lavori erano stati iniziati già da un mese circa con la demolizione del muro divisorio tra i due cortili (quello di fronte a casa Pinardi e quello sul fianco est, dove si costruiva la chiesa) e lo scavo per le fondamenta.

Il 20 luglio, gettati già i basamenti, si compì la cerimonia di posa della pietra angolare. In sostituzione di mons. Fransoni, esule a Lione, la benedizione venne impartita dal can. Ottavio Moreno, regio economo generale; la pietra fu collocata dal ban­chiere Giuseppe Cotta, munifico benefattore di don Bosco e di tante opere caritative in città. Alla presenza di 600 oratoriani e di molti invitati, il padre dottrinario Barrera, entusiasmatosi, improvvisò uno splendido discorso in cui paragonava la pietra an­golare della futura chiesa al granello di senape e aggiungeva: “essa significa ancora che l'Opera degli Oratorii, basata sulla fede e sulla carità di Gesù Cristo, sarà qual masso immobile con­tro del quale invano lotteranno i nemici della Religione e gli spiriti delle tenebre” (MB 4, 277).

I lavori procedettero rapidamente e in agosto i muri sorge­vano di alcuni metri da terra. Per far fronte alle spese don Bo­sco aveva venduto porzioni del terreno, acquistato dal seminario nel 1850, a Giovanni Battista Coriasco e a Giovanni Emanuel, ma le 4000 lire ricavate gli servirono appena per pagare una parte degli scavi. Diramò allora circolari pubbliche e petizioni, gra­zie alle quali riuscì a raccogliere tra benefattori piccoli e grandi 35 mila lire; altre 1000 gli vennero offerte dal Re Vitto­rio Emanuele ed altrettante da mons. Losana, vescovo di Biella; l'Economato Regio Apostolico gli assegnò 10.000 lire, prelevabili a lavori ultimati. Tutto ciò non fu ancora sufficiente e nel di­cembre 1851 don Bosco organizzava una grande lotteria - la prima delle tante che farà in seguito - dalla quale ricavò inaspettata­mente 26.000 lire, che volle dividere con l'Opera del Cottolengo.

Queste necessità economiche che lo spingevano a reperire fondi presso enti pubblici e persone di ogni classe sociale, con­tribuirono pure notevolmente a diffondere la conoscenza e la sti­ma per la sua opera.

La chiesa fu portata a termine celermente e il 20 giugno 1852, mentre in Torino si celebrava la festa della Consolata, il curato di Borgo Dora, teologo Agostino Gattino, procedette alla solenne benedizione del sacro edificio dedicato a san Francesco di Sales. Alla cerimonia, prolungata nel pomeriggio, assistette una folla di giovani, di popolo e di insigni personaggi e bene­fattori (cf MB 4, 432-439).

Come nelle spese di costruzione, così per gli arredi concor­sero tanti benefattori dei quali don Bosco, riconoscente, volle tenere nota:


Terminata la chiesa occorrevano arredi di tutti i gene­ri. La carità cittadina non mancò. Il Comm. Giuseppe Dupré fece abbellire una cappella, che fu dedicata a S. Luigi, e comperò un altare di marmo, che tuttora adorna quella chie­sa. Altro benefattore fece fare l'orchestra, sopra cui fu collocato il piccolo organo destinato a favore dei giovani esterni. Il sig. Michele Scanagatti comperò una compiuta muta di candelieri, il marchese Fassati fece fare l'altare della Madonna, provvide una muta di candelieri di bronzo e più tardi la statua della Madonna. D. Caffasso pagò tutte le spese occorse pel pulpito. L'altare magg. venne provveduto dal Dottore Francesco Vallauri e completato da suo figlio D. Pietro sacerdote” (MO 212-213).


Il campanile di san Francesco di Sales fu portato a termine tra il dicembre 1852 e il febbraio 1853. Su di esso, accanto alla campanella della primitiva chiesetta, il 22 maggio 1853 ne venne collocata una più grande, regalo del conte Carlo Cays (1813-1882), amico di don Bosco, cattolico fra i più attivi in Torino, che nel 1876, rimasto vedovo, entrerà nella Società Salesiana e sarà consacrato sacerdote. Le due campane furono completamente rifuse nel 1929, in occasione della beatificazione di don Bosco, poiché avevano perso la loro primitiva sonorità.


52.1.1 Visita alla chiesa

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La visita a quella che viene chiamata la Porziuncola sale­siana offre spunti per una riflessione sugli elementi essenziali della spiritualità vissuta e proposta da don Bosco ai suoi giova­ni: nel piccolo coro dietro l'altare egli confessava per ore ogni giorno, attuando una forma di direzione spirituale essenziale e sostanziosa; l'Eucaristia celebrata, ricevuta e adorata costitui­va il centro propulsore di tutta la proposta formativa; la Vergi­ne Maria vi era venerata ed amata come madre, invocata come aiu­to, imitata come modello di perfezione; san Francesco di Sales, san Luigi Gonzaga, san Giuseppe costituivano altrettanti esempi di virtù da interiorizzare e riattualizzare. C'erano poi le nume­rose feste ben distribuite durante l'anno, le pratiche di pietà personali e comunitarie proposte sul Giovane provveduto, il canto sempre ben curato e adatto ai giovani, l'esempio quotidiano di don Bosco, di mamma Margherita, dei primi Salesiani e di tanti ragazzi eccezionali che qui alimentarono la loro vita interiore.


La chiesa, a croce latina, misura 28 metri di lunghezza e 11 di larghezza. Don Bosco la volle funzionale e dignitosa, ma es­senziale nella decorazione.

A conclusione dei grandi lavori di sistemazione ed ampliamen­to di Valdocco, decisi dai superiori maggiori ed attuati progres­sivamente dall'economo generale don Fedele Giraudi nel 1959, an­che san Francesco di Sales venne restaurata ed arricchita con la sostituzione del pavimento, il rivestimento in marmo e i quadri che oggi vediamo.


Sulla parete laterale destra, per chi entra dalla porta cen­trale, si incontra immediatamente una grande tela del Crida (1960) che rappresenta la prima Messa di don Michele Rua celebra­ta proprio in questa chiesa (30 luglio 1860); lo assiste don Bo­sco e lo servono don Giovanni Cagliero e don Giovanni Battista Francesia: essi pure celebreranno qui la loro prima Messa il 15 giugno 1862.


Sulla porticina laterale sono raffigurati i conti Federico e Carlotta Callori di Vignale (Crida, 1960), che furono tra i primi e più munifici benefattori ed amici di don Bosco.

Questa porta metteva in comunicazione chiesa e cortile in­terno. Di qui passavano don Bosco, i ragazzi dell'Oratorio e tut­ti quelli di casa ogni volta che si recavano in cappella. Una piccola lapide posta all'esterno ricorda un fatto prodigioso ve­rificatosi sul limitare della soglia e dovuto alla grande fede di don Bosco e all'amore per i suoi giovani. Era usanza che la cola­zione, costituita da una semplice pagnottella, venisse distribui­ta ai giovani interni all'uscita dalla Messa. Un mattino del no­vembre 1860 il panettiere sig. Magra, non aveva voluto portare il pane, perché da troppo tempo non era stato pagato. Don Bosco fece cercare tutto il pane che restava in dispensa: una ventina di pa­gnotte. Cominciò personalmente la distribuzione:

I giovani gli sfilavano d'innanzi - racconta Francesco Dalmazzo, testimone della scena - contenti di riceverlo da lui e gli baciavano la mano, mentre a ciascheduno egli dice­va una parola e dispensava un sorriso.

Tutti gli alunni, circa quattrocento ricevettero il loro pane. Finita quella distribuzione io volli di bel nuovo esa­minare la cesta del pane e con mia grande ammirazione, con­statai essere rimasta nel canestro la stessa quantità di pa­ne, quanta ve ne era prima, senza che fosse stato recato al­tro pane o mutato il cesto” (MB 6, 779).


L'altare della cappella dedicata alla Madonna fu donato dai marchesi Domenico e Maria Fassati ed è rimasto pressoché identi­co: sono state ricostruite in marmo sia le due colonne di gesso che reggono il timpano, sia l'antica balaustrata in legno. Anche la statua dell'Immacolata che oggi vediamo nella nicchia non è o­riginale. Il marcherse aveva regalato una Madonna del Rosario con Bambino, proveniente dal santuario della Consolata che, sostitui­ta nei lavori del 1959, è andata dispersa.

I due quadri sulla parete della cappella sono del Càffaro Rore e ritraggono fatti della vita di Domenico Savio avvenuti in questa chiesa: la visione di Pio IX che s'avanza con fiaccola verso gli anglicani inglesi e Domenico con alcuni amici che legge il regolamento della Compagnia dell'Immacolata. Infatti, proprio di fronte a questo altare, dove il Savio più volte al giorno ve­niva a pregare da solo o con qualche amico, l'8 giugno 1856, pre­se avvio la seconda compagnia dell'Oratorio, i cui membri si pre­figgevano un particolare impegno nei propri doveri, la tensione verso la santità e l'apostolato tra i compagni (cf DS 75-83).

Già due anni prima, l'8 dicembre 1854, giorno in cui Pio IX aveva proclamato il dogma della Immacolata Concezione, Domenico di fronte a questa statua si era consacrato alla Vergine:


La sera di quel giorno, 8 dicembre, compiute le sacre funzioni di chiesa, col consiglio del confessore, Domenico andò avanti all'altare di Maria, rinnovò le promesse fatte nella prima comunione, di poi disse più e più volte queste precise parole: Maria, vi dono il mio cuore; fate che sia sempre vostro. Gesù e Maria, siate voi sempre gli amici miei; ma per pietà fatemi morir piuttosto che mi accada la disgrazia di commettere un solo peccato” (DS 40).


Sul pilastro che sta tra la cappella della Madonna e il pre­sbiterio era collocato il pulpito, pagato dal Cafasso, al quale si accedeva con scaletta dal presbiterio stesso. Oggi è conserva­to nel Museo annesso alle Camerette di don Bosco. Su quel pulpi­to don Bosco ebbe a pronunciare la predica che determinò un nuovo e più decisivo impegno spirituale del giovanissimo Domenico:


Erano sei mesi da che il Savio dimorava all'Oratorio, quando fu ivi fatta una predica sul modo facile di farsi santo. Il predicatore si fermò specialmente a sviluppare tre pensieri che fecero profonda impressione sull'animo di Dome­nico, vale a dire: è volontà di Dio che ci facciamo tutti santi; è assai facile di riuscirvi; è un gran premio prepa­rato in cielo a chi si fa santo. Quella predica per Domenico fu come una scintilla che gli infiammò tutto il cuore d'amore di Dio. Per qualche giorno disse nulla, ma era meno allegro del solito, sicché se ne accorsero i compagni e me ne accorsi anch'io. Giudicando che tal cosa provenisse da novello incomodo di sanità gli chiesi se pativa qualche male. Anzi, mi ri­spose, patisco qualche bene. - Che vorresti dire? Voglio di­re che mi sento un desiderio ed un bisogno di farmi santo; io non pensava di potermi far santo con tanta facilità; ma ora che ho capito potersi ciò effettuare anche stando alle­gro, io voglio assolutamente ed ho assolutamente bisogno di farmi santo. Mi dica adunque come debbo regolarmi per inco­minciare tale impresa.

Io lodai il proposito, ma lo esortai a non inquietarsi, perché nelle commozioni dell'animo non si conosce la voce del Signore; che anzi io voleva per prima cosa una costante e moderata allegria, e consigliandolo ad essere perseverante nell'adempimento de’ suoi doveri di pietà e di studio, gli raccomandai che non mancasse di prendere sempre parte alla ricreazione coi suoi compagni” (DS 50-51).


Dell'altare maggiore, donato dalla famiglia del dott. Val­lauri, si conservano ancora il tabernacolo, l’altare con le "scaffe", cioé i ripiani per i candelieri, ridotti però da tre a due. È stato pure mo­dificato il supporto della mensa perché don Giraudi aveva intenzione di collocarvi l'urna di don Rua appena questi fosse stato proclamato beato.

Ricordiamo che questo tabernacolo è stato benedetto da don Bosco il 7 aprile 1852. Era il centro ideale della chiesa e di tutta la vita dell'Oratorio. Don Bosco ripeteva spesso ai suoi giovani che le colonne della vita spirituale sono i sacramenti dell'Eucaristia e della Penitenza, celebrati con impegno e con frequenza regolare. Con questi due mezzi egli trasformò tanti po­veri ragazzi in giganti dello spirito.

L'originale balaustra in legno dell'altar maggiore, testimo­ne delle ferventi Comunioni di mamma Margherita, di Domenico Sa­vio, di tutti i giovani e i Salesiani della prima generazione, è oggi esposta nel Museo delle Camerette.

Sulla parete destra del presbiterio è raffigurata la famosa estasi di Domenico dopo la Comunione (Càffaro Rore); su quella sinistra, sopra la porta della sacrestia, è ritratto san Giuseppe Cafasso in preghiera (Favaro, 1960).


Sulla parete dell'abside in un primo tempo don Bosco aveva collocato un bel quadro ovale di san Francesco di Sales, oggi conservato nel Museo annesso alle Camerette. Più tardi lo sostituì con una statua del santo, anch’essa conservata nel Museo. Nei restauri del 1959 i due finestroni absidali furono spostati più di lato e nel maggior spazio il Crida (1959) affrescò san France­sco di Sales in ginocchio mentre compone i suoi trattati spiri­tuali: si tratta di una copia della tela di Enrico Reffo (1890), fatta dipingere da don Rua per la Basilica di Maria Ausi­liatrice e ora conservata nel Museo del Centro di Documentazione Storica e Popolare Mariana situato sotto la Basilica dell'Ausiliatrice.


Il coretto dietro l'altar maggiore, nel quale si trovavano alcuni banchi, era il luogo preferito da Domenico Savio per la preghiera di ringraziamento dopo la Comunione, di fronte al tabernacolo (la cui porticina è originale). Un giorno, durante il ringraziamento, avvenne una delle estasi descritte da don Bo­sco nella vita del santo giovane:


Avvenne più volte, che andando in chiesa, specialmente nel giorno che Domenico faceva la santa comunione, oppure vi era esposto il santissimo Sacramento egli restava come rapito dai sensi, sicché lasciava passare tempo anche troppo lungo, se non era chiamato per compiere i suoi ordinari doveri. Accadde un giorno che mancò dalla colazione, dalla scuo­la, e dal medesimo pranzo, e niuno sapeva dove fosse; nello studio non c'era, a letto nemmeno. Riferita al Direttore tal cosa, gli nacque sospetto di quello che era realmente, che fosse in chiesa, siccome già altre volte era accaduto. Entra in chiesa, va in coro e lo vede là fermo come un sasso. Egli teneva un piede sull'altro, una mano appoggiata sul leggio dell'antifonario, l'altra sul petto colla faccia fissa e ri­volta verso il tabernacolo. Non muoveva palpebra. Lo chiama, nulla risponde. Lo scuote, e allora gli volge lo sguardo, e dice: oh è già finita la messa? Vedi, soggiunse il Diretto­re, mostrandogli l'orologio, sono le due. Egli dimandò umile perdono della trasgressione delle regole di casa, ed il di­rettore lo mandò a pranzo, dicendogli: se taluno ti dirà: onde vieni? Risponderai, che vieni dall'eseguire un mio co­mando” (DS 94-95).


Con la costruzione di questa chiesa don Bosco poteva curare meglio le celebrazioni eucaristiche e le funzioni religiose. Ogni giorno e soprattutto nelle feste, voleva devozione, precisione, decoro e solennità. Il chierico Giuseppe Bongiovanni (1836-1868), che nel 1857 aveva fondato la Compagnia del SS. Sacramen­to, “col fine della frequenza regolare ai Sacramenti e del culto alla SS. Eucaristia” (MB 5, 759), l'anno successivo organizzò fra i giovani migliori il gruppo del Piccolo Clero:


Oltre il decoro della casa di Dio, suo scopo primario fu di coltivare nei giovani studenti più virtuosi la vocazione allo stato ecclesiastico, e specialmente tra gli alunni delle classi superiori. Eglino, dopo di essersi convenientemente addestrati nelle cerimonie ecclesiastiche, dovevano, vestiti di talare e cotta, servire per turno la santa messa nei giorni festivi, ed assistere in corpo alle sacre funzioni in presbiterio nelle principali solennità dell'anno. All'occor­renza erano eziandio preparati all'ufficio di ceriferi, ac­coliti, turiferari, crociferi, cerimonieri ecc., per la mes­sa solenne, i vespri, per la benedizione col SS. Sacramento, per le processioni, per tutte le funzioni della Settimana santa e gli uffici e accompagnamenti funebri” (MB 5, 788).


Sul lato sinistro del presbiterio si apre la sacrestia co­struita nel 1860 dall'impresario Carlo Buzzetti che, insieme al fratello Giuseppe, salesiano coadiutore, era stato uno dei primi ragazzi raccolti nel dicembre del 1841 dopo l'incontro con Barto­lomeo Garelli. Fino al 1860 si era usata come sacrestia, prima u­na stanzetta della casa Pinardi poi, dal 1856, la parte di fondo dell'attuale cappella Pinardi.

Appoggiata al pilastro che delimita il presbiterio a sini­stra (opposto a quello dov'era il pulpito), don Bosco aveva col­locato una statua di san Giuseppe, conservata oggi nel Museo del Centro di Documentazione Mariana. Il santo era stato scelto tra i protettori dell'Oratorio, patrono particolare dei giovani arti­giani, tra i quali nel 1859 il chierico Giovanni Bonetti (1838-1891) avrebbe istituito la Compagnia di san Giuseppe allo scopo “di promuovere la gloria di Dio e la pratica delle virtù cristia­ne” (MB 6, 194).


La cappella di san Luigi - se si eccettua la sostituzione della balaustra - è la parte di chiesa meno rimaneggiata: origi­nali sono l'altare, donato dal banchiere Giuseppe Duprè, il ta­bernacolo, la nicchia e la statua di san Luigi. Questa semplice effigie di gesso, acquistata da don Bosco forse già ai tempi della cappella-tettoia, era portata in processione il giorno della fe­sta e ricordava ai giovani quel modello di carità evangelica e castità giovanile nel quale erano efficacemente concretizzati al­cuni dei valori fondamentali della spiritualità loro proposta. Sulle pareti laterali due tele del Favaro raffigurano, la prima (1961) Domenico Savio, Michele Magone e Francesco Besucco (i tre perfetti imitatori di san Luigi, dei quali don Bosco scrisse la vita), la seconda (1959), Pancrazio Soave che indica al Santo di Valdocco casa Pinardi.


Sulla parete sinistra della chiesa, ritornando verso la por­ta d'ingresso, incontriamo ancora due grandi quadri del Dalle Ce­ste (1960): l'uno rappresenta il sogno del 1846 in cui la Vergine Maria aveva indicato a don Bosco la futura chiesa di san France­sco di Sales (cf MB 2, 406); l'altro raffigura la predicazione di san Francesco di Sales al popolo.


La capace orchestra collocata al fondo era stata voluta dal Santo per la corale da lui stesso iniziata e perfezionata poi da Giovanni Cagliero (1838-1926), uno dei primi Salesiani, buon musicista e futuro cardinale. L'orchestra fu dotata presto di un piccolo organo, sostituito successivamente da altri strumenti mi­gliori; l'attuale è della ditta Tamburini di Crema (1959).


52.2 3.1.2. L'edificio del 1853 (casa don Bosco)

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Terminati i lavori per la chiesa di san Francesco di Sales don Bosco, che ancora non ha finito di pagare i debiti, decide di passare immediatamente alla seconda fase del progetto: la costru­zione di un edificio che gli offra ambienti dignitosi e spazio per sviluppare le attività dell'Oratorio e ospitare, in modo meno precario, i molti ragazzi totalmente abbandonati che incontra o che gli vengono raccomandati. Il gruppo crescente dei giovani in­terni , accolto nelle povere stanzucce di casa Pinardi, all'ini­zio del 1852 ha superato la trentina ed ha bisogno di dormitori più ampi, di una sala di studio e di un refettorio. Fino a que­sto momento infatti, eccetto il gruppetto di ospiti paganti, o­gnuno mangiava nel suo gavettino disperdendosi nel cortile o ne­gli ambienti della casa.

Giovanni Cagliero che, rimasto orfano di papà, se ne arriva a Valdocco tredicenne nel 1851, ci descrive la povertà di quei primi inizi e la familiare accoglienza di don Bosco e mamma Mar­gherita:


Ricordo sempre con piacere il momento della mia entrata nell'Oratorio la sera del 2 novembre. D. Bosco mi presentò alla buona mamma Margherita, dicendo: - Ecco, mamma, un ra­gazzetto di Castelnuovo, il quale ha ferma volontà di farsi buono e di studiare.

Rispose la mamma: - Oh sì, tu non fai altro che cercare ragazzi, mentre sai che manchiamo di posto.

D. Bosco sorridendo soggiunse: - Oh, qualche cantuccio lo troverete!

- Mettendolo nella tua stanza, - rispose la mamma.

- Oh, non è necessario. Questo giovanetto, come vedete, non è grande, e lo metteremo a dormire nel canestro dei grissini; e con una corda lo attaccheremo su in alto ad un trave; ed ecco il posto bello e trovato alla maniera della gabbia dei canarini. - Rise la madre ed intanto cercommi un sito, e fu necessario per quella sera che dormissi con un mio compagno ai piedi del suo letto.

L'indomani vidi che tutto era povero in quella casetta. Bassa ed angusta la stanza di D. Bosco, i dormitorii nostri a pian terreno, stretti e col selciato di pietre da strada, e con nessuna suppellettile, tranne i nostri pagliericci, lenzuola e coperte. La cucina era meschinissima e sprovvista di stoviglie, eccetto di alcune poche scodelle di stagno col rispettivo cucchiaio. Forchette e coltelli e salviette li vedemmo poi molti anni dopo, comprati o regalati da qualche pia e caritatevole persona. Il refettorio nostro era una tettoia, e quello di D. Bosco una stanzetta, vicina al poz­zo, che serviva di scuola e luogo di ricreazione. E tutto questo cooperava a tenerci nella condizione bassa e povera nella quale eravamo nati e nella quale ci trovavamo educati dall'esempio del servo di Dio, il quale molto godeva, quando poteva egli stesso servirci nel refettorio, prestarsi a te­nere in assetto il dormitorio, pulire e rappezzare gli abi­ti, ed altri simili servizii.

La sua vita comune, che faceva con noi, ci persuadeva che noi più che in un ospizio o collegio, ci trovavamo come in famiglia, sotto la direzione di un padre amorosissimo e di niente altro sollecito fuorché del nostro bene spirituale e temporale” (MB 4, 291-292).


Lo scoppio della vicina polveriera, avvenuto il 26 aprile 1852, aveva danneggiato la fragile casa Pinardi: era necessario quindi non indugiare.


52.2.1 Costruzione

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Nell'estate del 1852 si effettuarono gli scavi per il nuovo edificio che doveva sorgere sul prolungamento di casa Pinardi, verso est, fino al muro divisorio con la proprietà Filippi, lungo il quale un'ala di fabbricato si sarebbe protesa in avanti, pa­rallelamente alla chiesa di san Francesco di Sales. In novembre si era giunti con i muri all'altezza del secondo piano. Il giorno 20, per la rottura di un ponteggio nel braccio a levante, quello delle Camerette, crollò un muro dall'ultimo piano, ferendo grave­mente tre operai (cf MB 4, 506). Don Bosco ne fu addolorato, ma i lavori ripresero alacremente per l'urgenza di sistemare i dormitori e le scuole serali degli artigiani. In una decina di giorni si giunse al tetto.


La fabbrica era al coperchio. Già le travature collocate a posto, i listelli inchiodati, le tegole ammonticchiate sul culmine per esservi ordinatamente deposte; quando un violen­to e prolungato acquazzone fece interrompere ogni lavoro. Né qui fu il tutto; ché la pioggia diluviò più giorni e più notti, e l'acqua, scorrendo e colando dalle travi e dai li­stelli, rose e trasse seco la fresca e fors'anche cattiva calcina, lasciando le muraglie come un mucchio di mattoni e di pietre senza cemento e legatura” (MB 4, 507).


La notte del primo dicembre 1852, verso le undici, la nuova costruzione crollò. Don Bosco e i giovani che stavano dormendo non subirono danni. Il giorno successivo si vide un grosso pilastro in bilico sul lato di casa Pinardi in cui si tro­vavano la stanza di don Bosco e i dormitori dei giovani, miraco­losamente rimasto al suo posto. Fu un disastro economico, ma il Santo non si scoraggiò.

In attesa di riprendere i lavori nella primavera, fece si­stemare la vecchia cappella-tettoia trasformandola in dormitorio e trasferì le scuole nella nuova chiesa, la quale al mattino e nei giorni festivi serviva per il culto e la preghiera e lungo la settimana, dopo pranzo e alla sera, si trasformava in grande au­la. Le classi erano distribuite in coro, in presbiterio, nelle due cappelle laterali, in orchestra e nel corpo della chiesa. Si può facilmente immaginare l'effetto sonoro che ne derivava, ma tutti vi si adattarono facilmente (cf MB 4, 517).

Con la bella stagione i lavori ripresero ed anche le fatiche di don Bosco per reperire i fondi necessari. Nell'ottobre 1853 la casa era terminata, con un bel porticato, tanto necessario nei giorni di maltempo. Alla fine di quel mese vi furono trasferite le scuole, il refettorio e i dormitori, mentre la cappella-tettoia venne destinata a sala di studio. Si poterono accogliere altri giovani, così il loro numero salì a 65; verso la fine dell'estate 1854 erano già 76.

Il braccio ad est dell'edificio, costruito parallelamente alla chiesa di san Francesco di Sales, subirà col tempo progressivi ingrandimenti: quello che oggi vediamo è raddoppiato in larghezza e allunga­to rispetto alla primitiva costruzione.

Il pian terreno di questo braccio fu utilizzato come magazzino dei legnami per la falegnameria.

Al primo piano, dove oggi ci sono alc­une sale di presentazione della figura di don Bosco e dell'Opera Salesiana, il Santo aveva collocato inizialmente una camerata per i giovani artigiani e più tardi una sala di studio. In seguito (fino al 1988) in questi ambienti avranno sede gli uffici del Bollettino Salesiano.

Al secondo piano si trovavano tre stanze. “Quella che faceva angolo colla parte principale dell'e­difizio fu occupata da due o tre giovani, che ivi abitarono e dormirono, pronti ad ogni bisogno di don Bosco; la seconda doveva servire quasi di biblioteca, e quivi era lo scrittoio pel Ch. Rua” (MB 4, 657-658); più tardi essa sarà adibita ad uffi­cio di don Gioachino Berto, segretario di don Bosco; in seguito, dal 1865 al 1888, diverrà la camera di don Rua eletto Prefetto generale, cioè vicario di don Bosco, e di co­loro che gli succedettero in questa carica: don Domenico Belmonte (dal 1888 al 1901) e don Filippo Rinaldi (dal 1901 al 1914).

La terza stanza fu la camera di don Bosco per otto anni (1853-1861). Per accedere ad essa come agli altri vani dell'edificio, si doveva passare sul ballatoio esterno. Era illuminata dalla porta a vetri del balcone e da una finestra a mezzogiorno.

L'arredo era semplice ed essenziale:


Le suppellettili di questa, che non si mutarono finché visse, erano un lettucciuolo di ferro e mobili, in parte do­nati da' benefattori; alcune sedie più che ordinarie, per scrittoio uno stretto e rozzo tavolino senza tappeto e scaf­fali, un canapé vecchio e stravecchio, un burò scantonato per custodire le carte, un semplicissimo inginocchiatoio di pioppo, che serviva per le confessioni, un crocifisso e al­cuni quadri con sacre immagini. Per molto tempo quella unica stanza servì per camera da letto, per sala di ricevimento, di aspetto e di ufficio” (MB 4, 657-658).


Su questa stanza si abbatté un fulmine la notte del 15 maggio 1861, dopo aver creato scompiglio nella sovrastante ca­merata posta sotto il tetto. I danni furono molti e grande lo spavento, ma tutti rima­sero illesi. Quando si terminò l'allargamento dell'edificio, l'8 dicembre 1861, don Bosco volle collocare al centro del timpano u­na statuetta della Madonna come "parafulmine" contro ogni male dell'Oratorio. Ancora oggi, sul frontone delle Camerette, costruito nel 1876, si può vedere una statua dell'Ausiliatrice che ci ricorda il fatto.


52.2.2 Nuove attività

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Con l'aumento dello spazio disponibile si inaugurarono anche altre attività. La preoccupazione di collocare dignitosamente i suoi giovani artigiani affinché potessero ricevere una buona for­mazione professionale e umana insieme, aveva interessato don Bosco fin dai primi tempi dell'Oratorio. Egli cercava padroni onesti, andava a visitare i ragazzi sul lavoro e, dal novembre 1851, co­minciò a stipulare veri contratti di apprendistato, che ben pre­sto stilò a norma di legge su carta bollata. Nonostante la vigi­lanza e la cura, continuavano a verificarsi inconvenienti a volte gravi. Decise allora di costituire laboratori interni, con l'idea di trasformarli in vere scuole artiginali.

Così alla fine del 1853 avviò i primi due piccoli laborato­ri: quello dei calzolai e quello dei sarti. Il primo, affidato a Domenico Goffi, lo collocò in un piccolo corridoio di casa Pinar­di presso il campanile, il secondo, sotto la guida del sarto Pa­pino, ebbe sede nell'antica cucina.

Compilò un Regolamento per i Maestri d'Arte per determinare i loro compiti e le responsabilità professionali e formative nei riguardi degli apprendisti (cf MB 4, 659-662). Con l'esperienza degli anni successivi questo primo abbozzo maturerà in un Regola­mento dei Laboratori (1862) più completo ed organico (cf MB 7, 116-118). I primi laboratori avevano lo scopo di garantire una solida formazione professionale ai giovani apprendisti e contem­poraneamente quello di sottrarli al pericolo rappresentato dai discorsi anticlericali ed osceni o dagli scandali che facilmente si verificavano nelle botteghe esterne. Nello stesso tempo, però, venivano incontro ai bisogni primari di una casa in cui erano ac­colti tanti poveri giovani da vestire e calzare e che andava e­spandendosi con continue costruzioni piccole e grandi. Assicura­vano poi qualche piccolo introito con i lavori fatti per clienti esterni.

L'abate Antonio Rosmini, col quale don Bosco era in amiche­voli rapporti, gli suggerì di impiantare anche una tipografia. Il Santo, che stava avviando la collana popolare delle Letture Cat­toliche, apprezzò il suggerimento, ma, in attesa di poter reperi­re lo spazio e gli ingenti capitali necessari all'impresa (vi riuscirà solo nel 1861), si accontentò di iniziare il laboratorio di legatoria nel 1854. Destinò a questa attività la seconda stanza a piano terra del nuovo fabbricato, vicino alla scala, con piccola libreria commerciale annessa. In questo caso maestro le­gatore fu don Bosco stesso, ed il primo allievo si chiamava Bedi­no (cf MB 5, 34-37).


Terminato questo fabbricato, don Bosco avrebbe voluto com­pletarlo subito con l'abbattimento di casa Pinardi, in modo da congiungerlo con la chiesa. Ma, tra la fine del 1853 e gli inizi del 1854, si verificò una crisi economica generale dello Stato con il conseguente vorticoso aumento dei prezzi delle derrate a­limentari e dell'edilizia in particolare. Il progetto per il mo­mento fu accantonato, poiché era più urgente reperire fondi per sfamare i ragazzi.


52.3 3.1.3. L'edificio del 1856 (ex casa Pinardi)

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Sul principio del 1856, nonostante che una sua domanda di prestito fatta al Ministero degli Interni avesse ricevuto rispo­sta negativa a causa del perdurare della crisi economica, don Bo­sco mise mano al completamento del nuovo edificio.


Fece pertanto chiamare un certo sig. Giovenale Delponte, che faceva da ingegnere e da impresario, e gli domandò se a­vesse danaro per le prime spese.

- No rispose quegli.

- E nemmeno io, soggiunse don Bosco.

- E come facciamo?

- Cominciamo egualmente, conchiuse D. Bosco, e prima che sia tempo di pagare gli operai, il Signore qualche soldo ci manderà.

Era questa la solita frase che D. Bosco ripeté ai co­struttori ogni volta che incominciava una delle tante sue fabbriche. - È necessario questo nuovo edifizio; io non ho denari; ma intanto incominciamo e facciamo presto. - Si era calcolato che per quei lavori fossero necessarie 40.000 li­re, e Villa Giovanni udì più volte D. Bosco esclamare: - D. Bosco è povero, ma tutto possiamo in Dio; la Provvidenza fa­rà tutto” (MB 5, 455-456).


Con questa fiducia diramò lettere e appelli ad amici, bene­fattori ed enti pubblici e nel mese di marzo si iniziarono i la­vori. Demolita casa Pinardi, furono scavate le fondamenta. In cinque mesi la casa venne terminata e coperta. Anche in questo caso, però, un incidente aggravò i costi.

Già finestre, porte e invetriate venivano messe in opera quando il 22 agosto verso le 10 del mattino, mentre un operaio disarmava l'ultimo piano, un travicello cadde di punta sulla vol­ta forandola. Questa crollò sfondando tutte le volte dei piani inferiori fino alle cantine. Rimasero in piedi solo i muri peri­metrali.

La fede in Dio e l'entusiasmo per la propria missione fecero superare a don Bosco ogni scoraggiamento ed egli volle che si ri­prendessero immediatamente i lavori. Così all'inizio di ottobre (1856) tutto era terminato.

I due edifici, quello del 1853 e il nuovo, formavano un cor­po unico, dall'aspetto caratteristico, con elementi mutuati dall'edilizia popolare torinese del tempo, che sfruttava tutti gli spazi: gli abbaini per rendere abitabili le soffitte e i lun­ghi ballatoi esterni onde accedere alle stanze senza bisogno di corridoi interni.


Riuscì quale ei lo volle, della massima semplicità. Non ammise scialo di locali, disapprovò corridoi e scaloni trop­po ampli; e i costruttori fecero tali passaggi che non per­mettessero l'inoltrarsi più d'una persona alla volta (...).

E D. Bosco faceva dar sesto all'intera casa, ed a ciascu­na stanza assegnava la destinazione” (MB 5, 539).


52.3.1 Distribuzione degli ambienti (cf MB 5, 539-540)

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Negli scantinati furono dislocati cucina e refettori; vi ri­marranno fino al 1927.

Al piano terra l'ambiente dell'attuale cappella Pinardi ven­ne diviso in due parti: quella verso la chiesa di san Francesco, occupante lo spazio di due finestre, era destinata a sacrestia; il resto, nelle sere d'inverno, accoglieva i ragazzi per le pre­ghiere e la Buona Notte; più tardi, servirà da refettorio per don Bosco e i suoi collaboratori.

Sulla destra della scala nell'edificio del 1853 (= casa don Bosco) tre stanzoni adicenti ospitarono i laboratori di calzole­ria, di legatoria e quello di falegnameria, accanto al quale un largo vano, sotto la biblioteca e la camera di don Bosco, era a­dibito a deposito dei legnami.

Al primo piano, partendo dalla chiesa, nelle due file di stanze, trovarono posto il laboratorio dei sarti, alcune aule scolastiche, l'ufficio del Prefetto don Alasonatti, la saletta di ricevimento per i forestieri, un'ampia sala di studio (rivolta a mezzogiorno, sul porticato) e una camerata per gli artigiani, proprio sotto la camera di don Bosco.

Al secondo piano, in una stanza ricavata sopra la cappella della Madonna, si collocò la scuola di musica vocale, affidata al Cagliero. Sul fronte sud della casa erano disposte (da sinistra) la scuola di musica strumentale, la dispensa, l'infermeria, l'a­bitazione di mamma Margherita e delle sue aiutanti e una stanza per la biancheria della comunità. Sul fronte nord furono colloca­ti alcuni dormitori.

Anche nelle soffitte, illuminate e arieggiate con gli abbai­ni che ancora vediamo, si erano ricavati dei dormitori sul lato nord, e una fila di cellette per gli insegnanti e i chierici più anziani, sul lato sud.

Sotto il lungo porticato che collega la chiesa con il brac­cio delle Camerette don Bosco fece dipingere da Pietro Enria una serie di scritte bibliche latine con traduzione italiana: le nove frasi riportate nelle lunette degli archi costituivano quasi una catechesi sul sacramento della Penitenza; quelle stilate su ciascun pilastro si riferivano ai dieci comandamenti. Oggi ci sono delle lapidi in marmo, collocate intorno al 1965, con citazioni scritturistiche che solo in parte riproducono quelle originali (cf MB 5, 542.547 e F. Perrenchio, L’utilizzazione della Bibbia da parte di don Bosco nell’educazione dei giovani alla fede, in “Bollettino di collegamento dell’Associazione Biblica salesiana”, n. 10 [1993] 159-165).

Su uno dei pilastri una piccola lapide ci ricorda anche il posto esatto in cui stava la cattedra dalla quale don Bosco al termine delle preghiere dava la Buona Notte (oggi è conservata nel Museo delle Camerette)

Sulla parete verso la chiesa, in una nicchia, venne colloca­ta la statua della Madonna, di fronte alla quale, nella bella stagione, gli studenti si raccoglievano per le preghiere della sera. In occasione del mese di maggio e delle principali feste mariane la statuetta, diversa da quella che vediamo oggi, era or­nata di drappi e di lumi. Su un quadretto appeso lì accanto si esponevano i fioretti e le giaculatorie proposte giorno per gior­no in simili circostanze.

Accanto alla nicchia vediamo oggi un affresco del Crida che riproduce il disegno della primitiva casa Pinardi lasciatoci dal pittore Bartolomeo Bellisio (1832-1904) da Cherasco, che vi era stato ospitato da ragazzo. L'antica casa occupava appunto lo spazio degli attuali portici. Di essa si conserva ancora la vasca della pompa per l'acqua, collocata all'esterno sul secondo pilastro da sinistra, a cui bevevano i ragazzi e da cui si attingeva per gli usi domestici e igienici. L'acqua in quei primi tempi era fornita da un pozzo scavato sotto la vasca. L'acquedotto pubblico arriverà a Valdocco soltanto dopo il settembre 1863 (cf MB 7, 743).


52.3.2 La sezione studenti

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Con la disponibilità dei nuovi locali, l'Ospizio per i gio­vani interni prese maggiore sviluppo. Già nel 1851 don Bosco ave­va stilato alcune regole disciplinari che, col passar degli anni e con l'esperienza, andò articolando in un Regolamento per la Ca­sa annessa all'Oratorio di S. Francesco di Sales, concluso nel 1854 (cf MB 4, 337-438; riportato per intero alle pp. 735-755).

Nell'anno scolastico 1851-1852 il numero degli interni studen­ti aveva superato la dozzina e don Bosco, che fino a quel momen­to li aveva istruiti personalmente o con l'aiuto di don Pietro Merla (1815-1855), incominciò ad inviarli regolarmente in città alle scuole private del prof. Giuseppe Bonzanino (ginnasio inferiore) e del prof. don Matteo Picco (Umanità e Rettorica). I due ottimi insegnanti ac­colsero volentieri e gratis per anni i poveri figli di don Bosco, mettendoli, come esempio di impegno e buona condotta, accanto a­gli altri allievi provenienti da distinte e nobili fami­glie.

Quando nell'autunno 1854 Domenico Savio venne all'Oratorio, gli interni erano già un'ottantina, per metà studenti e per metà artigiani. Domenico quell'anno frequentò la scuola del prof. Bon­zanino.

Nell'anno scolastico 1855-1856, don Bosco iniziò la prima scuola ginnasiale interna affidando al diciasettenne chierico Giovanni Battista Francesia la terza ginnasiale frequentata tra gli altri da Domenico Savio. La scuola si faceva nella vecchia cappella-tettoia. Gli allievi di prima e seconda ginnasiale e di Umanità e Rettorica continuavano a frequentare i professori Bon­zanino e Picco (cf MB 5, 360-361).

L'anno successivo (1856-1857), poiché gli interni studenti e­rano 85 (gli artigiani una settantina), venne chiamato all'Orato­rio il prof. Francesco Blanch, al quale furono affidate le classi unite di prima e seconda (cf MB 5, 548). In quest'anno, nei pochi mesi prima della morte, Domenico Savio frequentò Umanità presso la casa di don Picco.

Nel 1857-1858, con 121 studenti e 78 artigiani, le classi in­terne furono tre: prima ginnasiale (ch. Giovanni Battista Francesia), seconda gin­nasiale (ch. Giovanni Turchi), terza ginnasiale (don Giuseppe Ramello).

Il 7 novembre 1857 sul giornale cattolico torinese l'Armonia venivano pubblicate le condizioni di accettazione per gli studen­ti dell'Oratorio:


1) Che il giovane abbia dodici anni compiti e che non oltrepassi i diciotto.

2) Che sia orfano di padre e di madre, né abbia fratelli o sorelle, od altri parenti che possano averne cura.

3) Totalmente povero e abbandonato. Qualora avverandosi le altre condizioni, il giovane possedesse qualche cosa, e­gli dovrà portarla seco alla Casa e sarà impiegata a suo fa­vore, perché non è giusto che goda la carità altrui chi può vivere del suo.

4) Che sia sano e robusto; non abbia alcuna deformità nella persona, né sia affetto da malore schifoso o attacca­ticcio.

5) Saranno di preferenza accolti quelli che frequantano l'Oratorio festivo di S. Luigi, del Santo Angelo Custode e di San Francesco di Sales; perché questa casa è specialmente destinata a raccogliere quei giovani assolutamente poveri e abbandonati che intervengono a qualcheduno degli Oratorii summentovati” (MB 5, 754-755).


Finalmente, coll'inizio dell'anno scolastico 1859-1860, don Bosco riuscì ad attuare il progetto vagheggiato da tempo di avere l’intero corso ginnasiale all'interno dell'Oratorio, con gio­vani insegnanti tutti suoi: ch. Celestino Durando (1a classe, con 96 alunni!), ch. Secondo Pettiva (2a classe), ch. Giovanni Turchi (3a classe), ch. Giovanni Battista Francesia (4a e 5a ginnasio). Da questo momento la sezione studenti prese importanza sempre mag­giore, superando in numero gli artigiani. Scopo di don Bosco era principalmente quello di aiutare i giovani più poveri, buoni e ben dotati, ad affrontare gli studi superiori per for­nire alla Chiesa sacerdoti santi e zelanti e alla società cittadi­ni onesti, animati da solidi valori civili e cristiani.

Da una statistica inviata da don Bosco al Provveditore agli studi relativa all'anno 1861-1862, veniamo a sapere che gli studen­ti ginnasiali interni erano 318 più 14 esterni, così suddivisi: 96 allievi nella prima classe, 68 nella seconda, 87 nella terza, 38 nella quarta e 39 nella quinta.


52.3.3 Altre costruzioni (tra 1856 e 1859)

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Mentre si compiva il trasloco e si arredavano i nuovi am­bienti, don Bosco decise di ricavare locali separati per aprirvi una scuola elementare diurna e giornaliera totalmente gratuita per i ragazzi della zona che non potevano recarsi alle scuole di città o non vi erano accolti.

Così tra ottobre e novembre 1856, appoggiato al muro su via della Giardiniera, presso il portone di entrata, fece costruire un locale di forma triangolare con solo piano terreno, in cui ri­cavò due aule (una più ampia per le scuole elementari, l'altra più piccola per una classe serale) e uno stanzino per il porti­naio (vedi fig. 9, n. 4).

Le scuole elementari esterne iniziarono sul principio del 1857, affidate al giovane maestro Rossi Giacomo da Foglizzo, che era anche un bravo cantore e suonatore di trombone (cf MB 5, 553). Nel 1861 tali scuole vennero trasferite in casa Filippi, e nei due ambienti presso via della Giardiniera trovò posto provvi­soriamente la prima tipografia, affidata al maestro tipografo An­drea Giardino, poi (dal 1862 al 1869) l'officina dei fabbri-ferrai.

Accanto a questo locale, sul lato destro del portone, tra 1859 e 1860, don Bosco edificò, con l'aiuto economico di don Cafasso, u­na portineria più dignitosa, con stanza del portinaio, parlatorio per i parenti dei giovani e una tettoia sull'androne di entrata (cf ODB 131). Ma dopo l'acquisto e i lavori di adattamento di ca­sa Flippi, nel 1863 fu costruita una nuova portineria, nell'ango­lo sud del terreno comperato dai fratelli Filippi. Negli ambienti della vecchia portineria vennero sistemati i laboratori dei cal­zolai e dei sarti (cf MB 7, 543).

Per poter accogliere in Valdocco tutte le classi ginnasiali, quando ebbe insegnanti propri, don Bosco dovette procurare nuove aule. Nell'estate del 1859 egli affidò all'impresario Giovenale Delponte il compito di edificare un capannone appoggiato al muro di cinta nel cortile a nord e lo fece dividere in tre spaziose aule. Nello stesso tempo accanto al nuovo capannone, più sulla destra, venne demolita la tettoia del lavatoio e costruito uno stanzone per la lavanderia con annessa legnaia (cf MB 6, 266). Queste due costruzioni saranno abbattute nel 1873.


52.4 3.1.4. Ampliamenti successivi dell’edificio delle “Camerette” (1861, 1862, 1876)

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Il 16 luglio 1860 don Bosco compiva il primo consistente am­pliamento dell'Oratorio in terreni e fabbricati, con la compera della proprietà Filippi al prezzo di 65 mila lire.


52.4.1 Allargamento del 1861

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L'anno succes­sivo, terminati gli impegni di locazione con gli inquilini, pro­cedeva all'adattamento dei locali per le attività dell'Oratorio e dell'Ospizio. Tre le altre cose si progettò il collegamento di “casa don Bosco” con “casa Filippi” tramite il raddoppio in lar­ghezza dell'ala in cui si trovava la camera del Santo.

I nuovi ambienti ricavati verso levante furono così utiliz­zati: a piano terra un porticato, che vediamo ancor oggi, dove per decenni gli studenti (dagli anni Ottanta in poi) si sarebbero raccolti alla sera per la recita delle preghiere; una camerata al primo piano; una stanza più ampia per la biblioteca al secondo piano e, adiacente ad essa, verso mezzogiorno, una camera per don Bosco. Anche le soffitte di questo nuovo corpo di casa furono adattate a dormito­rio.


La nuova camera di don Bosco, con finestre ad est e a sud, comunicava con la stanza da lui abitata dal 1853 (vedi fig. 14, n. 3). Quest'ultima ven­ne trasformata in sala d'aspetto per i visitatori che sempre più numerosi venivano ad incontrare il Santo. In questa anticamera negli anni Settanta, quando si verifi­carono i primi seri incomodi di salute, fu collocato “un altarino dissimulato da una custodia fatta a mo' di armadio”, sul quale don Bosco celebrava la Messa ogni volta che non poteva scendere in chiesa (cf MB 18, 23). L'altarino rimase nell'anticamera fino al 1886; fu quindi trasferito nella sacrestia di Maria Ausilia­trice e nel 1887 portato nella casa delle Figlie di Maria Ausi­liatrice di Moncrivello, dov'era direttrice la nipote di don Bo­sco, suor Eulalia. In quell'Istituto rimase fino al 1930, quando venne riportato a Valdocco (cf ODB 145).


52.4.2 Ampliamento del 1862

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Sotto le Camerette, appoggiata al fronte sud della casa, si trovava una tettoia usata come deposito di materiali. Nel 1862 don Bosco fece costruire al suo posto un vasto porticato a volte, lungo 14 metri (quanto il fronte della casa), largo 6,75 e alto 4 (vedi fig. 15, n. 5).

Gli spazi tra pilastro e pilastro vennero chiusi e muniti di finestre: ne risultò una sala spaziosa nella quale fu collocata temporaneamente la tipografia; poi, dopo qualche mese, quando es­sa venne trasferita nei locali appositamente costruiti lungo via della Giardiniera, qui trovò posto la fonderia di caratteri tipo­grafici (cf MB 7, 116).

Sopra il porticato si ottenne una bella terrazza, con pila­strini in mattoni e ringhiera in ferro, sulla quale don Bosco fe­ce collocare dei grossi contenitori di terra in cui piantò alcune viti di moscatello portate da Castelnuovo. Le viti si arrampica­vano sul frontone della casa sino alle finestre delle camere di don Bosco.


52.4.3 Ampliamento del 1876

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Dopo la consacrazione della chiesa di Maria Ausiliatrice (1868) e la costruzione di un bell'edificio per la portineria su via Cottolengo (tra 1874 e 1875), si mise mano ad un ultimo am­pliamento dell'edificio nel quale si trovano le Camerette: il porticato del 1862 venne innalzato di due piani più la soffitta. La casa prese l'aspetto che ancor oggi vediamo. Sul nuovo timpa­no, avanzato di circa 7 metri rispetto al precedente, si trasferì la statuetta della Madonna collocata come "parafulmine" l'8 di­cembre 1861.

L'ampliamento aggiunse tre vani alle Camerette.

Verso il cortile a sud, sul fronte della casa, fu ricavata una galleria illuminata da ampi finestroni (vedi fig. 16, n. 7), per offrire a don Bo­sco uno spazio in cui passeggiare, poiché lo stato delle sue gam­be gli procurava gravi difficoltà nello scendere e salire le sca­le (cf MB 7, 375). Il 31 gennaio 1888 giorno della morte, la sua salma rivestita degli abiti sacerdotali venne adagiata su di una poltrona ed esposta in questa galleria per l'ultimo saluto dei suoi figli e della folla accorsa.

Il secondo vano, comunicante con la sala di aspetto (quella che era stata la prima stanza del Santo), venne adibita a cappella privata.

Il terzo vano, stanza del segretario di don Bosco, è la camera nella quale egli morirà (vedi fig. 16, n. 6).


52.5 3.1.5. Le "Camerette" di don Bosco oggi

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Nel 1929, in occasione della beatificazione del Fondatore, don Filippo Rinaldi volle trasformare gli ambienti un tempo abitati da don Bosco, e fino a quel momento utilizzati dai superiori maggiori, in luogo di memoria e pellegrinaggio. L’economo generale don Fedele Giraudi curò il restauro dell’edificio e l’organizzazione delle stanze.

Venne costruita una scala, con accesso dalla parte interna del porticato di collegamento tra “casa don Bosco” e “casa Filippi”. Le camere e la cappella privata furono ammobiliate con arredi superstiti. Si allestì anche un piccolo museo di oggetti, documenti e scritti, disposti in austeri ed eleganti mobili costruiti dai salesiani maestri mobilieri e scultori di San Benigno Canavese e di Valdocco. I pellegrini potevano entrare nelle stanze, toccare il letto e lo scrittoio del Beato. Qualche oggetto fu asportato e non più ritrovato, come il cartello su cui aveva scritto il suo motto, “Da mihi animas, caetera tolle” (poi ricostruito sulla scorta di un documento fotografico).

Dopo una trentina d’anni (intorno al 1970) si ritenne opportuno dare un assetto più moderno alle Camerette e agli ambienti attigui: si tolsero i reliquiari dalla stanza-cappella; venne collocato un cristallo di protezione all’entrata delle stanze ammobiliate; si ristrutturò radicalmente la sala espositiva aggiungendo oggetti recuperati dalla chiesa di san Francesco di Sales (una parte della balaustra, il pulpito, un bancale), oltre il feretro usato per la sepoltura di don Bosco a Valsalice e il modellino del pittore Rollini col bozzetto per la decorazione della cupola di Maria Ausiliatrice; si aggiunse una cappella per i gruppi, con vari ritratti e con oggetti appartenuti a don Rua, al Cagliero, ai martiri cinesi. Il piccolo museo fu appresato in fretta, senza un ben definito criterio, nell’urgenza dell’inaugurazione. Poi rimase così: oggetti e libri, vestiario e ritratti esposti senza un filo logico e in via provvisoria.

Nell’anno giubilare 2000, l’urgenza di un consolidamento strutturale dell’edificio e la necessità di adeguarlo alle norme di sicurezza imposte per l’accesso del pubblico, ha ispirato un percorso di visita alle Camerette del secondo piano mirato a mettere in risalto aspetti e valori tipici della spiritualità e della missione di don Bosco; mentre gli ambienti del primo piano sono adibiti all’illustrazione della sua personalità e metodo e all’informazione sull’opera salesiana.

Chi sale può ammirare sulle pareti delle scale due quadri del Crida. Il primo, del 1954, raffigura don Bosco, mamma Margherita e il Grigio, il cane di provenienza igno­ta che tante volte lo accompagnò e difese quando correva il ri­schio di rimanere vittima di persone malintenzionate. L'altro di­pinto (1929) rappresenta don Bosco nell'atto di consegnare le Co­stituzioni dell'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice a santa Maria Domenica Mazzarello.

Giunti in cima alla scala, si entra nelle Camerette passando attraverso un vano in cui si apre l’ascensore: questo ambiente, che fino all’anno 1999 era destinato al custode, anticamente era più vasto (comprendeva anche lo spazio ora occupato dalle scale) e serviva da biblioteca e ufficio del segretario di don Bosco.


52.5.1 La prima stanza di don Bosco

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Nella camera, usata dal Santo tra 1853 e 1861 - che dell’antica conserva un frammento del pavimento in cotto -, viene messo in risalto il motto di don Bosco e della Famiglia Salesiana: Da mihi animas, caetera tolle. In esso è sintetizzato il dinamismo spirituale profondo di tutta la sua spiritualità e opera pastorale: quello zelo ardente di carità, quella disponibilità assoluta nelle mani del Signore, quella tensione ascetica e mistica che ha polarizzato i pensieri, gli affetti e le azioni del Santo e ne ha acuito la sensibilità e la creatività. Tutto è nato da questa dinamica interiore totalizzante che lo ha spinto, per la salvezza dei giovani, ad un moltiplicazione instancabile di realizzazioni, dai primi catechismi fino alla diffusione mondiale della sua articolata azione educativa e pastorale.

La riproduzione dell’antico cartello è collocata accanto all’effigie di Domenico Savio, ricostruita da Mario Càffaro Rore sotto la guida di don Alberto Caviglia nel 1941, per richiamare un significativo incontro tra maestro e discepolo, avvenuto appunto in questa camera verso la fine di ottobre 1854. Don Bosco racconta che Domenico,

venuto nella casa dell'oratorio, si recò in mia camera, per darsi, come egli diceva, intieramente nelle mani de' suoi superiori. Il suo sguardo si portò subito su di un car­tello sopra cui a grossi caratteri sono scritte le seguenti parole che soleva ripetere S. Francesco di Sales: da mihi a­nimas, caetera tolle. Fecesi a leggerle attentamente; ed io desiderava che ne capisse il significato; perciò l'invitai, anzi l'aiutai a tradurle e cavar questo senso: O Signore, datemi anime, e prendetevi tutte le altre cose. Egli pensò un momento e poi soggiunse: ho capito: qui non avvi negozio di danaro, ma negozio di anime: ho capito; spero che l'anima mia farà anche parte di questo commercio” (DS 38).

Gli oggetti collocati nella vetrinetta richiamano la multiforme attività di un pastore che dilata la sua azione formativa attraverso una fitta corrispondenza epistolare e un lavoro editoriale fecondo e innovativo, e dall’azione educativa e catechistica, svolta nel contatto personale con i poveri ragazzi delle periferie torinesi, si protende a gruppi sempre più vasti. Sono semplici spunti, ma di grande valenza simbolica, come il facsimile di due manoscritti relativi ad eventi determinanti avvenuti in questa camera. Questi documenti sono stati scelti per invitare i visitatori a meditare sull’ispirazione e gli obiettivi che stanno agli inizi della Famiglia salesiana, creando un collegamento tra carisma originario, specifica missione salesiana, storia spirituale personale e le diverse realtà attuali in cui si è chiamati ad operare.


Il primo documento è costituito da una pagina autografa di don Michele Rua che verbalizza la prima proposta fatta da don Bosco ad un gruppetto di ragazzi, tra i 16 e i 18 anni, radunati in questa camera in vista della costituzione della Congregazione salesiana:


La sera del 26 gennajo 1854 ci radunammo nella stanza del Sig.r D. Bosco; Esso Don Bosco, Rocchietti, Artiglia, Cagliero e Rua; e ci venne proposto di fare coll’aiuto del Signore e di S. Francesco di Sales una prova di esercizio pratico della carità verso il prossimo, per venirne poi ad una promessa, e quindi se parrà possibile e conveniente di farne un voto al Signore. Da tal sera fu posto il nome di Salesiani a coloro che si proposero e proporranno tal esercizio”.


Don Bosco e i quattro giovanissimi collaboratori si impegnano reciprocamente in quell’esercizio pratico di carità verso il prossimo che sintetizza efficacemente la missione e la spiritualità salesiana ed unisce in un unico movimento di carità la tensione pastorale del Fondatore con la proposta formativa giovanile. In questa stanza Michele Rua, il 25 marzo 1855, emetterà privatamente i voti nelle mani di don Bosco, primo fra i Salesiani, imitato poco dopo da don Alasonatti e dal ch. Giovanni B. Francesia (cf MB 5, 213 e 438).


Il secondo documento è il verbale dell’adunanza ufficiale di fondazione della Società Salesiana, avvenuta la sera del 18 dicembre 1859, in cui don Bosco, don Alasonatti, il diacono Angelo Savio, il suddiacono Michele Rua, i chierici Cagliero, Francesia, Provera, Ghivarello, Loggero, Bonetti, Anfossi, Marcellino, Cerruti, Durando, Pettiva, Rovetto, Bongiovanni e il laico Luigi Chiapale, “tutti allo scopo ed in uno spirito di promuovere e conservare lo spirito di vera carità che richiedesi nell’opera degli Oratori per la gioventù abbandonata e pericolante, la quale in questi calamitosi tempi viene in mille maniere sedotta a danno della società e precipitata nell’empietà ed irreligione”, decidono “di erigersi in Società o Congregazione che avendo di mira il vicendevole ajuto per la santificazione propria si proponesse di promuovere la gloria di Dio e la salute delle anime, specialmente quelle più bisognose d’istruzione e d’educazione”.

Don Lemoyne ci descrive gli eventi che hanno preceduto questa riunione:


Erasi celebrata solennemente nell'Oratorio la festa dell'Immacolata Concezione di Maria SS. e D. Bosco in quella sera annunciava in pubblico come il domani, venerdì, avrebbe tenuta una conferenza speciale in sua camera dopo che i giovani si fossero ritirati a ripo­sare. Quelli che dovevano intervenire intesero l'invito. I preti, i chierici, i laici che cooperavano alle fatiche di D. Bosco nell'Oratorio e ammessi entro le segrete cose, pre­sentivano che quella radunanza doveva essere importante.

Il 9 dicembre adunque 1859 si radunarono.

Invocato colle solite preghiere il lume dello Spirito Santo e l'assistenza di Maria SS., fatto cenno di ciò che a­veva esposto nelle precedenti conferenze, D. Bosco descrisse che cosa fosse una congregazione religiosa, la bellezza di questa, l'onore immortale di chi si consacra tutto a Dio, la facilità di salvare l'anima propria, il cumulo inestimabile di meriti che si può acquistare coll'obbedienza, la gloria immarcescibile e la doppia corona che attende il religioso in paradiso.

Quindi con visibile commozione annunziò essere venuto il tempo di dare forma a quella Congregazione, che da tanto tempo egli meditava di erigere e che era stato l'oggetto principale di tutte le sue cure (...).

Concluse essere giunto per tutti quelli che frequentavano le sue conferenze, il momento per dichiarare se volevano o non volevano ascriversi alla Pia Società che avrebbe preso, anzi conservato, il nome da S. Francesco di Sales. Coloro che non avessero intenzione di appartenervi essere pregati a non venir più alle conferenze, che egli terrebbe in avveni­re. Il non presentarsi sarebbe segno senz'altro di non avere essi aderito. Dava a tutti una settimana di tempo per ri­flettere e trattare quell'importante affare con Dio.

(...)

Il Ch. Cagliero Giovanni era indeciso se dovesse o no prendere parte alla nuova Congregazione. Passeggiò per lunga ora sotto i portici agitato da varii pensieri: finalmente e­sclamò volgendosi ad un amico: - O frate o non frate, intan­to è lo stesso. Son deciso, come lo fui sempre, di non stac­carmi mai da don Bosco! - Quindi scriveva un biglietto a D. Bosco col quale dicevagli rimettersi pienamente ai consigli e alla decisione del suo superiore. E D. Bosco incontrandolo guardollo sorridendo e poi: - Vieni, vieni, gli disse: que­sta è la tua via!

La conferenza di adesione alla Pia Società fu tenuta il 18 dicembre 1859. Due soli non si presentarono” (MB 6, 333-335).


52.5.2 La cappella privata di don Bosco

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La seconda stanza è la cappella in cui don Bosco celebrava negli ultimi anni. L’ambiente fu ricavato con l’ampliamento del 1876. Il tema centrale è l’Eucaristia nella vita spirituale di don Bosco, pastore ed educatore, il suo singolarissimo rapporto con il Cristo Redentore, modello del sacerdote e vittima offerta per la salvezza del mondo. L’Eucaristia, celebrata “digne, attente ac devote” (degnamente, con attenzione e devozione), come amava ripetere il Cafasso, costituisce uno dei pilastri portanti della spiritualità salesiana, in quanto sacramento di una consegna senza ostacoli all’azione di quel Dio che vuole prendere possesso del cuore dell’uomo in un rapporto d’amore esclusivo e santificante. Non per nulla don Bosco la collega strettamente con la castità (la “bella virtù”) e con la devozione mariana (qui accennata dal quadretto dell’Ausiliatrice commissionato al Rollini, collocato in alto sull’altare). Di qui scaturisce una sorgente di feconda carità che impregna tutto il metodo educativo e pastorale salesiano e ne caratterizza la proposta formativa.

Sull'altare che vediamo, benedetto dal cardinale Alimonda il 29 gennaio 1886, il Santo celebrò la Messa fino all'11 dicembre 1887, ultima volta in cui poté offrire il santo sacrificio. Nei giorni successivi la Messa veniva celebrata da qualcuno dei suoi Salesiani ed egli la segui­va stando a letto, attraverso la porta aperta, poi gli veniva portata la Comunione.

L’ambiente è corredato da due teche contenenti alcuni dei paramenti e degli oggetti usati da don Bosco per la celebrazione eucaristica.


52.5.3 La galleria

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L’itinerario prosegue portandoci nella galleria, ricavata con l’ampliamento strutturale del 1876, luogo in cui il Santo nei suoi ultimi anni passeggiava e confessava i giovani. Simpatici aneddoti sono legati a questo ambiente e alla vite che si aggrappava alle finestre, ma l’attenzione del visitatore è spinta a considerare altro. Don Bosco volle farsi costruire questo osservatorio per poter abbracciare contemporaneamente con lo sguardo due poli, caratteristici della sua tensione apostolica: i ragazzi nel loro ambiente naturale, il cortile (simbolo degli aneliti e dei gusti giovanili, ma anche dei pericoli e delle tentazioni in cui incappano), e il Santuario di Maria Ausiliatrice, la Madonna della Chiesa militante immersa nelle battaglie della storia per il compimento del mandato affidatole da Dio. Uno sguardo sempre attento alla realtà viva e cangiante dei destinatari della missione salesiana, da raggiungere nel loro ambiente naturale, da formare ed evangelizzare in una vasta prospettiva di Chiesa e di storia vissuta.

In una teca sono esposti veste, mantello, cappelli, sciarpa e bastoni da passeggio di don Bosco. Al di là del vetro che divide in due parti la galleria si possono vedere un grande tavolo fatto costruire dal Santo per le riunioni del Capitolo Superiore della Congregazione (si trovava nell’antica biblioteca), il seggiolone sul quale, rivestito dei sacri paramenti, venne adagiato dopo la morte perché i Salesiani, i giovani della casa e i tanti amici e benefattori potessero vederlo per l’ultima volta, l’inginocchiatoio di cui si serviva per confessare i giovani.

Ancor oggi dei viticci si arrampicano dal cortile fino alle finestre della galleria, a ricordo di quelli piantati da don Bosco stesso, che amava vendemmiarne personalmente l'uva e in­viarla in omaggio ai benefattori più cari. Le Memorie Biografiche riportano un grazioso aneddoto a proposito di quell'uva:


Alcune rigogliose viti dal cortile montavano su per il muro a ombreggiare le ampie finestre di detta loggia. Un sa­bato sera, quando il Santo confessava colà gli alunni delle classi superiori (ndr.: siamo probabilmente nell'autunno 1884), un giovanetto della quarta ginnasiale per nome Paolo Falla, aspettando il suo turno inginocchiato dinanzi a quei pampini frondosi, adocchiò tra le foglie un grappolo che co­minciava ad annerire, lo spiccò dal tralcio e si pose tran­quillamente a piluccarne i saracini. Distratto da tale occu­pazione, non pensava più ad altro, né si accorse che il pe­nitente il quale lo separava dal confessore, si era già ri­tirato. Don Bosco, assolto quello che si stava dal lato op­posto, si volse a lui per confessarlo. Il ragazzo col grap­polo in mano arrossì, balbettò una scusa; ma don Bosco soa­vemente gli disse: - Sta' tranquillo, finisci pure la tua u­va e poi ti confesserai. - Così dicendo, si rivolse dall'al­tra parte continuando a confessare” (MB 17, 167).


52.5.4 La camera in cui don Bosco morì

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Si passa, poi, nella stanza in cui don Bosco trascorse i giorni estremi della sua malattia, come il buon soldato di Cristo che consuma le forze fino all’ultimo respiro nel servizio assegnatogli, con totalità e fedeltà, portando la propria croce senza ritrarsi, nella serenità e nell’offerta oblativa. Siamo invitati a riflettere sulle fatiche fisiche e morali del vecchio don Bosco, sulla fecondità della sofferenza e dell’inattività fisica. Ma siamo rimandati anche alle raccomandazioni ponderate e severe del testamento spirituale, agli incoraggiamenti e agli avvisi di un Fondatore ormai lontano dai gioiosi e rumorosi assembramenti giovanili, dalle prodezze spettacolari del giovane saltimbanco, proteso col suo sguardo acuto e preoccupato sulla condizione giovanile nel mondo, sul futuro della sua Congregazione, sui pericoli e le tentazioni di mondanità e di “agiatezza” che rischiano di corrodere la tensione ideale e il fervore spirituale ed apostolico dei suoi figli.

Don Bosco si trasferì in questa stanza alla fine del 1887, per essere meglio accudito. Veniva trasportato a braccia o su una sedia a ruote nella sua stanza-ufficio accanto per ricevere i visitatori. Negli ultimi giorni non poté più alzarsi, fino alla morte, avvenuta il mattino del 31 gennaio 1888, alle quattro e mezza del mattino.

I testimoni ci raccontano la sua ultima agonia:


Nella notte sul 30 volse un pochino il capo verso Enria, suo perpetuo assistente notturno, e gli disse: - Di'... ma... ma... ti saluto! - Poi adagio adagio recitò l'atto di contrizione. Qualche volta esclamò: Miserere nostri, Domine. Nel cuore della notte, alzando di tratto in tratto le brac­cia al cielo e giungendo le mani, ripeteva: - Sia fatta la vostra santa volontà! - Appresso, paralizzataglisi a poco a poco tutta la parte destra, il braccio destro posava abban­donato e immobile sul letto; ma egli non cessava di alzare il sinistro, ripetendo ancora qualche volta: - Sia fatta la vostra santa volontà! - In seguito non parlava più; ma tutto il resto del giorno 30 e la notte dopo continuò ad alzare la mano sinistra nello stesso modo, indicando con ogni probabi­lità la rinnovata offerta a Dio della propria esistenza.

(...)

I medici dissero che a sera o prima che sorgesse il sole del giorno seguente, don Bosco non sarebbe stato più in vi­ta. La notizia si diffuse in un baleno per l'Oratorio, stra­ziando i cuori. I confratelli chiedevano di vederlo ancora una volta, don Rua permise che tutti gli andassero a baciare la mano. Silenziosi si radunavano a piccoli gruppi nella cappella, donde sfilavano uno a uno presso l'agonizzante. E­gli era là disteso sul suo letticciuolo; aveva il capo al­quanto rialzato, chino un po' sull'omero destro e appoggiato a tre guanciali. Calmo il viso non scarno; gli occhi soc­chiusi; la mano destra distesa sulla coltre. Aveva sul petto un crocifisso, un altro ne stringeva colla sinistra, e a pie' del letto pendeva la stola violacea, insegna del sacer­dozio.

(...)

Alle dodici e tre quarti, essendo per un istante soli vi­cino al letto il segretario e Giuseppe Buzzetti, spalancò gli occhi, guardò a lungo per due volte don Viglietti e al­zata la mano sinistra che aveva libera, gliela posò sul ca­po. Buzzetti a quell'atto scoppiò in pianto e: - Sono gli ultimi addii, - esclamò. Ritornò poscia nell'immobilità di prima. Il segretario gli veniva ripetendo giaculatorie. Si alternarono quindi in questo pio ufficio monsignor Cagliero e monsignor Leto. Don Dalmazzo gli diede la benedizione dell'agonia e gli recitò le preghiere annesse.

Verso le sedici venne a vederlo il conte Radicati, grande benefattore dell'Oratorio. Il padre Eugenio Francesco, già compagno di don Bosco a Chieri, stette per un'ora piangendo in un angolo della stanza. Alle diciotto comparve don Giaco­melli, si mise la stola e lesse alcune preci del rituale. Ad ora tarda, non sembrando vicina la morte, alcuni dei Supe­riori si ritirarono, ma don Rua ed altri non si mossero. L'agonizzante respirava immobile e con affanno; la durò così tutta la notte (...).

In agonia era all'una e tre quarti. Don Rua, quando vide che le cose precipitavano, si mise la stola e ripigliò le preghiere degli agonizzanti, già da lui cominciate due ore innanzi. Furono chiamati in fretta gli altri Superiori; una trentina fra sacerdoti, chierici e laici riempivano la came­ra. Inginocchiati pregavano.

Sopraggiunto monsignor Cagliero, don Rua gli cedette la stola, passò alla destra di don Bosco e chinatosi all'orec­chio del caro Padre: - Don Bosco, gli disse con voce soffo­cata dal dolore, siamo qui noi, i suoi figli. Le domandiamo perdono di tutti i dispiaceri che per causa nostra ha dovuto soffrire, e per segno di perdono e di paterna benevolenza ci dia ancora una volta la sua benedizione. Io le condurrò la mano e pronuncerò la formula della benedizione. - Tutte le fronti si curvarono a terra. Don Rua, facendo forza all'ani­mo, ne alzò la destra paralizzata e disse le parole di bene­dizione sui Salesiani presenti e assenti e in particolare sui più lontani.

Alle tre arrivò un telegramma del cardinale Rampolla con la benedizione apostolica. Monsignore aveva già letto il Proficiscere. Alle quattro e mezzo la campana di Maria Ausi­liatrice suonava l'Avemaria; tutti recitarono sommessamente l'Angelus. Don Bonetti sussurrò all'orecchio di don Bosco il Viva Maria dei giorni innanzi. Il rantolo che si faceva udi­re da circa un'ora e mezza, cessò. Il respiro divenne libero e tranquillo; ma fu cosa di pochi istanti: poi mancò. - Don Bosco muore! - esclamò don Belmonte. Coloro che stanchi si erano seduti balzarono in piedi e si fecero vicino al let­to... Emise tre respiri a breve intervallo... Don Bosco realmente moriva. Monsignor Cagliero, fissando in lui gli occhi, diceva: - Gesù, Giuseppe, Maria, vi dono il mio cuore e l'anima mia... Gesù, Giuseppe, Maria, assistetemi nell'ul­tima agonia... Gesù, Giuseppe, Maria, spiri in pace con voi l'anima mia.

Don Rua e gli altri, formando corona intorno, agonizzava­no anch'essi di dolore col Padre... Don Bosco era morto!” (MB 18, 538-542).


L'arredamento della stanza è rimasto come allora: letto e scaletta per salirvi, comodino con candeliere, catino e brocca, campanello a muro, divano, poltrona a ruote, sedie, quadri, ta­volino da lavoro.

Il 19 dicembre 1887, per l’ultima volta don Bosco si sedette a questa scrivania e con fatica scrisse alcune frasi su immagini che si volevano mandare ai benefattori:


Fate presto opere buone, perché può mancarvi il tempo e così restare ingannati (...). Beati coloro che si danno a Dio per sempre nella gioventù (...). Chi ritarda di darsi a Dio, è in gran pericolo di perdere l’anima (...). Chi semina opere buone, raccoglie buon frutto (...). Date molto ai poveri, se volete divenir ricchi (...). In fine della vita si raccoglie il frutto delle opere buone (...). In Paradiso si godono tutti i beni in eterno” (cf MB 18, 481-483).


52.5.5 La camera abitata tra 1861 e 1887

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Il percorso si conclude con la stanza nella quale don Bosco visse e lavorò per 27 anni, dal 1861 al 1887: fucina di creatività pastorale multiforme ed incredibile, quartier generale per l’organizzazione, l’animazione e il governo delle sue Congregazioni religiose, dell’Associazione dei Cooperatori salesiani e di un movimento apostolico ed educativo dagli orizzonti sempre più vasti. Il segreto del don Bosco operatore evangelico instancabile, comunicatore efficace, fecondissimo imprenditore della carità si schiude appunto a partire da quell’ardente ed esigente vita interiore messa in risalto nell’itinerario precedente.

Questa stanza è testimone di tante grandi realizzazioni, del fiorire dei suoi carismi, dei sogni e dei proget­ti, delle gioie più profonde e delle sofferenze più dolorose. Sulla scrivania che vediamo scrisse migliaia di lettere al Papa, ai potenti, ai Salesiani, ai ragazzi e ai benefattori. Vi compose la maggior parte delle sue opere per i giovani e il popolo; raccolse e organizzò le idee ispiratrici e le esperienze educati­ve e pastorali negli scritti pedagogici e spirituali; elaborò le Costituzioni della Società Salesiana, dell'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice e dell'Associazione dei Cooperatori; pro­gettò le prime spedizioni missionarie nell'America del Sud.

La camera gli serviva anche come ufficio in cui accoglieva i numerosi visitatori di ogni categoria sociale che ogni giorno ac­correvano a lui. Ricorda l'avvocato Carlo Bianchetti:


In quella stanza, vi aleggiava una pace di paradiso. (...) Sedeva egli innanzi ad un modesto cancello con casset­ti e piccoli tiratoi. Fasci di lettere e carte stavano affa­stellati innanzi a lui, e talora ad accrescere il cumolo en­trava il postino. Di tutto questo però D. Bosco non davasi gran pensiero. Metteva là le carte; egli era d'avviso che anche le piccole cose si debbono fare adagio e bene e che per ciò non occorrono distrazioni. (...)

Trattava con ognuno come se in quel mattino non avesse a­vuto altri da udire e da contentare. Egli, con S. Francesco di Sales, teneva per massima che la fretta suol guastare tutte le opere; e non era mai il primo a finire il colloquio; non dimostrava mai voglia di abbreviarlo; anzi talora volen­dosene andare il suo interlocutore, temendo di essere impor­tuno, D. Bosco lo invitava amorevolmente a starsene ancora un poco. (...)

La sua conversazione era piacevolissima. Intrecciava vo­lentieri la barzelletta ed il fatterello. E l'arguzia giun­geva sempre a proposito; e, perché producesse il suo effet­to, soleva dire che quei fatterelli erano occorsi a lui o che li aveva appresi da D. Cafasso, oppure dal Teologo Guala o dal Teologo Borel o da questi o da quegli. Il fatterello e l'esempio era bensì il modo di cui servivasi per fare im­pressione più viva e profonda, ma ciò che più importava si era che calzavano a pennello. Sapeva trattare con grazia, sicché nessuno poté mai redarguirlo di essere stato meno che delicato e prudente. (...) Vi era in don Bosco una caratte­ristica rispettosa, bonaria, affettuosa, la quale però non impediva che egli sapesse cavare il dente, o pescasse qual­che pesce grosso” (MB 7, 20-21).

Dei tanti scritti composti in questa stanza, riportiamo alcu­ni brani da quello che ci sembra il più significativo, il cosiddetto te­stamento spirituale, stilato tra il settembre 1884 e il maggio del 1886:


Miei cari ed amati figliuoli in G. C.

Prima di partire per la mia eternità io debbo compiere verso di voi alcuni doveri e così appagare un vivo desiderio del mio cuore. Anzitutto io vi ringrazio col più vivo affet­to dell'animo per la ubbidienza che mi avete prestato e di quanto avete lavorato per sostenere e propagare la nostra congregazione.

Io vi lascio qui in terra, ma solo per un po' di tempo. Spero che la infinita misericordia di Dio farà che ci possia­mo tutti trovare un dì nella beata eternità. Colà io vi at­tendo.

Vi raccomando di non piangere la mia morte. Questo è un debito che tutti dobbiamo pagare, ma dopo ci sarà largamente ricompensata ogni fatica sostenuta per amore del nostro mae­stro il nostro buon Gesù.

Invece di piangere fate delle ferme ed efficaci risolu­zioni di rimanere saldi nella vocazione fino alla morte.

Vegliate e fate che né l'amor del mondo, né l'affetto ai parenti, né il desiderio di una vita più agiata vi muovano al grande sproposito di profanare i sacri voti e così tradi­re la professione religiosa con cui ci siamo consacrati al Signore. Niuno riprenda quello che abbiamo dato a Dio.

Se mi avete amato in passato, continuate ad amarmi in av­venire colla esatta osservanza delle nostre costituzioni.

Il vostro primo Rettore è morto. Ma il nostro vero Supe­riore Cristo Gesù, non morrà. Egli sarà sempre nostro mae­stro, nostra guida, nostro modello; ma ritenete che a suo tempo egli stesso sarà nostro giudice e rimuneratore della nostra fedeltà al suo servizio.

Il vostro Rettore è morto, ma ne sarà eletto un altro che avrà cura di voi e della vostra eterna salvezza. Ascoltate­lo, amatelo, ubbiditelo, pregate per lui, come avete fatto per me.

Addio, o cari figliuoli, addio. Io vi attendo al cielo. Là parleremo di Dio, di Maria Madre e sostegno della nostra congregazione; là benediremo in eterno questa nostra congre­gazione, la cui osservanza delle regole contribuì potente­mente ed efficacemente a salvarci.

Sit nomen Domini benedictum ex hoc nunc et usque in sae­culum. In te Domine speravi, non confundar in aeternum” (RSS 4 [1985] 98-100).


Dopo la morte di don Bosco questa stanza servì per 22 anni (1888-1910) da ufficio e camera da letto per il suo successore, il beato Michele Rua. Questi, abituato ad una vita sobria ed a­scetica, per riposare la notte si accontentava di uno scomodo di­vano che possiamo vedere ancora oggi. Accettò che fosse sostitui­to da un letto solo nell'ultima malattia, per obbedire al medico.

Nella stanza sono conservati i mobili, l’appendiabiti, il crocifisso di don Bosco e altri utensili dell’antico Oratorio.

Sullo scrittoio con scaffale sono collocati oggetti usati dal Santo: la lampada, il calamaio e la penna. Egli riteneva che il lavoro alla scrivania fosse un impegno apostolico altrettanto importante come quello della chiesa, del cortile, delle vie e delle piazze. Ebbe un grande successo nell'attività pastorale e educativa perché sapeva pensare, studiare, progettare, diffondere idee, sensibilizzare e coinvolgere cerchie sempre più vaste di persone. Il suo scaffale era sempre zeppo di corrispondenza, abbozzi di regolamenti, manoscritti per la pubblicazione, libri da cui attingere idee e su cui meditare. Questo lavoro era svolto prevalentemente di sera e di notte, alla luce della lampada ad acetilene o di una candela.

Il divano-letto fu disposto in questa stanza durante la malattia finale, nel luogo in cui prima stava il suo letto. Vi dormiva il segretario. Servì poi da letto a don Rua. Il leggio veniva usato da don Bosco quando, per il gonfiore delle gambe, doveva sdraiarsi sul divano (quello oggi collocato nella stanza accanto).

Mattino e sera don Bosco, sull’inginocchiatoio, si raccoglieva in preghiera. La sua vita attivissima, alimentata da una costante e consapevole unione con Dio, attingeva forza e luce da questi momenti privati di intimità col Signore.

La scrivania con fronte apribile a compasso era collocata nell’anticamera per il lavoro del segretario di don Bosco. Su di essa è collocato un messale in uso a Valdocco al tempo del Santo. Cresciuto alla scuola di san Giuseppe Cafasso, egli usava prepararsi in camera alla celebrazione della Messa dedicando ogni mattina, prima di scendere in chiesa, un tempo adeguato al raccoglimento e alla preghiera. Il mappamondo ricorda come la tensione pastorale accrescesse in don Bosco il desiderio di evangelizzare dell'intera umanità. I sogni missionari, alimentati dalla lettura degli Annali della Propagazione della Fede, divennero progetti concreti. Nel 1875 partiva la prima spedizione missionaria alla quale ne seguirono molte altre, fino a oggi.

Al muro è fissata la parte superiore di un povero scrittoio. Secondo una tradizione orale, questo mobile, oggi privo di gambe, era nella stanza di Margherita Occhiena, nei dieci anni da lei trascorsi a Valdocco (1846-1856). In esso la mamma di don Bosco teneva gli oggetti personali e quanto gli serviva per il suo lavoro di cucito a servizio del figlio e dei suoi giovani

L'armadio a vetri fu collocato nella camera quando, dopo la morte di don Bosco, venne abitata da don Rua. Conteneva libri del primo successore del Santo. Oggi conserva oggetti usati da don Bosco: candeliere, tazze, bicchieri e posate; una bottiglia con acqua, che stava sul comodino durante l'agonia; spazzola e forbicine; fotografie; alcuni libri e opuscoli con dedica, omaggiati a don Bosco negli ultimi suoi mesi di vita. Si possono vedere anche altre cose di un certo interesse: chiodi provenienti dalle travi dell’antica casa Pinardi; cazzuola e martello appartenuti al Santo; il cranio in legno esposto, secondo un'usanza molto diffusa, fin dai primi tempi dell'Oratorio per l'Esercizio della buona morte che si faceva nel ritiro mensile; una scatola contenente alcune nocciole superstiti di quelle che, secondo i testimoni, don Bosco era riuscito a distribuire in abbondanza a più di cento ragazzi il 3 gennaio 1886, attingendo da un piccolo sacchetto (cf MB 18, 16-17), simbolo eloquente di quel continuo miracolo di “moltiplicazione” che egli operò a vantaggio dei giovani poveri grazie alla fiducia nella divina Provvidenza e nell’intercessione di Maria.


52.5.6 Il museo

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Il criterio utilizzato per l’organizzazione del salone espositivo è mirato a collegare il passato e l’attualità salesiana, con la valorizzazione di oggetti di grande pregnanza storica e simbolica, che il visitatore è stimolato a interpretare partendo dalla propria sensibilità spirituale e dalle particolari condizioni del suo vissuto esistenziale.


Il percorso inizia con una raccolta di nove inquadrature del volto di don Bosco tratte da fotografie e fototipie fatte tra 1861 e 1888. Lo sguardo del Santo interpella il visitatore, quasi a significare il passaggio di consegne per una missione giovanile sempre attuale e urgente. Sono esposti anche tre tra i primi ritratti pittorici: da sinistra a destra, troviamo l’ovale che Enrico Benzoni dipinse da fotografia e ritoccò dal vero a San Benigno Canavese (1886), il ritratto di Giuseppe Rollini (1888) e quello più noto di Paolo Gaidano (1889).


La seconda area espositiva è dedicata ad evocare l’intensa e stupefacente attività editoriale del Santo. Nella teca sono collocati facsimili di manoscritti e di bozze, alcuni originali e l’intera collezione delle sue opere a stampa raccolte nei 38 volumi delle Opere edite. Educatore e pastore, don Bosco si è dedicato con intelligenza alla comunicazione formativa. Pubblicò libri e opuscoli di carattere religioso, educativo, scolastico. Fondò le Letture cattoliche, collana mensile per i giovani e il popolo. Istituì editrici e tipografie. Suo obiettivo era quello di raggiungere un numero sempre più vasto di persone per amplificare l’efficacia della sua azione pastorale.


Un terzo settore è dedicato alle costruzioni di don Bosco. La riproduzione in facsimile di alcune planimetrie è mirata ad evidenziare lo sviluppo prodigioso dell’opera salesiana. Nello spazio di pochi decenni si passa dalla povera costruzione primitiva – richiamata dalla mappa del terreno e della casa Pinardi (allegata ad un contratto del 1845) e dal disegno di Bartolomeo Bellisio (1832-1904) che raffigura l’Oratorio come egli ricordava di averlo veduto nel 1850 –, alle prime costruzioni con la chiesa di san Francesco di Sales (progetto di Federico Blachier, 1851), al Santuario dell’Ausiliatrice (Antonio Spezia, 1864), alla chiesa di san Giovanni Evangelista (Edoardo Arborio Mella, 1878). La disponibilità obbediente e appassionata alla chiamata di Dio, ha trasformato il granellino di senapa in un albero rigoglioso. Lo spazio è sovrastato dal modello approntato da Giuseppe Rollini per la decorazione della cupola di Maria Ausiliatrice (1889). Il soggetto è stato ispirato da don Rua: l’azione salesiana, in campo educativo, caritativo e missionario, è messa in diretto rapporto con la missione della Chiesa militante nella storia, i fondatori del passato, gli eventi simbolo dell’intervento di Maria Ausiliatrice e la gloria della Chiesa trionfante. È una rappresentazione simbolico-teologica del modo in cui don Bosco percepiva se stesso e la propria opera, in un presente che visivamente si collega con il passato e con il futuro nel grande scenario degli interventi divini per la salvezza dell’umanità. Il restauro di questo bozzetto ha rivelato l’esistenza di un precedente progetto decorativo sottostante.


Anche la quarta zona espositiva ha il compito di evocare il nesso inscindibile tra la semplicità devozionale delle origini e i successivi sviluppi spirituali. Con una certa emozione si può ammirare la statua della Madonna Consolata che don Bosco aveva acquistato nel 1847 al prezzo di 27 lire, unico oggetto superstite dell’antica cappella Pinardi. Si è salvata per un caso curioso. Rimasta nella tettoia-cappella anche quando l’ambiente fu trasformato in sala di studio, con l’abbattimento di casa Pinardi (1856), venne regalata dal santo all’amico e compagno di seminario don Francesco Giacomelli (1817-1901), allora cappellano dell'Ospedaletto di santa Filomena. Questi, la portò nella casa di famiglia ad Avigliana e la pose in un pilone appositamente costruito. Verrà ricondotta a Valdocco nell’aprile 1929 e collocata nella cappella commemorativa voluta da don Rinaldi sul luogo della tettoia Pinardi. Dal 2001 si trova in questo museo. Davanti a questa semplice effigie, espressione della devozione popolare, don Bosco e i ragazzi si raccoglievano in preghiera nella povera chiesetta dell’Oratorio. Domenico Savio dal banco di studio, tra 1854 e 1856, la poteva ancora osservare nella sua nicchia. Il gesto materno di Maria che sostiene il figlio rimanda ad un tipologia devozionale promossa dal Santo, il quale, nella prima edizione del Giovane provveduto (1847), scriveva ai giovani:


Un sostegno grande per voi, miei figliuoli, è la divozione a Maria Santissima. Ascoltate come ella v'invita: Si quis est parvulus veniat ad me. Chi è fanciullo venga a me. Ella vi assicura, che se sarete suoi divoti oltre a colmarvi di benedizioni in questo mondo, avrete il Paradiso nell'altra vita. Qui elucidant me vitam aeternam habebunt. Siate adunque intimamente persuasi, che tutte le grazie, le quali voi chiederete a questa buona Madre, vi saranno concedute, purché non imploriate cosa che torni a vostro danno.

Tre grazie in modo particolare le dovrete instantemente chiedere, le quali sono di assoluto bisogno a tutti, ma specialmente a voi che vi trovate in giovanile età.

La prima è quella di non commettere mai peccato mortale in vita vostra. Questa grazia voglio che pretendiate a qualunque costo dall'intercessione di Maria, perché ogni grazia sarebbe poco senza questa (...).

La seconda grazia che chieder dovrete è di conservare la santa e preziosa virtù della purità. Se voi custodirete una virtù così bella, avrete la più grande somiglianza cogli Angioli del Paradiso, e il vostro Angelo custode vi terrà per fratelli, sicché goderà moltissimo della vostra compagnia (...).

Quindi nasce la necessità della terza grazia che vi ajuterà anche moltissimo a conservare la virtù della purità, ed è quella appunto di fuggire i cattivi compagni (...).

Quale ossequio offerirete voi a Maria per ottenere le grazie accennate? Poche cose bastano. Chi può reciti il suo Rosario, ma non dimentichi mai ogni giorno di recitare tre Ave e tre Gloria Patri colla giaculatoria: Cara Madre Vergine Maria, fate ch'io salvi l'anima mia”.


(G. Bosco G., Il giovane provveduto..., Torino, Tipografia G.B. Paravia e Comp. 1847, pp. 51-54).


Accanto è conservata la statua di san Francesco di Sales che si trovava nell’abside dell’omonima chiesa fino al 1959. Ci ricorda la spiritualità del patrono dell'Oratorio e della Famiglia Salesiana, scelto da don Bosco come modello per l’ardente amore a Dio, lo zelo pastorale instancabile, la calda umanità, la pazienza e la dolcezza di tratto.

Sulla parete a destra campeggia il grande dipinto ovale collocato nel 1852 sull’altar maggiore della chiesa di san Francesco di Sales. Di autore ignoto, probabilmente offerto dalla marchesa di Barolo. Dopo alcuni anni fu sostituito con la statua che abbiamo visto, perché poco visibile nella scarsa illuminazione dell’abside.

A fianco è posto il grazioso bozzetto preparato da Tommaso Lorenzone (1865) per la grande pala della chiesa di Maria Ausiliatrice.


Nel quinto spazio museale sono esposti due oggetti che richiamano in modo più esplicito la gloria alla quale don Bosco è giunto attraverso il dono totale di sé a Dio e ai giovani: una tunicella diaconale, proveniente dai paramenti confezionati tra 1927 e 1929 dalle Figlie di Maria Ausiliatrice per le celebrazioni di beatificazione e l’urna in legno dorato e cristallo realizzata nella scuola di scultura salesiana di San Benigno Canavese, che servì nelle processioni per la beatificazione (2 giugno 1929) e la canonizzazione (1 aprile 1934) di don Bosco.


L’ultima zona espositiva contiene oggetti di grande forza simbolica per ricordare i capisaldi della pedagogia spirituale di don Bosco. Il pulpito della chiesa di san Francesco di Sales, il confessionale, l’altare-armadio e la cattedra della “Buona notte”: alludono alla centralità dell’evangelizzazione e all’importanza dei sacramenti nella missione e nella spiritualità salesiana e al ruolo insostituibile del dialogo educativo.

Questo pulpito, donato da san Giuseppe Cafasso nel 1852, ci ricorda che don Bosco è stato un appassionato instancabile annunciatore del Vangelo. L'efficacia della sua predicazione proveniva dall'amorosa meditazione della Scrittura. Ai giovani proponeva di “darsi totalmente a Dio” e suggeriva l'esercizio delle virtù cristiane nella vita quotidiana. Fu una sua omelia pronunciata da questo pulpito a far nascere in Domenico Savio il desiderio della santità.

Il banco che serviva da confessionale era collocato nella cappella laterale destra della chiesa di san Francesco (cappella della Madonna). Il Santo, che dedicava molto del suo tempo al sacramento della Penitenza, ha saputo valorizzare la Confessione per l'accompagnamento spirituale dei giovani e dei collaboratori. Affermava che il pentimento sincero, la frequenza della Confessione e la confidenza con la propria guida spirituale sono il segreto della perfezione cristiana.

L’altare-armadio, che fino al 1886 era collocato nell’anticamera, sul quale don Bosco celebrava quando era ammalato o troppo debole, è stato restaurato nella forma originale. Viene chiamato altare dell'estasi perché, nel dicembre 1878, mentre vi celebrava la Messa, ebbe un rapimento mistico, di cui fu testimone don Evasio Garrone, che – allora ragazzo – gli faceva da ministrante:


Con un suo compagno per nome Franchini serviva la Messa a don Bosco nella cappelletta presso la sua camera, quando all'elevazione videro il celebrante estatico e con un'aria di paradiso sul volto: sembrava che rischiarasse tutta la cappellina. Quindi a poco a poco i suoi piedi si staccarono dalla predella ed egli rimase sospeso in aria per ben dieci minuti. I due servienti non arrivavano ad alzargli la piane­ta. Garrone, fuor di sé dallo stupore, corse a chiamare don Berto, ma non lo trovò; ritornando arrivò mentre don Bosco discendeva: ma nel luogo aleggiava un non so che di paradi­siaco” (MB 13, 897).


La cattedra della “Buona notte” si trovava nel porticato presso l'attuale cappella Pinardi, dove si radunavano quotidianamente giovani e Salesiani per la preghiera della sera. Terminate le orazioni don Bosco saliva su questo pulpitino e teneva un breve discorso familiare, di carattere informativo, didascalico ed esortativo. L'impegno dei Salesiani nell’educare valorizza la comunicazione amichevole e il dialogo familiare. Il coinvolgimento generoso del formatore e la dosatura dei tre elementi cardine del sistema preventivo (amorevolezza, ragione, religione) creano le condizioni ideali per la formazione della mente e del cuore dei giovani.

52.5.7 Cappella

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Nell’angolo di collegamento tra l’ala delle Camerette e il resto dell'edifi­cio del 1853, dove si trovava una camerata per i ragazzi (secondo una tradizione qui dormì Domenico Savio), è stata allestita una cappella per la meditazione e la celebrazione eucaristica.

Sull’altare domina il bel dipinto di don Bosco eseguito dal Rollini nel 1880. Il quadro fu donato dagli exallievi per ricordare l'approvazione pontificia della Congregazione salesiana. Il Santo è inginocchiato di fronte all’Ausiliatrice, raccolto in preghiera, mentre il bassorilievo accennato sullo sfondo (Pio IX che consegna le Costituzioni approvate) rimanda alla missione ecclesiale della Congregazione. Qui, contemplazione e missione sono simbolicamente e inscindibilmente collegate, per ricordare alle generazioni salesiane di ogni tempo un patrimonio spirituale che va costantemente rinfrescato e approfondito.

Sulle pareti laterali della cappella sono allineati i ritratti di alcuni personaggi cari alla tradizione salesiana: a destra i beati Filippo Rinaldi e Michele Rua, Francesco Besucco (il giovane Pastorello delle Alpi di cui don Bosco scrisse la vita) e Marianna, madre di don Rua; a sinistra santa Maria Domenica Mazzarello, la mamma di don Bosco Margheri­ta Occhiena, il teologo Giovanni Borel e il pittore Giuseppe Rollini, allievo dell'Oratorio (autoritratto).

53 3.2. Santuario Basilica di Maria Ausiliatrice

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L'idea della costruzione di una maestosa chiesa in onore di Maria Santissima, adatta a contenere con maggior comodo la grande popolazione giovanile di Valdocco, venne a don Bosco una sera del dicembre 1862, come testimonia don Paolo Albera:


Un sabato del mese di dicembre, forse il giorno 6, D. Bosco avendo finito di confessare i giovani verso le 11 di notte, scese a cena nel refettorio vicino alla cucina. D. Bosco era soprapensiero. Il chierico Albera era solo con lui, quando D. Bosco prese a dirgli. - Io ho confessato tan­to e per verità quasi non so che cosa abbia detto o fatto, tanto mi preoccupava un'idea, che distraendomi mi traeva ir­resistibilmente fuori di me. Io pensavo: La nostra chiesa è troppo piccola; non capisce tutti i giovani o pure vi stanno addossati l'uno all'altro. Quindi ne fabbricheremo un'altra più bella, più grande, che sia magnifica. Le daremo il tito­lo: Chiesa di Maria SS. Ausiliatrice. Io non ho un soldo, non so dove prenderò il denaro, ma ciò non importa. Se Dio la vuole si farà. Io tenterò la prova e se non si farà che la vergogna dell'insuccesso sia tutta per don Bosco. Dica pure la gente: Coepit aedificare et non potuit consummare” (MB 7, 333-334).


In verità già nel 1844, ai primordi delle sue riunioni gio­vanili domenicali, quando ancora non aveva trovato né un luogo né una formula chiara per il nascente Oratorio, durante un sogno profetico che in qualche modo completava quello dei nove anni, e­ra stato accompagnato da una Signora attraverso le varie fasi di sviluppo della sua opera, fino ad “un campo, in cui era stata se­minata meliga, patate, cavoli, barbabietole, lattughe, e molti altri erbaggi”:


Guarda un'altra volta, mi disse, e guardai di nuovo. Allora vidi una stupenda ed alta chiesa. Un'orchestra, una musica istrumentale e vocale mi invitavano a cantar messa. Nell'interno di quella chiesa era una fascia bianca, in cui a caratteri cubitali era scritto: Hic domus mea, inde gloria mea” (MO 130).


Il sogno si era ripetuto l'anno successivo, con un partico­lare in più: la chiesa sarebbe sorta sul “luogo dove i gloriosi Martiri di Torino Avventore ed Ottavio soffrirono il loro marti­rio” (MB 2, 229). Ma questi sogni don Bosco li avrebbe compresi soltanto in seguito, vedendo lo sviluppo della sua opera, segno tangibile dell'assistenza divina e della presenza attiva e mater­na di Maria. Non sarà infatti la volontà di attuare a tutti i co­sti un progetto sognato, quanto piuttosto la necessità concreta dei suoi giovani e del popolo, unitamente alla sua accresciuta devozione alla Vergine Santissima, a spingerlo nell'impresa di costruire “una chiesa più grande”.


53.1 3.2.1. Le origini storiche del titolo "Ausiliatrice"

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Il titolo di Ausiliatrice, presente fin dal sec. XVI nelle litanie lauretane, venerato anche in Torino dov'era ope­rante una confraternita sotto questo nome presso la chiesa di san Francesco da Paola, era stato riportato in primo piano da Pio VII nel 1815. Questi, tornato dalla prigionia napoleonica, aveva volu­to ringraziare Maria Aiuto della Chiesa e dei cristiani, isti­tuendo la festa del 24 maggio.

Nel 1862 un nuovo evento divulgava rapidamente la devozione all'Ausiliatrice: nel marzo, da un'antica effige di una chiesa in rovina, a Fratta presso Spoleto, la Madonna aveva parlato ad un bambino di cinque anni e cominciava a concedere favori e grazie singolari. La notizia dilagò in un baleno, suscitando entusiasmo. I pellegrinaggi si moltiplicarono a dismisura nel giro di pochi giorni. L'arcivescovo di Spoleto mons. Giovanni Battista Arnaldi, colpito dalle folle che continuamente accorrevano e dalla pietà suscitata, decretò che alla sacra immagine fosse dato il titolo di Auxilum Christianorum e si fece entusiasta diffusore dei fatti e del culto dell'Ausiliatrice.

I fatti di Spoleto accadevano in un clima di tensioni tra Stato e Chiesa, mentre il potere temporale del papa appariva ir­rimediabilmente giunto al tramonto, gran parte dei suoi territori era già passata al nuovo regno d'Italia e lo stesso romano ponte­fice era fatto bersaglio di polemiche e disprezzo dai liberali e dagli anticlericali. Spoleto era stata sede vescovile di Pio IX e le apparizioni venivano ad incoraggiare i cattolici italiani: il Signore non abbandonava la sua Chiesa e attraverso la sua SS. Ma­dre operava portenti e meraviglie.

L'Ausiliatrice - definita da mons. Arnaldi “astro fulgido che brilla nella caligine dei tempi, protettrice della Chiesa catto­lica, consolatrice del Romano Pontefice, vilipeso ed osteggiato in ogni modo dai nemici della fede, battagliera fortissima, ter­rore dell'inferno, salvatrice del popolo fedele, rifugio dei tri­bolati, speranza di sollecito trionfo della Chiesa e dell'Augusto suo Capo” - avrebbe schiacciato il capo del serpente antico se­gnando la vittoria di Dio sui nemici del bene.

Sulle pagine dei giornali cattolici e nelle omelie il nome dell'Ausiliatrice e i fatti di Spoleto risuonarono rapidamente in tutta Italia, suscitando fervore ed entusiasmo in ambito cat­tolico, ma anche polemiche e canzonature presso gli avversari. A Torino l'Armonia diede ampio risalto ai fatti fin dal maggio 1862, pubblicando le relazioni di mons. Arnaldi, che destarono molto interesse.


53.2 3.2.2. I motivi ispiratori di don Bosco

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Don Bosco, che già nell'opuscolo Il mese di maggio (1858) a­veva utilizzato il titolo Auxilium Christianorum per indicare l'azione efficace di Maria, protettrice in vita, ma soprattutto in morte (quando “sarà un capitano terribile, che a guisa di un ordinato esercito reprimerà gli assalti del nemico infernale”), il 24 maggio 1862 annunciò nella “buona notte” “con sua grande con­tentezza la prodigiosa manifestazione di un'immagine di Maria av­venuta nelle vicinanze di Spoleto” (MB 7, 166).


Il progetto di dedicare la nuova chiesa a Maria Ausiliatri­ce si collocava quindi in un contesto carico di speranze ed atte­se, in cui la spiritualità mariana traeva dai fatti di Spoleto un notevole impulso in senso ecclesiale, sociale ed escatologico. Don Bosco, da parte sua, vive con piena consapevolezza questo mo­mento e questo clima.

All'origine della sua volontà di intitolare la chiesa va­gheggiata all'Ausiliatrice c'è dunque, prima di tutto una forte motivazione ecclesiologica accentuata dall'amara constatazione della "tristezza dei tempi". Ciò appare evidente da molti inter­venti del Santo: dal sogno delle "due colonne", raccontato ai suoi il 30 maggio 1862 (cf MB 7, 169-172), all'introduzione ad un opuscolo del 1868 dal titolo Maraviglie della Madre di Dio in­vocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice:


Il bisogno oggi universalmente sentito di invocare Maria non è particolare, ma generale; non sono più tiepidi da in­fervorare, peccatori da convertire, innocenti da conservare. Queste cose sono sempre utili in ogni luogo, presso qual­siasi persona. Ma è la stessa Chiesa Cattolica che è assali­ta. È assalita nelle sue funzioni, nelle sacre sue istitu­zioni, nel suo Capo, nella sua dottrina, nella sua discipli­na; è assalita come Chiesa Cattolica, come centro della ve­rità, come maestra di tutti i fedeli.

Ed è appunto per meritarsi una speciale protezione del Cielo che si ricorre a Maria, come Madre comune, come spe­ciale ausiliatrice dei Re, e dei popoli cattolici, come cat­tolici di tutto il mondo!”.


(G. Bosco, Maraviglie della Madre di Dio invocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice, Torino, Tip. dell’Oratorio di S. Francesco di Sales 1868, pp. 6-7).


Ma non sono soltanto contingenze storiche a determinare la scelta di don Bosco. Egli sente il titolo prescelto come il più adatto ad esprimere la sua riconoscenza alla Vergine per i tanti "aiuti" ricevuti e, insieme, per invocarne la protezione sulla nascente Congregazione. Testimonia il cardinal Giovanni Cagliero:


Nel 1862 D. Bosco mi disse, che meditava l'erezione di una chiesa grandiosa e degna della Vergine SS. - Sinora, soggiungeva, abbiamo celebrato con solennità e pompa la fe­sta dell'Immacolata, ed in questo giorno sonosi incominciate le prime nostre opere degli Oratorii festivi. Ma la Madonna vuole che la onoriamo sotto il titolo di Maria Ausiliatrice: i tempi corrono così tristi che abbiamo proprio bisogno che la Vergine SS. ci aiuti a conservare e difendere la fede cristiana. E sai tu un altro perché?

- Credo, risposi io, che sarà la Chiesa Madre della nostra futura Congregazione, ed il centro dal quale emaneranno tut­te le altre opere nostre a favore della gioventù.

- Hai indovinato, mi disse: Maria SS. è la fondatrice e sarà la sostenitrice delle nostre opere” (MB 7, 334).


In don Bosco, poi, il titolo Ausiliatrice trova una risonan­za immediata. L'esperienza personale e la riflessione lo hanno condotto ad una devozione mariana e ad una mariologia dai carat­teri positivi e storici. Maria non è soltanto la Madre di Dio da venerare ed amare, la suscitatrice di teneri affetti ed entusia­smi spirituali: ella è coinvolta direttamente nella storia della salvezza, a livello personale, ecclesiale e sociale; la sua è una missione storica ed escatologica; è lei che ha guidato don Bosco fin dai suoi più teneri anni sostenendolo attraverso le tante difficoltà; a lei si devono gli sviluppi dell'Oratorio; è lei che guida i primi passi della nascente Congregazione Salesiana.


C'è inoltre in don Bosco una forte sottolineatura pastorale e pedagogica: Maria è aiuto nel cammino della vita per vincere gli assalti del peccato, per essere liberati da ogni forma di ma­le (spirituale, morale e fisico) e soprattutto per attuare il be­ne. Tra le mura dell'Oratorio, tra le folle di popolani che ac­corrono al santuario di Valdocco, tra i benefattori di don Bosco la devozione all'Ausiliatrice assume un significato più intimo, meno determinato dagli avvenimenti politici e sociali. Egli sot­tolinea per i suoi giovani quanto può suscitare maggior fervore religioso e impegno di vita e di crescita spirituale; ai suoi Sa­lesiani presenta Maria come ispiratrice, forza e modello nella missione educativa e nell'itinerario di santità; per i fedeli e­videnzia la potente azione taumaturgica e protettiva della Madre di Dio, allo scopo di stimolare alla conversione e ad una vita cristianamente ispirata.


53.3 3.2.3. Il progetto e i lavori

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Don Bosco, senza alcuna benché minima base economica, ma convinto che “è la Madonna che vuole la Chiesa; essa penserà a pagare” (MB 7, 372), agli inizi del 1863 avvia trattative con i Rosminiani per riacquistare il grande prato del seminario che e­gli stesso aveva venduto al Rosmini nell'aprile 1854. L'affare si conclude l'11 febbraio. Egli si affida quindi alla carità dei suoi benefattori e al sostegno delle autorità, spedendo un gran numero di circolari nelle quali motiva la costruzione della nuova chiesa per scopi esclusivamente pastorali: dare maggior spazio a tutti i giovani interni ed esterni dell'Oratorio e fornire di chiesa il nuovo borgo costituitosi in zona Valdocco, abitato or­mai da “una popolazione di oltre a ventimila abitanti nel cui mezzo non esiste né Chiesa né Cappella, nemmanco pubblica Scuola, in cui, ad eccezione della nostra, si facciano Sacre Funzioni, o si compartisca l'insegnamento religioso” (MB 7, 379).


53.3.1 Il progetto

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Per il progetto don Bosco dapprima si affidò ad una commis­sione di architetti, poi, vedendo che ciascuno avrebbe voluto far adottare il proprio disegno e che le discussioni duravano più me­si senza alcun accordo, commissionò il tutto all'ingegner Antonio Spezia, colui che aveva fatto l'estimo di casa Pinardi quando la si era acquistata. Lo Spezia preparò un progetto di costruzione in forma di croce latina, su una superficie di 1200 metri quadri:


Due bassi campanili fiancheggiavano la facciata sporgen­te. Per entrare in chiesa si passava per un atrio che soste­neva l'orchestra. Una maestosa cupola con sedici finestroni torreggiava sull'edifizio. Dalla prima base alla massima al­tezza si misuravano metri settanta (ndr.: nella realizzazione sono 45 metri). Da una parte e dall'altra dell'altar maggiore, die­tro al quale girava uno stretto ambulacro, era una sagre­stia, dalla cui porta si entrava nell'imponente presbiterio. Alle estremità del braccio trasversale due grandi altari; e due altri in cappelle, a metà del braccio inferiore.

D. Bosco esaminato il disegno si rallegrò molto e disse: - Senza che io accennassi all'ingegnere nessuna mia inten­zione speciale che regolasse la fabbrica della nuova chiesa, vidi che una cappella riuscirà nel luogo preciso che la Bea­ta Vergine mi aveva additato. - E in questa si consacrò un altare ai SS. Martiri Torinesi” (MB 7, 466).


Il progetto, dopo qualche difficoltà sollevata da alcuni sul titolo Chiesa di Maria SS. Ausiliatrice, venne approvato dall'uf­ficio edilizio comunale.


53.3.2 I lavori

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I lavori furono affidati all'impresario Carlo Buzzetti, ora­toriano della prima ora. Nel maggio 1863, per l'acquisto del ter­reno e del legname per lo steccato si erano già spese 4000 lire. Nell'estate e nell'autunno furono compiute le opere di scavo. Do­vendosi costruire sotto il pavimento della chiesa anche un vasto sotterraneo, oltre agli sterri per le fondamenta, era necessario asportare una enorme quantità di terra. Così nel 1863 si poté e­seguire solo una parte di quel lavoro che venne ripreso nel marzo 1864. Ci si accorse allora che il terreno era alluvionale ed era necessario scendere più in profondità e “piantare una forte pala­fittata, corrispondente alla periferia della progettata costru­zione. Ciò fu cagione, di maggiori spese sia per l'aumento dei lavori, sia per la copia di travi. Questi lavori però furono con­tinuati alacremente” (MB 7, 651).

Nell'inverno si erano procurate 200 mila miriagrammi di pie­tre, trasportate gratuitamente a Torino in ferrovia per i buoni uffici del direttore generale delle ferrovie Bartolomeo Bona. Il 5 aprile don Bosco diramò un altro invito alla pubblica benefi­cenza e lo fece inserire anche nella Gazzetta Ufficiale del 12 a­prile 1864 e su altri giornali cattolici.

Il disegno della chiesa venne sottoposto all'esame del cano­nico Lorenzo Gastaldi, futuro arcivescovo, il quale lo approvò e suggerì alcune modifiche funzionali che, in parte, furono accol­te. Sistemato il disegno, don Bosco spediva altre lettere circo­lari ai fedeli, con schede di sottoscrizione, diffondendole in quasi tutta l'Italia settentrionale e centrale. Le risposte non mancarono, perché comunicando la notizia della chiesa in costru­zione, il Santo divulgava la devozione all'Ausiliatrice e con es­sa si moltiplicavano ovunque i favori e le grazie ottenute per intercessione di Maria. Si confermava la fiducia di don Bosco che, se la santa Vergine aveva voluto la costruzione della chie­sa, avrebbe pensato ella stessa a far giungere i fondi necessari.

Sul finire dell'aprile lo sterro era ultimato e Buzzetti in­vitò don Bosco a collocare la prima pietra delle fondamenta. Al termine della funzione il Santo si rivolse all'impresario e dis­se:


Ti voglio dare subito un acconto per i grandi lavori. Non so se sarà molto, ma sarà tutto quello che ho. - Così dicendo tirò fuori il borsellino, l'aprì e lo versò capovol­gendolo nelle mani del capomastro, che credeva di averle a riempire di marenghi. Quale fu invece la sua meraviglia e quella di tutti coloro che lo avevano accompagnato quando non si trovarono che otto poveri soldi. E D. Bosco sorriden­do soggiunse: - Sta' tranquillo; la Madonna penserà a prov­vedere il danaro conveniente per la sua chiesa. Io non ne sarò che l'istrumento, il cassiere. - E volgendosi a quelli che erangli intorno, concluse: - Vedrete!” (MB 7, 652).


La crisi economica generale dello stato italiano era grave, e soltanto un santo o un incosciente avrebbero potuto affrontare un rischio simile. Gli sterri e le fondamenta da soli costarono oltre 35 mila lire e per portare a termine l'opera don Bosco av­rebbe dovuto procurarsi circa un milione, mentre aveva previsto una spesa di 200 mila lire (cf MB 7, 652-653).

Dall'autunno del 1864 lo stato delle finanze italiane con­tinuò ad aggravarsi sempre più. Nel paese si faceva sentire la scarsità di denaro e gli stessi benefattori di don Bosco si tro­vavano in angustie. Il trasporto della capitale a Firenze (1865) diminuì alquanto il numero dei benefattori. La situazione, già grave, divenne tragica per don Bosco: doveva affrontare spese a­limentari gravose per gli oltre settecento ospiti di Valdocco, e ogni quindici giorni doveva trovare il salario per gli operai e i muratori di Buzzetti, oltre alla provvista dei materiali edilizi il cui prezzo in quegli anni stava raggiungendo quote proibitive. Ma il Santo riteneva non conveniente arrestare i lavori di co­struzione e moltiplicò gli sforzi, i viaggi, le umiliazioni e le preghiere.

Il 27 aprile 1865 fu celebrata con grande solennità la posa della pietra angolare: benedetta dal vescovo di Susa mons. Odone, in luogo dell'indisposto mons. Nazari di Calabiana, vescovo di Casale, venne collocata dal duca Amedeo d'Aosta figlio di Vitto­rio Emanuele II, con la partecipazione del sindaco, del prefetto e di altri insigni personaggi. Don Bosco pubblicizzò il fatto con un fascicolo commemorativo e lanciò una grandiosa lotteria.

Tra 1865 e 1866 la congiuntura economica non accennava a mi­gliorare e il Santo si vide costretto ad allargare la sua cerchia di conoscenze per reperire nuovi fondi. Nel dicembre 1865 si recò a Firenze, dove fu ospite della contessa Uguccioni e nella prima­vera 1866 inviò a Roma il cavaliere Federico Oreglia di Santo Stefano, salesiano laico, per stimolare la beneficenza facendo leva - questa volta - più sulla devozione mariana e i prodigi o­perati da Maria Ausiliatrice che non sulle esigenze del quartiere di Valdocco e su motivi filantropici.

Nel luglio 1866 si stava già lavorando attorno alla cupola, ma con lentezza per mancanza di soldi. La domenica 23 settembre si completò la costruzione della cupola con la cerimonia della posa dell'ultimo mattone, compiuta da don Bosco e dal marchesino Emanuele Fassati.

Nel dicembre la chiesa non era ancora terminata, come invece si sperava. Don Bosco decise allora un nuovo viaggio a Firenze e a Roma (dicembre 1866 - gennaio 1867), alla ricerca di nuovi aiu­ti.

Il soggiorno fiorentino e romano gli permise anche di offri­re la propria collaborazione nei tentativi di conciliazione tra Stato italiano e Santa Sede, apprezzata da ambo le parti per l'e­quilibrio e la moderazione.

Nel corso di questi viaggi don Bosco, che si presentava sem­pre come sacerdote preoccupato innanzitutto della salvezza spiri­tuale delle persone incontrate, suscitava rinnovato impegno di vita cristiana e conversioni. Incominciarono in queste occasioni i fatti prodigiosi che gli meritarono una crescente fama di tau­maturgo.

Tra i proventi della lotteria e le offerte spicciole più o meno consistenti degli amici e dei benefattori antichi e nuovi si poté superare anche il 1867, ma i lavori edilizi ristagnarono poiché il forte freddo invernale aveva portato alle stelle le spese alimentari. Il 21 maggio 1867 il nuovo arcivescovo di Tori­no mons. Alessandro Riccardi di Netro benedisse sulla cupola la statua della Madonna, alta circa 4 metri, opera dello scultore Filippo Boggio.

Nella primavera 1868 riprese il flusso delle grandi e picco­le offerte, cosicché si poterono accelerare i lavori interni. Già nel mese di maggio di quell'anno, mentre si portavano a termine le ultime rifiniture, iniziarono pellegrinaggi spontanei alla nuova chiesa da parrocchie rurali del Monferrato e delle Langhe.


53.3.3 Consacrazione del santuario

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Il 21 maggio 1868 mons. Balma benedisse le cinque campane e, finalmente, il 9 giugno, nel corso di una solenne funzione, l'arcivescovo mons. Riccardi consacrò la nuova chiesa e gli alta­ri. La consacrazione, iniziata alle ore 5,30 del mattino, termi­nava alle 10,30, dopo di che l'arcivescovo celebrava la prima Messa nella nuova chiesa. Ai vespri pomeridiani si eseguì l'anti­fona mariana Sancta Maria, succurre miseris, composta dal Caglie­ro, che riuscì di effetto singolare: era eseguita da tre cori im­ponenti diversamente distribuiti, come scrive don Bosco in un o­puscolo commemorativo dal titolo Rimembranza di una solennità in onore di Maria Ausiliatrice:


Uno in presbiterio di circa 150 tenori e bassi e rappre­senta la Chiesa militante; l'altro sulla cupola di circa 200 soprani e contralti figura gli angeli ossia la Chiesa trion­fante; il terzo coro di altri circa 100 tenori e bassi sull'orchestra e simboleggia la Chiesa purgante”.


(G. Bosco, Rimembranza di una solennità in onore di Maria Ausiliatrice, Torino, Tip. dell’Oratorio di S. Francesco di Sales 1868, p. 27).


I tre cori erano contemporaneamente diretti dal Cagliero per mezzo di un congegno elettrico.

Feste e funzioni religiose si protrassero per otto giorni presiedute da diversi prelati, con la partecipazione di migliaia di pellegrini. Nel corso dell'ottavario la grande fede della gen­te ottenne, per intercessione di Maria, una serie di grazie e di guarigioni anche notevoli che contribuirono a diffondere la fama del santuario e di don Bosco.


53.4 3.2.4. Com'era il santuario costruito da don Bosco

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La chiesa, a croce latina, si presentava molto sobria e spo­glia, senza marmi e decorazioni sulle pareti. Anche l'unica cupo­la era imbiancata a calce.

Gli altari erano cinque:

- l'altar maggiore col grande quadro dell'Ausiliatrice opera del pittore Tommaso Lorenzone (1824-1902);

- l'altare di san Pietro, nella crociera destra, con quadro del milanese Filippo Carcano (1840-1914); oggi quest'altare si trova in una cappella sot­terranea della Basilica e al suo posto sta l'altare di don Bo­sco;

- l'altare di san Giuseppe, nella crociera sinistra, con quadro del Lorenzone (l'unico rimasto intatto fino ad oggi);

- l'altare di sant'Anna, nella cappella a destra della navata centrale: era il più bello e ricco di marmi, lavorato a Roma dal­lo scultore Luigi Medici, con quadro del pittore Giovanni Battista Fino (1820-1898): Ora il quadro si trova nel matroneo a destra dell’altar maggiore e l'altare è dedicato a santa Maria Mazzarello;

- l'altare dei Sacratissimi Cuori di Gesù e Maria, nella cappella a sinistra, con quadro del torinese Giovanni Bonetti (che si trova oggi a Caserta nel santuario del Sacro Cuore di Maria; l'altare fu suc­cessivamente dedicato da don Rua a san Francesco di Sales; oggi è l'altare di san Domenico Savio).


Così don Bosco descrive la chiesa nel già citato fascicolo commemorativo:


Se tu, o Lettore, osservi questa Chiesa all'esterno, ve­di una facciata di stile moderno, di larghezza ed elevatezza proporzionata. La porta maggiore è un capo lavoro dell'arti­sta Ottone Torinese, con disegno del Cav. Spezia.

Due campanili, che fra breve saranno sormontati da un an­gelo dell'altezza di due metri circa in rame battuto, squi­sito lavoro dei fratelli Brogi di Milano, fanno fronte alla cupola. Sopra uno di essi avvi un concerto di cinque campane in mi bemolle con cui si possono suonare pezzi di musica cantabili ed anche marce militari (...).

Dopo i campanili si eleva la cupola coperta di rame sta­gnato e ricoperto di biacca; ciò serve a guarentirla dalla ossidazione, dalla gagliardia dei venti, dai caldi, dai freddi e da altre intemperie della stagione. Sopra la cupola sta maestosamente collocata una statua di rame battuto indo­rata di circa quattro metri di altezza, lavoro del cav. Bog­gio e dono di una benemerita signora Torinese. La Santa Ver­gine è in atto di benedire i suoi divoti che dicono: Nos cum prole pia benedicat Virgo Maria.

Se poi dalla porta maggiore tu entri nell'interno della Chiesa vedrai due colonne di marmo che sostengono l'orche­stra sormontata da due piedestalli lavorati in modo che ser­vano anche da acquasantino. Non è da omettersi che l'orche­stra è dono e lavoro del maestro falegname Gabotti Giuseppe di Locarno ed abitante in Torino.

È l'orchestra di due piani, cioè di orchestra e di con­trorchestra con eco ossia con doppio pavimento. È capace di circa trecento musici.

Il pavimento è tutto alla veneziana. Ma i presbiteri dei singoli altari sembrano altrettanti mosaici. Quello dell'al­tare maggiore non ha bisogno di alcun tappeto per fare degna comparsa nelle più belle solennità. Le balaustre e gli altari sono e­ziandio di marmo lavorati dal Cav. Gussone torinese ad eccezione del primo a destra entrando che fu la­vorato a Roma dall'artista Luigi Medici a spese di un patrizio Bolo­gnese. Questo per preziosità di marmi supera tutti gli altri.

Chi arrestasse il passo nel cen­tro della Chiesa volgendo il guardo al lato destro dell'altare maggio­re, avrebbe di fronte il pulpito che è uno dei più belli ornamenti di questa Chiesa. Questo è dono di una patrizia Torinese, la quale, se volle che si tacesse il nome, desi­dera che tutti sappiano che è obla­zione per grazia ricevuta, e perciò si legge a caratteri d'oro: Omaggio a Maria Ausiliatrice per grazia ri­cevuta.

Il disegno e l'esecuzione furono trovati degni di encomio. Ma ciò che lo rende specialmente commende­vole si è il suo distacco dalle mu­ra, cui mercé il Predicatore è ve­duto facilmente da qualsiasi angolo della Chiesa. È per altro bene di notare a norma dei Predicatori, che la forma della Chiesa riproducendo più volte l'eco della voce, bisogna che le parole siano ben staccate le une dalle altre per evitare la confusione mentre si pronunziano.

Le due crociere hanno due porte caduna, per modo che nei gran­di concorsi de' fedeli si può avere facile entrata ed uscita. I cornicioni della Chiesa e della cupola sono muniti di ringhiere di ferro per assicurare la vita a chi dovesse praticare qualche lavoro nell'alto delle pareti, ed anche per allogare cantori od altre persone nelle maggiori solennità come appunto si praticò nell'ottavario di cui siamo per parlare”.


(G. Bosco, Rimembranza di una solennità in onore di Maria Ausiliatrice, Torino, Tip. dell’Oratorio di S. Francesco di Sales 1868, pp. 14-17).


53.5 3.2.5. Lavori di restauro e ampliamento

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53.5.1 Primo intervento (don Bosco: 1869-1870)

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Appena don Bosco ebbe pagato i debiti residui del santuario si accinse alla costruzione di un coro dietro l'altar maggiore e di due sacrestie laterali, sul prolungamento di quelle fiancheg­gianti il presbiterio. L'idea gli era stata suggerita dal can. Gastaldi già agli inizi dei lavori, per evitare il passaggio da una sacrestia all'altra attraverso il presbiterio (cf MB 7 653).

Si poté così ampliare lo spazio per i cantori e i giovani dell'Oratorio festivo, ai quali venne destinata l'antisacrestia di sinistra che si apriva direttamente sul presbiterio.


53.5.2 Secondo intervento (don Rua: 1889-1891)

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Tra 1889 e 1891 il beato Michele Rua, primo successore di don Bosco, promosse lavori di abbellimento e restauro del santua­rio. Aveva fatto voto in questo senso la sera stessa della morte di don Bosco, quando si trattava di ottenere il permesso di sep­pellire la salma o nella chiesa dell'Ausiliatrice o almeno a Val­salice, come poi era avvenuto.


Lavorarono nei restauri e nella decorazione della chiesa di Maria Ausiliatrice, il pittore Giuseppe Rollini di Intra, ex-allievo di don Bosco; il prof. Carlo Conte di Vercelli per l'esecuzione delle parti decorative che sono il lavoro di maggior pregio; l'ingegnere architetto Crescentino Carel­li di Fubine, soprattutto nell'altar maggiore dove chiuse in una magnifica cornice marmorea il grande quadro dell'Ausi­liatrice.

Il timpano della facciata fu rialzato alquanto e modifi­cato il coronamento dei campanili” (ODB 283).


53.5.3 Terzo intervento (don Ricaldone: 1935-1938)

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La chiesa dell'Ausiliatrice col passare dei decenni andava acquistando sempre maggior importanza e fama mondiale, mentre quello di Spoleto restava un santuario locale, cosicché nel lu­glio 1911 san Pio X le conferì il titolo di Basilica Minore.

La chiesa, che era anche stata eretta a parrocchia, soprat­tutto nelle feste risultava inadatta ad accogliere i settecento giovani artigiani e studenti, la popolazione del borgo e i conti­nui pellegrinaggi. Don Filippo Rinaldi decise allora di aumentare lo spazio senza deturpare possibilmente l'opera di don Bosco e ne affidò lo studio all'architetto Mario Ceradini, presidente dell'Accademia di Belle Arti di Torino. Questi progettò un am­pliamento ottenuto trasformando la croce latina in croce greca e costruendo quattro grandi cappelle negli angoli rientrati che le navate formavano incontrandosi. La morte di don Rinaldi (5 dicem­bre 1931) sospese il progetto, che venne ripreso dal successore don Pietro Ricaldone.

Il disegno dell’architetto Mario Ceradini richiedeva l'abbattimento degli edi­fici adiacenti alla Basilica, e avrebbe comportato spese colossa­li. Si decise allora di affidare un nuovo studio all'economo ge­nerale don Fedele Giraudi e all'architetto salesiano Giulio Va­lotti.

Il progetto approvato nel 1934, anno della canonizzazione di don Bosco, ed attuato tra 1935-1938, comportò i seguenti lavori:

- allungamento del presbiterio, sul quale venne costruita una seconda cupola, e conseguente spostamento dell'altar maggiore e del quadro dell'Ausiliatrice;

- costruzione di due ampie cappelle ai lati del presbiterio, con tribune soprastanti;

- lunga galleria con sei altari dietro l'altar maggiore, che col­lega le due grandi cappelle laterali;

- costruzione di una spaziosa sacrestia sul retro verso l'ex casa Pinardi;

- ambulacro di cintura con due nuove porte sui corpi arretrati della facciata.


Le dimensioni attuali della chiesa sono: lunghezza metri 70; larghezza da 36 a 40 metri; altezza alla sommità della statua sulla cupola metri 45.

I lavori comportarono anche il rifacimento quasi totale del­le decorazioni, degli altari e l'aggiunta abbondante di marmi, sculture e arredi.

L'inaugurazione dei restauri avvenne il 9 giugno 1938.


53.6 3.2.6. Visita della Basilica (vedi fig. 19)

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53.6.1 Facciata esterna

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L'architetto Spezia si ispirò alla facciata di san Giorgio Maggiore in Venezia, disegnata dal Palladio.

Chi guarda la chiesa dall'imbocco della piazza presso corso Regina Margherita, vede splendere le statue dorate della Madonna sulla cupola (alta 4 metri, opera dello scultore Boggio) e degli angeli sui due bassi campanili: l'arcangelo Gabriele (a destra) offre una corona a Maria, l'arcangelo Michele (a sinistra) sven­tola una bandiera con la scritta Lepanto, a ricordo della vitto­ria sui Turchi (1571).

Sul timpano della facciata stanno le statue dei tre martiri Solutore, Avventore ed Ottavio uccisi, secondo la tradizione e la visione di don Bosco, in questo luogo.

Le due statue collocate sopra gli orologi sono quelle di san Massimo, padre della Chiesa e primo vescovo di Torino e di san Francesco di Sales.

Nelle nicchie sottostanti, invece, sono le statue di san Luigi Gonzaga e di san Giuseppe.

In alto, nel triangolo del timpano, campeggia lo stemma del­la Società Salesiana, sorretto da due angeli e nella fascia sot­tostante si legge l'invocazione Maria Auxilium Christianorum, ora pro nobis.

Nella nicchia sotto il rosone è collocato il gruppo marmoreo rappresentante Gesù Maestro che accoglie e benedice i fanciulli.

Tra le colonne laterali sono due grandi bassorilievi rappre­sentanti san Pio V che annuncia la vittoria di Lepanto (quello a sinistra), e Pio VII che incorona Maria SS. nel santuario di Sa­vona (quello a destra). Sopra i bassorilievi due angeli sorreggo­no un cartiglio con le date dei due avvenimenti: 1571 e 1814.

Sui basamenti delle colonne sono incise due scene evangeli­che: la risurrezione del figlio della vedova di Naim e la guari­gione di un sordomuto.


53.6.2 Facciata interna

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Entrando dal portale centrale e fatti pochi passi all'inter­no, volgendosi all'indietro si può ammirare in alto un bel rosone policromo rappresentante il monogramma di Maria con i simboli della sua regalità (Ausiliatrice, Regina della pace, Stella del mattino) sovrastanti il sole radioso sulle acque di Lepanto.

La grande orchestra costruita da don Bosco oggi non esiste più: è stata tolta per dare più luce alla navata centrale. Lo spazio per l'organo e i cantori è stato ricavato alla sinistra dell'altar maggiore sopra l'ampia cappella laterale.

Sulla bussola del portale una epigrafe latina ricorda i due sogni illustrati nei quadri laterali, opera del pittore Mario Barberis. Quello di sinistra riproduce il sogno delle due colonne (maggio 1862: la nave della Chiesa, pilotata dal pontefice, nella tempesta del mondo ostile si salva ancorandosi alle colonne del­l'Eucaristia e dell'Ausiliatrice; cf MB 7, 169-171); quello di de­stra ricorda il sogno della zattera (gennaio 1866: rappresenta la missione salvatrice tra i giovani della Società Salesiana; cf MB 8, 275-282).

Nella fascia che corre lungo tutta la chiesa, tra i capitel­li dei pilastri e il cornicione sul quale poggiano le volte, è scritta a lettere capitali la grande antifona mariana: “Sancta Maria succurre miseris iuva pusillanimes refove flebiles o­ra pro populo interveni pro clero intercede pro devoto femi­neo sexu sentiant omnes peccatores tuum iuvamen quicumque tuum sanctum implorant auxilium” (Santa Maria, soccorri i miseri, aiuta i paurosi, ristora i deboli, prega per il popolo, intervie­ni a favore del clero, intercedi per le donne, sperimentino il tuo appoggio tutti i peccatori e quanti implorano il tuo santo aiuto).


53.6.3 Cappella di santa Maria Domenica Mazzarello (vedi fig. 19, n. 16)

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A destra, presso l'ingresso principale, una porta immette alla scala che scende nella Cappella delle Reliquie (se ne parle­rà più sotto). Attraverso questa porta, fino al 1937, i cantori salivano all'orchestra. Nella nicchia sovrastante è collocata la statua di santa Cecilia, protettrice della musica.

Segue la cappella che conserva, nell'urna di bronzo sotto l'altare, le spoglie di santa Maria Domenica Mazzarello (1837-1881) confondatrice e prima madre generale dell'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice. La sua salma fu trasportata da Niz­za Monferrato in Basilica nel 1938, anno della beatificazione, e deposta nella Cappella delle Reliquie; venne collocata sotto l'altare l'anno successivo.

Madre Mazzarello è stata proclamata santa il 24 giugno 1951.

L'altare è opera del Valotti, il quadro della Santa è del Crida. I due lunotti sulle pareti, anch'essi del Crida, rappre­sentano, quello a sinistra, l'elezione di Madre Mazzarello a su­periora (15 giugno 1874); quello a destra, l'udienza di Pio IX alla Santa e alle prime missionarie (9 novembre 1877).

Ricordiamo che Maria Mazzarello è la pietra angolare di quell'edificio vivo che don Bosco ha voluto innalzare a Maria Au­siliatrice dopo averle consacrato questa chiesa. Il 5 agosto 1872 a Mornese, in occasione della prima professione religiosa della Mazzarello e delle compagne, il Santo indirizzava loro queste pa­role:


Fra le piante molto piccole ve n'é una assai profumata: il nardo, nominata spesso nella Sacra Scrittura. Nell'Uffi­cio della Beata Vergine si dice: Nardus mea dedit odorem suavitatis, il mio nardo ha esalato soave profumo! Ma sapete che cosa è necessario perché il nardo faccia sentire il suo buon odore? Deve essere ben pestato. Non vi rincresca, dun­que, di avere a patire. Chi patisce per Gesù Cristo, con Lui pure regnerà in eterno.

Voi ora appartenete a una Famiglia religiosa che è tutta della Madonna; siete poche, sprovviste di mezzi e non soste­nute dall'approvazione umana. Niente vi turbi. Le cose cam­bieranno presto (...).

Sì, io vi posso assicurare che l'Istituto avrà un grande avvenire, se vi manterrete semplici, povere, mortificate.

Osservate, dunque, tutti i doveri della vostra nuova con­dizione di religiose, e soccorse dalla tenera nostra Madre Maria Ausiliatrice, passerete illese fra gli scogli della vita e farete del gran bene alle anime vostre e a quelle del prossimo.

Abbiate come gloria il vostro bel titolo di Figlie di Ma­ria Ausiliatrice, e pensate spesso che il vostro Istituto dovrà essere il monumento vivo della gratitudine di don Bo­sco alla Gran Madre di Dio, invocata sotto il titolo di Aiu­to dei cristiani”


(Da: G. Capetti [ed.], Cronistoria, vol. I: La prepara­zione e la fondazione, Roma, FMA 1974, pp. 305-306).

Le statue degli angeli nelle nicchie laterali sono opera dello scultore Giacomo Mussner di Ortisei.

Questa cappella originariamente era dedicata a sant'Anna. Nel 1890 don Rua sostituì il quadro originario con uno rappresen­tante i santi martiri Solutore, Avventore ed Ottavio, poiché è proprio questo il luogo del loro martirio, secondo la visione di don Bosco.

Dopo la cappella, sulla porta che dà nell'ambulacro destro, sta la statua di sant'Agnese, una delle protettrici dell'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice.


53.6.4 Cappella di san Giovanni Bosco (vedi fig. 19, nn. 13 e 14)

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Nel transetto destro, dove anticamente si trovava la cappel­la di san Pietro, sorge ora il monumentale altare dedicato a san Giovanni Bosco, opera dell'architetto Mario Ceradini (1938).

In alto, sotto il quadro del Crida, si trova l'urna in bron­zo e cristallo contenente le spoglie del Santo, disegnata dal prof. Giulio Casanova dell'Accademia Albertina, ben inquadrata nell'architettura marmorea dell'altare. La salma di don Bosco, vestita di paramenti sacri donati dal papa Benedetto XV, fu qui trasferita da Valsalice nel 1929. Il volto e le mani sono masche­re di cera modellate dal Cellini e dipinte da Carlo Cussetti.

L'altare è ricco di marmi policromi, di onici, malachiti e pietre orientali. Il tabernacolo, decorato con lapislazzuli e pietre dure, ha una porticina di argento cesellato ed è sovrasta­to da un cupolino di onice antica, con ornati in bronzo.

L'architetto Mario Ceradini (1864-1940) ha separato l'altare dalla parete di fondo, ricavando una cappellina riccamente ornata che permette ai pellegrini di accostare l'urna.

Due statue ai lati dell'altare, opera dello scultore Nori di Verona, rappresentano la Fede che sorregge il calice e l'ostia e la Carità, col cuore fiammante.

Nelle nicchie laterali sono collocate le statue di due santi della gioventù, ispiratori della pedagogia di don Bosco: sulla destra san Giovanni Battista de La Salle (1651-1719), fondatore del Fratelli delle Scuole Cristiane (opera del Cellini, 1942); sulla sinistra san Filippo Neri (1515-1595) fondatore della Con­gregazione dei Preti dell'Oratorio.

Due vetrate policrome ai lati dell'altare illustrano scene della vita del Santo: a destra l'incontro con Bartolomeo Garelli, nella sacrestia di san Francesco d'Assisi (8 dicembre 1841); a sinistra, l'arrivo di don Bosco e mamma Margherita a casa Pinardi (3 novembre 1846).


Procedendo verso l'altar maggiore, si incontra il pulpito in noce disegnato dallo Spezia, dal quale don Bosco predicò innume­revoli volte, particolarmente nelle feste. Ci sono state conser­vate diverse testimonianze delle sue accorate predicazioni. Ri­portiamo, come esempio, un brano del discorso pronunciato in oc­casione della prima spedizione missionaria del 1875:


Se l'animo mio in questo momento è commosso per la vostra partenza, il mio cuore gode di una grande consolazio­ne nel mirare rassodata la nostra Congregazione; nel vedere che nella nostra pochezza anche noi mettiamo in questo mo­mento il nostro sassolino nel grande edifizio della Chiesa. Sì, partite pure coraggiosi; ma ricordate che vi è una sola Chiesa che si estende in Europa ed in America e in tutto il mondo e riceve nel suo seno gli abitanti di tutte la nazioni che vogliono venire a rifugiarsi nel suo materno seno. (...)

Ma dovunque andiate ad abitare, o figli amati, voi dovete costantemente ritenere che siete preti Cattolici, e siete Salesiani. (...)

Pertanto quello stesso Vangelo predicato dal Salvatore, dai suoi Apostoli, dai successori di San Pietro fin ai no­stri giorni, quella stessa religione, quegli stessi Sacra­menti dovete gelosamente amare, professare ed esclusivamente predicare, sia che andiate tra selvaggi, sia che tra popoli inciviliti (...).

Come Salesiani, in qualunque rimota parte del globo vi troviate, non dimenticate che qui in Italia avete un padre che vi ama nel Signore, una Congregazione che ad ogni eve­nienza a voi pensa, a voi provvede e sempre vi accoglierà come fratelli. Andate adunque; voi dovrete affrontare ogni genere di fatiche, di stenti, di pericoli; ma non temete, Dio è con voi, egli vi darà tale grazia, che voi direte con San Paolo: Da me solo non posso niente, ma col divino aiuto io sono onnipotente. Omnia possum in eo qui me confortat. (...)

Addio! Forse tutti non potremo più vederci su questa terra. Per un poco saremo separati di corpo, ma un giorno saremo riuniti per sempre” (MB 11, 386-387).



53.6.5 Cupola maggiore

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Al centro della crociera s'innalza la cupola maggiore co­struita da don Bosco, ma fatta decorare dal successore don Miche­le Rua (1890-1891). Il grandioso affresco è opera del pittore Giuseppe Rolli­ni (1842-1904) ex-allievo di don Bosco. Il modellino, col bozzet­to originale del Rollini, si trova oggi nel Museo annesso alle Came­rette.

Nella parte superiore della volta è rappresentato il trionfo e la gloria dell'Ausiliatrice in cielo: la Madonna siede in trono e tiene ritto sulle ginocchia il Bambino; su di lei la maestosa figura del Padre e la colomba simbolo dello Spirito; intorno voli di angeli ed arcangeli e le schiere dei beati; accanto al trono di Maria san Giuseppe e, un po' discosto verso destra, i santi Francesco di Sales, Carlo Borromeo, Luigi Gonzaga, Filippo Neri ed altri.

Nella parte inferiore della cupola è raffigurato don Bosco in mezzo ai suoi figli: sulla destra, mons. Cagliero con un grup­po di Patàgoni, le Figlie di Maria Ausiliatrice e i Salesiani missionari che catechizzano; a sinistra di don Bosco i Salesiani con le loro opere per studenti ed artigiani.

Più a sinistra sono rappresentati gli ordini religiosi dei Trinitari e dei Mercedari.

Nella parte della cupola che è di fronte al trono dell'Ausi­liatrice un gruppo di angeli sostiene un arazzo rappresentante la battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571), accanto al quale stanno, a destra, il papa Pio V e i capitani delle armate cristiane; a si­nistra il re polacco Giovanni Sobieski, liberatore di Vienna dall'assedio dei Turchi (1683). L'ultimo gruppo che completa la decorazione e chiude l'anello raffigura Pio VII con la Bolla di istituzione della festa di Maria Auxilium Christianorum (1815).

Nelle quattro vele della cupola il Rollini ha dipinto i Dot­tori della Chiesa sant'Ambrogio e sant'Agostino (Chiesa latina), sant'Atanasio e san Giovanni Crisostomo (Chiesa orientale).


53.6.6 L'altar maggiore (vedi fig. 19, n. 1)

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L'antico altar maggiore del santuario costruito da don Bosco si trovava dove oggi c'è la balaustra.

Sui pilastri che sorreggono il grande arco che divide la na­vata dal presbiterio, nelle due nicchie sovrastanti le porte la­terali, sono collocate le statue di sant'Anna (a destra) e di san Gioacchino (a sinistra), i genitori di Maria SS., che guardano verso il grande dipinto dell'Ausiliatrice. Le statue sono opera dello scultore Nori.

L'ampio presbiterio, ricavato nei lavori di ampliamento del 1935-1938, si prolunga oltre i limiti dell'antica abside, copren­do anche lo spazio precedentemente occupato dal coro, costruito da don Bosco tra 1869 e 1870.

L'altar maggiore, opera dell'architetto salesiano Giulio Valotti (1938), risulta nel suo insime come una monumentale cornice al grande quadro del Lorenzone. Le linee architettoniche si ispirano vagamente al Rinascimento, mascherate da abbondanti decorazioni e ricchezza di policromie marmoree.

Nei due pilastri che fiancheggiano il quadro e sorreggono il timpano sono state ricavate dodici nicchie, sei per parte e acco­state a due a due, per altrettante statue di santi tra i più in­signi per la devozione alla Madonna.

Sul pilastro destro, dal basso in alto, i santi: Cirillo d'Alessandria e Stefano d'Ungheria (primo livello); Giovanni Bo­sco e Bernardo di Chiaravalle (secondo livello); Maria Domenica Mazzarello e Bernardetta Soubirous (terzo livello).

Sul pilastro sinistro, nello stesso ordine, i santi: Giovan­ni Damasceno e Domenico di Guzman (nicchie in basso); Efrem e Bo­naventura (nicchie di mezzo); Rosa da Lima e Caterina da Siena (nicchie in alto).

Nel triangolo del timpano è stato ricollocato il mosaico del Reffo che faceva parte dell'antico altar maggiore, raffigurante l'eterno Padre (1891). Nei triangoli dell'arco iconico figurano due graziosi angioletti in mosaico, dello stesso autore.

Nel fregio della trabeazione, tra il triangolo del timpano e il quadro, su due cartigli in bronzo dorato, è inciso il saluto dell'Ave Maria.

Una fascia di riquadri con quattordici tondi di teste d'an­geli in marmo di Carrara, opera del Luisoni, incornicia l'altare.

Il tabernacolo è inquadrato da piccole lesene con pietre du­re e steli bianchi su lapislazzuli. Nel timpanetto il bassorilie­vo di Gesù che porge il pane. Su di esso, nella sopraelevazione, è collocato l'artistico Crocifisso in bronzo dorato, con due cer­vi simbolici. Il tutto serve da base ad un tronetto per l'esposi­zione del Santissimo contornato da due angeli che sorreggono una corona.


53.6.7 Il quadro dell'Ausiliatrice

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Don Bosco commissionò quest'opera nel 1865 al pittore Tomma­so Lorenzone. Avrebbe voluto una scena grandiosa: in alto la Ver­gine, tra i cori degli angeli; intorno gli apostoli e le schiere dei martiri, dei profeti, delle vergini e dei confessori; ai pie­di della Madonna i simboli delle sue vittorie e una rappresentan­za dei popoli del mondo, in atteggiamento supplice (cf MB 8, 4). Ma, di fronte alle realistiche osservazioni dell'artista sull'im­possibilità di realizzare un tale progetto, si accontentò di una sintesi più modesta, ma sempre grandiosa; il quadro infatti misu­ra metri 7 per 4.

Per la realizzazione dell'opera fu preso in affitto un alto salone di Palazzo Madama e il pittore vi lavorò circa tre anni.

La Madonna campeggia in alto, sulle nubi, in atteggiamento regale, con lo scettro nella destra e il Bimbo assiso sulla sini­stra. Sul suo capo, circondato da una luminosa corona di dodici stelle, aleggia la colomba, simbolo dello Spirito, sovrastata dall'occhio del Padre da cui promana tutta la luce che illumina la scena.

Accanto alla Vergine, un pochino più in basso, sotto le nubi e gli angioletti, stanno alcuni apostoli con gli strumenti del loro martirio. Ai piedi della Madonna gli apostoli Pietro e Paolo e i quattro evangelisti, con i loro simboli tradizionali. Sulla sinistra, presso san Pietro che regge le chiavi, si trova l'evan­gelista Giovanni con il calice dell'ultima cena e l'aquila simbo­leggiante la sublimità del suo Vangelo; accanto è Marco, assiso sul leone. A destra, dietro san Paolo, si scorgono la bianca fi­gura di san Matteo con l'angioletto e san Luca con il bue. In basso, tra Pietro e Paolo compaiono la chiesa dell'Ausiliatrice e gli edifici dell'Oratorio; all'orizzonte il colle di Superga, col tempio della Vergine.


L'amore di don Bosco per la Madonna, come quello per l'Euca­ristia, era contagioso. I suoi figli, Salesiani e giovani, ne fa­cevano un elemento importante della loro vita spirituale fino a raggiungere i vertici della contemplazione. Non fu solo il caso di Domenico Savio, ma di tanti altri, come lui stesso racconta:


Un giorno io entrava nella chiesa Maria Ausiliatrice dalla porta maggiore, verso sera, e quando fui circa a metà della chiesa, osservando il quadro, vidi che la Madonna era coperta da un drappo oscuro. Tosto dissi fra me stesso: - Chi sa perché il sacrestano abbia coperto l'immagine della Madonna? - Ed avvicinandomi più verso il presbiterio, vidi che quel drappo si muoveva. Poco dopo calava giù lentamente finché toccò il pavimento, adorò il Santissimo Sacramento, fece il segno di croce ed uscì fuori passando per la sacre­stia. Quel drappo era un figlio di don Bosco, che in un'e­stasi d'amore si era innalzato fin vicino all'immagine di Maria Santissima per meglio vederla, contemplarla, amarla, baciare i suoi piedi immacolati. Un'altra volta entrava in chiesa dalla sacrestia e vidi un giovane innalzato all'al­tezza del santo Tabernacolo dietro del coro, in atto di ado­rare il Santissimo Sacramento inginocchiato nell'aria, colla testa inclinata ed appoggiata contro la porta del Tabernaco­lo, in dolce estasi d'amore come un Serafino del Cielo. Lo chiamai per nome ed egli tosto si riscosse e discese per terra tutto turbato, pregandomi di non palesarlo ad alcuno” (MB 14, 487-488).


53.6.8 La cupola minore

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Il presbiterio è illuminato da una seconda cupola, costruita tra 1935 e 1938, traforata da sedici vetrate colorate con figure d'angeli dipinte dal prof. Mario Barberis di Roma. Le figure an­geliche portano i simboli dei titoli mariani: Stella del mare Madre di Dio Sempre Vergine Porta del paradiso Piena di grazia Benedetta fra le donne Regina del cielo Signora de­gli angeli Regina del mondo Vergine eccellente Rosa mistica Aiuto dei Cristiani Fonte della nostra gioia Santa Maria Protettrice contro il nemico Aiuto nel momento della morte.

Al centro della cupola, intorno alla simbolica colomba, sono scritte le parole Hic domus mea, inde gloria mea.

Nelle quattro vele sono collocati angeli in bassorilievo, o­pera del Vignali, con i simboli di quattro litanie lauretane: Torre di Davide Torre d'avorio Arca d'oro Arca dell'allean­za.


53.6.9 Le due cappelle laterali del presbiterio (vedi fig. 19, nn. 3 e 4)

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Furono costruite per accogliere i giovani e i pellegrini nelle solennità.

Sono dedicate al SS. Crocifisso, quella di destra, e san Pio V quella di sinistra. Coppie di colonne in marmo verde le separa­no da un'ampio corridoio che le circonda ai lati e le collega passando dietro l'altar maggiore.

La decorazione delle cappelle è opera di Carlo Cussetti.


53.6.10 Le tribune sulle cappelle laterali

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Sulla cappella del Crocifisso (quella a destra) è stato ri­cavato un'ampio matroneo per accogliere i fedeli durante i momenti di maggiore afflusso. È illuminata da una bella vetrata rappre­sentante Maria Assunta in cielo.

Di fronte, sulla cappella di san Pio V sta la tribuna dell'organo e della cantoria, capace di oltre 200 persone. L'or­gano è stato costruito dalla ditta G. Tamburini di Crema (1941), e consta di 68 registri sonori e 23 meccanici, 65 pistoncini di combinazione e 20 pedaletti a staffe. Le canne sono 5100.

Questa ampia orchestra ci ricorda la ricca tradizione musi­cale liturgica di Valdocco e i Maestri che l'hanno animata: Ca­gliero, Dogliani, Scarzanella, Pagella, Lasagna, Lamberto ed al­tri.

I pilastri in marmo bianco di Carrara che sorreggono gli ar­chi centrali delle due tribune recano ciascuno, sul lato fronta­le, tre putti in altorilievo, del Nori, in atteggiamento di can­tori e musicisti.


53.6.11 Galleria dietro l'altar maggiore

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Nella galleria dietro l'altar maggiore sono dislocati sei altari. Da destra a sinistra si susseguono l'altare di san Giu­seppe Benedetto Cottolengo, con quadro di Dalle Ceste (1938); quello del Crocifisso, con figura lignea di Giacomo Mussner di Ortisei; quello di san Giuseppe Cafasso, con quadro di Dalle Ce­ste (1938); quello dei Santi Martiri Torinesi, con pregevole di­pinto del Reffo (1896; don Rua l'aveva collocato al posto di quello di sant'Anna nell'attuale cappella della Mazzarello); quello di san Pio V, con tela del Barberis (1938); quello dell'Angelo Custode, con tela del pittore Giambattista Galizzi di Berga­mo.


53.6.12 La sacrestia (vedi fig. 19, n. 11)

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È collocata a fianco della galleria che è dietro l'altar maggiore. Vi sono esposti sei quadri del Crida (1938), con scene della vita di don Bosco: don Bosco difeso dal cane Grigio (sulla porta che dà in basilica, lato cortile); l'incontro con Bartolo­meo Garelli; don Bosco in mezzo ai giovani dell'Oratorio; il San­to e mamma Margherita giungono a Valdocco (sullo sfondo un'ottima riproduzione della casa Pinardi); don Bosco che confessa; il ca­techismo di Giovannino sul fienile dei Becchi.


53.6.13 La statua dell'Ausiliatrice

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Tornando dalla cappella di san Pio V nella navata centrale, proprio di fronte al pulpito, in una nicchia in basso, si vede la statua dell'Ausiliatrice che ogni anno viene portata in proces­sione, il 24 maggio.

È interessante notare che, il 27 aprile 1865, la pietra an­golare della chiesa fu solennemente collocata proprio in questo luogo, poggiata sopra il grande pilastro della cupola che sorgeva alquanto dal livello del pavimento. Questo fatto spiega perché don Bosco abbia voluto qui la nicchia dell'Ausiliatrice, vera pietra angolare di tutta la sua opera.


53.6.14 Altare di san Giuseppe (vedi fig. 19, n. 15)

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Collocato nel transetto di sinistra, di fronte all'altare di don Bosco, è l'unico rimasto così come lo volle il Santo.

Il grande quadro del Lorenzone fu qui collocato sei anni do­po l'inaugurazione della basilica, il 26 aprile 1874, festa del Patrocinio di san Giuseppe. Come voleva don Bosco, san Giuseppe è rappresentato in piedi, con il Bambino in braccio, mentre prende da lui le rose e le fa cadere sulla chiesa di Maria Ausiliatrice; accanto è la Madonna in atteggiamento devoto. Un angelo sorregge il giglio simbolo della castità; altri due l'invito “Ite ad Jo­seph”, cioè “Andate da Giuseppe”. Nella trabeazione del timpano il versetto biblico “Constituit eum dominum domus suae (Lo co­stituì signore della sua casa), ricorda che don Bosco scelse il Santo come uno dei patroni principali del suo Oratorio.

Nelle nicchie delle pareti laterali campeggiano due statue dello scultore veronese Nori: il re Davide a destra e il profeta Isaia a sinistra.


53.6.15 Altare di san Domenico Savio (vedi fig. 19, nn. 17 e 18)

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Proseguendo dall'altare di san Giuseppe verso il fondo della basilica, prima dell'altare di Domenico Savio, sulla porta che immette nell'ambulacro sinistro, si vede la statua di san France­sco Saverio, apostolo delle missioni, opera dello scultore Gaetano Cellini.

La cappella dove si trova l'altare di Domenico Savio era stata dedicata da don Bosco ai Sacratissimi Cuori di Gesù e Ma­ria. Nei lavori fatti eseguire da don Rua (1889-1891), la capella fu dedicata a san Francesco di Sales e l'altare venne rifatto co­sì come lo vediamo oggi. Il quadro centrale, del Reffo (1893), rappresentante il santo vescovo savoiardo si trova ora nel Museo del Centro Salesiano di Documentazione Storica e Popolare Maria­na.

Nel 1954, anno della canonizzazione di Domenico Savio, la cappella che già dal 1914 ne accoglieva i resti, venne dedicata al giovane allievo di don Bosco. Un modesto quadro del Crida, collocatovi in quell'anno e rappresentante Domenico in ginocchio di fronte all'Immacolata, è stato sostituito da un pregevole dipinto di Mario Càffaro Rore (1984).

Oggi le spoglie di Domenico Savio sono conservate in un'urna dorata sotto l'altare. Precedentemente erano custodite nel picco­lo monumento sepolcrale che si trova alla destra dell'altare.

La volta della cappella, rappresentante il trionfo dell'Eu­caristia e la lotta tra l'arcangelo san Michele e Lucifero, fu affrescata dal Rollini nel 1874. Anche i due affreschi laterali sono dello stesso pittore (1894) e raffigurano fatti della vita di san Francesco di Sales: a destra, il santo, ancora sacerdote, predica la dottrina cattolica ai calvinisti; a sinistra, il san­to, già vescovo, è rappresentato in una tipografia intento alla lettura di una bozza di stampa. Il riferimento alla sua intensa attività di scrittore, che ne ha fatto il patrono dei giornali­sti, è evidente. A titolo di curiosità notiamo che il tipografo dalla lunga barba accanto al santo, è il ritratto di Carlo Gasti­ni. Costui aveva frequentato l'Oratorio fin dal 1848, vi aveva imparato il mestiere del rilegatore ed era sempre rimasto affezionato a don Bosco. Fondatore della associazione degli ex-allievi salesiani, era considerato, per la sua vena poetica di improvvisatore e di cantore, il menestrello di don Bosco. Frequentò l'Oratorio fino alla morte, nel 1902.


53.6.16 Cappelletta del Sacro Cuore (vedi fig. 19, n. 19)

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Si trova al fondo della Basilica a sinistra, comunicante con la cappella di Domenico Savio. Fu voluta da don Rua, quando tra­sformò la vicina cappella dei Sacri Cuori in cappella di san Francesco di Sales (1894).

Il trittico centrale, rappresentante il Sacro Cuore di Gesù e due angeli adoranti, è opera pregevole del pittore Carlo Morga­ri (1888-1970), al quale si deve anche la decorazione delle pareti e della volta.

Notiamo sulla destra la statua di sant'Antonio da Padova sorretta da due eleganti colonnine di bronzo.

Nella nicchia sopra la porta della cappella, verso la navata centrale, è collocata la statua del Vignali raffigurante santa Margherita Maria Alacoque, la suora Visitandina alla quale è con­giunta la devozione al Sacro Cuore.


53.7 3.2.7. I sotterranei della Basilica

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Negli ampi locali ricavati sotto la Basilica don Bosco col­locò ambienti ad uso dell'Oratorio, tra cui il forno nel quale o­gni giorno si coceva il pane.

Con i lavori di ampliamento del 1935-1938 vi furono ricavate due cappelle: quella delle reliquie e quella di san Pietro, quest'ultima sotto la sacrestia. Nei vani restanti, dal 1978, ha sede il Centro Salesiano di Documentazione Storica e Popolare Ma­riana con Museo e biblioteca.


53.7.1 Cappella delle reliquie

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Vi si accede direttamente dalla Basilica, scendendo la sca­letta che si trova a destra presso il portale di ingresso.

Fu inaugurata nel 1934 per accogliere la notevole collezione di reliquie donata dal commendatore Michele Bert di Torino.

Si presenta con una navata unica a croce latina, con volte a vela e a botte che ricordano, anche per i motivi ornamentali, le catacombe cristiane.

Appena discesa la scala ci si trova di fronte all'altare dell'Apparizione che ricorda la visione avuta da don Bosco nel 1845 durante la quale la Vergine gli indicò il luogo del martirio dei tre soldati romani Solutore, Avventore e Ottavio. Una croce di metallo sul pavimento, a sinistra, e un quadro di Dalle Ceste segnano il luogo preciso indicato dalla Vergine.

Don Bosco così ci racconta:


Mi sembrò di trovarmi in una gran pianura piena di una quantità sterminata di giovani (...). Erano giovani abbando­nati dai parenti e corrotti. Io stava per allontanarmi di là, quando mi vidi accanto una Signora che mi disse:

(...)

- In questo luogo dove i gloriosi Martiri di Torino Av­ventore ed Ottavio soffrirono il loro martirio, su queste zolle che furono bagnate e santificate dal loro sangue, io voglio che Dio sia onorato in modo specialissimo. - Così di­cendo, avanzava un piede posandolo sul luogo ove avvenne il martirio e me lo indicò con precisione. Io voleva porre qualche segno per rintracciarlo quando altra volta fossi ri­tornato in quel campo, ma nulla trovai intorno a me; non un palo, non un sasso: tuttavia lo tenni a memoria con preci­sione” (MB 2, 298-299).


Sulla sinistra del quadro si vede il monumento sepolcrale del beato Michele Rua, primo successore di don Bosco (1837-1910).

Proseguendo, si incontrano successivamente l'altare delle sante vedove, con a fronte quello delle sante verigini e martiri; l'altare dei santi vescovi e confessori (presso il quale è sepol­to il venerabile don Filippo Rinaldi, terzo successore di don Bo­sco) e di fronte l'altare dei santi martiri; segue l'altare dei fondatori di ordini e congregazioni religiose che ha davanti quello dei santi dottori della Chiesa; si incontra infine l'altar maggiore, con reliquia del legno della croce.

Le decorazioni degli altari sono del prof. Mario Barberis.

Lungo le pareti, in teche e reliquiari, e sotto gli altari sono esposte centinaia di reliquie.


53.7.2 Cappella di san Pietro

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Sotto l'ampia sacrestia è collocata la cappella di san Pie­tro, a cui si accede attraverso la scala che si trova sul retro della chiesa. Qui è stato situato l’altare di san Pietro, offerto dai benefattori roma­ni, che si trovava in basilica, ove ora è l’altare con l’urna di don Bosco. Il santo di Valdocco lo aveva voluto come segno della sua de­vozione al successore di Pietro.

In questa cappella trova dignitosa collocazione il pregevole quadro commissionato da don Bosco a Filippo Carcano con Cristo che consegna le chiavi a Pietro.


53.7.3 Centro Salesiano di Documentazione Storica e Popolare Mariana

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Appena varcato il cancello d'ingresso ai cortili interni, sul lato destro della Basilica, per una porta si scende al Museo del Centro Salesiano di Documentazione Storica e Popolare Maria­na.

All'origine del Centro c'è il progetto del missionario sale­siano don Maggiorino Borgatello, tornato dalle missioni della Terra del Fuoco nel 1913. Egli volle organizzare un “Museo del culto di Maria Ausiliatrice nel mondo". Intendeva visualizzare la realizzazione della promessa fatta dalla Madonna a don Bosco: “Hic domus mea, inde gloria mea”. Questo modesto Museo fu inaugu­rato nel 1918, in occasione dei cinquant'anni della consacrazione del santuario di Valdocco e durò fino al 1935. Con i lavori di sottofondazione e ampliamento della Basilica, il materiale rac­colto andò disperso.

Nel 1978 il salesiano don Pietro Ceresa trasportò dall'Isti­tuto Salesiano di Bologna la sua ingente raccolta di documenta­zione sulla devozione popolare mariana, che venne sistemata nei locali sottostanti il santuario.

Attualmente, il Centro raccoglie, classifica e mette in mostra tutto ciò che interessa la devozione alla Vergine Maria.


54 3.3. Altri edifici costruiti da Don Bosco

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Nel complesso edilizio di Valdocco, tra le costruzioni risa­lenti a don Bosco, oltre a quelle presentate finora, restano in­tatte a tutt'oggi soltanto le due che fiancheggiano la facciata della Basilica: l'edificio della portineria (a destra) e quello della tipografia (a sinistra), progettati dall'ing. Spezia come coronamento della chiesa.


54.1 3.3.1. Casa della portineria (1874 - 1875)

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Quando don Bosco poté usufruire di tutta casa Pinardi, si preoccupò subito di restaurare o costruire, dove non vi fosse, il muro di cinta dell'Oratorio. E lo fornì di un robusto portone di legno su via della Giardiniera. Quando le funzioni religiose e i catechismi erano iniziati, il portone veniva chiuso per evitare intrusioni e disturbi.

Nell'ottobre 1853 don Bosco aprì in casa Pinardi i primi la­boratori e affidò al maestro calzolaio Domenico Goffi anche il compito di portinaio. Tre anni dopo, quando con le nuove costru­zioni l'Ospizio per interni prendeva forma e si regolamentava, il Santo scelse un portinaio apposito e gli riservò un locale rica­vato presso il portone d'ingresso nell'edificio delle scuole ele­mentari diurne (1856; cf più oltre, n. 3.1.3 ).

La scelta di un buon portinaio è un tesoro per una casa di educazione”: don Bosco ne era convinto e lo scrisse anche nel trattatello sul Sistema Preventivo (cf cap. II, par. 5 in RSS 6 [1985] 248). A lui affidava anche compiti di responsabilità edu­cativa, come si può vedere già nel primo Piano di Regolamento per la Casa annessa all'Oratorio di S. Francesco di Sales, nel quale dedica 12 articoli al portinaio. Ne citiamo alcuni:


“1. È strettissimo dovere del portinaio il trovarsi sem­pre in porteria, ricevere urbanamente chiunque si presenta. Quando deve recarsi altrove per compiere i suoi doveri reli­giosi, all'ora di prender cibo, od in caso di doversi assen­tare per qualche ragionevole motivo egli si farà supplire da persona fissata dal Rettore.

2. Non introdurrà mai persone in Casa senza saputa dei superiori, indirizzando al Prefetto quelli che hanno affari di economia o che hanno bisogno di trattare cose riguardanti i giovani della Casa; al Rettore quelli che cercano diretta­mente di lui.

3. Non permetterà ad alcun giovane della Casa d'uscire senza che sia munito dell'opportuno biglietto di permesso, salve le eccezioni che terrà dal Superiore in nota da con­servarsi segreta, notando l'ora di uscita e di ritorno.

(...)

9. Procuri la quiete e studi di impedire ogni disordine nel cortile e nella Casa; proibisca gli schiamazzi nel tempo delle sacre funzioni, di scuola, di studio e di lavoro.

(...)

12. Egli procurerà di tenersi continuamente occupato o con lavori propri o con altri che gli saranno affidati e no­terà sopra di un memoriale tutte le commissioni; ma sia nel riceverle, sia nel farle, usi sempre maniere dolci ed affa­bili, pensando che la mansuetudine e l'affabilità sono le virtù caratteristiche d'un buon portinaio” (MB 4, 743-744).


Tra 1859 e 1860, con l'aiuto di don Cafasso, don Bosco co­struì una portineria più ampia accanto allo stanzino precedente, con stanza per il portinaio, parlatorio per i parenti degli al­lievi e copertura sul passo carrabile. Due anni dopo spostò la portineria più a destra (sempre su via della Giardiniera) ad an­golo tra la nuova costruzione per la tipografia e il muro di con­fine con la proprietà Filippi. Qui la portineria rimase fino al 1874.

Terminato il santuario dell'Ausiliatrice, nel 1873 il Santo ricomprò il terreno a destra della Basilica dal falegname Gio­vanni B. Coriasco, cui lo aveva venduto nel 1851; fece abbattere la casa e il laboratorio che questi vi aveva costruito, e tra 1874 e 1875 innalzò il primo dei due edifici progettati dallo Spezia.

In questo bell'edificio a tre piani vennero collocati la portineria, alcuni uffici e delle camere per ospiti. In quello più modesto che gli sta accanto (terminato successivamente) tro­varono posto la libreria, il magazzino delle somministranze e, al primo piano, la legatoria di libri.


54.2 3.3.2. Casa della tipografia (1881-1883)

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Fiancheggia la facciata della Basilica a sinistra, simmetri­camente all'edificio della portineria. Era stata progettata dallo Spezia all'inizi degli anni Settanta, ma venne costruita soltanto dopo che si poté acquistare (1880) casa Nelva con la lunga stri­scia di terreno ad ovest del santuario.

La casa Nelva e parte del terreno a fianco della chiesa di san Francesco di Sales furono destinati all'Oratorio festivo, nel restante spazio vennero costruiti progressivamente l'edificio della tipografia (1881-1883) e il laboratorio dei fabbri meccani­ci (1883-1884; quest'ultimo, però fu abbattuto nel 1893 per la costruzione del primo teatro dell'Oratorio).

In questo edificio, la piccola tipografia dell'Oratorio poté svilupparsi progressivamente e diventare una delle più moderne ed efficienti del tempo. Nel 1884, anno successivo all'inaugurazione dello stabile, don Bosco ottenne un padiglione apposito, di metri 55 di lunghezza e 20 di larghezza, alla grande Esposizione Nazio­nale di Torino. I capi laboratorio e i suoi giovani lavoravano sotto gli occhi dei visitatori che potevano così seguire tutto il lungo processo della confezione di un libro (si stampavano la Fa­biola e il Piccolo Catechismo): la fabbricazione della carta, la composizione tipografica, la stampa, la legatura e lo smercio dei volumi.

Dalla casa della tipografia scaturì la grande tradizione grafica salesiana che, grazie ai Salesiani coadiutori qui forma­ti, si diffuse in tutto il mondo contribuendo notevolmente allo sviluppo tecnico ed artistico del settore. Di qui il Bollettino Salesiano e migliaia di pubblicazioni di ogni genere fecero cono­scere don Bosco, propagarono lo spirito missionario e quello ma­riano, servirono la Chiesa particolarmente nel settore della ca­techesi e della formazione religiosa dei giovani.



55 3.4. Antichi edifici ricostruiti

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Altri edifici costruiti o adattati da don Bosco furono suc­cessivamente abbattuti e rifatti. Ne ricordiamo due: casa Filippi e casa Audisio.


55.1 3.4.1. Casa Filippi (1861, ricostruita nel 1952)

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I fratelli Filippi, a destra di casa Pinardi e di fronte al famoso prato che era stato l'ultima meta dell'Oratorio itineran­te, possedevano un terreno con casa e ampia tettoia lungo via della Giardiniera. La casa era una costruzione a forma di U rove­scita, a due piani, destinata a setificio, lunga 35 metri e larga circa 8.

La tettoia era affittata all'appaltatore Visca che vi teneva i carri e i cavalli del municipio. L'andirivieni delle operaie e soprattutto gli schiamazzi dei carrettieri, dei garzoni di stalla e di molti vagabondi che trovavano rifugio sotto la tettoia, di­sturbavano notevolmente il ritmo di preghiera, di studio e di la­voro dell'Oratorio.

Don Bosco, con l'aiuto del comm. Giuseppe Cotta, comperò ca­sa e terreno il 16 luglio 1860, al prezzo di 65 mila lire. Per oltre un anno, però, non si poterono licenziare gli inquilini, che continuarono ad utilizzare la tettoia e il pian terreno della casa.

Don Bosco usò solo il piano superiore, come camerone. Per potervi accedere fece costruire un ponte in legno che collegava l'edificio con l'ala delle Camerette (vedi fig. 12, n. 4). Tra le due costruzioni vi era una distanza di circa sette metri, quasi uno stretto di mare, così casa Filippi venne chiamata dai ragazzi la Sicilia.

Nell'estate 1861, scadute le locazioni, tutta la proprietà Filippi venne annessa all'Oratorio e furono compiute nuove co­struzioni per coordinare i due fabbricati: la piazzetta racchiusa tre le due ali di casa Filippi fu incorporata nell'edificio che si innalzò di un piano. Il braccio delle Camerette venne allar­gato e congiunto a casa Filippi. Nel raccordo tra i due edifici si costruì un'ampia scala (vedi fig. 20, n. 1).

Al piano terreno di casa Filippi così ingrandita si colloca­rono un magazzino e i laboratori dei tintori e dei cappellai (cf MB 7 116); al primo piano aule; al secondo piano si ricavò un va­stissimo salone di studio, capace di 500 allievi, che durante il carnevale e le feste veniva adibito a teatro.

Il Lemoyne, che arrivò a Valdocco già sacerdote nel 1863, così ci descrive la sala di studio:


Era considerata quasi come luogo sacro. Fin dai princi­pii dell'Oratorio vi regnò un solenne, religioso silenzio. Anche d'inverno quando il freddo era eccessivo, permettendo D. Bosco ai giovani di ritirarsi nello studio a far colazio­ne, il silenzio, per rispetto al luogo non era mai turbato. Vi si entrava, diremmo quasi, in punta di piedi e col ber­retto in mano si prendeva il posto fissato. Dopo un Ave Ma­ria, si rispondeva Ora pro nobis alla giaculatoria Sedes sa­pientiae, che nel 1867 si sostituì con Maria Auxilium Chri­stianorum. D. Bosco di tanto in tanto andava egli pure per dar buon esempio, a studiare cogli altri nella sala comune.

Era uno spettacolo maraviglioso. Chiunque fosse entrato e di qualsivoglia dignità nessuno si muoveva dal posto, volge­va il capo, o dava segno di curiosità” (MB 7, 556).


Alla vista degli studenti dell'Oratorio, immersi nello stu­dio in perfetto silenzio, si meravigliarono i due signori inglesi “uno dei quali era ministro della regina Vittoria”, che visitava­no un giorno l'Oratorio. Alla loro domanda “Come è mai possibile di ottenere tanto silenzio e tanta disciplina?”, don Bosco rispo­se: “La frequente confessione e comunione e la messa quotidiana bene ascoltata. - Avete proprio ragione! (...). Avete ragione! o religione, o bastone; voglio raccontarlo a Londra” (MB 7, 557).

Sotto il porticato (lo si chiamava il “portico delle preghiere”) si può vedere una statua dell'Immacolata che don Bosco aveva fatto sistemare nella prima sacrestia della Ba­silica.


55.2 3.4.2. Casa Audisio (1864, rifatta nel 1954)

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Dopo la riforma della scuola propugnata dalla legge Casati (1859) e dalle successive norme applicative, don Bosco si vide costretto ad uniformare le sue scuole ginnasiali - che pure erano private - alle nuove normative e a procurarsi insegnanti diploma­ti.

Tra 1862 e 1863 il Ginnasio dell'Oratorio corse serio peri­colo d'essere chiuso, ma don Bosco anziché scoraggiarsi, lo po­tenziò ed ampliò.

Mentre i suoi giovani insegnanti si impegnavano per gli esa­mi di abilitazione, fece progettare dal geometra F. Serra un nuo­vo edificio a tre piani per le scuole; esso fu innalzato tra e­state 1863 e primavera 1864. Si innestava su casa Filippi e scen­deva verso la portineria. Era una costruzione lunga e stretta, con porticato a pian terreno, aule nei due piani superiori e ca­merette per i Salesiani nel sottotetto.

L'edificio fu chiamato più tardi casa Audisio in omaggio al buon salesiano coadiutore che per molti anni vi tenne un ufficio.

Casa Audisio fu abbattuta e ricostruita nel 1954. Attualmen­te sotto il porticato si apre un vasto salone per i pellegrini.



56 3.5. Le opere attuali a Valdocco

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Per completezza diamo un cenno sommario delle opere salesia­ne attualmente ospitate nella "cittadella" di Valdocco.


56.1 3.5.1. Centro di Formazione Professionale (CFP)

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Si trova a sinistra della facciata della Basilica, sviluppa­tosi in continuazione della tipografia e dell'officina dei fabbri meccanici voluti da don Bosco.

Don Rua tra 1892 e 1904 fece costruire nuovi laboratori ad angolo tra le attuali via Maria Ausiliatrice e via Salerno. Negli edifici, più ampi e razionali, furono collocati i fabbri meccani­ci, i falegnami, i legatori, i sarti, le aule e i dormitori per gli artigiani. Si venne così ad attuare una rigorosa divisione di ambienti e di comunità tra gli artigiani e gli studenti, che già don Bosco aveva iniziato e suggerito.

Con lo sviluppo del settore professionale don Rinaldi, tra 1925 e 1927, fece edificare un nuovo ampio complesso dietro l'ex casa Pinardi, destinato ai laboratori di falegnameria, sartoria e calzoleria, con aule e infermeria ai piani superiori.

Dopo la seconda guerra mondiale i vecchi edifici vennero re­staurati e completati a cura di don Fedele Giraudi con la costru­zione di un grande palazzo (1952-1955) per i laboratori di mecca­nica ed elettrotecnica, le aule della scuola professionale e la Scuola di Applicazioni Fotografiche (SAF).

Col passare dei decenni il settore professionale si è evolu­to; dalla fase artigianale si è passati a quella tecnica e indu­striale. Sono scomparsi i laboratori di calzoleria, sartoria e falegnameria.

Oggi il Centro cura corsi di formazione professionale e riqualificazione in vari settori delle moderne tecnologie.


56.2 3.5.2. Scuola Media "S. Domenico Savio"

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Degli antichi locali, in parte di fortuna, fatti erigere da don Bosco per le scuole ginnasiali, non esiste più nulla. Nel grande orto che si estendeva dietro casa don Bosco e casa Filippi andò progressivamente sviluppandosi il complesso edilizio che og­gi vediamo attorno al secondo grande cortile di Valdocco.

Don Rua, sull'asse di prolungamento di casa Audisio, costruì un primo fabbricato (1908-1909) per le aule e un nuovo studio capace di 400 alunni. In questa sala si svolsero alcuni Capitoli generali della Società Salesiana.

Don Paolo Albera continuò la costruzione con l'aggiunta di un salone ad uso palestra per la ricreazione al coperto e fece innalzare lungo piazza Sassari un secondo edificio con aule e dormitori. Costruì anche, ad angolo tra via Sassari e via Saler­no, una casa destinata alla lavanderia e alla guardaroba (1920-1921), con alloggio per le suore addette.

Don Filippo Rinaldi completò l'insieme con una grande cucina e nuovi refettori (1925-1927).

Durante la seconda guerra mondiale un bombardamento distrus­se completamente l'edificio su piazza Sassari. Don Giraudi lo ri­costruì nel 1951 e vi ricavò un grande salone teatro, tuttora in uso, e delle camerate.

Oggi l’antica “sezione studenti” di Valdocco continua la sua attività come Scuola media S. Domenico Savio.


56.3 3.5.3. L'Oratorio quotidiano e festivo

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L'Oratorio festivo, nucleo dal quale si è sviluppata tutta l'opera di don Bosco, per un certo numero di anni fu una cosa so­la con la Casa annessa. Durante la costruzione della Basilica, sia per il poco spazio a disposizione, congestionato dall'ingente numero dei giovani interni, sia per la mutata situazione socio-economica del quartiere, i giovani oratoriani esterni diminuirono notevolmente.

Don Bosco cercò di ovviare riservando il terreno a fianco e dietro la Basilica all'Oratorio festivo e destinandogli come cap­pella la sacrestia a ponente del santuario. La situazione rimase precaria per un decennio, finché nel 1880, si acquistò per gli o­ratoriani esterni la casa e il terreno Nelva.

L'Oratorio festivo vide una nuova primavera e un deciso ri­lancio sotto il rettorato di don Rua, che gli riservò un ampio spazio verso via Salerno (1899; terreno già proprietà Carosso), costruì un teatrino e ricavò in casa Carosso aule per il catechi­smo e le classi serali.

Sotto la direzione di don Giuseppe Pavia (1852-1915) l'Oratorio crebbe e si con­solidò tanto che don Albera, abbattuta casa Carosso, ampliò il cortile e fece erigere lungo via Salerno, sul prolungamento del teatrino, una palestra con aule al piano superiore. Infine, sotto il rettorato di don Pietro Ricaldone, i poveri edifici su via Sa­lerno vennero abbattuti e si costruì (1934-1935), su progetto del Valotti, l'attuale Oratorio.

Da don Bosco ad oggi il borgo di Valdocco, sempre ricco di popolazione giovanile, ha assicurato e continua ad assicurare un ampio afflusso di giovani che mantiene la prima opera di don Bo­sco ancora attuale e viva.


56.4 3.5.4. Centro Mariano Salesiano

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La comunità del Centro Mariano Salesiano che attende alla Basilica, alle opere pastorali e ad altri servizi, utilizza gli edifici che si affacciano sul primo grande cortile, sul fianco de­stro della Basilica.

Scopo del Centro Mariano Salesiano è l'animazione liturgica nella Basilica, la diffusione del culto all'Ausiliatrice (particolarmente attraverso la rivista Maria Ausiliatrice e l’azione dell’Associazione di Maria Ausiliatrice [ADMA]), il ser­vizio di accoglienza dei pellegrini e la custodia delle memorie legate a don Bosco.


56.5 3.5.5. Circoscrizione Salesiana di Piemonte e Valle d’Aosta

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Nell'ex casa Pinardi e in casa don Bosco, al primo piano, ha sede la direzione di tutte le opere salesiane del Piemonte e della Valle d’Aosta con gli uffici del superiore e dei collaboratori, nonché quelli della delegazione regionale del CNOS-FAP, centro di coordinamento delle attività scola­stiche, professionali e ricreativo-culturali dell'Opera salesiana in Italia.


57 3.6. Piazza Maria Ausiliatrice

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Don Bosco, tra 1868 e 1869 comperava vari appezzamenti di terreno di fronte al santuario, completandoli con l'acquisto di casa Moretta (1875) e di casa Audagnotto (1878).

In casa Moretta venne aperto il primo Oratorio femminile delle Figlie di Maria Ausiliatrice (1876), diretto da suor Elisa Roncallo, mentre casa Audagnotto fu assegnata all'ospitalità.

Fin dal 1870 don Bosco aveva pensato ad un progetto di nuove costruzioni che facessero degna corona alla chiesa dell'Ausilia­trice. Lo studio, affidato all'ingegner Spezia, venne approvato dal Municipio, ma per diverse difficoltà si realizzarono soltanto i due edifici a fianco della Basilica (portineria e tipografia).

Le costruzioni che attualmente delimitano la piazza sorsero tra la fine dell’Ottocento e il 1935: sul lato sinistro, uscendo dalla Basilica, abbiamo la casa delle opere parrocchiali, con il Centro di Pastorale Giovanile che coordina l’azione educativa e pastorale dei Salesiani nella regione; la chiesa "succursale", co­struita da don Rua per l'antico Oratorio femminile; gli edifici della Società Editrice Internazionale (SEI). Sul lato destro sorgono invece l'ex casa generalizia delle Figlie di Maria Ausi­liatrice e varie loro opere scolastiche ed educative.


57.1

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57.1.1 Il monumento a don Bosco

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Si decise di edificarlo il 10 settembre 1911, durante il Congresso Internazionale degli ex-allievi, in vista del primo centenario della nascita di don Bosco.

Tra i 59 artisti che parteciparono al concorso bandito dal comitato promotore venne scelto lo scultore Gaetano Cellini di Bologna.

Lo scoppio della prima guerra mondiale ritardò l'inaugura­zione del monumento, avvenuta con grande solennità solo il 3 maggio 1920.

Su una base di porfido campeggia la statua bronzea di don Bosco abbracciata da un gruppetto di ragazzi. La donna velata ai piedi del Santo, rappresentante la Fede, offre una croce alla ve­nerazione di un uomo ricurvo, simbolo dell'umanità.

Nell'altorilievo a destra vi è una madre con bimbo che manda baci a don Bosco, simbolo dell'educazione familiare; in quello a sinistra un lebbroso guarda invocante il santo fondatore delle missioni salesiane.

Ai lati, appoggiati alle due stele, i gruppi di figure indi­cano le due grandi devozioni insegnate da don Bosco: l'Eucarestia e l'Ausiliatrice. A destra un robusto operaio curva il capo di fronte al SS. Sacramento, innanzi al quale una donna prega ed una madre bacia il figlioletto. A sinistra un fiero indio, convertito dai missionari salesiani, è prostrato dinnanzi all'Ausiliatrice, alla quale due vergini offrono fiori.

Sul retro del monumento tre bassorilievi alludono all'assistenza dei Salesiani agli emigrati, alle scuole professionali e a quelle agricole.

58 3.7. ALTRE OPERE AVVIATE DA DON BOSCO IN TORINO

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Altre due istituzioni in Torino testimoniano direttamente il lavoro in­stancabile di don Bosco per l'educazione dei giovani e i suoi orizzonti sempre più vasti: la chiesa di san Giovanni Evangelista con l'annesso edificio, opera detta familiarmente ìl “san Giovannino”, e l'Istituto di Valsali­ce che dal 1888 al 1929 ebbe la singolare sorte di custodire la tomba del Santo educatore. Non può quindi mancare, a conclusione di questa rassegna degli ambienti in cui visse e operò don Bosco, una cenno ai due centri.


58.1 3.7.1. La chiesa e l'Istituto di san Giovanni Evangelista (corso Vitto­rio Emanuele II, n. 13 - via Madama Cristina, n. 1)

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Accanto all'Oratorio di san Luigi, descritto nelle pagine precedenti, e come suo naturale sviluppo, don Bosco volle erigere una chiesa ed un “ospizio” con scuola per giovani “poveri ed abbandonati”, al fine di ren­dere più efficace la sua opera educativa.

Vari motivi orientavano il Santo a questa impresa. Nella zona, il Bor­go San Salvario, era iniziata una forte espansione della città, prevista dai piani urbanistici fin dal 1847 ed accelerata anche dalla costruzione della vicina stazione ferroviaria di Porta Nuova. Ne consegui una forte concentrazione demografica, particolarmente del ceto popolare e pove­ro. Inoltre, già dal 1853, i Valdesi, ottenuta nel 1848 l'emancipazione, avevano iniziato a costruire il tempio, un ospedale ed una scuola, aperta anche ad alunni di fede cattolica per i quali le altre scuole cittadine erano sco­mode. In questo stesso quartiere sarebbero sorti più tardi la sinagoga per il culto israelitico e la scuola ebraica. Il proselitismo e le vivaci iniziative dei protestanti offrirono a don Bosco ulteriori motivi per articolare e svi­luppare la sua opera, sorta già nel 1847.


58.1.1 La costruzione

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Tra il 1870 e il 1875, attraverso successivi atti d'acquisto, il Santo riuscì ad allargare la proprietà dell'antico Oratorio di san Luigi fino ad avere a disposizione un'area di oltre 4000 mq. Un'altra striscia di terre­no, di 300 metri, appartenente ad Enrico Morglia, protestante, l'ottenne soltanto nel 1876, in seguito a ricorso al Consiglio di Stato.

Il disegno del nuovo complesso venne affidato all'architetto vercelle­se conte Edoardo Arborio Mella (1808-1884) che si ispirò allo stile romanico-lombardo dei secoli XI e XII.

I lavori per la costruzione della chiesa iniziarono celermente nell'e­state del 1877. Il 14 agosto dell'anno seguente si ebbe la posa della pietra angolare e nel dicembre del 1879 la struttura esterna era già terminata. In tre anni fu completata la decorazione interna e il 28 ottobre 1882 la chie­sa poté essere solennemente consacrata.

L'edificio sacro risulta a pianta basilicale, di tre navate, con quella centrale doppia rispetto alle laterali. Il complesso misura 60 metri per 22 e può contenere fino a 2500 persone.

La chiesa, dedicata a san Giovanni Evangelista, fu voluta da don Bo­sco anche come monumento di gratitudine a Pio IX per la benevolenza sempre dimostratagli dal pontefice. Questa intenzione causò al Santo non poche difficoltà da parte dell'arcivescovo mons. Gastaldi, anch'egli impegnato ne­gli stessi anni a edificare una chiesa in memoria di Pio IX, pre­cisamente quella di san Secondo. Don Bosco tuttavia riuscì a realizzare il suo progetto, e una grande statua del Papa, posta all'ingresso della chiesa, ricorda ancora oggi gli stretti legami spirituali tra il prete di Valdocco e Pio IX.


58.1.2 Visita della chiesa

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La facciata è arretrata rispetto agli edifici vicini, che sono invece a filo sull'attuale corso Vittorio Emanuele II. Si crea così un piccolo sa­grato racchiuso da elementi architettonici che fungono da collegamento fra la chiesa e le costruzioni ad essa affiancate.

Domina la facciata un campanile che raggiunge i 45 metri d'altezza. È strutturato su tre piani, sormontati da una piramide ottagonale su cui si eleva un globo con stella a dodici raggi, di rame dorato. I primi due piani, a pianta quadrata, sono alleggeriti rispettivamente da una trifora e da una quadrifora. Quello superiore, a pianta ottagonale, è traforato da una bifora e reso più slanciato da otto colonnette di pietra alte oltre sei metri. Sulla sommità di esso è collocato un concerto di cinque campa­ne, inaugurate l'8 dicembre 1881.

Sul portale d'ingresso si legge la scritta “Ianua coeli” (porta del cielo), mentre nella lunetta sovrastante è raffigurato il Redentore seduto in cattedra, con le parole “Ego sum via, veritas et vita” (Io sono la via, la verità e la vita).

Ancora più in alto, sopra la trifora, un mosaico rappresenta la gloria di san Giovanni.

Nell’interno, sulla destra varcato il portale, si incontra la grande statua di Pio IX, in marmo di Carrara, opera dello scultore milanese Francesco Confalo­nieri (1830-1925). Il Papa è ritratto in atto benedicente, mentre con la mano sinistra porge il decreto di approvazione della Congregazione Salesiana.

All'interno, sull'orchestra, era collocato l'imponente organo di 3600 canne, opera del cav. Giuseppe Bernasconi da Bergamo. Don Bosco lo inaugurò nel luglio del 1882 con una serie di concerti durati quattro gior­ni, che attirarono nella nuova chiesa non meno di 50.000 persone, muni­te di apposito biglietto d'entrata. Lo strumento, in occasione del centena­rio della chiesa, è stato sottoposto a restauro, ampliato e collocato nel­l'ambulacro dietro 1'altar maggiore.

Nelle navate la luce si diffonde per mezzo di dieci alte finestre rettangolari e sei circolari.

La navata centrale termina in un'abside semicircolare. La pittura del catino rappresenta Gesù in croce nell'atto di indicare a Maria l'apostolo Giovanni come suo figlio. Il dipinto, ad uso mosaico di ispirazione bizantina, è di Enrico Reffo. Allo stesso autore appartengono i medaglioni, collocati tra gli archi della navata centrale, nei quali sono effigiati i sette vescovi del­l'Asia Minore descritti nell'Apocalisse di san Giovanni. Nelle ampie fi­nestre circolari sottostanti alla calotta absidale sono dipinti a fuoco su vetro: san Giovanni Evangelista, san Giacomo, sant'Andrea, san Pietro e san Pao­lo. L'opera è del milanese Pompeo Bertini.

Le navate laterali si prolungano attorno all'abside formando un mae­stoso ambulacro.

L'altar maggiore, di stile orientale, è a doppia mensa. Il presbiterio era delimitato da una ricca balaustrata in pietra di Saltrio (ora conservata solo in parte) con artistiche cancellate in ferro. Il magnifico pavimento è in mosaico alla pompeiana.

Gli altari laterali sono dedicati a san Domenico Savio (con quadro del Càffaro Rore, 1974), a san Giuseppe (del Reffo, 1882) e a san Francesco di Sales (del Bonelli), nella navata destra; al beato Michele Rua, a san Giovanni Bosco (del Crida, 1934) e al Sacro Cuore (sempre del Crida), nella navata sinistra.

L'icona di don Bosco con l'Ausiliatrice, che è quella esposta in san Pietro il giorno della canonizzazione (1 aprile 1934), ha sostituito un pre­cedente quadro dell'Immacolata. Così pure i quadri di Domenico Savio e di don Rua sono stati collocati al posto delle icone di santa Maria Mad­dalena e di sant'Antonio Abate.


58.1.3 L'Istituto

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Com'era già avvenuto a Valdocco, accanto alla nuova chiesa don Bosco volle subito edificare “un ospizio per giovanetti poveri ed abbandonati”.

In breve, tra la chiesa e via Madama Cristina, tempo sorse un col­legio capace di 350 allievi, in perfetta linea architettonica con l'edificio sacro. Entrato in funzione nell'autunno del 1884, ospitò per i primi dieci anni gli adulti che aspiravano alla vita salesiana. Ne era direttore il beato don Filippo Rinaldi, futuro terzo successore di don Bosco.

Nel 1894 l'Istituto fu convertito in collegio con scuole elementari e ginnasiali, riconosciuto nel 1905 come Ginnasio pareggiato. Oggi l’edificio è sede di un Convitto universitario e di un oratorio (con entrata da via Ormea) ed accoglie attività pastorali per gli immigrati filippini.

Nella sua lunga storia il san Giovannino ha ospi­tato notevoli figure di Salesiani, come i musicisti don Giovanni Pagella (1872-1944) e don Virgilio Bellone (1907-1981), lo storico don Alberto Caviglia (1868-1943), i latinisti don Gio­vanni Battista Francesia (1838-1930) e don Sisto Colombo (1878-1938). Tra gli allievi ricordiamo san Callisto Caravario, martire in Cina (1903-1930).


58.2 3.7.2. Valsalice e la tomba di don Bosco (viale Thovez, n. 37)

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58.2.1 Le origini

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Tra il 1857 e il 1861, i Fratelli delle Scuole Cristiane di Torino avevano co­struito un ampio fabbricato nella “Valle dei Salici”, sulle pendici della collina torinese, come villeggiatura per i nobili allievi del loro collegio di san Primitivo. Nel 1863, in seguito alla legislazione sugli or­dini religiosi, i Fratelli dovettero abbandonare il collegio e l’edificio di Valsalice venne rilevato da una Società di Sacerdoti Torinesi che, nell'ottobre dello stesso anno vi aprì una scuola denominata “Col­legio Valsalici”, “per allevare i giovani delle classi agiate e di civile con­dizione alla religione, alle scienze ed alle carrieri civili, militari e com­merciali” (cf P. Baricco, Torino descritta, Torino, G.B. Paravia 1869, p. 705). Vi erano corsi elementari, tecnici, ginnasiali, liceali e l'istituto tec­nico preparatorio all'Accademia militare. Tuttavia, per scarsità di allievi e difficoltà economiche la scuola degradò, sicché mons. Lorenzo Ga­staldi fece pressioni su don Bosco perché ne assumesse la gestione.

58.2.2 I Salesiani a Valsalice

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Il Santo e i suoi primi collaboratori, di fronte alle insistenze dell'arcivescovo, con molte perplessità, accettarono il collegio nel marzo 1872 e presero in affitto lo stabile per cinque anni. Sotto la direzione dei Salesiani la situazione non migliorò subito. Ma don Bosco, sperando che da questa scuola potessero sca­turire delle vocazioni sacerdotali, decise l’acquisto dell’edificio nel 1879. Nello stes­so anno vi inaugurò un museo ornitologico con la ricca collezione del canonico Giambattista Giordano (1817-1871).

Ben presto la casa assunse un’importanza particolare tra le opere sa­lesiane. Per la sua ubicazione nel verde della collina, appena fuori città, don Bosco la scelse come luogo di riposo e di convalescenza nelle malattie degli ultimi anni e come sede per gli esercizi spirituali dei confratelli. Vi radunò an­che alcuni dei primi Capitoli Generali della giovane Congregazione.

Nel 1887, per suo esplicito desiderio, l'opera subì una radicale tra­sformazione: da liceo diventò casa di formazione per i chierici, sotto il nome di Seminario delle Missioni Estere. Qui vennero formati numerosi salesiani delle prime generazioni, che hanno portato nel modo un’originale impronta di cultura e di metodo educativo e pastorale. Tra essi vanno ricordati i santi martiri mons. Luigi Versilia (1873-1930) e don Callisto Caravario (1903-1930), missionari in Cina, il beato don Luigi Variara (1875-1923), apostolo tra i lebbrosi in Colombia, don Augusto Czartoryski (1858-1893), don Andrea Beltrami (1870-1897), don Vincenzo Cimatti (1879-1965), fondatore dell’opera salesiana in Giappone.


58.2.3 La sepoltura di don Bosco a Valsalice

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Nel 1888 Valsalice accolse la salma di don Bosco. Secondo un testimone egli stesso lo avrebbe previsto dopo una riunione del Capitolo Superiore, avvenuta a Valsalice il 13 settembre 1887:


Erasi deliberato di cambiare destinazione al collegio di Valsa­lice, sostituendo ai nobili convittori i chierici studenti di filosofia. Tolta la seduta capitolare, don Barberis, rimasto solo con lui, gli domandò con tutta confidenza come mai, dopo essere stato sempre contrario a quel mutamento, avesse poi cambiato parere. Rispose: - D'ora in avanti starò io qui alla custodia di questa casa. - Così dicendo teneva sempre gli occhi rivolti allo scalone, che mette dal giardinetto superiore al porticato del grande cortile inferiore. Dopo un istante soggiunse: - Fa' preparare il disegno. - Poiché il collegio non era interamente costruito, don Barberis credette che volesse far terminare l'edificio; quindi gli rispose: - Bene, lo farò preparare; quest'inverno glielo presenterò. - Ma egli: - Non quest'inverno, ma la prossima primavera; non a me, ma al Capitolo presenterai il disegno. - Continuava intanto a guarda­re verso lo scalone. Solo cinque mesi dopo don Barberis cominciò a comprendere il pensiero del Santo, quando cioè lo vide sepolto a Valsalice e precisamente nel punto centrale di quello scalone; lo comprese finalmente del tutto quando, preparato il progetto del mo­numento da erigersi sulla sua tomba, fu nella primavera presentato senza che egli avesse mai ancora detto nulla della conversazione di settembre” (MB 18, 384-385).


Con la morte del Santo si impose con urgenza il problema di una sua degna sepoltura. Non possedendo ancora i Sale­siani una propria tomba nel cimitero cittadino e non avendo ottenuto il permesso di seppellire il Fondatore nella chiesa di Maria Ausiliatrice, la salma sembrava destinata al campo comune. Ma su suggerimento della stessa autorità civile (il Presidente del Consiglio dei ministri Francesco Crispi), si fece strada l'idea della tumulazione a Valsalice, zona extraurbana, non soggetta alle nor­mative di polizia cimiteriale. Dopo i solenni funerali avvenuti il 2 febbraio, il feretro fu qui trasportato il giorno 4, e il 6 poté essere collocato nella tomba, costruita in tutta fretta. Alcuni mesi più tardi, sul loculo venne edifi­cato un mausoleo-cappella ideato dall'architetto Carlo Maurizio Vigna.

La costruzione è incastonata al centro del porticato che delimita due cortili, di diverso livello, antistanti l'edificio principale del collegio. Sfrut­tando la disposizione dei cortili, la tomba-cappella è disposta su due piani.

Un'ampia scala dal portico del cortile inferiore conduce ad una nic­chia che racchiude la tomba. Un bassorilievo raffigura don Bosco in abi­ti sacerdotali così come venne deposto nella cassa. Su una epigrafe, poi rimossa, si leggeva: “Hic compositus est in pace Christi - Joannes Bo­sco Sacerdos - orphanorum pater - natus Castrinovi apud Astenses XVIII kal. sept. MDCCCXV - obiit Aug. Taurin. pridie kal. febr. - MDCCCLXXXVIII” (Qui è stato composto nella pace di Cristo il sacer­dote Giovanni Bosco, padre degli orfani, nato a Castelnuovo presso Asti il 16 agosto 1815. Morì a Torino il 31 gennaio 1888).

Ai lati della tomba, due rampe di scale conducono al piano del terraz­zo che limita il fronte del cortile superiore. Qui si innalza una cappella di linee gotiche che sovrasta la sepoltura. L'affresco absida­le che domina l'altare marmoreo rappresenta una Pietà su sfondo dorato; è opera del Rollini.

Accanto al complesso funerario, nel decennale della morte di don Bo­sco, i suoi figli spirituali edificarono una chiesa dedicata a san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti cattolici e dei salesiani, costruita con le offerte dei Cooperatori e delle Ispettorie d'Europa e d'America. Progettata dall’architetto salesiano don Ernesto Vespignani (1861-1925), venne dedicata al culto dal cardinale Agostino Richelmy il 12 aprile 1901.

Si tornò a lavorare intorno alla tomba del grande educatore nel 1907, data di inizio della causa di beatificazione e canonizzazione. In quella cir­costanza si vollero ornare cripta e cappella con la decorazione che è visi­bile ancora oggi.

Sul frontone della cappella, un affresco malandato venne sostituito da un mosaico con la scritta: “Ave Crux, spes unica” (Ti saluto o Croce, unica speranza). Fu rifatto anche il terrazzo che chiude il cortile superiore, arricchen­dolo di una nuova balaustrata. Nella cripta, su fondi d'oro, vennero incisi ad encausto motivi geo­metrici, intrecci di viti ed altri simboli religiosi a colori vivaci, sulla base di un progetto del prof. Francesco Chiapasco.

Particolarmente curato fu l'abbellimento del portico in cui si apre lo scalone d'accesso alla tomba, studiato dall'ing. Stefano Molli (1858-1917). Le volte, gli archi e le pareti si presentano ornati di fini graffiti, dovuti al prof. Francesco Barberis. Nelle otto lunette, sono delineati edifici che ricordano i mo­menti più salienti della vita di don Bosco: la casetta dei Becchi; la fac­ciata della chiesa di san Francesco d'Assisi, ove 1'8 dicembre 1841 inizia­va l'opera dell'Oratorio; la casa Pinardi, prima sede stabile dell'Opera salesiana; la Basilica di Maria Ausiliatrice, consacrata nel 1868; la casa di Mornese che ricorda la fondazione delle Figlie di Maria Ausiliatrice il 1872; il collegio di san Filippo Neri a Lanzo Torinese, dove il Santo istituì l'Associazione dei Cooperatori Salesiani; l'Istituto di Viedma, fon­dato il 24 maggio 1879, che ricorda gli inizi delle missioni salesiane; in­fine l'edificio delle Camerette di Valdocco ove don Bosco morì la matti­na del 31 gennaio 1888.

Un portone ed una cancellata in ferro battuto furono collocati per de­limitare rispettivamente la scala che porta al sepolcro e tutto il porticato. Il complesso così decorato divenne meta di continui pellegrinaggi. Accolse il corpo di don Bosco fino al 1929, anno della beatificazione. In quell'occasione, precisamente il 9 giugno, la salma, composta nell'a­spetto che ancora oggi vediamo, fu trasportata con un solenne cor­teo fino alla Basilica di Maria Ausiliatrice, al canto dell’inno Giù dai colli, musicato per l'occasione dal salesiano don Michele Gregorio su parole di don Secondo Rastello.

A Valsalice vennero sepolti anche don Rua e don Albera, successiva­mente traslati.


58.2.4 Valsalice oggi

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I Salesiani conservano con venerazione quella che è stata per oltre qua­rant'anni la tomba del loro Fondatore. Il mausoleo, specialmente nella parte ornamentale, e la chiesa sono stati restaurati negli anni 1986-1987.

La casa, progressivamente ingrandita (costruzione di un terzo piano tra 1898-1901; edificazione del palazzo ad ovest nel 1930-1931 e sua sopraelevazione nel 1956), col trasferimento dello Studentato filosofico salesiano a Foglizzo (1925-1926), è tornata ad esercitare la sua primitiva funzione di scuola. L’Istituto ha svolto così un ruolo molto importante in città e nel territorio, preparando migliaia di allievi per l’università (nel 1905 si era conseguito il “pareggiamento” del Liceo Classico e negli anni 1952-1957 si ottenne il riconoscimento legale del Liceo Scientifico). Nel solco di questa tradizione oggi ospita scuole medie inferiori e superiori di indirizzo classico e scientifico e il pregevole Museo di Storia Naturale Don Bosco, sviluppato a partire dalla raccolta ornitologica acquistata da don Bosco stesso nel 1879; la collezione mineralogico-petrografica, con i suoi circa 5000 pezzi, è una delle maggiori del Piemonte.


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