Giovanni Bosco


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Vite di giovani


1 Le biografie di Domenico Savio, Michele Magone e Francesco Besucco

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Saggio introduttivo e note storiche a cura di

Aldo Giraudo



























LAS - ROMA


2 Maestri e discepoli in azione

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Aldo Giraudo


La vita di Domenico Savio (1859) e i profili biografici di Michele Magone (1861) e Francesco Besucco (1864)1, sono tra i documenti pedagogici e spirituali più importanti di don Bosco, efficace illustrazione narrativa delle convinzioni e della pratica formativa del santo, nel primo ventennio di attività. Ci presentano tre ragazzi, diversi tra di loro, molto radicati nella cultura del tempo ed insieme significativi per la freschezza e la vivacità, la capacità di riflessione, la qualità dell’apertura spirituale, la determinazione e lo slancio generoso che caratterizza l’animo adolescenziale di sempre. L’autore li mette in scena come discepoli docili e ardenti di educatori dedicati e affettuosi. Ci presenta le tappe del loro breve percorso di vita, nei diversi ambienti della loro formazione, nelle relazioni quotidiane, negli impegni e nei sentimenti.

2.1 1. Importanza

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Questi scritti offrono gli elementi essenziali per comprendere il cuore del messaggio educativo di don Bosco: la religiosità come centro unificante e vitalizzante del cammino formativo; la comunanza di vita paterna e fraterna dell’educatore con gli allievi; l’intreccio dinamico di amore, letizia e impegno; l’efficacia del coinvolgimento attivo dei giovani nella comunità; l’importanza strategica degli spazi offerti al loro protagonismo. Sono considerati «una sintesi pedagogica già matura, nella quale il divino e l’umano, il soprannaturale e il naturale, dovere e gioia, con modalità tipologiche diverse, raggiungono una perfezione che è caratteristica nel sistema educativo di don Bosco»2.

I commentatori hanno classificato, a ragione, tali operette nell’area delle biografie edificanti e dei modelli esemplari di vita. Così le presenta l’autore. Ma, a ben vedere, esse sono, nello stesso tempo, documenti autobiografici di grande efficacia rappresentativa: ci permettono di osservare don Bosco educatore cristiano in azione; ci introducono nei suoi quadri mentali e nelle sue visioni; ci mettono in contatto con le sue aspirazioni interiori; ci svelano lo sguardo meravigliato, affettuoso e insieme rispettosissimo, rivolto ai giovani protagonisti. I commenti più acuti restano ancora quelli di don Alberto Caviglia, ricchi di intuizioni e di feconde rappresentazioni sulla pedagogia spirituale di don Bosco, nonostante slanci lirici ed entusiasmi retorici tipici della sensibilità culturale in cui furono prodotti3.

Delle tre, la Vita di Domenico Savio ha avuto maggior fortuna e un influsso importante ben oltre i confini del mondo salesiano, per l’efficace raffigurazione della qualità morale e spirituale del ragazzo, per l’intreccio dinamico tra la santità del protagonista e la conduzione del Maestro, per la notorietà seguita all’esito dei processi di beatificazione e canonizzazione4. È un libro riuscito, nel quale, accanto alla bella raffigurazione del protagonista troviamo la migliore rappresentazione della pedagogia plenaria di don Bosco.

Meno noto è il Cenno biografico su Michele Magone, anche se il ragazzo ci appare «forse più immediatamente simpatico, perché più “naturale” e prodotto più esclusivo dell’intervento di don Bosco»5. La sua biografia sembra «la meno lontana dall’immagine della media dei giovani» e rappresenta, «nella successione dei capitoli, tappe essenziali di quella che sarebbe dovuta essere la più comune vita spirituale giovanile» nella prospettiva del santo educatore6.

Quasi del tutto sconosciuta è la Vita di Francesco Besucco, il Pastorello delle Alpi, probabilmente per la prolissità della «parte dedicata alla prima infanzia e all’educazione rice­vuta in famiglia e nella parrocchia montana di Argentera»7 (15 capitoli ricavati quasi alla lettera dalla relazione del parroco), forse anche per il pochissimo tempo da lui trascorso all’Oratorio o per la sua apparenza un po’ ingenua, a tratti sempliciotta, poco conforme all’immagine convenzionale dell’allievo salesiano. Eppure Alberto Caviglia, nonostante le riserve sulla forma letteraria della prima parte, la considera un prezioso «documento costruttivo della pedagogia spirituale e morale del santo educatore […], in quanto l’autore, più che in ogni altro libro congenere, scende alla teoria, ed espone le sue idee con l’espressa intenzione d’insegnarle»8, notando che al tempo della pubblicazione (1864) don Bosco era «al termine della sua autoformazione pedagogica, con idee ormai definitivamente formulate»9. La sensibilità attuale, tuttavia, ci permette di apprezzare anche la prima parte dell’opera, sia perché centrata sul ruolo educativo della famiglia e della parrocchia, sia per il suo valore antropologico, poiché, attraverso la testimonianza di don Pepino, restituisce molti tratti del clima emotivo, della sensibilità spirituale e dei ritmi di vita di una cultura ormai scomparsa, quella dei villaggi alpestri di lingua e tradizioni occitane tra Piemonte e Provenza.

2.2 2. Il contesto storico delle “Vite”: un periodo fecondo per l’opera di don Bosco

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Il decennio che trascorre tra l’arrivo di Domenico Savio a Valdocco (ottobre 1854) e la pubblicazione della vita di Francesco Besucco (luglio 1864) è decisivo per l’opera di don Bosco. Negli anni precedenti al 1854, la difficoltà di reperire cooperatori stabili e una serie di abbandoni lo avevano convinto della necessità di scegliere gli aiutanti tra i giovani più affezionati, per educarli secondo il suo spirito. Poco alla volta si è formato attorno a lui un gruppetto di volenterosi disponibili per le varie necessità dell’Oratorio.

2.1. La ricerca di collaboratori fidati

Quando, nel novembre 1848, a causa del sequestro governativo del seminario di Torino, il chierico Ascanio Savio è accolto nell’Oratorio, don Bosco trova un valido collaboratore. Dinamico, attivo e disponibile, si rivela prezioso per i catechismi, per le scuole serali e festive, per l’assistenza. Durante le due tornate di esercizi spirituali organizzate nel luglio successivo, il santo individua altri quattro giovani che gli danno speranza di vocazione: Giuseppe Buzzetti, Carlo Gastini, Giacomo Bellia e Felice Reviglio. Propone loro di abitare nell’Oratorio e intraprendere gli studi in vista della carriera sacerdotale, abbandonando il lavoro. Nel febbraio 1851, col permesso dell’arcivescovo li riveste dell’abito talare. Così, le quattro reclute diventano parte attiva, con Ascanio Savio e il seminarista pensionante Giuseppe Vacchetta, della prima comunità apostolica raccolta attorno a don Bosco. «Sono di esemplarissima condotta e si prestano a fare il catechismo nella parrocchia di Borgo Dora, ed in modo particolare nell’Oratorio di S. Francesco di Sales, dove oltre il catechismo fanno la scuola serale, insegnano il canto fermo e la musica e tutto gratuitamente», scrive il Santo in un attestato di buona condotta10. Questa piccola accolta di discepoli, che lo amano come padre e benefattore, gli permette di sperimentare cosa significhi il lavoro in gruppo nella comunanza di aneliti, fatiche e gioie. È una singolare famiglia, che divide con mamma Margherita e una ventina di poveri artigianelli le stanze della casa Pinardi, nella sobrietà di vita e nella laboriosità.

Il 31 marzo 1852 l’arcivescovo Fransoni nomina don Bosco «direttore capo spirituale»11 degli oratori di Valdocco, Porta Nuova e Vanchiglia. È un evento determinante per i futuri sviluppi. Ora egli è, di fatto, indipendente nella gestione delle tre istituzioni, libero di selezionare e organizzare i collaboratori. Così, nonostante Buzzetti e Gastini si rivelino inadatti allo studio, e Ascanio Savio, scoraggiato per l’austerità di vita, lo abbandoni per aggregarsi agli Oblati di Maria Vergine (maggio 1852), seguito di li a poco da Bellia e Vacchetta, egli non si lascia sgomentare, deciso a proseguire sulla strada intrapresa. Comprende che deve scegliere soggetti ancor più giovani, avviarli a studi regolari, formarli fin dall’adolescenza ad una solida vita interiore, allenarli allo spirito di sacrificio e al servizio generoso, affezionarli a sé e alla missione oratoriana. Nell’ottobre 1852 impone l’abito ecclesiastico a Michele Rua e Giuseppe Rocchietti, che hanno rispettivamente 15 e 16 anni. Nel corso di quell’anno scolastico accoglie gli studenti Giacomo Artiglia, Giovanni Cagliero, Giovanni Turchi e Giovanni Battista Francesia, tutti tredicenni. I tempi sono maturi, per evolvere l’opera, ampliare la casa e incrementare il vivaio di vocazioni.

Conclusa la costruzione della chiesa di S. Francesco di Sales (giugno 1852), don Bosco getta le fondamenta di una nuova costruzione. L’edificio, nonostante un cedimento strutturale nel corso dei lavori, è pronto nell’ottobre 185312. Ora la comunità giovanile può accrescersi nelle sue due componenti: gli studenti avviati al sacerdozio e gli apprendisti, per i quali iniziano i primi laboratori interni di calzoleria e sartoria13.

Domenico Savio approda all’Oratorio nell’ottobre 1854, proprio nel momento in cui la comunità, trasferita nei nuovi locali, prende la forma di un convitto. Le due sezioni sono cresciute: trenta studenti, tra i 12 e i 16 anni e cinquanta artigiani.14 Ad aiutare don Bosco, in qualità di prefetto, è arrivato il generoso don Vittorio Alasonatti, dopo aver abbandonato una tranquilla vita di maestro comunale per consacrarsi ai giovani poveri. Col suo aiuto il santo riformula il Regolamento dell’Oratorio adattandolo alla nuove esigenze della casa.

2.2. Gli sviluppi della casa annessa all’Oratorio

Mentre fa i suoi studi, Domenico assiste agli sviluppi dell’opera: l’abbattimento della casa e della tettoia Pinardi, sostituite da un bell’edificio di collegamento tra la casa del 1853 e la chiesa di S. Francesco di Sales, la decorazione del porticato con scritte bibliche in latino e italiano15, l’apertura progressiva di scuole e di nuovi laboratori. Durante il suo primo anno di permanenza a Valdocco frequenta la scuola di grammatica del prof. Carlo Bonzanino, collocata al terzo piano di un edificio di via Guardinfati (oggi Barbaroux), mentre altri compagni seguono i corsi di retorica presso don Matteo Picco, in via sant’Agostino. Nell’anno scolastico 1855-56 inizia il primo embrione di scuola interna: al chierico Francesia, diciassettenne, viene affidata la terza grammatica16. L’anno successivo, completato il nuovo edificio, la comunità cresce: gli artigiani sono settanta e gli studenti ottantacinque. Il fondatore dell’Oratorio, deciso a potenziare i corsi di latino17, chiama il prof. Francesco Blanch e lo incarica delle classi di prima e seconda grammatica. Domenico Savio frequenta la prima retorica presso don Picco per pochi mesi, poi si ammala. Nel 1857-58, con 120 studenti, le tre classi interne vengono affidate rispettivamente a Francesia, a Giovanni Turchi e a don Giuseppe Ramello, sacerdote di idee liberaleggianti, raccomandato dall’arcivescovo a don Bosco18. Finalmente con l’anno scolastico 1859-60 il Santo riesce ad avere nell’Oratorio l’intero corso ginnasiale con insegnanti suoi. Assegna le prime tre classi a Celestino Durando, Secondo Pettiva e Giovanni Turchi, le ultime due a Francesia, sono tutti chierici dell’Oratorio, da lui coltivati. Da questo momento la sezione studenti acquista importanza e supera in numero quella degli artigiani.

Mentre cresce nel popolo il desiderio di istruzione, incoraggiato da iniziative private o pubbliche e il governo sta riorganizzando il sistema scolastico nazionale, emerge la categoria degli studenti di ceto umile, alla quale è urgente provvedere con approcci formativi adeguati: «La brama ardente manifestatasi in molti di percorrere i corsi scientifici [umanistici] regolari ha fatto fare qualche eccezione sulle condizioni di accettazione. Laonde per lo studio si accettano anche giovani non abbandonati e non totalmente poveri purché abbiano tale condotta morale e tale attitudine allo studio da lasciar non dubbia speranza d’onorevole e cristiana riuscita in una carriera scientifica».19 Scopo di don Bosco è quello di aiutare questi ragazzi dotati e poveri ad affrontare gli studi superiori, perché possano riuscire di vantaggio alla Chiesa e alla società, ma anche assicurare alla nascente Congregazione educatori motivati, generosi e fedeli. Leggiamo in una memoria di quegli anni: «Fra gli studenti molti intraprendono la carriera ecclesiastica. […] Tra essi è scelto quel numero che esercitano la qualità d’insegnanti in questa casa, fanno i catechismi negli Oratori, assistono i vari laboratori e dormitori. Giunti al sacerdozio parecchi continuano ad esercitare il sacro ministero a favore de’ giovani ivi radunati o che frequentano gli altri Oratori della città. […] In tutto il personale di questa casa e di tutti gli Oratori comprese le persone di servizio non v’è alcuno stipendiato, ma ognuno presta gratuitamente l’opera sua»20.

Le tre biografie non restituiscono le turbolente vicende dell’ambiente circostante. Chi le sfoglia non percepisce l’eco dei dibattiti che infiammano la Torino degli anni Cinquanta e accompagnano il processo di unificazione nazionale, non coglie lo sconcerto del mondo cattolico per la soppressione forzata delle corporazioni religiose o l’entusiasmo popolare per la campagna di Crimea, la spedizione dei Mille e la seconda guerra d’indipendenza. Altre fonti ci assicurano che tutto ciò aveva un certo impatto sulla vita dell’Oratorio.21 Anche gli sviluppi interni all’opera non emergono: le costruzioni, i passi cauti di don Bosco per la fondazione della Società Salesiana, il suo viaggio a Roma della durata di due mesi (18 febbraio - 16 aprile 1858), intensamente sentito dalla comunità di Valdocco, l’atto di fondazione della Congregazione, l’apertura della prima casa a Mirabello Monferrato. Nelle tre Vite l’Oratorio appare come un’isola di fervore educativo, di laboriosità e di tensione spirituale. Ci sono cenni alla produzione editoriale, ma in funzione del discorso formativo. Si citano i libri messi in mano agli allievi: il Giovane provveduto, la collana Letture cattoliche, la riedizione della vita di Luigi Comollo, e poi le stesse vite di Domenico Savio e di Michele Magone. Insomma, tutto è centrato sulla persona dei protagonisti, sul loro impegno, sui progressi, le scoperte e gli ardori della loro vita spirituale, sul calore delle relazioni amicali, le crisi superate e le gioie interiori, sulla confidenza e apertura collaborativa con gli educatori, sulla commozione suscitata dalla loro morte. Il biografo pare voler estrapolare intenzionalmente queste storie di vita dal grande flusso degli eventi, isolarle dai rumori esterni, per mostrarne la funzione esemplare, la significatività formativa, la novità pedagogica e la carica carismatica. Così ne salva l’universalità e la freschezza, nonostante la patina del tempo.

2.3. La nascita di una Congregazione di educatori

In quegli anni, progressivamente, la ricerca di personale dedicato e affidabile si traduce in scelte concrete. Il 26 gennaio 1854 don Bosco propone ai fidatissimi Rua, Artiglia, Cagliero e Rocchietti, raccolti in conferenza privata, «una prova di esercizio pratico della carità verso il prossimo, per venirne poi ad una promessa, e quindi se parrà possibile e conveniente di farne un voto al Signore». L’esercizio pratico di carità è inteso come dedizione ai giovani poveri e la promessa o il voto sono espressione di stabile vincolamento alla missione oratoriana: «da tal sera fu posto il nome di Salesiani a coloro che si proposero e proporranno tal’esercizio»22. Privati e segreti sono i voti emessi nelle mani di don Bosco dal chierico Rua il 23 marzo 1855, ma l’idea di una fondazione religiosa comincia a prendere forma. Paradossalmente, proprio nella combinazione dei suggerimenti del ministro Rattazzi, campione dell’anticlericalismo militante, e delle indicazioni di Pio IX, bersaglio del liberalismo radicale, don Bosco delinea la formula giuridica della nuova Congregazione.

Michele Magone è allievo all’Oratorio, quando don Bosco va a Roma per sottoporre al papa il suo progetto di fondazione e nei mesi in cui il chierico Rua, in gran segreto, copia in bella scrittura il primo testo delle Regole per la revisione ecclesiastica. L’atto fondativo ufficiale della Pia Società Salesiana è stilato il 18 dicembre 1859, undici mesi dopo la morte di Michele; il 14 maggio 1862 il primo gruppo di religiosi salesiani emette i voti in forma canonica.

Quando Francesco Besucco giunge all’Oratorio (agosto 1863), don Rua è in fase di trasferimento a Mirabello Monferrato, per l’apertura del Collegio-Seminario S. Carlo, la prima opera salesiana fuori di Torino23. In quell’anno la Congregazione conta 22 professi e 17 novizi. Nell’autunno 1864, pochi mesi dopo la pubblicazione del Pastorello delle Alpi, si inaugura il Collegio-Convitto S. Filippo Neri di Lanzo Torinese. Inizia così una nuova fase, quella dell’espansione attraverso l’apertura di collegi, convitti, ospizi e scuole artigianali: è il mezzo attraverso il quale il modello formativo preventivo sperimentato da don Bosco nell’Oratorio e raccontato nei profili biografici dei suoi ragazzi, verrà esportato e inculturato a livello mondiale.

2.3 3. Per chi scrive don Bosco?

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Nella compilazione di queste tre Vite, don Bosco è mosso da intenti chiari. in riferimento ai lettori cui s’indirizza e alle circostanze in cui le produce. Innanzitutto seleziona i sui interlocutori, ai quali narra e coi quali si intrattiene, ma in funzione di un discorso rivolto ad una platea che egli sa essere molto più vasta. Per comprendere il contenuto del discorso e le sue intenzioni noi dobbiamo tener conto dei lettori concreti come si presentano alla mente dell’autore.

3.1. «Giovani carissimi»

I destinatari principali sono indicati nella lettera introduttiva, che serve da proemio: i «giovani carissimi» ai quali si rivolge, sono gli studenti di Valdocco, compagni e amici di Domenico, di Michele e di Francesco. È su loro richiesta che l’autore si è accinto all’opera. Il particolare è importante, perché permette di collegare il testo col contesto vitale, il discorso con l’orizzonte di riferimento, con valori ed aneliti condivisi da autore e interlocutori. Si narra di compagni conosciuti e amati: si rievoc<h1>Pray and celebrate with the Liturgy</h1>

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<p></p>ano scelte di vita, amicizie, esempi e parole di cui sono stati testimoni. I lettori si muovono negli stessi ambienti e riconoscono situazioni che quotidianamente li coinvolgono: la messa mattutina, le lezioni e lo studio, i discorsetti della buona notte, gli incontri col confessore, le sue parole affettuose o severe, le emozioni provate nell’esercizio mensile della buona morte, durante le novene e le feste. Anch’essi, come i protagonisti, vivono l’essenzialità imposta dalla loro condizione di poveri. Pagina dopo pagina si imbattono in nomi e volti noti. Soprattutto sono in grado di percepire nella voce narrante, l’eco di una voce nota, quella di don Bosco. Anche a distanza di anni, leggendo quelle righe, riudranno il suono delle sue parole, «cadenzate in un modo piuttosto che in un altro» e ricorderanno il «singolarissimo ascendente» che aveva su di loro.24

Alla coscienza dell’autore, tuttavia (lo si coglie nel corso della lettura), l’uditorio di fatto si presenta molto più vasto: è costituito dalla folla variegata dei lettori delle Letture cattoliche. La strategia narrativa continuamente li mette in campo, ora come testimoni, ora come interlocutori del racconto. Si tratta, soprattutto, della schiera di giovanetti che frequentano le scuole elementari o intraprendono lo studio del latino nel desiderio di realizzare i loro progetti di vita. Per essi don Bosco raffigura un mondo con caratteristiche ben definite, quello della scuola pubblica e dei convitti, sorvegliato da insegnanti ispirati da solidi principi cristiani. I lettori si rispecchiano nel racconto. Sono ragazzi di ceto popolare che ogni giorno, come Domenico Savio, spinti dal desiderio di riscatto sociale e culturale o dall’attrattiva vocazionale, percorrono i viottoli delle campagne e le strade delle città per raggiungere la scuola. Essi possono riconoscersi nella psicologia dei protagonisti, sperimentano i medesimi turbamenti e le stesse gioie, provano emozioni spirituali. Impregnati dello spirito del loro tempo, hanno il gusto della totalità, sono attratti dal sentimento religioso e dalle pratiche devote, provano slanci interiori e desideri di eroismo, sono sensibili all’etica del dovere e all’impegno volontaristico, amano cimentarsi con le austerità. Leggendo i dialoghi, sentono riecheggiare discorsi familiari. Nelle vicende narrate colgono anche un rispecchiamento fedele dei pericoli e delle minacce in cui s’imbattono nella vita quotidiana, come le suggestioni o le prepotenze di compagni “cattivi”, le tentazioni di evasione dal dovere, le malattie frequenti, la morte di amici carissimi.

Insomma, i ragazzi dell’Oratorio e i loro coetanei trovano rappresentata in queste biografie, la loro esistenza quotidiana e i loro progetti, una società e una cultura, una mentalità e uno stile di vita, una ritualità e una relazionalità tipiche di un territorio umano e di un periodo ben definito della storia sociale e religiosa.

3.2. Educatori e pastori

I racconti di don Bosco, accanto ai giovani protagonisti, mettono in scena educatori attivi e stimolanti: genitori, insegnanti e pastori. Anche a costoro si rivolge l’autore, soprattutto quando formula le sue brevi considerazioni pedagogiche, illustra i frutti della loro cura o raffigura la novità della comunità educativa dell’Oratorio col suo programma di vita e l’interazione dialogica e affettiva tra formatori ed allievi.

Siamo in tempi di transizione tra l’antico sistema di istruzione pubblica, impregnato di valori tradizionali, affidato a insegnanti prevalentemente ecclesiastici, che conferivano indirizzi e stili peculiari alla formazione scolastica, e il nuovo modello liberale emergente dalle riforme della pubblica istruzione dei ministri Boncompagni (1848) e Casati (1859), controllato fermamente dal Governo, funzionale alle sue mire e per questo guardato con sospetto dal mondo cattolico. Fino a quel momento la presenza massiccia di ecclesiastici nelle scuole pareva del tutto naturale, perché rispecchiava una tradizione educativa di carattere umanistico plenario condivisa, che mirava, simultaneamente, a istruire, a formare le coscienze nei valori cristiani, a forgiare le volontà, ad affinare i costumi. Ora, nel clima di scontro tra radicalismo liberale e intransigentismo cattolico tali figure stanno scomparendo dalle scuole pubbliche. La visione laica penetra irrimediabilmente nella società e nelle istituzioni scolastiche, scalzando l’influsso dei valori religiosi, proprio mentre, nei ceti popolari, cresce la domanda di istruzione. Tutto questo suscita apprensioni e stimola nuove ipotesi di soluzione.

Nonostante le riserve sul rigido controllo statale sancito dalla riforma scolastica di Gabrio Casati, don Bosco ne coglie le sfide e le opportunità. La legge prevede la possibilità di aprire scuole private, seppur sottoposte a vincoli e ispezioni25: egli intraprende questa strada che presagisce feconda di frutti. Sente inoltre che è giunto il momento di prospettare modelli meno ripiegati sul mero svolgimento dei programmi scolastici, più centrati su una visione integrale dell’educazione, sul coinvolgimento attivo e il protagonismo degli alunni. Vuole dimostrare che è anche importante creare spazi educativi extrascolastici complementari all’interno delle comunità ecclesiali. Insomma, è necessario un sistema educativo adatto ai tempi nuovi, ma radicato nei valori sostanziosi della tradizione cristiana.

Tutti questi moventi fanno da sfondo alla composizione delle tre Vite e trapelano dalle loro pagine, incorniciando una linea formativa e una metodologia educativa peculiare. Non è difficile scoprire, capitolo dopo capitolo, accanto alla conversazione tenuta in primo piano con i giovani lettori, un suadente discorso parallelo rivolto agli educatori e ai pastori dei giovani. Se alcuni di loro sono portati in scena, testimoni commossi dei fatti e delle virtù dei tre piccoli campioni, è perché li si vuole indicare come categoria privilegiata d’interlocutori. Nei primi sette capitoli della vita di Domenico Savio, sentiamo le voci narranti dei genitori, del cappellano di Morialdo, dei maestri di Castelnuovo e Mondonio; più avanti sono introdotte le testimonianze del prof. Bonzanino, di don Picco, del prevosto di Mondonio. Nella biografia di Michele Magone leggiamo la lettera essenziale ma attenta del viceparroco, scopriamo, attraverso le annotazioni del giovanissimo Francesia, un’eco degli insegnamenti di don Bosco ai suoi collaboratori, ci commuoviamo per le parole della madre accanto al figlio morente, ammiriamo la capacità retorica di don Zattini nel delineare la figura morale del ragazzo. Nella vita di Francesco Besucco don Bosco utilizza ampiamente l’affettuosa testimonianza del parroco, con notizie fornite dai genitori, dalle sorelle maggiori, dal maestro del villaggio e dai compagni, che restituisce il clima educativo in cui è cresciuto il piccolo montanaro e lo spirito ardente di un pastore tutto consacrato alla sua missione e attentissimo alla formazione dei ragazzi.

Il narratore dirige questo coro di voci, orientandole in funzione dell’unico profilo che va delineando. Così, quando in prima persona entra in scena e diventa personaggio della storia, cogliamo una continuità senza forzature, un riepilogo efficace di atteggiamenti educativi qualificanti, di sfumature e di accenti che ci danno anche la novità del suo sistema e del suo modello di educatore.

Qui la testimonianza biografica diventa pienamente autobiografica. Don Bosco, narrando le gesta dei suoi allievi racconta di sé e dell’ambiente educativo creato a Valdocco, svela l’intensità e l’importanza delle relazioni, delle attenzioni nel rispetto delle singolarità, ricostruisce il clima degli incontri, illustra le esperienze proposte e il modo del coinvolgimento attivo dei giovani. Tutto ciò permette ad un lettore avvertito di cogliere messaggi più profondi, di comprendere la funzione dell’educatore nel sistema di don Bosco in quanto ingranaggio portante di tutta la macchina educativa.

Questa duplicità di destinatari e di modelli, proposta in forma narrativa, in un amalgama di storia e di riflessione, produce un genere letterario composito e fa sì che le tre Vite, come altre opere del santo, siano innanzitutto testimonianze di spiritualità e di pedagogia narrativa, un manifesto di educazione cristiana.

2.4 4. L’indole del lavoro di don Bosco

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4.1. Il genere letterario

Francesco Cerruti suddivide gli scritti a stampa di don Bosco in tre categorie, opere religiose, morali e storiche, e colloca le tre Vite tra le operette morali26, secondo l’accezione umanistica che riferisce l’aggettivo ai mores, ai costumi, ai modelli di comportamento. Cerruti è uno dei primi destinatari di queste tre biografie, in quanto compagno di Domenico Savio e di Michele Magone, poi insegnante nei mesi in cui Francesco Besucco frequenta la seconda ginnasiale a Valdocco. Quando fa tale classificazione è il responsabile centrale delle scuole salesiane e instancabile promotore del sistema educativo di don Bosco27. Egli ha ben chiaro il fine a cui tende il santo educatore con questi scritti: non ricostruire una biografia nei particolari, secondo i canoni storiografici positivisti, ma offrire, attraverso la narrazione di momenti assortiti della vita dei tre giovanetti, osservati con la sua lente di educatore e pastore, un messaggio pratico, un comportamento esemplare.

D’altra parte don Bosco è esplicito. Come vediamo dalla dichiarazione d’intenti illustrata nel prologo della Vita di Domenico Savio, egli si prefigge di presentare un esempio da imitare28. La stessa intenzione orienta la scrittura del Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele e del Pastorello delle Alpi.

Studiosi più recenti precisano ulteriormente il genere letterario delle tre Vite riconducendolo alla tipologia delle «biografie edificanti» fiorite «dall’era tridentina in poi» negli ambienti collegiali ed ecclesiastici. Nello scriverle don Bosco riprende gli stessi meccanismi da lui sperimentati nella compilazione della Storia ecclesiastica e della Storia d’Italia: a un tessuto biografico essenziale, documentato, ma «ancorato a pochi dati cronologici, affida episodi classificati secondo lo schema scolastico, moralistico e agiografico delle virtù: spirito di preghiera, di innocenza o di penitenza, pratica dei sacramenti, devozione a Maria SS., morte a coronamento di una vita che ha corrisposto alle divine grazie»29. Il genere biografico edificante, con la sua concisione, gli fornisce uno strumento idoneo a focalizzare messaggi e comportamenti virtuosi.

Come scrive Claudio Magris, rievocando l’essenzialità delle biografie edificanti che da ragazzo gli venivano proposte dai suoi maestri gesuiti, «quella brevità era infatti una lezione di letteratura, la capacità di sforbiciare la prolissità dell’esistenza […] e di porre in risalto, come un epitaffio, valori e significati: era l’arte di scegliere e tralasciare, indispensabile ad ogni narratore. Quelle vitellae – pure quelle di santi appartenenti ad altri ordini e pubblicate soprattutto dai salesiani, meno esclusivi e meno concorrenziali dei compilatori della Beata coorte – erano, a loro modo, uno Spoon River. Forse la brevità non era solo una scelta retorica, ma era connessa alla santità, che non è mortificante rinuncia ma decisa capacità di sfrondare il tentatore e soffocante ciarpame dell’inutile»30.

Grazie al loro genere letterario, chi si accosta a questi scritti di don Bosco trova una testimonianza di vita reale ed insieme la raffigurazione efficace di una prassi educativa esemplare, «un insieme di messaggi religiosi e pedagogici costruiti entro un tessuto biografico», un discorso educativo «fatto su misura dei ragazzi e dei loro educatori». È indispensabile vedere queste biografie, «oltre che nel quadro della produzione letteraria di don Bosco, nel contesto delle opere educative che egli andava promuovendo», inserirle «entro una specifica cultura» e tener conto «dei diversi criteri di scrittura postulata dall’attenzione ai destinatari»31. Ci appaiono documenti capitali dello spirito e della pedagogia di don Bosco, che narrando l’esperienza di vita dei tre ragazzi, fanno scoprire «il lavoro del Maestro e il pensiero che lo conduce»32.

4.2. L’uso delle fonti

Nel prologo delle tre Vite, l’autore attesta la sua preoccupazione «di narrare unica­mente le cose che da voi o da me furono vedute, e che quasi tutte conservo scritte e segnate di vostra mano medesima»33, e afferma di aver attinto «da fonti sicure»34, che nel Pastorello delle Alpi elenca esplicitamente35.

Quelle di don Bosco non sono affermazioni retoriche. Se esaminiamo le testimonianze originali raccolte a sostegno della ricostruzione biografica, tuttora conservate, constatiamo l’onestà storica e la preoccupazione documentaria di don Bosco. Il confronto tra quei materiali e il testo ci rivela anche il suo modo di lavorare. Prendiamo atto di una fedeltà sostanziale, insieme ad un trattamento dei dati funzionale al raggiungimento degli scopi e al coinvolgimento dei destinatari. Le fonti più abbondanti sono quelle relative a Domenico Savio e a Francesco Besucco.

Nel volumetto sul Savio emerge la preoccupazione di mettere in massimo rilievo il protagonista, lasciando in ombra situazioni e persone che potrebbero distrarre l’attenzione. L’autore lo fa selezionando i dati raccolti, sopprimendo elementi secondari, trasponendo alcune notizie, operando amplificazioni narrative di «episodi nei quali l’affabulazione poté essere frutto di memorizzazione ovvero anche il risultato di esigenze di arte letteraria e di motivazioni educative».36 Così, mentre la testimonianza del maestro di Castelnuovo viene riferita con fedeltà quasi letterale37, quella di don Cugliero è dilatata e drammatizzata nel punto in cui racconta della falsa accusa da parte di due compagni di scuola38. Gli aneddoti sul servizio all’altare e sulla promozione alla prima comunione, tratti da un documento di Michele Rua39, sono trasposti nella lettera del cappellano di Morialdo; in questa però viene depennata la notizia di Domenico che canta in chiesa, in casa e nelle stalle «lodi ed inni con un compagno di scuola alternativamente col padre»40. Cadono anche vari particolari forniti dai testimoni, come l’accenno di Giuseppe Reano sul modo di affrontare la sofferenza fisica,41 e il rimprovero all’anziana zia di don Bosco per la sua «poca pazienza nel sopportare il male»42. La selezione è fatta in base alla significatività e all’utilità dei dati offerti, oppure per motivi compositivi, come si può constatare dal raffronto del testo con le testimonianze dei compagni43. Malgrado questo trattamento, sia i documenti originali sia le deposizioni raccolte nel corso dei processi di beatificazione dimostrano che la fisionomia del Savio non viene stravolta; anzi, l’operazione di ripulitura dello stile e di scarto dei dettagli, le stesse accentuazioni e gli indugi narrativi, danno all’insieme un accento di freschezza e di verità che restituisce i tratti essenziali dell’esperienza e della fisionomia di Domenico.44

Riscontriamo caratteristiche analoghe nella vita di Francesco Besucco. I primi quindici capitoli del Pastorello delle Alpi sono costituiti quasi integralmente dall’ampia e dettagliata memoria inviata dal parroco di Argentera, ordinata, depurata di alcuni particolari secondari. Per esempio, viene eliminato il simpatico cenno ad una consuetudine della mamma di Francesco, che «conoscendo di quanta importanza sia il cominciar fin da principio a dar buona educazione alla famiglia, non sapeva allattare il suo caro bambino e prestargli qualunque altro materno servizio senza avere sempre e preventivamente dei buoni pensieri in mente, divote preghiere sulle labbra, così che insieme al latte infondevagli pure il suo spirito di divozione». Sono scartate anche le notizie della voce del figlio defunto percepita in sogno dalla madre45 e dal padre46, mentre si racconta la premonizione della morte di Francesco avuta dalla sorella47. Inoltre le testimonianze dei compagni e dei superiori dell’Oratorio48, sono trattate in modo analogo a quelle relative a Domenico Savio.

Diverso è il caso di Michele Magone. Non si dice nulla del periodo trascorso in famiglia, ad esclusione dei dati essenziali forniti nell’attestato del viceparroco. Tutta la vicenda si svolge tra le mura dell’Oratorio, dopo l’incontro fortuito tra il ragazzo e don Bosco nella stazione di Carmagnola. Della sobrietà dei particolari si avvantaggia la dinamica del racconto e la figura del protagonista, che resta sempre al centro dell’attenzione. L’autore è il testimone principale degli eventi, ma si appoggia anche su altre testimonianze: la relazione del prof. Francesia, la deposizione di alcuni compagni49, l’ampia commemorazione funebre di don Zattini50, ricca di riferimenti utili a tratteggiare il profilo del ragazzo. Nell’insieme è la biografia più povera di dati biografici, eppure la più efficace. La scrittura di don Bosco ci restituisce una «oggettività, non solo storica, ma rappresentativa che ci mette senz’altro in presenza della realtà», come nota Alberto Caviglia; il quale aggiunge che, in ogni caso, la «simpatica e attraente biografia» va «letta come un libro di idee», perché, «a differenza degli altri giovanetti di cui don Bosco scrisse la Vita, i quali a lui pervennero già predisposti, e in parte preparati, il monello, condotto in soli quattordici mesi “ad un meraviglioso grado di perfezione cristiana” è un prodotto puro ed esclusivo della pedagogia di don Bosco»51.

Quest’uso delle fonti da parte dell’autore pone certamente problemi di critica documentaria, come quelli rilevati dal benedettino Henri Quentin nel 1931-32 nel corso dei processi di beatificazione di Domenico Savio52. Ciò nondimeno, tenendo conto del genere letterario, della mentalità e degli obiettivi che si prefigge l’autore, appare evidente che don Bosco non ha fatto «opera di manipolazione per costruire un modello da proporre ai giovani e agli ambienti popolari» a scapito della verità storica: nel vissuto concreto dei suoi tre ragazzi ha «piuttosto riconosciuto, e non solo lui, la personificazione di quanto andava carezzando»53, e lo ha posto sotto gli occhi dei lettori per la sua esemplarità.

L’analisi del modo di lavorare sulle fonti ci convince che l’interesse di queste biografie non va cercato nella quantità dei dati biografici offerti o nell’acribia filologica con cui si trattano i documenti, bensì nella valenza testimoniale del messaggio pedagogico e spirituale che l’autore intende consegnare ai lettori suoi contemporanei.

4.3. Il testo e le sue parti

Ci troviamo di fronte a tre scritti distinti tra loro: «La Vita del giovanetto Savio Domenico è la rievocazione edificante dell’esistenza di un giovane, che aveva incarnato nella sua effettiva realtà una compiuta san­tità cristiana adolescenziale alla portata di altri determinati e ardimentosi. È diversa dalle due biografie successive, di Michele Ma­gone e Besucco Francesco, dove la narrazione è in un modo o in un altro idealizzata – soprattutto nella prima –, con l’intenzione di trarne un modello di vita adeguato alla media dei giovani dalle diverse origini e dai differenti livelli spirituali»54. Il racconto mette in luce personalità inconfondibili, abbozzate con tratti essenziali nell’aspetto esteriore, nella sensibilità spirituale, nel temperamento e nei lineamenti psicologici. Diverso è il loro punto di partenza. Diverso è il modo della loro relazione con gli educatori. Diversa è la missione affidata a ciascuno, pur nell’unità e coerenza generale del messaggio proposto ai lettori. Domenico, ebbe un «tenor di vita notoriamente meraviglioso»55, «visse una vita la più lieta, virtuosa ed innocente»56, coltivò la virtù, che pareva «nata con lui», «fino all’eroismo» in tutto il corso della sua esistenza57. Michele, ragazzo «abbandonato a se stesso», rischiava «di cominciar a battere il tristo sentiero del male», ma ascoltò l’amorosa chiamata del Signore che lo invitava «a seguirlo» e «costantemente corrispondendo alla grazia divina giunse a trarre in ammirazione quanti lo conobbero»58. Francesco corrispose con docilità alle cure educative dei genitori, del parroco e del maestro, dimostrò «un grado di scienza ordinariamente superiore» alla sua età, «grande diligenza per imparare», «felice memoria nel ritenere le cose udite e lette», e fu favorito in «modo speciale» dei «lumi» divini59, soprattutto nello spirito di preghiera, tanto da essere «padrone di raccogliere il suo spirito per elevarlo al Signore» in qualsiasi momento della giornata60.

Tali diversità si riverberano sulla disposizione narrativa. Tuttavia l’architettura del racconto si ripete pressoché identica nelle tre biografie. Vi riconosciamo una triplice segmentazione, introdotta dal proemio e seguita da un epilogo: la vita familiare, l’inserimento nell’Oratorio, la malattia e la morte. Ogni biografia attribuisce diverso peso a ciascuna di queste sezioni, sulla base delle fonti disponibili, della significatività degli eventi e dei messaggi che si vogliono veicolare.

Nella Vita del giovanetto Savio Domenico, la più bilanciata, gli episodi che precedono l’incontro con don Bosco (c. VII) sono distribuiti in sei capitoli (cc. I-VI); tredici capitoli illustrano il periodo trascorso a Valdocco (cc. VIII-XX); cinque narrano la malattia e la morte (cc. XXI-XXV); gli ultimi due costituiscono l’epilogo che riassume il doppio messaggio dell’opera, uno affidato all’elogio funebre del prof. Picco (Domenico è modello di vita virtuosa e di esattezza nei doveri61), l’altro orchestrato con la partecipazione corale dei compagni, del padre, del narratore stesso (Domenico è un santo a cui raccomandarsi62).

Il Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele, spigliato e avvincente, riassume in un semplice paragrafo il vissuto precedente (la letterina del viceparroco, c. II), e prende l’avvio con la scena dell’incontro alla stazione di Carmagnola (c. I), un incipit letterario felicissimo; undici capitoli sono dedicati al periodo trascorso nella casa dell’Oratorio (cc. II-XII); altri tre alla malattia e alla morte (cc. XIII-XV); uno all’epilogo (c. XVI).

Il Pastorello delle Alpi consacra ben quindici capitoli alla storia precedente (cc. I-XV), mettendo così in grande risalto l’educazione familiare e parrocchiale, a svantaggio della fluidità narrativa; undici capitoli presentano il «tenore di vita nell’Oratorio» (cc, XVI-XXVI); cinque descrivono il decorso della malattia e la morte (cc. XXVII-XXI); i tre ultimi formano l’epilogo (cc. XXXII-XXXIV).

Identico è anche il processo compositivo, caratterizzato da una strategia propria di questo genere letterario che permette di dare la massima evidenza al protagonista e al messaggio. Si parte con un procedimento cronologico per la narrazione del periodo che va dalla nascita all’entrata all’Oratorio (Savio e Besucco), al quale si dedicano una serie di capitoli per illustrare il processo formativo dei protagonisti e delinearne la personalità; nel Magone questa funzione è svolta dai primi due capitoli. I capitoli che stanno al cuore dei tre racconti, in cui l’intento didascalico è prevalente, sono caratterizzati da un trattamento tematico che risulta il più efficace in funzione della presentazione del messaggio che l’autore intende proporre ai lettori. Si torna nuovamente al registro cronologico per la rievocazione commossa e coinvolgente del declino fisico e della morte dei protagonisti. I capitoli conclusivi orientano sulla “lezione” da trarre, e ribadiscono alcuni dei punti che più stanno a cuore all’autore.

Simili sono alcuni snodi narrativi che danno ritmo al racconto, illustrano i progressi interiori dei ragazzi, mettono a fuoco le tesi educative: 1) l’importanza della prima comunione ben preparata di Domenico e Francesco, e il riverbero morale e spirituale sulla loro vita; 2) la vivace descrizione del primo e dei successivi incontri tra i ragazzi e il direttore dell’Oratorio, con la ricostruzione dei dialoghi e delle dinamiche comunicative; 3) la messa in scena dei momenti critici e della loro soluzione, occasione feconda offerta all’educatore per un intervento mirato a rasserenare, stimolare la riflessione, indurre approfondimenti e prese di coscienza, favorire processi di riformulazione nella percezione di sé e del senso della vita, condurre a scelte di valore, ad assunzione di impegni; 4) la delicata gestione psicologica e spirituale della malattia finale per un approccio rasserenante e spiritualmente fecondo.

2.5 5. Chiavi interpretative

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Da quanto si è detto, risulterà evidente che i «giovani carissimi», cioè i lettori previsti dall’autore nell’atto della scrittura, oggi non esistono più. Essi, infatti, rivelano aneliti, schemi mentali e sensibilità in gran parte estranee alle attuali. Se vogliamo fare nostro il suo metodo e presentare modelli di vita significativi e stimolanti per i nostri giovani, non possiamo mettere nelle loro mani queste biografie senza una mediazione interpretativa che decodifichi i nuclei essenziali del messaggio e lo renda significativo. È un’operazione in qualche modo prevista nelle storie di vita narrate da don Bosco. Infatti, non solo egli, qua e là, offre esplicite istruzioni di lettura, ma quando entra in scena nel racconto, come direttore dell’Oratorio o confidente o confessore e si pone in dialogo educativo con i giovani, procede in modo interattivo, sollecitando la loro collaborazione, inducendo riflessioni che spalancano orizzonti, sollecitando prese di coscienza, sensibilizzando a sistemi di valore e di senso posti in piani diversi da quelli della comune esperienza quotidiana. Le Vite stesse, dunque, con la tecnica del racconto e della rappresentazione, oltre a comunicare modelli e modalità pratiche di comportamento virtuoso, illustrano le motivazioni che inducono tali condotte, ne presentano gli esiti appaganti e cercano di renderle attraenti attraverso un coinvolgimento emotivo.

Oggi i destinatari principali di queste biografie sono gli educatori che si vogliono ispirare al metodo di don Bosco: a loro spetta il compito di approfondirne criticamente il messaggio per l’interpretazione e l’attualizzazione operativa.

Le chiavi interpretative per una lettura feconda sono di due tipi principalmente: quelle fornite dall’autore, espressione della sua intenzione primaria; e quelle che possiamo stabilire a partire dalle nostre domande e dai nostri interessi in quanto studiosi o continuatori della missione e della pedagogia di don Bosco63.

5.1. I percorsi di lettura suggeriti dall’Autore

L’introduzione e l’epilogo di ciascuna biografia offrono chiavi interpretative precise. Nel prologo della Vita di Domenico Savio, don Bosco afferma che la rappresentazione del tenore di vita «maraviglioso» e delle virtù «speciose» del ragazzo ha lo scopo di spingere i lettori a trarne «profitto», a passare dall’ammirazione all’imitazione operativa64. Il percorso di lettura suggerito, dunque, orienta la ricerca degli stati d’animo, dei sentimenti, degli atteggiamenti, delle scelte e dei comportamenti virtuosi che connotano il modello di vita proposto all’imitazione. È un’idea che viene ripresa nell’epilogo65, con l’aggiunta di un’indicazione puntuale, che focalizza uno dei cardini della pedagogia religiosa di don Bosco: «Ma non manchiamo d’imitare il Savio nella frequenza del sacra­mento della confessione, che fu il suo sostegno nella pratica costante della virtù, e fu guida sicura che lo condusse ad un termine di vita cotanto glorioso. Accostiamoci con frequenza e con le dovute disposi­zioni a questo bagno di salute nel corso della vita […]. A me sembra che questo sia il mezzo più sicuro per vivere giorni felici in mezzo alle afflizioni della vita, in fine della quale vedremo anche noi con calma avvicinarsi il momento della morte»66.

Questa stessa tesi è presente anche nelle altre due biografie, particolarmente nel Cenno biografico di Michele Magone67. Tuttavia, il prologo di quest’ultima non si limita a suggerire l’imitazione di uno o dell’altro aspetto virtuoso; indica un processo più profondo e personale, suggerisce la dinamica evangelica dell’ascolto e della corrispondenza: «In questa [biografia] di Magone noi abbiamo un giovanetto che abbandonato a se stesso era in pericolo di cominciar a battere il tristo sentiero del male; ma che il Signore invitò a seguirlo. Ascoltò egli l’amorosa chiamata e costantemente corrispondendo alla grazia divina giunse a trarre in ammirazione quanti lo conobbero, palesandosi così quanto siano maravigliosi gli effetti della grazia di Dio verso di coloro che si adoperano per corri­spondervi»68. Solo la docilità operativa agli impulsi della grazia è in grado di produrre frutti di «zelo, amore e carità», permette di vivere «buoni, casti, divoti, virtuosi» e «di morire lieti, sereni, calmi, fidenti nelle divine misericordie»69. Il lettore, dunque, viene orientato ad una ricerca delle forme di ascolto e di corrispondenza nella storia spirituale del biografato, nella semplicità del suo vissuto quotidiano: tutte «cose facili», fa notare l’autore, ma fatte «con perseveranza» sono diventate «il sentiero che condusse il nostro Michele ad un maraviglioso grado di perfezione»70.

Nell’introdurre la Vita di Francesco Besucco, molto più semplicemente don Bosco si presenta come «un padre che parla di un figlio teneramente amato; un padre, che dà campo ai paterni affetti» per istruire i lettori «nella pratica delle virtù» affinché si sentano «mossi a fuggire qualche vizio o a praticare qualche virtù»71. Dunque qui si propone una lettura calma, affettuosa e contemplativa della parola di don Bosco. È necessaria anche un po’ di pazienza: infatti, le digressioni narrative sono abbondanti, soprattutto nei primi quindici capitoli, tratti dalla documentazione inviata dal buon parroco di Argentera. Don Bosco ha rinunciato a sfrondarli, forse perché li sente in sintonia col suo stesso spirito e gli pare che rappresentino in modo incantevole l’animo buono e remissivo di Francesco, il carattere calmo e tranquillo di lui, la profondità dei suoi sentimenti affettuosi. Forse anche perché riproducono con efficacia la ricchezza umana di un ambiente popolare semplice e genuino, radicato nei valori tradizionali, come era stato quello della sua giovinezza ai Becchi: una società profondamente cristiana, di cui aveva grande nostalgia e che in quegli anni incominciava a dissolversi.

Tutte e tre le Vite, concludono con l’invito a tenersi preparati per una buona morte. È un tema caro alla spiritualità tradizionale che faceva dei Novissimi argomento preferito di meditazione e di predicazione. Nella pedagogia di don Bosco, veniva declinato con accenti particolari, in funzione della conversione del cuore «franca e risoluta»72 e del dono totale di sé a Dio, che genera un vissuto ardente, fecondo di frutti spirituali, di impegno etico ed insieme gaudioso. Era questa la prospettiva nella quale veniva celebrato mensilmente l’esercizio della buona morte73: per educare alla visione cristiana della morte, per stimolare un’efficace e periodica revisione del proprio spirito e delle proprie azioni, per incoraggiare uno stile di vita costantemente aperto all’azione della grazia, sereno, fecondo di opere e di frutti, per disporre positivamente l’animo all’incontro col Signore. Non a caso i capitoli conclusivi raffigurano le ultime ore dei tre protagonisti come un’attesa fervente e serena dell’incontro. Ammiriamo stupiti i dialoghi, le “commissioni” per il paradiso, gli addii74. Il momento della morte poi è descritto quasi come un rapimento estatico: Domenico «con voce chiara e ri­dente» dà l’addio a suo padre, poi esclama: «Oh! che bella cosa io vedo mai...» e si spegne «ridendo con aria di paradiso»; Michele spira «colla ordinaria serenità di volto e col riso sulle labbra», dopo aver baciato il crocifisso e invocato: Gesù, Giuseppe e Maria io metto nelle vostre mani l’anima mia; i momenti conclusivi della vita di Francesco sono connotati da fenomeni straordinari e ardori incontenibili: «Sembrava che gli balenasse sul volto una bellezza, un tale splendore che fece scomparire tutti gli altri lumi dell’infermeria»; «elevando alquanto il capo e prolungando le mani quanto poteva come chi stringe la mano a persona amata, cominciò con voce giuliva e sonora a cantar così: Lodate Maria […]. Dopo faceva vari sforzi per sollevare più in alto la persona, che di fatto si andava elevando, mentre egli stendendo le mani unite in forma divota, si pose di nuovo a cantare così: O Gesù d’amor acceso […]. Sembrava divenuto un angiolo cogli angioli del paradiso». In fondo è su questo punto che confluiscono tutti i discorsi di don Bosco è questo il cuore del suo messaggio75. Tutto il resto appare funzionale ad esso: la sua arte educativa, il suo accompagnamento affettuoso e creativo, i consigli offerti e il programma di vita, la devozione mariana e i sacramenti, tutto è orientato all’oggetto primo dei suoi pensieri e delle sue preoccupazioni, al grande affare della salvezza eterna76. Così si conclude la Vita di Domenico Savio: «E allora colla ilarità sul volto, colla pace nel cuore andremo in­contro al nostro Signore Gesù Cristo, che benigno ci accoglierà per giudicarci secondo la sua grande misericordia e condurci, siccome spero per me e per te, o lettore, dalle tribolazioni della vita alla beata eternità, per lodarlo e benedirlo per tutti i secoli. Così sia»77.

Questa pista di lettura trovava sicuro aggancio nella sensibilità religiosa dei lettori del tempo. Oggi, nel clima culturale e spirituale in cui ci muoviamo, risuona estranea. Siamo portati a scansarla, operando selezioni, concentrandoci sugli aspetti solari e dinamici, escludendo quelli che riteniamo arcaici o irrilevanti per la comprensione di don Bosco e del suo messaggio pedagogico. Allo stesso modo in cui, quando citiamo la fortunata espressione di Domenico Savio, «Sappi che noi qui facciamo con­sistere la santità nello star molto allegri», la estrapoliamo, separandola dal resto del discorso, nel quale il giovane discepolo sintetizza felicemente la proposta formativa del Maestro: «Noi procureremo soltanto di evitar il peccato, come un gran nemico che ci ruba la grazia di Dio e la pace del cuore, procureremo di adempiere esattamente i nostri doveri, e frequentare le cose di pietà. Comincia fin d’oggi a scriverti per ricordo: Servite Domino in laetitia, serviamo il Signore in santa allegria»78. Invece è necessaria la lettura integrale di queste biografie, rispettate nella loro coerenza interna, negli orizzonti di senso in cui si collocano, con attenzione ai particolari e senza filtrature. Essa risulterà certamente feconda in funzione di una più completa conoscenza di don Bosco e della sua articolata proposta formativa. Nello stesso tempo ci offrirà uno stimolante termine di confronto per la riflessione critica sui nostri programmi e progetti educativi.

5.2. L’osservazione di don Bosco in azione

Le chiavi interpretative emergenti dalle domande che ci poniamo come discepoli di don Bosco e educatori di giovani di fronte a queste piccole biografie attivano percorsi di lettura diversi e stimolanti: come possono essere riformulati oggi i capisaldi del programma formativo proposto da don Bosco? Quale è il modello di integrazione educativa tra famiglia, parrocchia, scuola e Oratorio? Quali sono le caratteristiche dell’ambiente educativo e gli atteggiamenti qualificanti dell’educatore delineato in queste operette? In che modo il Santo si pone in relazione con i suoi allievi? Come li accompagna nei momenti critici? Quali sono le forme del coinvolgimento attivo degli educandi nella cura formativa dei compagni? Quale rapporto pone l’autore tra educazione, formazione cristiana e vita spirituale?

Tra le varie piste di lettura, ci limitiamo a suggerire l’analisi delle scene in cui è descritta la relazione personale tra don Bosco e i protagonisti, per coglierne atteggiamenti caratterizzanti e dinamiche.

Notiamo innanzitutto la rilevanza che viene data ai dialoghi con i tre ragazzi, a cominciare dal primo incontro. Emergono evidenti le caratteristiche della conversazione educativa preventiva e della specifica modalità relazionale intessuta dall’educatore in funzione del lavoro successivo. Come possiamo costatare dalle Vite di Domenico Savio e Michele Magone79, obiettivo del primo incontro è la conoscenza, necessaria alla fiducia e alla confidenza reciproca: attraverso l’accoglienza cordiale del giovane e la generosa disponibilità nel farsi carico dei suoi bisogni, don Bosco attiva un canale comunicativo di tonalità affettiva che apre gli animi a quel tipo di interazione che è caratteristica del sistema educativo dell’Oratorio. L’approccio è sempre informale, empatico, colloquiale: egli si mette sul piano dell’interlocutore, intesse un dialogo sereno, familiare – verbale e non verbale –, tale da far cadere la diffidenza, permettendo al ragazzo di esprimere liberamente se stesso. Così può raccogliere informazioni essenziali sulla condizione, sulla storia, sullo stato d’animo, sulle caratteristiche temperamentali e la domanda educativa di chi gli sta di fronte. Individuate le sue attese, gli offre opportunità e soluzioni concrete, e lo aiuta ad alzare lo sguardo, a scoprire nuovi orizzonti. Da parte sua, il ragazzo prova un senso di accoglienza, si sente, capito e amato, scopre le opportunità offerte dalla relazione con un adulto paterno, dedicato e rispettoso, sul quale capisce di poter contare. Viene così stimolato alla corrispondenza, portato alla confidenza. Questa prima conversazione, che si conclude con la decisione di ammettere il giovane all’Oratorio, suscita nell’animo suo un sentimento di gratitudine, di gioiosa attesa, di desiderio: premesse fecondissime per una felice relazione educativa. L’incontro successivo, al momento dell’inserimento nella comunità, presenta le caratteristiche di un “contratto” educativo, in cui all’accoglienza generosa dell’educatore corrisponde la promessa e l’impegno del ragazzo80.

Il cuore delle tre biografie è costituito dalla descrizione di una crisi, che interessa in forma diversa i protagonisti e risulta determinante nell’intreccio narrativo. Il racconto del suo superamento, nel colloquio tra educatore e educando, offre l’occasione per illustrare, incarnato nella storia dei tre ragazzi, il messaggio che l’autore intende offrire ai lettori. Sono situazioni diverse, legate alle caratteristiche personali di ciascun protagonista. In Domenico il momento critico sopraggiunge a sei mesi dal suo inserimento a Valdocco, dopo l’offerta oblativa di sé fatta in occasione dell’8 dicembre 1854, dalla quale era scaturita una condotta morale «così edificante e congiunta a tali atti di virtù» da sorprendere il suo formatore81. Lo stato d’animo in cui si trova è quello della disponibilità incondizionata all’azione interiore della grazia e agli stimoli formativi degli educatori. Così, è sufficiente un’esortazione alla santità per scatenare nel suo intimo desideri incontenibili di perfezione: la sua è una crisi “mistica”, che l’intervento del direttore spirituale orienta verso la perfezione virtuosa nel quotidiano e in funzione apostolica, prevenendo ripiegamenti intimistici e fughe dalla realtà82.

Michele Magone, dopo un mese di permanenza nella casa dell’Oratorio, attraverso la mediazione di un buon compagno, messo al suo fianco da don Bosco, e nel confronto con la qualità morale dell’ambiente, prende coscienza vivissima della propria mediocrità: la sua è una crisi “etica”, caratterizzata da sensi di colpa e angosce. Michele riesce ad uscirne con le proprie forze, dopo un dialogo rasserenante con l’educatore che gli suggerisce le ipotesi di soluzione. È un processo di conversione, che gli permette di accedere ad uno stato di serenità spirituale mai prima sperimentata e di appropriarsi di un nuovo sistema di valori, al quale aderisce liberamente, con totalità e gusto83.

Francesco Besucco, a pochi giorni dal suo arrivo a Torino, è assalito dalla nostalgia di casa, si sente spaesato in un ambiente tanto diverso da quello originario: la sua è una crisi “culturale” ed affettiva, connotata da senso di inadeguatezza, disorientamento e inferiorità nei confronti dei compagni. Nella conversazione affettuosa con don Bosco, che lo consola e lo incoraggia, orientandolo su un programma di vita semplificato – «Pratica tre sole cose e tutto andrà bene […]: Allegria, Studio, Pietà»84 –, trova il modo per compensare costruttivamente la dissonanza culturale e raggiungere la serenità.

Nonostante la diversità delle esperienze, il superamento del momento critico si risolve per i tre ragazzi in un passaggio di crescita umana e spirituale. È un processo di maturazione, grazie al quale non soltanto viene risolto il problema e si ritrova l’equilibrio interiore, ma si consolida l’identità personale, si interiorizzano valori, significati e modi di agire e si attua una più profonda e radicale consegna a Dio. Tutto ciò permette una accresciuta coscienza di sé, una riconfigurazione dell’approccio al quotidiano e alle relazioni umane e un incremento nella capacità di amore oblativo, da cui scaturisce slancio operativo, gioia di vivere, fervore spirituale e docilità all’azione della grazia.

Alla soluzione della crisi seguono, in tutte tre le Vite, alcuni capitoli dedicati ad illustrare gli itinerari educativi intrapresi dai protagonisti sotto la guida dell’educatore. Al di là delle diverse accentuazioni, si può facilmente constatare l’impianto unitario del programma formativo delineato dall’autore in queste biografie. Basta seguire i titoli dei capitoli per vederne la sintonia. L’accento è posto sull’uso scrupoloso del tempo e la diligenza nell’adempimento dei doveri quotidiani, affrontati con amore e con gioia, sulla pratica regolare dei sacramenti della confessione e della comunione, sulla confidenza col direttore-confessore, sullo spirito di preghiera e l’unione con Dio, sulla devozione mariana, sull’esercizio pratico delle virtù (l’obbedienza, la carità, la mortificazione dei sensi, la castità), su tutte le forme di servizio verso il prossimo, sulle buone amicizie, sull’ardore apostolico.

2.6 6. Invito alla lettura

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Perché leggere oggi queste biografie edificanti? Prima di tutto perché sono un prezioso documento di vita, un discorso di don Bosco sull’esperienza dei tre protagonisti riservato a lettori attenti. Attraverso di esse possiamo introdurci nel suo mondo interiore, accedere alle sue visioni e alle sue preoccupazioni, capire quanta fiducia egli ponesse nelle risorse dell’animo giovanile. Vanno lette anche perché sono lo specchio di un umanesimo educativo plenario che oggi merita riconsiderare, di una affascinante cultura dello spirito che la patina del tempo non ha offuscato. Nella loro semplicità restituiscono un afflato morale, un entusiasmo educativo e una tensione pastorale, dalla cui contemplazione abbiamo molto da imparare per non lasciarci sommergere dal disincanto e dalla mediocrità. Sono l’espressione di una proposta formativa, di una metodologia educativa e di una spiritualità che ci sembra tanto lontana dal mondo giovanile di oggi, ma che sentiamo importante: è lontana per lo scarto temporale e culturale, per la scomparsa di quella tensione morale e ideale che caratterizzava la gioventù dell’Ottocento; tuttavia resta importante per la forza carismatica e profetica che contiene, per gli stimoli di cui è portatrice, per i salutari sommovimenti che può suscitare nella nostra coscienza di educatori.

Come leggerle? Con affetto, con curiosità e con rispetto. L’affetto di figli per la memoria di un padre amato, per l’eredità spirituale e il patrimonio di esperienza e di sapienza che ha lasciato; la curiosità dell’esploratore che risale la corrente di un grande fiume per scoprirne la sorgente e abbeverarsi alla purezza delle sue acque; il rispetto col quale l’autore, che è anche confidente e confessore, ha accostato intimità ardente di quelle giovani anime, ne ha raccolto le confidenze e i propositi, ne ha contemplato stupito i progressi.

Vanno anche lette con apertura mentale, con attenzione e con sensibilità. L’apertura mentale è anzitutto onestà intellettuale e abbandono di ogni pregiudizio, a cominciare da quell’insidioso senso di superiorità culturale e teologica che spesso traspare nelle ricerche sull’esperienza religiosa del passato, quella che definiamo “popolare” e “devozionale”; l’attenzione implica uno studio accurato del testo, della sua organizzazione, dei suoi possibili livelli di lettura, delle sue allusioni; la sensibilità si traduce nello sforzo per un accostamento empatico ai personaggi, nell’ascolto delle ripercussioni del racconto sul nostro spirito, nell’attenzione alle ragioni di don Bosco, ai diversi accenti che egli pone qua e là.

Le Vite non sono solo monumenti all’adolescenza del buon tempo passato, miniature deliziose di una realtà educativa nella sua fase carismatica: costituiscono una mediazione efficace per entrare in quel mondo condotti per mano dal narratore e lasciarci istruire da lui.


2.7 Bibliografia

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Bozzolo A., Missione e santità di Domenico Savio. Lettura teologica della “Vita”, in Domenico Savio raccontato da don Bosco. Riflessioni sulla “Vita”. Atti del Simposio (Università Pontificia Salesiana, Roma, 8 maggio 2004), a cura di A. Giraudo, Roma, LAS, 2004, 103-153.

Braido P., Don Bosco prete dei giovani nel secolo delle libertà, Roma, LAS, 2009, 301-318; 327-331.

Braido P., Prevenire non reprimere. Il sistema educativo di don Bosco, Roma, LAS, 2000.

Caviglia A., Savio Domenico e don Bosco. Studio, in Opere e scritti editi e inediti di don Bosco nuovamente pubblicati e riveduti secondo le edizioni originali e manoscritti superstiti, vol. IV, Torino, Società Editrice Internazionale, 1943, 5-590.

, Il “Magone Michele una classica esperienza educativa. Studio, Opere e scritti editi e inediti di don Bosco, vol. V, Torino, Società Editrice Internazionale, 1965, 131-200.

, La Vita di Besucco Francesco scritta da Don Bosco e il suo contenuto spirituale, in Opere e scritti editi e inediti di don Bosco, vol. VI, Torino, Società Editrice Internazionale, 1965, 105-262.

Nanni C., Destinazione educativa, convinzioni pedagogiche e idea di educazione. Lettura pedagogica della “Vita”, in Domenico Savio raccontato da don Bosco, 155-176.

Prellezo J.M., La “Vita” di Domenico Savio scritta da don Bosco nella storiografia salesiana (1859-1954), in Domenico Savio raccontato da don Bosco, 61-102.

Stella P., Don Bosco nella storia della religiosità cattolica. II: Mentalità religiosa e spiritualità, Roma, LAS, 1981, 205-211.

, Il modo di lavorare di don Bosco, in Domenico Savio raccontato da don Bosco, 11-30.

, Per una storia dell'agiografia in età contemporanea. Il “giovanetto Savio Domenico” (1859) di san Giovanni Bosco, in Vita religiosa, problemi sociali e impegno civile dei cattolici. Studi storici in onore di Alberto Monticone, a cura di A. Sindoni e M. Tosti, Roma, Studium, 2009, 143-167.

, Santi per giovani e santi giovani nell'Ottocento, in Santi, culti, simboli nell'età della secolarizzazione (1815-1915), a cura di E. Fattorini, Torino, Rosenberg & Sellier, 1997, 563-586.


3 Criteri di edizione

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Considerando le finalità e i destinatari di questa pubblicazione (che non è un’edizione critica) abbiamo adottato i seguenti criteri:

a) adattamento della punteggiatura e delle accentuazioni secondo l’uso attuale;

b) uso uniforme delle iniziali maiuscole nei nomi comuni;

c) uso del trattino nei dialoghi per introdurre le battute dei vari interlocutori, quando queste sono mandate a capo; uso delle virgolette basse o caporali (« ») per i discorsi diretti all’interno di un paragrafo; virgolette alte o doppi apici (“ ”) per citazioni all’interno di discorsi diretti;

d) scioglimento delle forme tronche desuete delle preposizioni articolate al maschile plurale (a’: ai; co’: con i; da’: dai; de’: dei; ne’: nei; pe’: per i; que’: quei; tra’: tra i); come anche pegli: per gli; pel: per il; nol: non lo; mel: me lo; mentre abbiamo mantenuto le forme abbreviate delle prime persone singolari al presente dei verbi fare e andare (fo: faccio; vo: vado);

e) scioglimento dell’abbreviazione SS. quando è accostata a Sacramento e Maria;

f) trascrizione corretta di date, nomi propri oppure di termini scritti in modo errato dall’autore1;

g) abbiamo lasciato invariate le finali tronche, i termini e le locuzioni ottocentesche che caratterizzano la scrittura di don Bosco,2 le numerose voci verbali all’indicativo imperfetto col suffisso pronominale3, come pure la finale in –a della prima persona dell’imperfetto indicativo secondo l’uso antico (era: ero; rimirava: rimiravo; sperava: speravo; pensava: pensavo; desiderava: desideravo…) e le parole uscenti al singolare con il dittongo discendente ‘io’, che al plurale hanno finale doppia –ii secondo l’uso antico (testimonii; desiderii; proprii; principii; studii…);

h) nella numerazione dei capitoli abbiamo conservato le cifre romane, come nelle edizioni originali.



4 Abbreviazioni

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a.anno

aa.articoli

AAT Archivio Arcivescovile, Torino

APARCArchivio della Parrocchia Maria Assunta, Riva presso Chieri (Torino)

APSAC Archivio della Parrocchia S. Andrea, Castelnuovo Don Bosco (Asti)

APSGM Archivio della Parrocchia S. Giacomo Maggiore, Mondonio San Domenico Savio (Asti)

APSPPC Archivio della Parrocchia santi Pietro e Paolo, Carmagnola (Torino)

ASC Archivio Salesiano Centrale, Roma

aut.autografo

AVAArchivio Vescovile, Asti

B. V. Beata Vergine

c.capitolo

cav.cavaliere

cf.confronta/vedi

corr.corregge

D. don

ed. edizione

f.foglio

fasc.fascicolo

ins.inserita/o

MBG.B. Lemoyne - A. Amadei - E. Ceria, Memorie biografiche di don [del venerabile servo di Dio / del beato / di san] Giovani Bosco, S. Benigno Canavese-Torino, Tipografia e Libreria Salesiana-Società Editrice Internazionale, 1898-1939, 19 voll.

mons.monsignore

ms.manoscritto

OEGiovanni Bosco, Opere edite. Prima serie: Libri e opuscoli, 37 vol., Roma, LAS, 1976-1977

rretto

S. santo/santa

S. M.Sua Maestà

S. V.signoria vostra

s.d.senza data

sig. signor

SS.santi/santissimo/a

v.verso

vol. volume




5 Giovanni Bosco

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Vita del giovanetto Savio Domenico allievo dell’Oratorio di S. Francesco di Sales



6 Nota introduttiva al testo

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Questa edizione della vita di Domenico Savio si attiene al testo dell’ultima edizione curata da don Bosco, la V ed. (Vita del giovanetto Savio Domenico allievo dell’Oratorio di S. Francesco di Sales con appendice sulle grazie ottenute per sua intercessione, per cura del sac. Giovanni Bosco, Torino, Tipografia e Libreria Salesiana, 1878, 158 p.), confrontata con le edizioni precedenti: I ed. (Vita del giovanetto Savio Domenico allievo dell’Oratorio di san Francesco di Sales, per cura del sacerdote Bosco Giovanni, Torino, Tip. G. B. Paravia e Comp., 1859, 142 p.); II ed. (Torino, Tip. Italiana di F. Martinengo e Comp., 521860, 176 p.); III ed. (Vita del giovanetto Savio Domenico allievo dell’Oratorio di san Francesco di Sales con appendice sulle grazie ottenute per sua intercessione; per cura del sacerdote Bosco Giovanni, terza edizione accresciuta, Torino, Tip. Italiana di Fr. Martinengo e Comp., 31861, 186 p.); IV ed. (Vita del giovanetto Savio Domenico allievo dell’Oratorio di s. Franc. di Sales con appendice sulle grazie ottenute per sua intercessione, per cura del sacerdote Bosco Giovanni, quarta edizione accresciuta, Torino, Tip. dell’Orat. di S. Franc. di Sales, 41866, 156 p.); confrontata anche con la ristampa stereotipa della V ed. (Torino, Tipografia e Libreria Salesiana, 1880, 158 p.) e con l’edizione commentata da Alberto Caviglia (Opere e scritti editi e inediti di don Bosco, vol. IV, parte I: La vita di Domenico Savio, Torino, Società Editrice Internazionale, 1942, pp. 1-72). Abbiamo però tralasciato l’Appendice sopra alcune grazie ottenute da Dio ad intercessione di Savio Domenico (ed. 51878, pp. 130-153), introdotta in ed. 21860 (Grazie ottenute da Dio ad intercessione di Savio Domenico, pp. 152-172), con sette relazioni, che nell’ed. 31861 salirono a dieci, mantenute invariate nelle edizioni successive.


In nota sono segnalate le varianti testuali più significative o le inserzioni operate nel corso delle varie edizioni. L’inserimento più consistente è costituito dall’intero capitolo XVI (Mortificazione in tutti i sensi esterni), aggiunto in ed. 21860). Quando ci è parso utile, abbiamo inserito nelle note altre informazioni di carattere documentario e storico.

Quando nel testo s’incontra un numero di rimando a nota di piè pagina racchiuso tra parentesi tonda (n) significa che tale nota era già nel testo originale o fu aggiunta in una delle successive edizioni.

Nella numerazione dei capitoli abbiamo conservato le cifre romane, come nelle edizioni originali.


Giovani carissimi,

voi mi avete più volte dimandato, giovani carissimi, di scrivervi qualche cosa intorno al vostro compagno Savio Domenico; ed io ho fatto quello che ho potuto per appagare questo vostro pio desiderio. Eccovi la vita di lui descritta con quella brevità e semplicità che so tornare a voi di gradimento.

Due difficoltà si opponevano alla pubbli­cazione di questo lavoro; la prima è la critica a cui per lo più va soggetto chi scrive cose delle quali havvi moltitudine di testimonii viventi. Questa difficoltà credo di aver supe­rato col farmi uno studio di narrare unica­mente le cose che da voi o da me furono vedute, e che quasi tutte conservo scritte e segnate di vostra mano medesima.

Altro ostacolo era il dovere più volte parlare di me, perciocché essendo questo giovane vissuto circa tre anni in questa casa, mi tocca sovente di riferire cose, a cui ho preso parte. Questo ostacolo credo pure di aver superato tenendomi al dovere dello storico, che è di scrivere la verità dei fatti, senza badare alle persone. Tuttavia se troverete qualche fatto, ove io parli di me con qualche compiacenza, attribuitela al grande affetto che io portava all’amico defunto e che porto a tutti voi; il quale affetto mi fa aprire a voi l’intimo del mio cuore, come farebbe un padre, che parla ai suoi amati figli.

Taluno di voi dimanderà, perché io abbia scritto la vita di Savio Domenico e non quella di altri giovani che vissero tra noi con fama di specchiata virtù. È vero, miei cari, la Divina Provvidenza si degnò di man­darci parecchi modelli di virtù; tali furono Fascio Gabriele, Rua Luigi, Gavio Camillo, Massaglia Giovanni1, ed altri: ma le azioni di costoro non sono state ugualmente note e speciose come quelle del Savio, il cui tenor di vita fu notoriamente maraviglioso. Per al­tro, se Dio mi darà sanità e grazia, ho in animo di raccogliere le azioni di questi vostri virtuosi compagni, per essere in grado di appagare i. vostri ed i miei desiderii col darvele a leg­gere e ad imitare in quello che è compatibile col vostro stato.

In questa quinta edizione poi, ho aggiunto varie notizie che spero la renderanno interes­sante anche a coloro che hanno già letto quanto si è nelle antecedenti edizioni stampato2.

Intanto cominciate a trar profitto da quanto vi verrò descrivendo; e dite in cuor vostro quanto diceva S. Agostino: Si ille, cur non ego? Se un mio compagno, della stessa mia età, nel medesimo luogo, esposto ai medesimi e forse maggiori pericoli, tuttavia trovò tempo e modo di mantenersi fedele seguace di Gesù Cristo, perché non posso anch’io fare lo stesso? Ricordatevi bene che la religione vera non consiste in sole parole; bisogna venire alle opere3. Quindi, trovando qualche cosa degna d’ammirazione, non contentatevi di dire questo è bello, questo mi piace. Dite piut­tosto: voglio adoperarmi per far quelle cose che lette di altri, mi eccitano alla maraviglia.

Dio doni a voi e a tutti i lettori di questo libretto sanità e grazia per trar profitto di quanto ivi leggeranno; e la Vergine Santis­sima, di cui il giovane Savio era fervoroso divoto, ci ottenga di poter fare un cuor solo ed un’anima sola per amare il nostro Creatore, che è il solo degno di essere amato sopra o­gni cosa, e fedelmente servito in tutti i giorni di nostra vita.

7 CAPO I

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8 Patria - Indole di questo giovine - ­Suoi primi atti di virtù

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I genitori del giovinetto, di cui intra­prendiamo a scrivere la vita, furono Savio Carlo e Brigida di lui consorte1, poveri, ma onesti concittadini di Castelnuovo d’Asti (2), paese distante dieci miglia da Torino3. L’anno 1841, trovandosi i buoni coniugi in gravi strettezze e privi di lavoro, andarono a di­morare in Riva (4), paese distante due miglia da Chieri, ove il marito si diede a fare il fabbro-ferraio, mestiere a cui erasi nella sua giovinezza esercitato. Mentre dimora­vano in questo paese, Dio benedisse il loro matrimonio concedendo un figliuolo, che do­veva esser la loro consolazione. La nascita di lui avvenne il 2 di aprile 1842. Quando lo portarono ad esser rigenerato nelle acque battesimali, gl’imposero il nome di Dome­nico5, la qual cosa, sebben per sé sia indiffe­rente, tuttavia fu soggetto di alta conside­razione per il nostro fanciullo, siccome ve­dremo.

Compieva Domenico il secondo anno di sua età, quando per alcune convenienze di famiglia, i suoi genitori deliberarono di ritornare in patria, e andarono a fissare la loro dimora in Morialdo, borgata di Ca­stelnuovo d’Asti6.

Le sollecitudini dei buoni genitori erano tutte rivolte a dare una cristiana educazione al loro fanciullo, che fin d’allora formava l’oggetto delle loro compiacenze. Egli aveva sortito dalla natura un’indole buona, un cuore propriamente nato per la pietà. Ap­prese con maravigliosa facilità le preghiere del mattino e della sera, ed all’età di soli quattro anni già recitavale da sé. Anche in quella età di naturale divagazione egli di­pendeva in tutto e per tutto dalla sua ge­nitrice; e se qualche volta da lei si allon­tanava era solamente per mettersi in qualche cantuccio della casa e fare con maggior li­bertà preghiere lungo il giorno.

«Fin dalla più tenera età, affermano i suoi genitori, nella quale per mancanza di riflessione i fanciulli sono un disturbo e cruccio continuo per le madri, età in cui tutto vogliono vedere, toccare e per lo più guastare, il nostro Domenico non ci diede mai il minimo dispiacere. Non solo era ub­bidiente, pronto a qualsiasi nostro comando, ma si studiava di prevenire le cose, che egli scorgeva tornare a noi di gradimento».

Erano poi curiose e nel tempo stesso piacevoli le accoglienze che faceva al padre quando lo vedeva giungere a casa, dopo i suoi ordinari lavori. Correva ad incontrarlo e presolo per mano e talor saltandogli al collo, «caro papà, gli diceva, quanto siete stanco! non è vero? voi lavorate tanto per me ed io non sono buono ad altro che a darvi fastidio; io pregherò il buon Dio che doni a voi la sanità, e che mi faccia buono». Così dicendo lo accompagnava in casa, gli presentava la sedia o lo scanno perché vi si sedesse; gli teneva compagnia e gli fa­ceva mille carezze. Questo, dice il padre, era per me un dolce conforto nelle mie fa­tiche, ed io era come impaziente di giun­gere a casa per imprimere un tenero bacio al mio Domenico, che possedeva tutti gli affetti del mio cuore.

La sua divozione cresceva più dell’età, ed a soli quattro anni non occorreva più di avvisarlo di recitare le preghiere del mattino e della sera, prima e dopo il cibo, dell’Angelus; che anzi egli medesimo invi­tava gli altri di casa a recitarle qualora se ne fossero dimenticati.

Avvenne che un giorno i suoi parenti di­stratti da alcuni schiamazzi si posero senz’al­tro a desinare. «O papà, disse l’attento Do­menico, non abbiamo ancora invocato la be­nedizione del Signore sopra i nostri cibi». Ciò detto cominciò egli stesso a fare il segno della santa croce e a recitare la solita preghiera. Altra volta un forestiere accolto in casa sua si pose parimenti a mangiare senza fare alcun atto di religione. Domenico non osando avvisarlo si ritirò afflitto in un angolo della casa. Interrogato di poi dai suoi parenti in­torno a tale novità rispose: «Io non ho osato pormi a tavola con uno che si mette a man­giare come fanno le bestie»7.

9 CAPO II

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10 Morale condotta tenuta in Morialdo - Bei tratti di virtù - Sua frequenza alla scuola di quella borgata

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Qui ci sono cose che appena si credereb­bero, se chi le asserisce non escludesse i nostri dubbi. Io mi attengo alla relazione che il cappellano di quella borgata (1) ebbe la cortesia dì farmi intorno a quel suo caro a­lunno.

«Nei primi giorni, egli dice, che io sono venuto a questa borgata di Morialdo, vedeva spesse volte un fanciullo di forse cinque anni venire alla chiesa in compagnia di sua madre. La serenità del suo sembiante, la com­postezza della persona, il suo atteggiamento divoto, trassero sopra di lui gli sguardi miei e gli sguardi degli altri. Che se giunto alla chiesa l’avesse trovata chiusa, allor succe­deva un ameno spettacolo. Ben lungi dallo scorrazzare o schiamazzare da sé o con al­tri, come sogliono fare i ragazzi di tale età, egli recavasi sul limitare della porta, si met­teva in ginocchio e col capolino chinato e colle innocenti manine giunte dinanzi al petto fervorosamente pregava finché venisse aperta la chiesa. Si noti che talvolta il terreno era coperto di fango, oppure cadeva neve o piog­gia; ma egli a nulla badava e vi si metteva egualmente ginocchioni a pregare2. Maravi­gliato e mosso da pia curiosità ho voluto sa­pere chi fosse quel fanciullo, che era dive­nuto l’oggetto della mia ammirazione, e seppi essere il figliuolo del ferraio Carlo Savio.

Quando poi m’incontrava per la strada cominciava di lontano a dar segni di compiacenza, e con un’aria veramente angelica preveniva rispettosamente il mio saluto. Co­minciò egli pure a venire alla scuola, e poi­ché era fornito d’ingegno ed assai diligente nell’adempimento dei suoi doveri, fece in breve tempo notevole progresso nello studio. Egli era costretto a conversare con giovani discoli e divagati, ma non mi è mai acca­duto di vederlo in contesa. Se poi fosse av­venuto qualche alterco, egli, sopportando con pazienza gl’insulti dei compagni, tosto da loro si allontanava. Né mi ricordo di a­verlo veduto a prendere parte a divertimenti pericolosi, a dare il minimo disturbo nella scuola. Anzi molti compagni lo invitavano ad andare seco loro a fare delle burle a per­sone d’età avanzata, a scagliar sassi, a ru­bar frutta altrui o a cagionar guasti nelle campagne; ma egli destramente sapeva di­sapprovare la loro condotta e rifiutavasi dal prendervi parte.

La pietà già dimostrata pregando sul li­mitare della chiesa non venne meno col crescere dell’età. Di cinque anni egli aveva già imparato a servire la santa Messa e la ser­viva divotissimamente. Ogni giorno vi andava, e se altri voleva servirla, egli la ascoltava, altrimenti vi si prestava con un con­tegno il più edificante. Siccome era giovane d’età e piccolo di statura3, non poteva tra­sportare il messale; ed era cosa curiosa il vederlo avvicinarsi ansioso all’altare, levarsi sulla punta dei piedi, tendere quanto poteva le braccia, fare ogni sforzo per toccare il leggio. Se il sacerdote od altri avesse voluto fargli la cosa più cara al mondo, doveva non già trasportare il messale, ma avvici­nargli il leggio tanto che lo potesse raggiu­gnere; ed allora egli con gioia lo portava all’altro lato dell’altare4.

Si confessava con frequenza, e come fu capace di distinguere il pane celeste dal pane terreno, venne ammesso alla santa co­munione, che egli riceveva con una divozione veramente ammirabile. Alla vista di quei belli lavori, che la grazia Divina compieva in quel­l’anima innocente, ho più volte detto tra me: Ecco un giovinetto di ottime speranze. Dio voglia che gli si apra una strada per con­durre a maturità frutti così preziosi» (fin qui il cappellano di Morialdo)5.

11 CAPO III

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12 È ammesso alla prima comunione - Apparecchio - Raccoglimento e ricordi di quel giorno

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Nulla mancava a Domenico per essere ammesso alla prima co­munione. Sapeva a memoria tutto il piccolo catechismo; aveva chiara cognizione di questo augusto sacramento, e ardeva dal desiderio di accostarvisi. Soltanto l’età se gli opponeva, perciocché nei villaggi ordinariamente non si ammettono i fanciulli a fare la prima comu­nione se non agli undici o dodici anni compiuti1. Il Savio correva sol­tanto il settimo anno di sua età. Oltre la fanciullesca sembianza2 aveva un corpicciuolo che lo faceva parer ancor più giovane; sicché il cappellano esitava a promuoverlo. Ne dimandò anche consiglio ad altri sacerdoti, i quali ponderata bene la cognizione precoce, l’istruzione ed i vivi desideri di Domenico, lasciarono da parte tutte le difficoltà, e lo ammisero a partecipare per la prima volta al cibo degli angeli3.

È assai difficile esprimere gli affetti di santa gioia, di cui gli riempì il cuore un tale annunzio. Corse a casa e lo disse con trasporto alla madre; ora pregava, ora leggeva; passava molto tempo in chiesa prima e dopo la messa, e pareva che l’anima sua abitasse già cogli angeli del cielo. La vigilia del giorno fissato per la comunione4 chiamò la sua genitrice: «Mamma, le disse, domani vo a fare la mia comunione; perdonatemi tutti i dispiaceri che vi diedi per il passato: per l’avvenire vi prometto di essere molto più buono; sarò attento alla scuola, ubbi­diente, docile, rispettoso a quanto sarete per comandarmi». Ciò detto fu commosso e si mise a piangere. La madre, che da lui non aveva ricevuto altro che consolazioni, ne fu ella pure commossa e ratte­nendo a stento le lacrime lo consolò dicendogli: «Va’ pure tranquillo, caro Domenico, tutto è perdonato: prega Iddio che ti conservi sempre buono, pregalo anche per me e per tuo padre».

Al mattino di quel memorando giorno si levò per tempo e, vestitosi dei suoi abiti più belli, andò alla chiesa che trovò ancor chiusa. S’inginocchiò, come già aveva fatto altre volte, sul limitare di quella e pregò finché giungendo altri fanciulli ne fu aperta la porta. Tra le confessioni, preparazione e ringraziamento della comunione la fun­zione durò cinque ore. Domenico entrò il primo in chiesa e ne usci l’ultimo. In tutto quel tempo egli non sapeva più se fosse in cielo o in terra.

Quel giorno fu per lui sempre memorabile e si può chiamare vero principio o piuttosto continuazione di una vita, che può servire di modello a qualsiasi fedel cristiano. Parecchi anni dopo facendolo par­lare della sua prima comunione, gli si vedeva ancor trasparire la più viva gioia sul volto. «Oh! quello, soleva dire, fu per me il più bel giorno ed un gran giorno». Si scrisse alcuni ricordi che conservava gelosamente in un libro di divozione e che spesso leggeva. Io ho potuto averli tra le mani e li inserisco qui nella loro originale semplicità. Erano di questo tenore:

«Ricordi fatti da me, Savio Domenico l’anno 1849 quando ho fatta la prima comunione essendo di 7 anni.

1° Mi confesserò molto sovente e farò la comunione tutte le volte che il confessore mi darà licenza.

2° Voglio santificare i giorni festivi.

3° I miei amici saranno Gesù e Maria.

4° La morte, ma non peccati».

Questi ricordi, che spesso andava ripetendo, furono come la guida delle sue azioni sino alla fine della vita.

Se tra quelli che leggeranno questo libretto vi fosse mai chi avesse ancora da fare la prima comunione, io vorrei caldamente raccoman­dargli di farsi modello il giovane Savio. Ma raccomando poi quanto so e posso ai padri, alle madri di famiglia e a tutti quelli che eserci­tano qualche autorità sulla gioventù, di dare la più grande impor­tanza a questo atto religioso. Siate persuasi che la prima comu­nione ben fatta pone un solido fondamento morale per tutta la vita5; e sarà cosa strana che si trovi alcuno che abbia compiuto bene quel solenne dovere, e non ne sia succeduta una vita buona e vir­tuosa. Al contrario si contano a migliaia i giovani discoli, che sono la desolazione dei genitori e di chi si occupa di loro; ma se si va alla radice del male si conosce, che la loro condotta cominciò ad apparire tale nella poca o nessuna preparazione alla prima comunione. È meglio differirla, anzi è meglio non farla, che farla male.

13 CAPO IV

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14 Scuola di Castelnuovo d’Asti - Episodio edificante - Savia risposta ad un cattivo consiglio

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Compiute le prime scuole, Domenico avrebbe già dovuto molto prima essere inviato altrove per proseguire i suoi studi, il che non poteva fare in una cappellania di campagna. Ciò desiderava Dome­nico, ciò eziandio stava molto a cuore ai genitori di lui. Ma come effettuarlo mancando affatto i mezzi pecuniari? Iddio, padrone su­premo di tutte le cose, provvederà i mezzi necessari affinché questo fanciullo possa camminare per quella carriera a cui lo chiama. «Se io fossi un uccello, diceva talvolta Domenico, vorrei volare mat­tina e sera a Castelnuovo e così continuare le mie scuole».

Il suo vivo desiderio di studiare gli fece superare ogni difficoltà e risolse di recarsi alla scuola municipale del paese, sebbene vi fosse la distanza di quasi due miglia. Ed ecco un fanciullo appena di dieci anni intraprendere un cammino di sei miglia al dì tra andata e ri­torno dalla scuola1. Talvolta vi è un vento molesto, un sole che cuoce, un fango, una pioggia che opprimono. Non importa, si tollerano tutti i disagi e si superano tutte le difficoltà; egli vi trova l’ubbidienza ai suoi genitori, un mezzo per imparare la scienza della salute, e questo basta per fargli tollerare con piacere ogni incomodo. Una persona alquanto attempata vedendo un giorno Domenico solo andare a scuola alle due pomeridiane mentre sferzava un cocente sole, quasi per sollevarlo gli si avvicinò e gli tenne questo discorso:

Caro mio, non hai timore a camminare tutto solo per queste strade?

Io non sono solo, ho l’angelo custode che mi accompagna in tutti i passi.

Almeno ti sarà penosa la strada per questo caldo, dovendola fare quattro volte al giorno!

Niente è penoso, niente è fatica quando si lavora per un pa­drone che paga molto bene.

Chi è questo padrone?

È Dio creatore che paga un bicchiere d’acqua dato per amor suo2.

Quella medesima persona raccontò questo episodio ad alcuni suoi amici, e finiva sempre il suo discorso dicendo: «Un giovinetto di così tenera età, che già nutrisce tali pensieri, farà certamente parlare di sé in quella carriera che sarà per intraprendere».

Nell’andare e venire da scuola egli corse un grave pericolo per l’anima a motivo di alcuni compagni.

Sogliono molti giovanetti nei caldi estivi andarsi a bagnare ora nei fossi, ora nei ruscelli, ora negli stagni e simili. Il trovarsi più fan­ciulli insieme, svestiti e talvolta in luoghi pubblici a bagnarsi, riesce cosa pericolosa per il corpo, a segno che noi dobbiamo pur troppo spesse volte lamentare annegamenti di ragazzi e di altre persone, che terminano la loro vita affogati nell’acqua; ma il pericolo è assai maggiore per l’anima. Quanti giovanetti deplorano la perdita della loro innocenza ripetendone la cagione dall’essere andati a bagnarsi con quei compagni in quei luoghi malaugurati!

Parecchi condiscepoli del Savio avevano l’abitudine di andarvi. Non paghi di andarvi eglino stessi, volevano condurre seco loro an­ch’esso ed erano riusciti a sedurlo una volta. Ma essendo stato avvertito che tal cosa era male, si mostrò profondamente addolorato; né fu mai possibile indurvelo di nuovo, anzi deplorò e pianse più volte il pericolo in cui si era messo riguardo all’anima e riguardo al corpo3. Tuttavia due compagni dei più disinvolti e ciarlieri gli diedero un nuovo assalto, parlando così:

Domenico vuoi venire con noi a fare una partita?

Che partita?

Una partita a nuotare?

Oh no! io non ci vado, non sono pratico, temo di morir nel­l’acqua.

Vieni, fa molto piacere. Quelli che vanno a nuotare non sentono più il caldo, hanno molto buon appetito, ed acquistano molta sanità.

Ma io temo di morire nell’acqua.

Oibò, non temere, noi t’insegneremo quanto è necessario; comincerai a vedere come facciamo noi, e poi farai tu altrettanto. Tu ci vedrai a camminare nell’acqua come pesci, e faremo salti da gigante.

Ma non è peccato l’andar in quei luoghi dove sono tanti pe­ricoli?4

Niente affatto; anzi ci vanno tutti.

L’andarvi tutti non dimostra che non sia peccato.

Se non vuoi tuffarti nell’acqua, comincerai a vedere gli altri.

Basta, io sono imbrogliato, e non so che dire5.

Vieni, vieni: sta’ sulla nostra parola: non c’è male, e noi ti libe­reremo da ogni pericolo.

Prima di fare quanto mi dite, voglio dimandare licenza a mia madre: se ella mi dice di sì ci andrò; altrimenti non ci vado.

Sta’ zitto, minchione; guardati bene dal dirlo a tua madre; essa non ti lascerà certamente venire, anzi lo dirà ai nostri genitori e ci faranno passare il caldo con buoni colpi di bacchetta6.

Oh! se mia madre non mi lascia andare, è segno che è cosa malfatta; perciò non ci vado; se poi volete che vi parli schiettamente, vi dirò che fui ingannato e vi andai una volta sola, ma non ci andrò mai più per l’avvenire; perché in tali luoghi havvi sempre pericolo o di morire nell’acqua, o di offendere altrimenti il Signore7. Né statemi più a parlarmi di nuoto; se tal cosa dispiace ai vo­stri genitori, voi non dovreste più farla; perché il Signore castiga quei figliuoli che fanno cose contrarie ai voleri del padre e della madre.

Così il nostro Domenico, dando una savia risposta a quei cattivi consiglieri, evitava un grave pericolo, in cui se si fosse precipitato, avrebbe forse perduto l’inestimabile tesoro dell’innocenza a cui ten­gono dietro mille tristi conseguenze.

15 CAPO V

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16 Sua condotta nella scuola di Castelnuovo d’Asti - Parole del suo maestro

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Nel frequentare questa scuola, egli cominciò ad imparare il modo di regolarsi coi suoi compagni. Se egli vedeva un compagno attento alla scuola, docile, rispettoso, che sapesse bene le lezioni, che facesse i suoi lavori, e che fosse lodato dal maestro, questi diveniva tosto l’amico di Domenico. Eravi un discolo, un insolente, che trascurasse i suoi doveri, parlasse male o bestemmiasse? Domenico lo fuggiva come la peste. Quelli poi che erano un po’ indolenti ei li salutava, loro rendeva qualche servizio, qualora ne fosse caso, ma non contraeva seco loro alcuna famigliarità.

La condotta da lui tenuta nella scuola di Castelnuovo d’Asti può servire di modello a qualsiasi giovane studente, che desideri progre­dire nella scienza e nella pietà. Su tal proposito io trascrivo la giudi­ziosa relazione scritta dal suo maestro D. Allora sac. Alessandro, tut­tora maestro comunale di questo capoluogo di mandamento1. Ec­cone il tenore:

«Molto mi compiaccio di esporre il mio giudicio intorno al gio­vinetto Savio Domenico che in breve tempo seppe acquistarsi tutta la mia benevolenza, sicché io l’ho amato colla tenerezza di un padre. Aderisco di buon grado a questo invito, perché conservo ancora viva, distinta e piena memoria del suo studio, della sua condotta e delle sue virtù.

Non posso dire molte cose della sua condotta religiosa, perché, dimorando assai distante dal paese era dispensato dalla congrega­zione, a cui se fosse intervenuto avrebbe certamente fatto risplendere la sua pietà e divozione.

Compiuti gli studi di 1 elementare in Morialdo, questo buon fanciullo chiese ed ottenne distintamente l’ammissione alla mia scuola di 2aa elementare, propriamente il 21 giugno 18522; giorno dagli sco­lari dedicato a S. Luigi, protettore della gioventù. Egli era di una complessione alquanto debole e gracile, di aspetto grave misto al dolce con un non so che di grande e piacevole. Era d’indole mitissima e dolcissima, di un umore sempre uguale. Aveva costantemente tale contegno nella scuola e fuori, in chiesa ed ovunque, che quando l’occhio, il pensiero od il parlare del maestro volgevasi a lui, vi lasciava la più bella e gioconda impressione. La qual cosa per un mae­stro si può chiamare uno dei cari compensi delle dure fatiche, che spesso gli tocca di sostenere indarno nella coltura di aridi e mal di­sposti animi di certi allievi. Laonde posso dire che egli fu Savio di nome e tale pur sempre si mostrò col fatto, vale a dire nello studio, nella pietà, nel conversare coi suoi compagni ed in ogni sua azione. Dal primo giorno che entrò nella mia scuola sino alla fine di quell’anno scolastico e nei quattro mesi dell’anno successivo ei progredì nello studio in modo straordinario. Egli si meritò costantemente il primo posto di suo periodo, e le altre onorificenze della scuola e quasi sempre tutti i voti di ciascuna materia, che di mano in mano si andava inse­gnando. Tal felice risultato nella scienza non è solo da attribuirsi all’ingegno non comune, di cui egli era fornito, ma eziandio al gran­dissimo suo amore allo studio ed alla sua virtù.

È poi degna di speciale ammirazione la diligenza con cui procu­rava di adempiere i più minuti doveri di scolaro cristiano e segnatamente l’assiduità e la costanza mirabile nella frequenza della scuola. Di modo che, debole quale egli fu sempre di salute, percorreva ogni giorno oltre 4 chilometri di strada, il che ripeteva pur quattro fiate tra l’andata ed il ritorno. E ciò faceva con maravigliosa tranquillità d’animo e serenità di aspetto anche sotto l’intemperie della stagione invernale, per crudo freddo, per pioggia o neve, cosa che non poteva a meno di essere riconosciuta dal proprio maestro per prova ed esem­pio di raro merito. Ammalando frattanto sì degno alunno nel corso dello stesso anno 1852-53, ed i parenti di lui mutando successiva­mente domicilio, fu cagione che con mio vero rincrescimento non ho più potuto continuare l’insegnamento ad un sì caro allievo, le cui sì grandi e bellissime speranze andavano scemando col crescere dei ti­mori, ch’io aveva che non potesse più proseguire gli studi per man­canza di salute o di mezzi di fortuna.

Mi riuscì poi di grande consolazione quando seppi che egli era stato accolto fra i giovani dell’Oratorio di S. Francesco di Sales, essendogli così aperta la via alla coltura del raro suo ingegno e della sua luminosa pietà» (fin qui il maestro di scuola)3.

17 CAPO VI

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18 Scuola di Mondonio (1) - Sopporta una grave calunnia

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Pare che la divina provvidenza abbia voluto far vedere a questo giovanetto che codesto mondo è un vero esilio ove andiamo di luogo in luogo pellegrinando2; o meglio abbia voluto che egli andasse a farsi conoscere in diversi paesi e così mostrarsi in più luoghi esimio spec­chio di virtù.

Sul finire dell’anno 1852 i genitori di Domenico da Morialdo an­darono a fissar la loro dimora in Mondonio3, che è un piccolo paese confinante con Castelnuovo. Egli continuò colà nel tenor di vita pra­ticato in Morialdo ed a Castelnuovo; perciò dovrei ripetere le cose che di lui scrissero gli antecedenti suoi maestri; giacché il signor D. Cugliero (4), che l’ebbe a scolaro, fa una relazione quasi simile. Io trascelgo da essa solamente alcuni fatti speciali, omettendo il rimanente per non fare ripetizioni.

«Io posso dire, egli scrive, che in venti anni da che attendo ad istruire i ragazzi non ne ebbi mai alcuno che abbia pareggiato il Savio nella pietà. Egli era giovane di età, ma assennato al pari di un uomo perfetto. La sua diligenza, assiduità allo studio, e l’affabilità si catti­vavano l’affetto del maestro e lo rendevano la delizia dei compagni. Quando lo rimirava in chiesa, io era compreso da alta meraviglia nel vedere tanto raccoglimento in un giovanetto di così tenera età. Più volte ho detto tra me stesso: Ecco un’anima innocente, cui si aprono le delizie del paradiso, e che coi suoi affetti va ad abitare cogli angeli del cielo».

Tra i fatti speciali il suo maestro annovera il seguente: «Un giorno fu fatta una mancanza tra i miei allievi, e la cosa era tale che il colpevole meritava l’espulsione dalla scuola. I delinquenti prevengono il colpo, e portandosi dal maestro si accordano di gettare tutta la colpa sopra il buon Domenico. Io non poteva crederlo capace di simile disordine; ma gli accusatori seppero dare tale colore di ve­rità alla calunnia che dovetti crederla. Entro adunque nella scuola giustamente sdegnato per il disordine avvenuto; parlo al colpevole in genere; poi mi volgo al Savio, e “Questo fallo, gli dico, bisognava che fosse commesso da te? non meriteresti di essere sull’istan­te cacciato dalla scuola? Buon per te che è la prima che mi fai di questo genere, altrimenti…, fa’ che sia pur l’ultima”. Domenico avrebbe potuto dire una parola sola in discolpa, e la sua in­nocenza sarebbe stata conosciuta. Ma egli si tacque: chinò il capo, e a guisa di chi è con ragione rimproverato, più non alzò gli occhi. Ma Dio protegge gl’innocenti, e il dì seguente furono scoperti i veri colpevoli e così palesata l’innocenza di Domenico. Pieno di rincrescimento pei rimproveri fatti al supposto colpevole, il presi da parte, e, “Domenico, gli dissi, perché non mi hai subito detto che tu eri innocente?”. Domenico rispose: “Perché quel tale essendo già col­pevole di altri falli sarebbe forse stato cacciato di scuola; dal canto mio sperava di essere perdonato, essendo la prima mancanza di cui era accusato nella scuola; d’altronde pensava anche al nostro Divin Salvatore, il quale fu ingiustamente calunniato”5. Tacqui allora, ma tutti ammirarono la pazienza del Savio, che aveva saputo render bene per male, disposto a tollerare anche un grave castigo a favore del medesimo calunniatore» (così D. Cugliero)6.

19 CAPO VII

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20 Prima conoscenza fatta di lui - Curiosi episodi in questa congiuntura

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Le cose che sono per raccontare posso esporle con maggior cor­redo di circostanze, perché sono quasi tutte avvenute sotto gli occhi miei, e per lo più alla presenza di una moltitudine di giovani che tutti vanno d’accordo nell’asserirle. Correva l’anno 1854 quando il nomi­nato D. Cugliero venne a parlarmi di un suo allievo per ingegno e per pietà degno di particolare riguardo. «Qui in sua casa, egli diceva, può avere giovani uguali, ma difficilmente avrà chi lo superi in talento e virtù. Ne faccia la prova e troverà un S. Luigi». Fummo intesi che me lo avrebbe mandato a Morialdo all’occasione che sono solito di trovarmi colà coi giovani di questa casa per far loro godere un po’ di campagna, e nel tempo stesso fare la novena e celebrare la solennità del Rosario di Maria Santissima.

Era il primo lunedì d’ottobre di buon mattino1, allorché vedo un fanciullo accompagnato da suo padre che si avvicinava per parlarmi. Il volto suo ilare, l’aria ridente, ma rispettosa, trassero verso di lui i miei sguardi.

Chi sei, gli dissi, onde vieni?

Io sono, rispose, Savio Domenico, di cui le ha parlato D. Cugliero mio maestro, e veniamo da Mondonio.

Allora lo chiamai da parte, e messici a ragionare dello studio fatto, del tenor di vita fino allora praticato, siamo tosto entrati in piena confidenza egli con me, io con lui.

Conobbi in quel giovane un animo tutto secondo lo spirito del Signore e rimasi non poco stupito considerando i lavori che la grazia divina aveva già operato in così tenera età.

Dopo un ragionamento alquanto prolungato, prima che io chia­massi il padre, mi disse queste precise parole: «Ebbene che gliene pare? mi condurrà a Torino per istudiare?».

Eh! mi pare che ci sia buona stoffa.

A che può servire questa stoffa?

A fare un bell’abito da regalare al Signore.

Dunque io sono la stoffa; ella ne sia il sarto; dunque mi prenda con lei e farà un bell’abito per il Signore.

Io temo che la tua gracilità non regga per lo studio.

Non tema questo; quel Signore che mi ha dato finora sanità e grazia, mi aiuterà anche per l’avvenire.

Ma quando tu abbia terminato lo studio del latino, che cosa vorrai fare?

Se il Signore mi concederà tanta grazia, desidero ardente­mente di abbracciare lo stato ecclesiastico.

Bene: ora voglio provare se hai bastante capacità per lo studio: prendi questo libretto (era un fascicolo delle Letture cattoliche), di quest’oggi studia questa pagina, domani ritornerai per recitarmela.

Ciò detto lo lasciai in libertà d’andarsi a trastullare con altri giovani, indi mi posi a parlare col padre. Passarono non più di otto minuti, quando ridendo si avanza Domenico e mi dice: «Se vuole, re­cito adesso la mia pagina». Presi il libro e con mia sorpresa conobbi che non solo aveva letteralmente studiato la pagina assegnata, ma che comprendeva benissimo il senso delle cose in essa contenute.

Bravo, gli dissi, tu hai anticipato lo studio della tua le­zione ed io anticipo la risposta. Sì, ti condurrò a Torino e fin d’ora sei annoverato tra i miei cari figliuoli, comincia anche tu fin d’ora a pregare Iddio, affinché aiuti me e te a fare la sua santa volontà.

Non sapendo egli come esprimere meglio la sua contentezza e la sua gratitudine, mi prese la mano, la strinse, la baciò più volte e infine disse: «Spero di regolarmi in modo che non abbia mai a la­mentarsi2 della mia condotta».

21 CAPO VIII

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22 Viene all’Oratorio di S. Francesco di Sales - Suo primo tenore di vita

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Egli è proprio dell’età volubile della gioventù di cangiar sovente proposito intorno a quello che si vuole; perciò non di rado avviene che oggi si delibera una cosa, dimani un’altra; oggi una virtù prati­cata in grado eminente, domani l’opposto; e qui se non havvi chi vegli attento, spesso va a terminare con mal esito un’educazione che forse poteva riuscire delle più fortunate. Del nostro Domenico non fu così. Tutte quelle virtù, che noi abbiamo veduto nascere e crescere nei vari stadi di sua vita, crebbero ognora maravigliosamente e crebbero insieme senza che una fosse di nocumento all’altra.

Venuto nella casa dell’Oratorio, si recò in mia camera per darsi, come egli diceva, interamente nelle mani dei suoi superiori1. Il suo sguardo si portò subito su di un cartello, sopra cui a grossi caratteri sono scritte le seguenti parole che soleva ripetere S. Francesco di Sales: Da mihi animas, coetera tolle2. Fecesi a leggere attentamente, ed io desiderava che ne capisse il significato. Perciò l’invitai, anzi l’aiutai a tradurle e cavar questo senso: O Signore, datemi anime, e prendetevi tutte le altre cose. Egli pensò un momento e poi soggiunse: «Ho capito; qui non havvi negozio di danaro, ma negozio di anime, ho capito; spero che l’anima mia farà anche parte di questo commercio».

Il suo tenor di vita per qualche tempo fu tutto ordinario; né altro in esso ammiravasi che un’esatta osservanza delle regole della casa3. Si applicò con impegno allo studio. Attendeva con ardore a tutti i suoi doveri. Ascoltava con delizia le prediche. Aveva radicato nel cuore che la parola di Dio è la guida dell’uomo per la strada del cielo; quindi ogni massima udita in una predica era per lui un ricordo inva­riabile che più non dimenticava.

Ogni discorso morale, ogni catechismo, ogni predica quantunque prolungata era sempre per lui una delizia. Udendo qualche cosa che non avesse ben inteso, tosto facevasi a dimandarne la spiegazione. Di qui ebbe cominciamento quell’esemplare tenor di vita, quel continuo progredire di virtù in virtù, quella esat­tezza nell’adempimento dei suoi doveri, oltre cui difficilmente si può andare.

Per essere ammaestrato intorno alle regole e disciplina della casa, egli con bel garbo procurava di avvicinarsi a qualcheduno dei suoi superiori4; lo interrogava, gli dimandava lumi e consigli, suppli­cando di volerlo con bontà avvisare ogni volta che lo vedesse trasgre­dire i suoi doveri. Né era meno commendevole il contegno che egli serbava coi suoi compagni. Vedeva egli taluno dissipato, negli­gente nei proprii doveri, o trascurato nella pietà? Domenico lo fug­giva. Eravi un compagno esemplare, studioso, diligente, lodato dal maestro? Costui diveniva tosto amico e famigliare di Domenico5.

Avvicinandosi la festa dell’Immacolata Concezione di Maria, il direttore diceva tutte le sere qualche parola d’incoraggiamento ai giovani della casa, affinché ciascuno si desse sollecitudine a cele­brarla in modo degno della gran madre di Dio, ma insistette spe­cialmente a voler chiedere a questa celeste protettrice quelle grazie di cui ciascuno avesse conosciuto maggior bisogno.

Correva l’anno 1854 in cui i cristiani di tutto il mondo erano in una specie di spirituale agitazione perché trattavasi a Roma della definizione dogmatica dell’immacolato concepimento di Maria6. An­che tra di noi si faceva quanto la nostra condizione comportava per celebrare quella solennità con decoro e con frutto spirituale dei nostri giovani.

Il Savio era uno di quelli che sentivansi ardere dal desiderio di celebrarla santamente. Scrisse egli nove fioretti, ovvero nove atti di virtù da praticarsi estraendone a sorte uno per giorno. Si preparò e fece con piacere dell’animo suo la confessione generale, e si accostò ai santi sacramenti col massimo raccoglimento.

La sera di quel giorno, 8 dicembre, compiute le sacre funzioni di chiesa, col consiglio del confessore, Domenico andò avanti l’altare di Maria, rinnovò le promesse fatte nella prima comunione, di poi disse più e più volte queste precise parole: «Maria, vi dono il mio cuore; fate che sia sempre vostro. Gesù e Maria, siate voi sempre gli amici miei! ma per pietà, fatemi morir piuttosto che mi accada la disgrazia di commettere un solo peccato».

Presa così Maria per sostegno della sua divozione, la morale di lui condotta apparve così edificante e congiunta a tali atti di virtù che ho cominciato fin d’allora a notarli per non dimenticarmene.

Giunto a questo punto a descrivere le azioni del giovane Savio, io mi veggo davanti un complesso di fatti e di virtù che meritano speciale attenzione e in chi scrive ed in chi legge. Onde per maggior chiarezza giudico bene di esporre le cose non secondo l’ordine dei tempi, ma secondo l’analogia dei fatti che hanno tra di loro special relazione od hanno rapporto colla medesima materia. Dividerò per­tanto le cose in altrettanti capitoli, cominciando dallo studio del la­tino, che fu motivo principale per cui venne e fu accolto in questa casa di Valdocco7.

23 CAPO IX

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24 Studio di latinità - Curiosi incidenti - Contegno nella scuola - Impedisce una rissa - Evita un pericolo

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Egli aveva studiato i principii di latinità a Mondonio; e perciò colla sua grande assiduità nello studio e colla non ordinaria sua capa­cità ottenne in breve di essere classificato nella quarta, o come di­ciamo oggidì, nella seconda grammatica latina1. Fece egli questo corso presso il pio e caritatevole2 professore Bonzanino Giuseppe; imperciocché allora non erano ancora stabilite le scuole ginnasiali nella casa dell’Oratorio, come sono presentemente3. Io dovrei anche qui esprimere il suo contegno, profitto e la sua esemplarità colle stesse parole degl’antecedenti suoi maestri. Laonde esporrò solamente alcune cose che in quest’anno di latinità e nei due susseguenti furono notate con particolare ammirazione4 da coloro che lo conobbero. Il professore Bonzanino ebbe più volte a dire che non ricordavasi di aver avuto alcuno più attento, più docile, più rispettoso, quale era il giovane Savio5. Egli compariva modello in tutte le cose. Nel vestito e nella capigliatura non era punto ricercato; ma in quella modestia di abiti e nella umile sua condizione egli appariva pulito, ben educato, cortese, in guisa che i suoi compagni di civile ed anche di nobile con­dizione, i quali in buon numero intervenivano alla detta scuola, go­devano assai di potersi trattenere con Domenico non solo per la scienza e pietà, ma anche per le sue civili e piacevoli maniere di trattare. Se poi fosse avvenuto al professore di ravvisare qualche scolaro un po’ ciarliero, mettevagli Domenico ai fianchi, ed egli con destrezza stu­diavasi di indurlo al silenzio, allo studio, all’adempimento dei suoi doveri.

Egli è nel decorso di quest’anno, che la vita di Domenico ci som­ministra un fatto che ha dell’eroismo, e che è appena credibile in quella giovanile sua età. Esso riguarda a due suoi compagni di scuola che vennero tra di loro ad una rissa pericolosa. Il litigio cominciò da alcune parole dettesi scambievolmente in dispregio della loro famiglia. Dopo alcuni insulti si dissero villanie e si sfidarono a far valere le loro ragioni a colpi di pietra. Domenico giunse a scoprire quella discordia; ma come impedirla, essendo i due rivali maggiori di forze e di età? Si provò di persuaderli a desistere da quel progetto facendo ad ambi­due osservare che la vendetta è contraria alla ragione ed alla santa legge di Dio; scrisse lettere all’uno e all’altro; li minacciò di riferire la cosa al professore ed anche ai loro parenti; ma tutto invano, i loro animi erano così inaspriti, che tornava inutile ogni parola. Oltre il pericolo di farsi grave male alla persona, commettevasi grande of­fesa contro Dio. Domenico era oltre modo crucciato, desiderava di opporsi e non sapeva come. Dio lo inspirò di fare così. Li attese dopo la scuola, e come poté parlare ad ambidue da parte, disse: «Poiché persistete nel bestiale vostro divisamento, vi prego almeno di voler accet­tare una condizione». «L’accettiamo, risposero, purché non impedisca la nostra sfida». «Egli è un birbante», replicò tosto un di loro. «Ed io non sarò in pace con lui, soggiungeva l’altro, finché egli od io non abbiamo rotta la testa». Savio tremava a quel brutale diverbio, tuttavia, nel desi­derio d’impedire maggior male, si frenò e disse: «La condizione che sono per mettervi non impedisce la sfida».

Qual è questa condizione?

Vorrei soltanto dirvela al luogo dove volete misurarvi a sas­sate.

Tu ci minchioni, o studierai di metterci qualche incaglio.

Sarò con voi, e non vi minchionerò; state tranquilli.

Forse tu vorrai andare a chiamare qualcheduno.

Dovrei farlo, ma non lo farò; andiamo, io sarò con voi. Mante­netemi soltanto la parola.

Glielo promisero; andarono nei così detti prati della Cittadella fuori di Porta Susa (6).

Tanto era l’odio dei due contendenti che a stento il Savio poté impedire che non venissero alle mani nel breve tratto di strada che era a farsi.

Giunti al luogo stabilito, il Savio fece una cosa che certamente niuno sarebbesi immaginato. Lasciò che si ponessero in una certa distanza; già avevano le pietre in mano, cinque caduno, quando Do­menico parlò così: «Prima di effettuare la vostra sfida voglio che adem­piate la condizione accettata». Ciò dicendo trasse fuori il piccolo crocifisso, che aveva al collo, e tenendolo in una mano, «voglio, disse, che ciascheduno fissi lo sguardo in questo crocifisso, di poi, gettando una pietra contro di me, pronunzi a chiara voce queste parole: Gesù Cristo innocente morì perdonando ai suoi crocifissori7, io peccatore voglio offenderlo e far una solenne vendetta».

Ciò detto andò ad inginocchiarsi davanti a colui che mostravasi più infuriato dicendo: «Fa’ il primo colpo sopra di me: tira una forte sassata sul mio capo». Costui, che non si aspettava simile proposta, cominciò a tremare. «No, disse, e mai no. Io non ho alcuna cosa contro di te e vorrei difenderti, se qualcuno ti volesse oltraggiare».

Domenico, ciò udito, corse dall’altro dicendo le stesse parole. Egli pure ne fu sconcertato, e tremando diceva, che essendo egli suo amico, non gli avrebbe mai fatto alcun male.

Allora Domenico si rizzò in piedi, e prendendo un aspetto serio e commosso: «Come, loro disse, voi siete ambedue disposti ad affron­tare anche un grave pericolo per difendere me, che sono una misera­bile creatura, e non siete capaci di perdonarvi un insulto ed una de­risione fattavi nella scuola per salvare l’anima vostra, che costò il sangue del Salvatore, e che voi andate a perdere con questo peccato?». Ciò detto si tacque, tenendo sempre il crocifisso alto colla mano.

A tale spettacolo di carità e di coraggio i compagni furono vinti. «In quel momento, asserisce uno di loro, io fui intenerito; un freddo mi corse per le membra, e mi sentii pieno di vergogna per aver co­stretto un amico sì buono, come era Savio, ad usare misure estreme per impedire l’empio nostro divisamento. Volendogli almeno dare un segno di compiacenza perdonai di cuore a chi mi aveva offeso, e pregai Domenico di suggerirmi qualche paziente e caritatevole sacerdote per andarmi a confessare. Egli mi appagò; ed alcuni giorni dopo andai col mio rivale a fare la confessione. In questa guisa dopo di essermi novellamente fatto suo amico fui riconciliato col Signore, che coll’odio e col desiderio di vendetta aveva di certo gravemente offeso».

Esempio è questo ben degno di essere imitato da ogni giovane cristiano qualora gli avvenga di vedere il suo simile in atto di far ven­detta, od essere da altri in qualche maniera offeso, oppure ingiuriato.

Quello poi che in questo fatto onora singolarmente la condotta e la carità del Savio si è il silenzio in cui seppe tenere quanto era accaduto. Ed ogni cosa sarebbe stata totalmente ignorata, se coloro stessi, che vi ebbero parte, non l’avessero ripetutamente raccontata.

L’andata poi ed il ritorno da scuola, che è tanto pericoloso pei giovanetti che dai villaggi vengono nelle grandi città, per il nostro Do­menico fu un vero esercizio di virtù. Costante nell’eseguire gli ordi­ni dei suoi superiori, andava a scuola, ritornava a casa senza neppur dare un’occhiata, o porre ascolto a cosa che ad un giovane cristiano non convenisse. Se avesse veduto alcuno a fermarsi, correre, saltel­lare, tirar pietre, o andar a passar in luoghi non permessi, egli tosto da costui si allontanava. Che anzi un giorno fu invitato ad andare a far una passeggiata senza permesso; un’altra volta venne consigliato ad omettere la scuola per andarsi a divertire, ma egli seppe sempre rispondere con un rifiuto. «Il mio divertimento più bello, loro rispon­deva, è l’adempimento dei miei doveri: e se voi siete veri amici, do­vete consigliarmi ad adempirli con esattezza e non mai a trasgredirli». Nulladimeno ebbe la sventura di aver alcuni compagni che lo mole­starono a segno, che il Savio si trovò sul punto di cadere nei loro lacci. E già risolvevasi di andare con loro e così per quel giorno tralasciare la scuola. Ma fatto breve tratto di cammino si accorse che seguiva un cattivo consiglio, ne provò gran rimorso, chiamò i tristi consi­glieri, e loro disse: «Miei cari, il dovere m’impone di andare a scuola ed io vi voglio andare: noi facciamo cosa che dispiace a Dio ed ai nostri superiori. Sono pentito di quello che ho fatto; se mi darete altra volta somiglianti consigli, voi cesserete di essere miei amici».

Quei giovani accolsero l’avviso del loro amico; andarono seco lui a scuola, e per l’avvenire non cercarono più di distoglierlo dai suoi doveri. Nel fine dell’anno, mediante la sua buona condotta e la sua costante sollecitudine allo studio, meritò di essere promosso fra gli ottimi alla classe superiore. Ma sul principio del terzo anno di gram­matica la sanità di Domenico apparendo alquanto deteriorata, si giu­dicò bene di lasciargli fare il corso privato qui nella casa dell’Ora­torio a fine di potergli usare i dovuti riguardi nel riposo, nello studio e nella ricreazione.

L’anno di umanità o di 1 retorica sembrando meglio in salute, fu mandato dal benemerito signor professore D. Picco Matteoa. Esso aveva già più volte udito a parlare delle belle doti che adornavano il Savio, sicché di buon grado l’accolse gratuitamente nella sua scuola che passava fra le migliori approvate in questa nostra città8.

Molte sono le cose edificanti o dette o fatte dal Savio nell’anno di terza grammatica e di prima retorica; e noi le andremo esponendo di mano in mano che racconteremo i fatti che con quelle sono col­legati.

25 CAPO X

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26 Sua deliberazione di farsi santo

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Dato così un cenno sullo studio fatto nelle classi di latinità, par­leremo ora della grande sua deliberazione di farsi santo.

Erano sei mesi da che il Savio dimorava all’Oratorio quando fu ivi fatta una predica sul modo facile di farsi santo. Il predicatore si fermò specialmente a sviluppare tre pensieri che fecero profonda impressione sull’animo di Domenico, vale a dire: è volontà di Dio che ci facciamo tutti santi1; è assai facile di riuscirvi; è un gran premio preparato in cielo a chi si fa santo. Quella predica per Domenico fu come una scintilla che gl’infiammò tutto il cuore d’amore di Dio. Per qualche giorno disse nulla, ma era meno allegro del solito, sicché se ne accorsero i compagni e me ne accorsi anch’io. Giudicando che ciò provenisse da novello incomodo di sanità, gli chiesi se pativa qualche male. «Anzi, mi rispose, patisco qualche bene». «Che vorresti dire?». «Voglio dire che mi sento un desiderio ed un bisogno di farmi santo: io non pensava di potermi far santo con tanta facilità; ma ora che ho capito potersi ciò effettuare anche stando allegro, io voglio assoluta­mente, ed ho assolutamente bisogno di farmi santo. Mi dica adunque come debbo regolarmi per incominciare tale impresa».

Io lodai il proposito, ma lo esortai a non inquietarsi, perché nelle commozioni dell’animo non si conosce la voce del Signore; che anzi io voleva per prima cosa una costante e moderata allegria: e consi­gliandolo ad essere perseverante nell’adempimento dei suoi doveri di pietà e di studio, gli raccomandai che non mancasse di prendere sempre parte alla ricreazione coi suoi compagni.

Un giorno gli dissi di volergli fare un regalo di suo gusto; ma esser mio volere che la scelta fosse fatta da lui. «Il regalo che domando, prontamente egli soggiunse, è che mi faccia santo. Io mi voglio dare tutto al Signore, per sempre al Signore2, e sento un bisogno di farmi santo, e se non mi fo santo io fo niente. Iddio mi vuole santo, ed io debbo farmi tale».

In una congiuntura il direttore voleva dare un segno di speciale affetto ai giovani della casa e fece loro facoltà di chiedere con un bi­glietto qualunque cosa fosse a lui possibile, promettendo che l’avrebbe concessa. Quivi può ognuno facilmente immaginarsi le ridicole e le stravaganti dimande fatte dagli uni e dagli altri. Il Savio, preso un pezzetto di carta, scrisse queste sole parole: «Dimando che mi salvi l’anima3 e mi faccia santo».

Un giorno si andavano spiegando alcune parole secondo la etimo­logia. «E Domenico, egli disse, che cosa vuol dire?». Fu risposto: «Do­menico vuol dire del Signore». «Veda, tosto soggiunse, se non ho ragione di chiederle che mi faccia santo: fino il nome dice che io sono del Signore. Dunque io debbo e voglio essere tutto del Signore e voglio farmi santo e sarò infelice finché non sarò santo».

La smania che egli dimostrava di volersi fare santo non derivava dal non tenere una vita veramente da santo, ma ciò diceva, perché egli voleva far rigide penitenze, passar lunghe ore nella preghiera, le quali cose erangli dal direttore proibite, perché non compatibili colla sua età e sanità e colle sue occupazioni.

27 CAPO XI

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28 Suo zelo per la salute delle anime

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La prima cosa che gli venne consigliata per farsi santo fu di ado­perarsi per guadagnar anime a Dio; perciocché non havvi cosa più santa al mondo che cooperare al bene delle anime, per la cui salvezza Gesù Cristo sparse fin l’ultima goccia del prezioso suo sangue1. Co­nobbe Domenico l’importanza di tale pratica, e fu più volte udito a dire: «Se io potessi guadagnare a Dio tutti i miei compagni, quanto sarei felice!». Intanto non lasciava sfuggire alcuna occasione per dare buoni consigli, avvisar chi avesse detto o fatto cosa contraria alla santa legge di Dio.

La cosa che gli cagionava grande orrore e che recava non piccolo danno alla sua sanità, era la bestemmia, o l’udir nominare il santo nome di Dio invano. Se mai nelle vie della città o altrove gli fosse accaduto di udire alcuna di somiglianti parole, egli tosto abbas­sava dolente il capo, e diceva con cuor divoto: «Sia lodato Gesù Cristo»2.

Passando un giorno per mezzo ad una piazza della città, un com­pagno lo vide a togliersi il cappello e proferire sotto voce alcune parole: «Che fai? gli disse, che dici?». «Non hai udito?, Domenico ri­spose, quel carrettiere nominò il santo nome di Dio invano. Se avessi creduto utile sarei corso ad avvisarlo di non farlo mai più: ma temendo di fargli dire cose peggiori, mi limito a togliermi il cappello e dire: Sia lodato Gesù Cristo. E questo con animo di riparare qualche poco l’ingiuria fatta al santo nome del Signore».

Il compagno ammirò la condotta ed il coraggio di Domenico, e va tuttora con piacere raccontando tale episodio ad onore dell’amico e ad edificazione dei compagni.

Nel ritornare dalla scuola una volta udì un cotale di età alquanto avanzata che proferì un’orribile bestemmia. Il nostro Domenico tremò all’udirla; lodò Dio in cuor suo, dipoi fece una cosa certamente ammirabile. Con aria la più rispettosa corse verso l’incauto bestem­miatore e gli domandò se sapeva indicargli la casa dell’Oratorio di S. Francesco di Sales. A quell’aria di paradiso, l’altro depose quella specie di ferocia, e «Non so, caro ragazzino, mi rincresce».

Oh! se non sapete questo, voi potreste farmi un altro piacere.

Dimmelo pure, volentieri.

Domenico gli si avvicinò quanto poté all’orecchio, e piano che altri non capisse, «Voi, soggiunse, mi farete un gran piacere se nella vostra collera direte altre parole senza bestemmiare il santo nome di Dio».

Bravo, disse l’altro, pieno di stupore e di ammirazione; bene, hai ragione: è questo un vizio maledetto che voglio vincere a qualunque costo3.

Un giorno avvenne che un fanciullo di forse nove anni si pose ad altercare con un compagno in vicinanza della porta della casa, e nella rissa proferì l’adorabile nome di Gesù Cristo. Domenico a tale parola, sebbene sentisse un giusto sdegno in cuor suo, tuttavia con animo pacato s’intromise tra i due contendenti e li acquetò; poi disse a chi aveva nominato il nome di Dio invano: «Vieni meco e sarai contento». I suoi bei modi indussero il fanciullo ad accondiscendere. Lo prese per mano, lo condusse in chiesa avanti all’altare, di poi lo fece inginocchiare vicino a lui dicendogli: «Dimanda al Signore perdono dell’offesa che gli hai fatta col nominarlo invano». E poiché il ragazzo non sapeva l’atto di contrizione, lo recitò egli seco lui. Dopo soggiunse: «Di’ con me queste parole per riparare l’ingiuria fatta a Gesù Cristo: Sia lodato Gesù Cristo, e il suo santo e adorabile nome sia sempre lodato».

Leggeva di preferenza la vita di quei santi che avevano lavorato in modo speciale per la salute delle anime. Parlava volentieri dei mis­sionari, che faticano tanto in lontani paesi per il bene delle anime, e non potendo mandar loro soccorsi materiali, offeriva ogni giorno al Signore qualche preghiera, e almeno una volta alla settimana faceva per loro la santa comunione.

Più volte l’ho udito esclamare: «Quante anime aspettano il nostro aiuto nell’Inghilterra: oh, se avessi forza e virtù vorrei andarvi sul momento, e colle prediche e col buon esempio vorrei guadagnarle tutte al Signore»4. Si lagnava spesso con sé medesimo, e spesso ne parlava ai compagni del poco zelo che molti hanno per istruire i fanciulli nelle verità della fede. «Appena sarò chierico, diceva, voglio andare a Mondonio, e voglio radunare tutti i fanciulli sotto di una tettoia e voglio far loro il catechismo, raccontare tanti esempi e farli tutti santi. Quanti poveri fanciulli forse andranno alla perdizione per mancanza di chi li istruisca nella fede!». Ciò che diceva con parole lo confermava coi fatti, poiché per quanto comportava la sua età ed istruzione faceva con piacere il catechismo nella chiesa dell’Oratorio, e se qualcheduno ne avesse avuto bisogno, gli faceva scuola e lo am­maestrava nel catechismo a qualunque ora del giorno ed in qualunque giorno della settimana, ad unico scopo di poter parlare di cose spiri­tuali e far loro conoscere l’importanza di salvar l’anima.

Un giorno un compagno indiscreto voleva interromperlo mentre raccontava un esempio in tempo di ricreazione. «Che te ne fa di queste cose?» gli disse. «Che me ne fa?, rispose, me ne fa perché l’anima dei miei compagni è redenta col sangue di Gesù Cristo; me ne fa perché siamo tutti fratelli e come tali dobbiamo amare vicendevolmente l’anima nostra; me ne fa perché Iddio raccomanda di aiutarci l’un l’altro a salvarci; me ne fa perché se riesco a salvare un anima, met­terò anche in sicuro la salvezza della mia».

Né questa sollecitudine per il bene delle anime in Domenico si rallentava nel breve tempo di vacanza, che passava nella casa paterna. Ogni immagine, medaglia, crocifisso, libretto od altro oggetto che egli si fosse guadagnato nella scuola o nel catechismo mettevalo da parte per servirsene quando fosse in vacanza. Anzi prima di par­tire dall’Oratorio soleva fare speciale dimanda ai suoi superiori, che gli volessero dare simili oggetti per far stare allegri, come egli diceva, i suoi amici di ricreazione. Giunto appena in patria, vedevasi tosto circondato da fanciulli suoi pari, più piccoli, ed anche più grandi, che provavano un vero piacere trattenendosi con lui. Egli poi distribuendo i suoi regali a tempo opportuno, eccitavali a star attenti alle dimande, che loro fa­ceva ora sul catechismo ora sui loro doveri.

Con questi bei modi riusciva a condurne parecchi con lui al cate­chismo, alla preghiera, alla messa e ad altre pratiche di pietà.

Sono assicurato che egli impiegò non poco tempo per istruire un compagno. «Se giungerai, dicevagli, a far bene il segno della santa croce, ti fo dono d’una medaglia, di poi ti raccomanderò ad un prete che ti doni un bel libro. Ma vorrei che fosse ben fatto, e che dicendo le parole colla bocca, la mano destra partisse dalla fronte, si portasse al petto, indi andasse a toccar bene la spalla sinistra, poscia la destra e terminasse col giungere veramente le mani dicendo: Così sia». Egli desiderava ardentemente che questo segno di nostra redenzione fosse ben fatto, ed egli stesso facevalo più volte alla loro presenza, invi­tando gli altri a fare altrettanto5.

Oltre l’esattezza nell’adempimento d’ogni più minuto suo dovere, egli prendevasi cura poi di due fratellini, cui insegnava a leggere, scrivere, recitare il catechismo e li assisteva nella preghiera del mat­tino e della sera. Li conduceva in chiesa, porgeva loro l’acqua bene­detta, mostrava loro il vero modo di far il segno della santa croce. Il medesimo tempo che avrebbe passato qua e là trastullandosi, egli lo passava raccontando esempi ai parenti, o ad altri compagni che l’avessero voluto ascoltare. Anche in patria era solito a fare ogni giorno una visita al santissimo Sacramento; ed era per lui un vero guadagno quando poteva indurre qualche compagno ad andargli a tenere com­pagnia. Onde si può dire che non presentavasi a lui occasione di far opera buona, di dare un buon consiglio, che tendesse al bene del­l’anima, che egli la lasciasse sfuggire.

29 CAPO XII

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30 Episodi e belle maniere di conversare coi compagni

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Il pensiero di guadagnar anime a Dio lo accompagnava ovunque. In tempo libero era l’anima della ricreazione; ma quanto diceva o faceva tendeva sempre al bene morale o di sé o di altri. Aveva ognor presente quei bei principii di educazione, di non interrompere gli altri quando parlano. Se per altro i compagni facevano silenzio, egli tosto metteva fuori questioni di scuola, di storia, di aritmetica, ed aveva sempre alla mano mille storielle, che rendevano amabile la sua compagnia. Se mai taluno avesse rivolto il discorso intorno a cose che fossero mormorazioni o simili, egli lo interrompeva e metteva fuori qualche facezia od anche una favola o altra cosa per far ridere, e intanto distoglieva il discorso dalla mormorazione ed impediva l’offesa di Dio trai suoi compagni.

La sua aria allegra, l’indole vivace lo rendevano caro anche ai compagni meno amanti della pietà, per modo che ognuno godeva di potersi trattenere con lui, e prendevano in buona parte quegli avvisi che di quando in quando suggeriva.

Un giorno un suo compagno desiderava andarsi a mascherare, ed egli non voleva. «Saresti contento, gli diceva, di divenir realmente quale vuoi vestirti, con due corna sulla fronte, con un naso lungo un palmo, con un abito da ciarlatano?». «Mai no, rispose l’altro». «Dunque, soggiunse Domenico, se non desideri avere questo sembiante, perché vuoi comparir tale e deturpare le belle fattezze che Dio ti ha donato?».

Una volta in tempo di ricreazione accadde che un uomo si avanzò in mezzo ai giovani che si divertivano; e voltosi ad uno di loro si mise a discorrere, ma con voce alta che tutti i circostanti po­tevano udire. L’astuto, onde trarli vicino a sé, da principio si diede a raccontare cose strane per far ridere. I giovani tratti dalla curiosità in breve gli furono attorno affollati, e attenti pendevano dal suo labbro nell’udire quelle stranezze. Appena si vide così circondato, fece cadere il discorso su cose di religione, e, come suol fare tal sorta di gente, gettava giù degli strafalcioni da far inorridire, mettendo in burla le cose più sante e screditando tutte quante le persone ecclesia­stiche. Alcuni degli astanti, non potendo soffrire tali empietà e non osando opporsegli, si contentarono di ritirarsi. Un buon numero in­cautamente continuava ad ascoltarlo. Intanto per caso sopraggiunse il Savio. Appena poté conoscere di che genere fosse quel discorso, rotto ogni rispetto umano, subito si rivolse ai compagni: «Andiamocene, disse, lasciamo solo quest’infelice; egli ci vuol rubare l’anima». I giovani ubbidienti alla voce di un sì amabile e virtuoso compagno, tutti quanti si allontanarono prontamente da quell’inviato del demo­nio. Questi vedutosi così da tutti abbandonato, se ne partì senza più lasciarsi vedere1.

Altra volta alcuni volevano andarsi a bagnare, la qual cosa, se è altrove pericolosa, lo è assai più nel circondario di Torino, ove, senza parlare dei pericoli d’immoralità, trovansi acque sì profonde ed impetuose, che2 spesso i giovani restano vittima infelice del nuoto. Se ne accorse Domenico, e cercava di trattenersi con loro raccontando or questa, or quell’altra novità. Ma quando li vide decisi di volersene assolutamente andare, allora si pose a parlare risoluto:

No, disse, io non voglio che andiate.

Noi non facciamo alcun male.

Voi disubbidite ai vostri superiori3, voi vi esponete al pericolo di dare o ricevere scandalo, e di rimaner morti nell’acqua, e questo non è male?

Ma noi abbiamo un caldo che non ne possiamo più.

Se non potete più tollerare il caldo di questo mondo, potrete poi tollerare il caldo terribile dell’inferno, che voi vi andate a me­ritare?

Mossi da queste parole cangiarono divisamento e si posero seco lui a fare ricreazione, e all’ora dovuta andarono in chiesa per assi­stere alle sacre funzioni.

Alcuni altri giovani dell’Oratorio amanti del bene dei loro com­pagni si unirono in una specie di società per darsi alla conversione dei discoli. Savio vi apparteneva ed era dei più zelanti. Se avesse avuto un confetto, un frutto, una croce, un’immagine o simili, la riserbava per questo scopo. «Chi lo vuole, chi lo vuole», andava dicendo. «Io, io», da tutti si gridava correndo verso di lui. «Adagio, egli diceva, voglio darlo a chi meglio mi risponderà ad una domanda di catechismo». Intanto egli interrogava solo i più discoli, ed appena essi davano ri­sposta alquanto soddisfacente faceva loro quel piccolo regalo.

Altri poi erano guadagnati in altre maniere: li prendeva, li invi­tava a passeggiare con lui, li faceva discorrere, se occorreva, giocava con loro. Fu talvolta veduto con un grosso bastone sulle spalle che sembrava Ercole colla clava, giocare alla rana, volgarmente cirimella, e mostrarsi perdutamente affezionato a quel giuoco4. Ma ad un tratto sospendeva la partita e diceva al compagno: «Vuoi che sabato ci an­diamo a confessare?». L’altro per la distanza del tempo e per ripigliare presto la partita e anche per compiacerlo rispondeva di sì. Domenico ne aveva abbastanza e continuava il giuoco. Ma non lo perdeva più di vista: ogni giorno o per un motivo o per l’altro gli richiamava sempre quel alla memoria, e gli andava insinuando il modo di confessarsi bene. Venuto il sabato, qual cacciatore che ha colto buona preda, l’accom­pagnava in chiesa, lo precedeva nel confessarsi, per lo più ne preve­niva il confessore, si tratteneva seco dopo a fare il ringraziamento. Questi fatti, che pur erano frequenti, tornavano a lui della più grande consolazione e di grande vantaggio ai compagni; perciocché spesso avveniva che taluno non riportasse alcun frutto da una predica udita in chiesa, mentre arrendevasi alle pie insinuazioni di Domenico.

Avveniva qualche volta che taluno il lusingava tutta la settimana e poi al sabato non lasciavasi più vedere per l’ora di confessarsi. Come poi lo vedeva di nuovo, quasi scherzando gli diceva: «Eh! biri­chino! me l’hai fatta». «Ma vedi, dicea l’altro, non era disposto, non mi sentiva...». «Poverino, soggiungeva Domenico, hai ceduto al demonio che era assai ben disposto a riceverti; ma ora ancor più sei indi­sposto, anzi ti vedo tutto di mal umore. Orsù fa’ la prova di andarti a confessare, fa’ uno sforzo e procura di confessarti bene e vedrai di quanta gioia sarà ripieno il tuo cuore». Per lo più dopo che quel tale erasi confessato andava tosto da Domenico col cuore pieno di conten­tezza: «È vero, diceva, sono veramente contento; per l’avvenire voglio andarmi a confessare più sovente».

Nelle comunità di giovani sogliono esservene alcuni che o per essere alquanto rozzi, ignoranti, meno educati o crucciati da qualche dispiacere, sono per lo più lasciati da parte dai loro compagni. Co­storo soffrono il peso dell’abbandono, quando avrebbero maggior bisogno del conforto di un amico.

Questi erano gli amici di Domenico5. Loro si avvicinava, li ricreava con qualche buon discorso, loro dava buoni consigli; quindi spesso è avvenuto che giovani, decisi di darsi in preda al disordine, animati dalle caritatevoli parole del Savio, ritornavano a buoni sentimenti.

Per questo motivo tutti quelli che avevano qualche incomodo di salute dimandavano Domenico per infermiere, e quelli che avevano delle pene provavano conforto esponendole a lui. In questa guisa egli aveva la strada aperta ad esercitare continuamente la carità verso il prossimo ed accrescersi merito davanti a Dio.

31 CAPO XIII

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32 Suo spirito di preghiera - Divozione verso la Madre di Dio - Il mese di Maria

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Fra i doni, di cui Dio lo arricchì, era eminente quello del fer­vore nella preghiera. Il suo spirito era così abituato a conversare con Dio, che in qualsiasi luogo, anche in mezzo ai più clamorosi tram­busti, raccoglieva i suoi pensieri e con pii affetti sollevava il cuore a Dio.

Quando poi si metteva a pregare in comune pareva veramente un angioletto: immobile e composto a divozione in tutta la persona, senza appoggiarsi altrove, fuorché sopra le ginocchia, colla faccia ridente, col capo alquanto chino, cogli occhi bassi; l’avresti detto un altro S. Luigi.

Bastava vederlo per esserne edificati. L’anno 1854 fu eletto il signor conte Cays priore della compagnia di S. Luigi, eretta in quest’Oratorio1. La prima volta che prese parte alle nostre funzioni vide egli un giovanetto che pregava con atteggiamento così divoto, che ne fu pieno di stupore. Terminate le sacre funzioni volle infor­marsi e sapere chi fosse quel fanciullo che era stato il soggetto della sua ammirazione: quel fanciullo era Domenico Savio.

La stessa sua ricreazione era quasi sempre dimezzata; una parte per lo più era passata in pia lettura, oppur in qualche preghiera che egli andava a fare in chiesa con alcuni compagni in suffragio delle anime del purgatorio o in onore di Maria Santissima.

La divozione verso la Madre di Dio in Domenico era grande assai. In onore di lei faceva ogni giorno qualche mortificazione. Non rimirava mai in faccia persone di sesso diverso; andando a scuola non alzava mai gli occhi. Talvolta passava vicino a pubblici spettacoli, che dai compagni rimiravansi con tale ansietà da non saper più dove si fossero. Interrogato il Savio se quelli spettacoli gli fossero piaciuti rispondeva, che nulla aveva veduto. Di che quasi incollerito una volta un compagno lo rimproverò dicendo: «Che vuoi dunque fare degli occhi, se non te ne servi a rimirare queste cose?». «Io voglio servirmene, rispondeva, per rimirare la faccia della nostra celeste Madre Maria, quando, se coll’aiuto di Dio ne sarò degno, andrò a trovarla in pa­radiso».

Aveva una speciale divozione all’immacolato cuore di Maria. Tutte le volte che recavasi in chiesa andava avanti all’altare di lei per pregarla ad ottenergli la grazia di conservare il suo cuore sempre lontano da ogni affetto impuro. «Maria, dicea, io voglio essere sempre vostro figliuolo: ottenetemi di morire prima che io commetta un pec­cato contrario alla virtù della modestia».

Ogni venerdì poi sceglieva un tempo di ricreazione, si portava in chiesa con altri compagni per recitare la corona dei sette dolori di Maria, o almeno le litanie di Maria addolorata2.

Non solo egli era divoto di Maria SS., ma godeva assai quando poteva condurre qualcheduno a prestarle pratiche di pietà. Un giorno di sabato aveva invitato un compagno a recarsi con lui in chiesa a recitare il vespro della B. Vergine3. Questi si arrendeva di mala voglia, adducendo aver freddo alle mani. Domenico si levò i guanti dalle mani e glieli diede, e così andarono ambidue in chiesa. Altra volta si tolse il mantelletto dalle proprie spalle, per imprestarlo ad un altro, affinché andasse volentieri con lui in chiesa a pregare. Chi non sentesi compreso d’ammirazione a tali atti di generosa pietà?

In nessun tempo Domenico appariva maggiormente infervorato verso la celeste nostra protettrice Maria quanto nel mese di maggio. Si accordava con altri per fare ogni giorno di quel mese qualche pratica particolare oltre a quanto aveva luogo nella pubblica chiesa. Preparavasi una serie di esempi edificanti, che egli andava con gran piacere raccontando per animare altri ad essere divoti di Maria. Ne parlava spesso in ricreazione; animava tutti a confessarsi e fre­quentare la santa comunione specialmente in quel mese. Egli ne dava l’esempio accostandosi ogni giorno alla mensa eucaristica con tal rac­coglimento, che maggiore non si può desiderare.

Un curioso episodio fa vedere la tenerezza del suo cuore per la divozione di Maria. Gli alunni della camera, ove egli dormiva, deliberarono di fare a spese proprie un elegante altarino, che servisse a solennizzare la chiusura del mese di Maria. Domenico era tutto in faccende per questo affare; ma venendosi alla quota che ciascuno avrebbe dovuto sborsare: «Ohimè!, esclamò, sì che stiamo bene! per questi affari ci vogliono danari; ed io non ho un quattrino in tasca. Pure voglio fare qualche cosa a qualunque costo». Andò, prese un libro, che eragli stato donato in premio, e chiestone il permesso dal supe­riore, ritornò pieno di gioia dicendo: «Compagni, eccomi in grado di concorrere anch’io per onorar Maria: prendete questo libro, cavatene quell’utilità che potete; questa è la mia oblazione».

Alla vista di quell’atto spontaneo e così generoso s’intenerirono i compagni, e vollero essi pure offerir libri ed altri oggetti. Con essi fu fatta una piccola lotteria, il cui prodotto fu abbondante per sop­perire alle spese che occorrevano.

Terminato l’altare, i giovani desideravano di celebrare la loro festa colla massima sontuosità. Ognuno se ne dava grande sollecitu­dine, ma non essendosi potuto totalmente terminare l’apparato, era mestiere lavorare la notte precedente alla festa. «Io, disse il Savio, io passerò volentieri la notte lavorando». Ma i suoi compagni, perché aveva poco prima fatto una malattia, l’obbligarono di andarsi a coricare. Non voleva arrendersi, e solo andò a letto per ubbidienza. «Al­meno, disse ad uno dei compagni, appena sia tutto terminato, vienmi tosto a risvegliare, affinché io possa essere dei primi a rimirare l’al­tare addobbato in onore della nostra cara madre».

33 CAPO XIV

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34 Sua frequenza ai santi sacramenti della confessione e comunione

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Egli è comprovato dall’esperienza che i più validi sostegni della gioventù sono il sacramento della confessione e della comunione. Datemi un giovanetto, che frequenti questi sacramenti, voi lo vedrete crescere nella giovanile, giungere alla virile età e arrivare, se così piace a Dio, fino alla più tarda vecchiaia con una condotta, che è l’esempio di tutti quelli che lo conoscono. Questa massima la com­prendano i giovanetti per praticarla; la comprendano tutti quelli che si occupano dell’educazione dei medesimi per insinuarla.

Prima che il Savio venisse a dimorare all’Oratorio frequentava questi due sacramenti una volta al mese secondo l’uso delle scuole. Di poi li frequentò con assai maggiore assiduità. Un giorno udì dal pulpito questa massima: «Giovani, se volete perseverare nella via del cielo, vi si raccomandano tre cose: accostatevi spesso al sacramento della confessione, frequentate la santa comunione, sceglietevi un confessore cui osiate aprire il vostro cuore, ma non cangiatelo senza necessità». Comprese Domenico l’importanza di questi consigli1.

Cominciò egli a scegliersi un confessore, che tenne regolarmente tutto il tempo che dimorò tra noi. Affinché questi potesse poi formarsi un giusto giudizio di sua coscienza, volle, come si disse, fare la con­fessione generale. Cominciò a confessarsi ogni quindici giorni, poi ogni otto giorni, comunicandosi colla medesima frequenza. Il con­fessore osservando il grande profitto che faceva nelle cose di spirito, lo consigliò a comunicarsi tre volte per settimana e nel termine di un anno gli permise anche la comunione quotidiana.

Fu qualche tempo dominato dagli scrupoli; perciò voleva confessarsi ogni quattro giorni ed anche più spesso; ma il suo diret­tore spirituale non lo permise e lo tenne all’obbedienza della confes­sione settimanale.

Aveva con lui una confidenza illimitata. Anzi parlava col mede­simo con tutta semplicità delle cose di coscienza anche fuori di con­fessione. Qualcheduno lo aveva consigliato a cangiar qualche volta confessore, ma egli non volle mai arrendersi. «Il confessore, diceva, è il medico dell’anima, né mai si suole cangiar medico se non per mancanza di fiducia in lui, o perché il male è quasi disperato. Io non mi trovo in questi casi. Ho piena fiducia nel confessore che con pa­terna bontà e sollecitudine si adopera per il bene dell’anima mia; né io vedo in me alcun male che egli non possa guarire». Tuttavia il diret­tore ordinario lo consigliò a cangiar qualche volta confessore, specialmente in occasione degli spirituali esercizi; ed egli senza opporre difficoltà prontamente ubbidiva.

Il Savio godeva di se medesimo. «Se ho qualche pena in cuore, egli diceva, vo dal confessore, che mi consiglia secondo la volontà di Dio; giacché Gesù Cristo ha detto che la voce del confessore per noi è come la voce di Dio2. Se poi voglio qualche cosa di grande, vo a ricevere l’ostia santa in cui trovasi corpus quod pro nobis traditum est3, cioè quello stesso corpo, sangue, anima e divinità, che Gesù Cristo offerse al suo eterno Padre per noi sopra la croce. Che cosa mi manca per essere felice? nulla in questo mondo: mi manca solo di poter godere, svelato in cielo colui, che ora con occhio di fede miro e adoro sull’altare».

Con questi pensieri Domenico traeva i suoi giorni veramente felici. Di qui nasceva quella ilarità, quella gioia celeste che traspariva in tutte le sue azioni. Né pensiamoci che egli non comprendesse l’importanza di quanto faceva, e non avesse un tenor di vita cristiana, quale si conviene a chi desidera di far la comunione frequente4. Perciocché la sua condotta era per ogni lato irreprensibile. Io ho invi­tato i suoi compagni a dirmi se nei tre anni, che dimorò fra noi, aves­sero notato nel Savio qualche difetto da correggere o qualche virtù da suggerire; ma tutti asserirono d’accordo che in lui non trovarono mai cosa che meritasse correzione; né avrebbero saputo quale virtù aggiungere in lui.

Il suo apparecchio a ricevere la santa eucaristia era il più edificante. La sera che precedeva la comunione, prima di coricarsi faceva una preghiera a questo scopo e conchiudeva sempre così: «Sia lodato e ringraziato ogni momento il santissimo e divinissimo Sacramento». Al mattino poi premetteva una sufficiente preparazione; ma il ringra­ziamento era senza limite. Per lo più, se non era chiamato, dimenti­cava la colazione, la ricreazione e talvolta fino la scuola, standosi in orazione, o meglio in contemplazione della divina bontà che in modo ineffabile comunica agli uomini i tesori della sua infinita misericordia.

Era per lui una vera delizia il poter passare qualche ora dinanzi a Gesù sacramentato. Almeno una volta al giorno andava invariabilmente a fargli visita, invitando altri ad andarvi in sua compagnia. La preghiera a lui prediletta era una coroncina (5) al Sacro Cuore di Gesù per compensare le ingiurie che riceve dagli eretici, dagli infe­deli e dai cattivi cristiani.

Affinché le sue comunioni fossero più fruttuose e nel tempo stesso in ciascun giorno gli dessero novello eccitamento a farle con fervore egli si era prefisso ogni dì un fine speciale.

Ecco come distribuiva le comunioni lungo la settimana:

Domenica. In onore della santissima Trinità.

Lunedì. Per i miei benefattori spirituali e temporali.

Martedì. In onore di S. Domenico e del mio angelo custode.

Mercoledì. A Maria Addolorata per la conversione dei peccatori.

Giovedì. In suffragio delle anime del purgatorio.

Venerdì. In onore della passione di Gesù Cristo.

Sabato. Ad onore di Maria santissima per ottenere la sua protezione in vita ed in morte.

Prendeva parte con trasporto di gioia a tutte le pratiche, le quali riguardassero al santissimo Sacramento. Se gli fosse capitato d’in­contrare il viatico quando veniva portato a qualche infermo, egli si inginocchiava tosto ovunque fosse; e, se il tempo glielo permetteva, l’accompagnava finché fosse terminata la funzione.

Un giorno passavagli vicino il viatico mentre pioveva e le strade erano fangose. Non avendo miglior sito, si pose ginocchioni in mezzo alla fanghiglia. Un compagno lo rimproverò di poi, osservandogli non essere necessario imbrattarsi così gli abiti, né il Signore comandare tal cosa. Egli rispose semplicemente: «Ginocchia e calzoni è tutto del Signore, perciò tutto deve servire a rendergli onore e gloria. Quando passo vicino a lui non solo mi getterei nel fango per onorarlo, sibbene mi precipiterei in una fornace, perché così sarei fatto partecipe di quel fuoco di carità infinita che lo spinse ad istituire questo gran Sacramento».

In simile congiuntura vide un giorno un militare che se ne stava in piedi nel momento appunto che passava vicino il santissimo Sacra­mento. Non osando invitarlo ad inginocchiarsi, trasse di saccoccia il piccolo suo moccichino, lo stese sul terreno insudiciato, poi fe’ cenno al militare a volersene servire. Il soldato si mostrò da prima confuso, poi lasciando a parte il moccichino, si inginocchiò in mezzo della medesima strada6.

Alla festa del Corpus Domini fu con altri compagni vestito da chierico, e mandato alla processione della parrocchia. Egli vi andò con sommo piacere, ed ebbe tal cosa come prezioso regalo, che maggiore niuno gli avrebbe potuto fare.

35 CAPO XV

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36 Sue penitenze

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La sua età, la sanità cagionevole, l’innocenza di sua vita l’avreb­bero certamente dispensato da ogni sorta di penitenza; ma egli sa­peva che difficilmente un giovane può conservare l’innocenza senza la penitenza, e questo pensiero faceva sì che la via dei patimenti per lui sembrava coperta di rose. Per penitenza non parlo del sopportare pazientemente le ingiurie e i dispiaceri, non parlo della continua mortificazione e compostezza di tutti i suoi sensi nel pregare, nella scuola, nello studio, nella ricreazione. Queste penitenze in lui erano continue.

Io parlo solamente delle penitenze afflittive del corpo. Nel suo fervore avea stabilito di digiunare ogni sabato a pane ed acqua in onore della Beata Vergine, ma il confessore glielo proibì; voleva di­giunare la quaresima, ma dopo una settimana la cosa venne a notizia del direttore della casa, e tosto gli fu vietata. Voleva almeno lasciare la colazione, ed anche tal cosa gli venne proibita. La ragione per cui non gli si permettevano quelle penitenze era per impedire che la sua cagionevole sanità non venisse rovinata interamente. Che fare adun­que? Proibito di fare astinenza nel cibo, prese ad affliggere il corpo in altre maniere. Cominciò a mettersi schegge di legno e pezzi di mattone in letto per rendersi molesto il medesimo riposo; voleva por­tare una specie di cilicio; le quali cose gli vennero eziandio tutte proibite. Egli si appigliò ad un novello mezzo. In tempo d’autunno e d’inverno lasciò inoltrare la stagione senza accrescere coperte al letto, sicché eravamo a gennaio, ed egli era tuttora coperto da estate. Un mattino rimasto a letto per qualche incomodo, il direttore l’andò a visitare. Al vederlo tutto aggomitolato gli si avvicinò, e si accorse che non aveva altro addosso che una sottile copertura. «Perché hai fatto questo, gli disse? Vuoi morire di freddo?». «No, rispose, non morrò di freddo. Gesù nella capanna di Betlemme, e quando pendeva in croce, era meno coperto di me».

Allora gli fu assolutamente proibito di intraprendere penitenze di qualsiasi genere, senza prima dimandarne espressa licenza; al quale comando, sebben con pena, si sottomise. Una volta lo incontrai tutto afflitto, che andava esclamando: «Povero me! io sono veramente imbro­gliato. Il Salvatore dice, che se non fo penitenza, non andrò in para­diso1; ed a me è proibito di farne: quale adunque sarà il mio paradiso?».

La penitenza, che il Signore vuole da te, gli dissi, è l’ubbidienza. Ubbidisci, e a te basta.

Non potrebbe permettermi qualche altra penitenza?

Sì: ti si permettono le penitenze di sopportare pazientemente le ingiurie qualora te ne venissero fatte; tollerare con rassegnazione il caldo, il freddo, il vento, la pioggia, la stanchezza e tutti gli inco­modi di salute che a Dio piacerà di mandarti.

Ma questo si soffre per necessità.

Ciò che dovresti soffrire per necessità offrilo a Dio, e diventa virtù e merito per l’anima tua.

Contento e rassegnato a questi consigli se ne andò tranquillo.

37 CAPO XVI1

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38 Mortificazioni in tutti i sensi esterni

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Chi mirava il Savio nella sua compostezza esteriore ci trovava tanta naturalezza che avrebbe facilmente detto essere stato così creato dal Signore. Ma quelli che lo conobbero da vicino, od ebbero cura della sua educazione, possono assicurare che vi era grande sforzo umano coadiuvato dalla grazia di Dio.

I suoi occhi erano vivacissimi, ed egli doveva farsi non piccola violenza per tenerli raccolti. «Da prima, egli ripeté più volte con un amico, quando mi son fatto una legge di voler assolutamente dominare gli occhi miei, incontrai non poca fatica: e talvolta ebbi a patire grave male di capo». La riservatezza dei suoi sguardi fu tale che di tutti quelli che lo conobbero niuno si ricorda di averlo veduto a dare una sola occhiata, la quale eccedesse i limiti della più rigorosa modestia. «Gli occhi, egli soleva dire, sono due finestre. Per le finestre passa ciò che si fa passare. E noi per queste finestre possiamo far passare un angelo, oppure il demonio colle sue corna e condurre l’uno e l’altro ad essere padroni del nostro cuore».

Un giorno avvenne, che un giovanetto estraneo alla casa inconsiderata­mente portò seco un giornale sopra cui erano figure sconce ed irreligiose. Una turba di ragazzi lo circonda per vedere le maraviglie di quelle figure, che avrebbero fatto ribrezzo ai turchi ed ai pagani me­desimi. Corre pure il Savio, pensandosi di lontano, che colà si facesse vedere qualche immagine divota.

Ma quando ne fu vicino fece atto di sorpresa, poi quasi ridendo prese il foglio, e lo fece a minuti pezzi. Rimasero i suoi compagni pieni di stupore, sicché l’uno guardava l’altro senza parlare.

Egli allora parlò così: «Poveri noi! il Signore ci ha dato gli occhi per contemplare la bellezza delle cose da lui create, e voi ve ne ser­vite per mirare tali sconcezze inventate dalla malizia degli uomini a danno dell’anima nostra? Avete forse dimenticato quello che tante volte fu predicato? Il Salvatore ci dice, che dando un solo sguardo cattivo macchiamo di colpa l’anima nostra; e voi pascete i vostri occhi sopra oggetti di questa fatta?».

Noi, rispose uno, andavamo osservando quelle figure per ridere.

Sì, sì, per ridere, intanto vi preparate per andare all’inferno ri­dendo..., ma riderete ancora se aveste la sventura di cadervi?

Ma noi, ripigliò un altro, non ci vediamo tanto male in quelle figure.

Peggio ancora; il non vedere tanto male in guardar simili scon­cezze è segno che i vostri occhi sono già abituati a rimirarle; e queste abitudini non vi scusano dal male, ma vi rendono più col­pevoli. O Giobbe, o Giobbe! tu eri vecchio, tu eri un santo, tu eri oppresso da una malattia per cui giacevi sdraiato sopra un letamaio; nulladimeno facesti un patto coi tuoi occhi di non dar loro la minima libertà intorno alle cose invereconde!

A quelle parole tutti si tacquero e niuno più osò di fargli alcun rimprovero, neppure altra osservazione.

Alla modestia degli occhi era congiunta una gran riservatezza nel parlare. O per torto o per ragione quando alcuno parlava, egli taceva e più volte troncava la propria parola per dar campo ad altri di parlare. I suoi maestri e gli altri suoi superiori vanno tutti d’accordo nell’asse­rire, che non ebbero mai alcun motivo di soltanto avvisarlo d’aver detto anche una sola parola fuori di proposito nello studio, nella scuola, nella chiesa o mentre aveva luogo l’adempimento di qualche dovere di studio o pietà. Anzi in quelle stesse occasioni che riceveva qualche oltraggio, sapeva moderare la lingua e la bile.

Un giorno egli aveva avvisato un compagno di una cattiva abitudine. Costui invece di accogliere con gratitudine la fatta ammonizione si lasciò trasportare a brutali eccessi. Lo coprì di villanie, di poi lo per­cosse con pugni e calci. Il Savio avrebbe potuto far valere la sua ra­gione coi fatti, poiché era maggiore di età e di forze. Egli per altro non fece altra vendetta se non quella dei cristiani. Divenne bensì tutto rosso nella faccia, ma frenando l’impeto della collera si limitò a queste parole: «Io ti perdono; hai fatto male; non trattar con altri in simile guisa».

Che diremo poi della mortificazione degli altri sensi del corpo? Mi restringo ad accennare soltanto alcuni fatti.

In tempo d’inverno egli pativa i geloni alle mani. Ma comunque ne sentisse dolore, non fu mai udito a fare parola o dar segno di la­mento. Piuttosto pareva che ne avesse piacere. «Più sono grossi i ge­loni, egli diceva, e più faranno bene alla sanità», volendo indicare la sa­nità dell’anima. Molti suoi compagni asseriscono, che nei crudi freddi invernali egli soleva andare a scuola a passo lento e ciò per il desiderio di patire e fare penitenza in ogni cosa che gliene porgesse occasione. «Più volte il vidi, depone un suo compagno, nel più rigido inverno squarciarsi la pelle ed anche la carne con aghi e con punte di penna, af­finché tali lacerazioni convertendosi in piaghe lo rendessero più simile al suo divin maestro».

Nelle comunità di giovani se ne incontrano di quelli che non sono mai contenti di nulla. Ora si lamentano delle funzioni religiose, ora della disciplina, ora del riposo, o degli apprestamenti di tavola; in tutto trovano di che disapprovare. Costoro sono una vera croce pei superiori; perché il malcontento di uno solo si comunica agli altri compagni, talvolta con non piccolo danno della comunità. La condotta del Savio era totalmente opposta a costoro. Non mai il suo labbro proferiva voce di lamento né per il caldo del­l’estate, né per il freddo dell’inverno. Facesse bello o cattivo tempo egli era sempre ugualmente allegro. Checché gli si fosse apprestato a mensa mostravasi in tutto soddisfatto. Anzi con un’arte ammirabile trovava ivi un mezzo onde mortificarsi. Quando una cosa era censurata da altri, perché troppo cotta o troppo cruda, meno o molto salata, egli all’opposto mostravasi contento, dicendo essere quello appunto il suo gusto.

Era sua pratica ordinaria trattenersi in refettorio dopo i suoi com­pagni, raccogliere i minuzzoli di pane lasciati sopra la tavola o dispersi sul pavimento, e quelli mangiarseli come cosa saporita. Ad alcuni che ne facevano le maraviglie egli copriva il suo spirito di penitenza di­cendo: «Le pagnotte non si mangiano intere e se sono ridotte in bri­ciole è già un lavoro fatto pei denti». Ogni rimasuglio di minestra, di pietanza, di altra qualità di cibo era da lui colto e mangiato. Né ciò faceva per ghiottoneria, perciocché spesso egli donava la medesima sua porzione agli altri compagni. Interrogato perché si desse tanta sollecitudine per raccogliere quegli avanzi che avrebbero mosso taluno a schifo, egli rispondeva: «Quanto abbiamo nel mondo, tutto è dono prezioso fattoci da Dio; ma di tutti i doni, dopo la sua santa grazia, il più grande è l’alimento con cui ci conserva la vita. Perciò la più piccola parte di questo dono merita la nostra gratitudine, ed è veramente degno di essere custodito colla più scrupolosa diligenza»1.

Il pulire le scarpe, spazzolare abiti ai compagni, prestare agli in­fermi i più bassi uffizi, scopare e fare altri simili lavori era per lui un gradito passatempo. «Ciascuno faccia quel che può, soleva dire: io non sono capace di far cose grandi, ma quello che posso, voglio farlo a maggior gloria di Dio; e spero che Iddio nella sua infinita bontà vorrà gradire queste miserabili mie offerte».

Mangiar cose contrarie al suo gusto, evitare quelle che gli sareb­bero piaciute; domare gli sguardi anche nelle cose indifferenti; trat­tenersi ove sentisse ingrato odore; rinnegare la sua volontà; sopportare con perfetta rassegnazione ogni cosa che avesse prodotto afflizione al suo corpo od al suo spirito sono atti di virtù che da Domenico eser­citavansi ogni giorno, e possiamo anche dire ogni momento di sua vita.

Taccio pertanto moltissimi altri fatti di questo genere che tutti concorrono a dimostrare quanto in Domenico fosse grande lo spirito di penitenza, di carità e di mortificazione in tutti i sensi della per­sona, e nel tempo stesso quanta fosse industriosa la sua virtù nel saper approfittare delle grandi e piccole occasioni, anzi delle stesse cose indifferenti per santificarsi ed accrescersi il merito davanti al Signore.

39 CAPO XVII

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40 La compagnia dell’Immacolata Concezione

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Tutta la vita di Domenico si può dire essere un esercizio di divo­zione verso Maria Santissima. Né lasciavasi sfuggire occasione alcuna a fine di tributarle qualche omaggio. L’anno 1854 il supremo gerarca della Chiesa definiva dogma di fede l’immacolato concepimento di Maria. Il Savio desiderava ardentemente di rendere tra di noi vivo e durevole il pensiero di questo augusto titolo dalla Chiesa dato alla Regina del Cielo. «Io desidererei, soleva dire, di fare qualche cosa in onore di Maria, ma di farlo presto, perché temo che mi manchi il tempo».

Guidato egli adunque dalla solita industriosa sua carità, scelse al­cuni dei suoi fidi compagni e li invitò ad unirsi insieme con lui per for­mare una compagnia detta dell’Immacolata Concezione. Lo scopo era di procurarsi la protezione della gran Madre di Dio in vita e specialmente in punto di morte. Due mezzi proponeva il Savio a questo fine: esercitare e promuovere pratiche di pietà in onore di Maria Immacolata e la frequente comunione. D’accordo coi suoi amici compilò un regolamento e dopo molte sollecitudini nel giorno 8 di giugno 1856, nove mesi prima di sua morte, leggevalo con loro dinanzi all’altare di Maria santissima. Io lo trascrivo di buon grado nel pensiero che possa servire ad altri di norma a fare altrettanto1. Eccone adunque il tenore:

«Noi Savio Domenico, ecc. (segue il nome di altri compagni) per assicurarci in vita ed in morte il patrocinio della Beatissima Ver­gine Immacolata e per dedicarci interamente al suo santo servizio, nel giorno 8 del mese di giugno, muniti tutti dei santi sacramenti della confessione e comunione, e risoluti di professar verso la Madre nostra una figliale e costante divozione, protestiamo davanti all’altare di Lei e col consenso del nostro spiritual direttore, di voler imitare per quanto lo permetteranno le nostre forze, Luigi Comollo (2). Onde ci obblighiamo:

1° Di osservare rigorosamente le regole della casa.

2° Di edificare i compagni ammonendoli caritatevolmente ed ec­citandoli al bene colle parole ma molto più col buon esempio.

3° Di occupare esattamente il tempo. A fine poi di assicurarci della perseveranza nel tenor di vita, cui intendiamo di obbligarci, sottomettiamo il seguente regolamento al nostro direttore.

N. 1. A regola primaria adotteremo una rigorosa ubbidienza ai nostri superiori, cui ci sottomettiamo con una illimitata confidenza.

N. 2. L’adempimento dei propri doveri sarà nostra prima e spe­ciale occupazione.

N. 3. Carità reciproca unirà i nostri animi, ci farà amare in­distintamente i nostri fratelli, i quali con dolcezza ammoniremo, quando apparisce utile una correzione.

N. 4. Si sceglierà una mezz’ora nella settimana per convocarci, e dopo l’invocazione del S. Spirito, fatta breve lettura spirituale, si tratteranno i progressi della compagnia nella divozione e nella virtù.

N. 5. Separatamente per altro ci ammoniremo di quei difetti, di cui dobbiamo emendarci.

N. 6. Procureremo di evitare fra noi qualunque minimo dispia­cere, sopportando con pazienza i compagni e le altre persone moleste.

N. 7. Non è fissata alcuna preghiera giacché il tempo, che rimane dopo compiuto il dover nostro, sarà consacrato a quello scopo che parrà più utile all’anima nostra.

N. 8. Ammettiamo tuttavia queste poche pratiche:

§ 1° La frequenza ai santi sacramenti, quanto più sovente ci verrà permesso.

§ 2° Ci accosteremo alla mensa eucaristica tutte le domeniche, le feste di precetto, tutte le novene e solennità di Maria santissima e dei santi protettori dell’Oratorio.

§ 3° Nella settimana procureremo di accostarvici al giovedì, eccetto che ne siamo distolti da qualche grave occupazione.

N. 9. Ogni giorno, specialmente nella recita del rosario, racco­manderemo a Maria la nostra società, pregandola di ottenerci la gra­zia della perseveranza.

N. 10. Procureremo di consacrare ogni sabato in onor di Maria qualche pratica speciale od atto di cristiana pietà in onor dell’imma­colato suo concepimento.

N. 11. Useremo quindi un contegno viemaggiormente edificante nella preghiera, nelle divote letture, durante i divini uffizi, nello studio e nella scuola.

N. 12. Custodiremo colla massima gelosia la santa parola di Dio e ne rianderemo le verità ascoltate3.

N. 13. Eviteremo qualunque perdita di tempo per assicurare l’a­nimo nostro dalle tentazioni che sogliono fortemente assalirci nell’o­zio; perciò:

N. 14. Dopo aver soddisfatto agli obblighi che appartengono a ciascun di noi, consacreremo le ore rimaste libere in utili occupazioni, come in divote ed istruttive letture o nella preghiera.

N. 15. La ricreazione è voluta o almeno permessa dopo il cibo, dopo la scuola e dopo lo studio.

N. 16. Procureremo di manifestare ai nostri superiori qualunque cosa possa giovare alla nostra morale condotta.

N. 17. Procureremo eziandio di fare gran risparmio di quei per­messi, che ci vengono largiti dalla bontà dei nostri superiori, imperciocché una delle nostre mire speciali è certamente un’esatta osser­vanza delle regole della casa, troppo spesso offese dall’abuso di co­desti permessi.

N. 18. Accetteremo dai nostri superiori quello che verrà destinato a nostro alimento senza mai muovere lamento intorno agli appresta­menti di tavola e distoglieremo anche gli altri dal farlo.

N. 19. Chi bramerà far parte a questa società, dovrà anzitutto pur­garsi la coscienza col sacramento della confessione e cibarsi alla mensa eucaristica, dar quindi saggio della sua condotta con una settimana di prova, leggere attentamente queste regole e prometterne esatta osservanza a Dio ed a Maria santissima Immacolata.

N. 20. Nel giorno di sua ammissione i fratelli si accosteranno alla santa comunione pregando Sua Divina Maestà di accordare al compagno le virtù della perseveranza, dell’ubbidienza, il vero amor di Dio.

N. 21. La società è posta sotto gli auspizi dell’Immacolata Conce­zione, di cui avremo il titolo e porteremo una divota medaglia. Una sincera, figliale, illimitata fiducia in Maria, una tenerezza singolare verso di Lei, una divozione costante ci renderanno superiori ad ogni ostacolo, tenaci nelle risoluzioni, rigidi verso di noi, amorevoli col nostro prossimo, ed esatti in tutto.

Consigliamo inoltre i fratelli a scrivere i santi nomi di Gesù e di Maria prima nel cuore e nella mente, poi sui libri e sopra gli oggetti che ci possono cadere sott’occhio.

Il nostro direttore è pregato di esaminare queste regole e di mani­festarci intorno ad esse il suo giudizio, assicurandolo che noi tutti intieramente dipendiamo dalla sua volontà. Egli potrà far subire a questo regolamento quelle modificazioni, che gli parranno convenienti.

E Maria? Benedica essa i nostri sforzi, giacché l’ispirazione di dar vita a questa pia società fu tutta sua. Ella arrida alle nostre speranze, esaudisca i nostri voti, e noi coperti dal suo manto, forti del suo pa­trocinio, sfideremo le procelle di questo mare infido, supereremo gli assalti del nemico infernale. In simil guisa da Lei confortati speriamo di essere l’edificazione dei compagni, la consolazione dei superiori, diletti figliuoli di Lei. E se Dio ci concederà grazia e vita di poterlo servire nel sacerdotal ministero, noi ci adopreremo con tutte le nostre forze, per farlo col massimo zelo, e diffidando delle nostre forze, illi­mitatamente fidando nel divino soccorso, potremo sperare che dopo questa valle di pianto, consolati dalla presenza di Maria, raggiungeremo sicuri in quell’ultima ora quel guiderdone eterno, che Iddio tien ser­bato a chi lo serve in ispirito e verità».

Il direttore dell’Oratorio lesse di fatto il sopra esposto regolamento di vita, e dopo di averlo attentamente esaminato, lo approvò colle seguenti condizioni:

1. Le mentovate promesse non hanno forza di voto.

2. Nemmeno obbligano sotto pena di colpa alcuna.

3. Nelle conferenze si stabilisca qualche opera di carità esterna, come la nettezza della chiesa, l’assistenza od il catechismo di qualche fanciullo più ignorante.

4. Si dividano i giorni della settimana in modo che in ciascun giorno vi siano alcune comunioni.

5. Non si aggiunga alcuna pratica religiosa senza speciale per­messo dei superiori.

6. Si proponga per iscopo fondamentale di promuovere la divo­zione verso Maria santissima Immacolata, e verso il santissimo Sacramento.

7. Prima di accettare qualcheduno, gli si faccia leggere la vita di Luigi Comollo (4).

41 CAPO XVIII

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42 Sue amicizie particolari — Sue relazioni col giovane Gavio Camillo

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Ognuno era amico con Domenico: chi non lo amava, lo rispettava per le sue virtù. Egli sapeva poi passarsela bene con tutti. Era così rasso­dato nella virtù che fu consigliato di trattenersi anche con alcuni giovani alquanto discoli per far prova di guadagnarli al Signore. Ed egli ap­profittava della ricreazione, dei trastulli, dei discorsi anche indiffe­renti per tirarne vantaggio spirituale. Tuttavia quelli che erano inscritti nella società dell’Immacolata Concezione erano1 i suoi amici particolari, coi quali, come si è detto, si radunava ora in conferenze spirituali, ora per compiere esercizi di cristiana pietà. Queste confe­renze tenevansi con licenza dei superiori; ma erano assistite e regolate dagli stessi giovani. In esse trattavano del modo di celebrare le novene delle maggiori solennità, si ripartivano le comunioni, che cia­scuno avrebbe avuto cura di fare in giorni determinati della setti­mana, si assegnavano a vicenda quei giovani che avevano maggior bisogno di assistenza morale e ciascuno lo faceva suo cliente, ovvero protetto, e ado­peravano tutti i mezzi che suggerisce la carità cristiana per avviarlo alla virtù. Il Savio era dei più animati, e si può dire che in queste confe­renze la faceva da dottore.

Si potrebbero accennare parecchi compagni del Savio che prende­vano parte a queste conferenze e che trattarono molto con lui, ma es­sendo ancor essi tra i vivi, pare prudenza non parlarne2. Ne accennerò solamente due, che sono già stati chiamati alla patria celeste. Questi sono Gavio Camillo di Tortona, e Massaglia Giovanni di Marmorito3. Il Gavio dimorò solamente due mesi tra noi, e questo tempo bastò per lasciare santa rimembranza di sé presso i compagni.

La sua luminosa pietà e il suo gran genio per la pittura e la scultura avevano risolto il municipio di quella città ad aiutarlo affinché potesse venire a Torino a proseguire gli studii per l’arte sua. Egli aveva fatto una grave malattia in patria; e come venne all’Oratorio, sia per essere convalescente, sia per trovarsi lontano dalla patria e dai parenti, sia anche per la compagnia dei giovinetti tutti sconosciuti, se ne stava osservando gli altri a trastullarsi, ma assorto in gravi pensieri. Lo vide il Savio, e tosto si avvicinò per confortarlo, e tenne secolui que­sto preciso discorso.

Il Savio cominciò: «Ebbene, mio caro, non conosci ancora alcuno, non è vero?».

È vero, ma mi ricreo rimirando gli altri a trastullarsi.

Come ti chiami?

Gavio Camillo di Tortona.

Quanti anni hai?

Ne ho quindici compiuti.

Da che deriva quella malinconia che ti trasparisce in volto; sei forse stato ammalato?

Sì, sono stato veramente ammalato; ho fatto una malattia di palpitazione, che mi portò sull’orlo della tomba, ed ora non ne sono ancora ben guarito.

Desideri di guarire, non è vero?

Non tanto, desidero di far la volontà di Dio.

Queste ultime parole fecero conoscere il Gavio per un giovane di non ordinaria pietà, e cagionarono nel cuor del Savio una vera conso­lazione; sicché con tutta confidenza continuò:

Chi desidera di fare la volontà di Dio, desidera di santificare se stesso4; hai dunque volontà di farti santo?

Questa volontà in me è grande.

Bene, accresceremo il numero dei nostri amici, tu sarai uno di quelli che prenderanno parte a quanto facciamo noi per farci santi.

È bello quanto mi dici; ma io non so che cosa debba fare!

Te lo dirò io in poche parole5: sappi che noi qui facciamo con­sistere la santità nello star molto allegri. Noi procureremo soltanto di evitar il peccato, come un gran nemico che ci ruba la grazia di Dio e la pace del cuore, procureremo di adempiere esattamente i nostri doveri, e frequentare le cose di pietà. Comincia fin d’oggi a scriverti per ricordo: Servite Domino in laetitia, serviamo il Signore in santa allegria6.

Questo discorso fu come un balsamo alle afflizioni del Gavio, che ne provò un vero conforto. Che anzi da quel giorno in poi egli divenne fido amico del Savio e costante seguace delle sue virtù. Ma la malattia che lo aveva portato sull’orlo della tomba, e che non era stata sradi­cata, in capo a due mesi ricomparve, e malgrado le sollecitudini dei medici e degli amici non le si poté più trovar rimedio. Dopo alcuni giorni di peggioramento, dopo di aver con grande edificazione ricevuti gli ultimi sacramenti, mandava l’anima al Creatore il 29 dicembre 18557.

Domenico andò più volte a visitarlo nel corso della malattia, e si offriva di passare le notti vegliando presso di lui, sebbene non gli venisse permesso. Quando seppe che era spirato, volle andarlo a ve­dere per l’ultima volta, e mirandolo estinto, commosso gli diceva: «Addio, o Gavio, io sono intimamente persuaso che8 tu sei volato al cielo; perciò prepara anche un posto per me. Io ti sarò sempre amico, ma finché il Signore mi lascerà in vita, pregherò per il riposo dell’anima tua».

Dopo andò con altri compagni a recitare l’uffizio dei morti nella camera del defunto, si fecero altre preghiere lungo il giorno; quindi invitò alcuni dei più buoni condiscepoli a fare la santa comu­nione, ed egli stesso la fece più volte in suffragio dell’amico defunto.

Fra le altre cose egli disse ai suoi amici: «Miei cari, non dimenti­chiamo l’anima del nostro amico. Io spero che a quest’ora egli goda già la gloria del cielo; tuttavia non cessiamo di pregare per il riposo dell’anima di lui»9. Tutto quello che ora facciamo per lui, Dio disporrà che altri lo faccia un giorno per noi.

43 CAPO XIX

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44 Sue relazioni col giovane Massaglia Giovanni

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Più lunghe e più intime furono le relazioni del Savio con Massaglia di Marmorito, paese poco distante da Mondonio.

Vennero amendue contemporaneamente nella casa dell’Oratorio; erano confinanti di patria; avevano amendue la stessa volontà di ab­bracciare lo stato ecclesiastico, con vero desiderio di farsi santi.

Non basta, un giorno Domenico diceva al suo amico, non basta il dire che vogliamo farci ecclesiastici, ma bisogna che ci adoperiamo per acquistare le virtù che a questo stato sono necessarie.

È vero, rispondeva l’amico, ma se facciamo quello che pos­siamo dal canto nostro, Dio non mancherà di darci grazia e forza per meritarci un favore così grande quale si è diventar ministri di Gesù Cristo.

Venuto il tempo pasquale fecero cogli altri giovani gli spirituali esercizi con molta esemplarità. Terminati gli esercizi, Domenico disse al compagno:

Voglio che noi siamo veri amici; veri amici per le cose dell’anima; perciò desidero che d’ora in avanti siamo l’uno monitore dell’altro in tutto ciò che può contribuire al bene spirituale. Quindi se tu scorgerai in me qualche difetto, dimmelo tosto, affinché me ne possa emendare: oppure se scorgerai qualche cosa di bene ch’io possa fare, non mancar di suggerirmelo.

Lo farò volentieri per te, sebbene non ne abbisogni, ma tu lo devi fare assai più verso di me, che, come ben sai, per età, studio e scuola1 mi trovo esposto a maggiori pericoli.

Lasciamo i complimenti da parte ed aiutiamoci vicendevolmente a farci del bene per l’anima.

Da quel tempo il Savio ed il Massaglia divennero veri amici, e la loro amicizia fu durevole, perché fondata sulla virtù; giacché anda­vano a gara coll’esempio e coi consigli per aiutarsi a fuggire il male e praticare il bene.

Alla fine dell’anno scolastico, subiti gli esami, fu a ciascun gio­vane della casa data licenza di andar a passare le vacanze o coi geni­tori o con qualche altro parente. Alcuni, mossi dal desiderio di progredire nello studio ed atten­dere meglio agli esercizi di pietà2 preferirono di rimanere all’Oratorio, e tra questi furono Savio e Massaglia. Sapendo io quanto fossero an­siosamente aspettati dai parenti, e quanto essi medesimi avessero bisogno di ristorare la loro stanchezza, dissi ad ambidue: «Perché non andate a passare qualche giorno in vacanza?». Essi invece di ri­spondere si misero a ridere. «Che cosa volete dirmi con questo ridere?». Domenico rispose: «Noi sappiamo che i nostri parenti ci attendono con piacere; noi eziandio li amiamo e ci andremmo volentieri; ma sappiamo che l’uccello finché trovasi in gabbia non gode libertà, è vero; è per altro sicuro dal falcone. Al contrario se è fuori di gabbia, vola dove vuole, ma da un momento all’altro può cadere negli artigli del falcone infernale»3.

Ciò non ostante ho giudicato bene di mandarli qualche tempo a casa per il bene della loro sanità, e si arresero alla mia volontà soltanto per ubbidienza, restandovi quei soli giorni che erano stati stretta­mente loro comandati.

Se volessi scrivere i bei tratti di virtù del giovane Massaglia, do­vrei ripetere in gran parte le cose dette del Savio, di cui fu fedele seguace finché visse. Egli godeva buona salute, e dava ottima spe­ranza di sé nella carriera degli studi. Compiuto il corso di retorica, subì con esito felice l’esame per la vestizione clericale. Ma questo abito, da lui tanto amato e tanto rispettato poté soltanto portarlo alcuni mesi. Colpito da una costipazione, che aveva aspetto di sem­plice raffreddore, non voleva nemmeno interrompere i suoi studi. Per il desiderio di fargli fare una cura radicale, e per toglierlo dall’occa­sione di studiare, i genitori lo condussero a casa. Fu nel tempo di questa sua dimora in patria che scrisse al suo amico una lettera del seguente tenore4:


Caro amico.

Mi pensava di dover passare solamente alcuni giorni a casa e poi ritornare all’Oratorio, perciò ho lasciato tutti i miei arnesi di scuola costì. Ora per altro mi avveggo che le cose vanno a lungo e l’esito di mia malattia rendesi ognor più incerto. Il medico mi dice che va meglio. A me sembra che vada peggio. Vedremo chi ha ragione. Caro Domenico, io provo grande afflizione lungi da te e dall’Oratorio, perché qui non ho comodità di attendere agli esercizi di divozione. Solo mi conforto rammentando quei giorni che noi fissavamo per prepararci ed accostarci insieme alla santa comunione.

Spero nulladimeno che, sebbene separati di corpo, non lo saremo di spirito.

Intanto io ti prego di andare nello studio e di fare una visita da questore al mio cancello. Ivi troverai alcune carte manoscritte, là vicino havvi il mio amico, il Kempis, ossia De imitatione Christi. Farai di tutto un pacco solo e me lo invierai. Bada bene che tal libro è latino; perché sebbene mi piaccia la traduzione, tuttavia è sempre traduzione, ove non trovo il gusto che provo nell’originale latino. Mi sento stanco dal fare niente; tuttavia il medico mi proibisce studiare. Fo molte passeggiate per la mia camera e spesso vado dicendo: Guarirò da questa malattia? Ritornerò a vedere i miei compagni? Sarà questa per me l’ultima malattia? Checché ne sia per essere di tutte queste cose, Dio solo il sa. Parmi di essere pronto a fare in tutti e tre i casi la santa ed amabile volontà di Dio.

Se hai qualche buon consiglio, procura di scrivermelo. Dimmi come va la tua sanità; ricordati di me nelle tue preghiere e special­mente quando fai la santa comunione. Coraggio, amami di tutto cuore nel Signore; che se non potremo trattenerci insieme lungo tempo nella vita presente, spero che potremo un giorno vivere felici in dolce compagnia nella beata eternità.

Saluta i nostri amici e specialmente i confratelli della compagnia dell’Immacolata Concezione. Il Signore sia con te e credimi sempre il tuo affezionatissimo

Massaglia Giovanni5.


Domenico eseguì la commissione dell’amico, e, nel mandargli quanto gli chiedeva, univa la seguente lettera6:


Mio caro Massaglia.

La tua lettera mi ha fatto piacere, perché con essa fui assicurato che tu vivi ancora, perciocché dopo la tua partenza noi non avevamo più avuto notizie di te e non sapeva se dovessi dirti il Gloria Patri o il De profundis. Riceverai gli oggetti che mi hai richiesto. Debbo sol­tanto notarti che il Kempis è un buon amico, ma egli è morto, né mai si muove di posto. Bisogna adunque che tu lo cerchi, lo scuota, lo legga adoperandoti per mettere in pratica quanto ivi andrai leggendo.

Tu sospiri la comodità che abbiamo qui per gli esercizi di pietà, ed hai ragione. Quando sono a Mondonio ho il medesimo fastidio. Io studiava di supplire con fare ogni giorno una visita al santissimo Sacra­mento, procurando di condur meco quanti compagni poteva. Oltre al Kempis leggeva il Tesoro nascosto nella santa messa del beato Leonardo7. Se ti par bene fa’ anche tu altrettanto. Mi dici di non sapere se ritornerai all’Oratorio a farci visita; la mia carcassa apparisce anche assai logora, e tutto mi fa presagire che mi avvicino a gran passi al termine dei miei studi e della mia vita. Ad ogni modo facciamo così: preghiamo l’uno per l’altro, perché ambidue possiamo fare una buona morte. Colui che sarà il primo di noi ad andarsene al paradiso pre­pari un posto all’amico, e quando lo andrà a trovare, gli porga la mano per introdurlo nell’abitazione del cielo.

Dio ci conservi sempre in grazia sua, e ci assista a farci santi, ma presto santi, perché temo che ci manchi il tempo. Tutti i nostri amici sospirano il tuo ritorno all’Oratorio e ti salutano caramente nel Si­gnore.

Io poi con fraterno amore ed affetto mi dichiaro sempre

Affezionatissimo amico

Savio Domenico8.


La malattia del giovane Massaglia dapprima sembrava leggera; più volte parve perfettamente vinta, più volte ricadde, finché quasi inaspettatamente venne all’estremo della vita9.

«Egli ebbe tempo, scriveva il teologo Valfrè direttore spi­rituale nelle vacanze10, di ricevere colla massima esemplarità tutti i conforti di nostra santa cattolica religione; moriva della morte del giusto che lascia il mondo per volare al cielo» (11).

Alla perdita di quell’amico il Savio fu profondamente addolorato, e sebbene rassegnato ai divini voleri lo pianse per più giorni. Questa è la prima volta che vidi quel volto angelico a rattristarsi e piangere di dolore. L’unico conforto fu di pregare e far pregare per l’amico defunto. Fu udito talvolta ad esclamare: «Caro Massaglia, tu sei morto, e spero che sarai già in compagnia di Gavio in paradiso, ed io quando andrò a raggiungervi nell’immensa felicità del cielo?».

Per tutto il tempo che Domenico sopravvisse al suo amico l’ebbe ognor presente nelle pratiche di pietà e soleva dire, che non poteva andar ad ascoltare la santa messa, od assistere a qualche esercizio divoto senza raccomandare a Dio l’anima di colui che in vita erasi cotanto adoperato per il suo bene. Questa perdita fu assai dolorosa al tenero cuor di Domenico, e la medesima sanità di lui fu notevolmente alterata.

45 CAPO XX

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46 Grazie speciali e fatti particolari

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Finora ho raccontate cose che presentano nulla di straordinario, se non vogliamo chiamare straordinaria una condotta costantemente buona, che si andò sempre perfezionando coll’innocenza della vita, con le opere di penitenza e coll’esercizio della pietà. Potrebbesi pur chiamare cosa straordinaria la vivezza di sua fede, la ferma sua spe­ranza e l’infiammata sua carità e la perseveranza nel bene sino all’ul­timo respiro. Qui per altro io voglio esporre grazie speciali ed alcuni fatti non comuni, che forse andranno soggetti a qualche critica. Per la qual cosa io stimo bene di notare al lettore, che quanto ivi riferisco ha piena somiglianza coi fatti registrati nella Bibbia e nella vita dei santi; riferisco cose che ho vedute cogli occhi miei, assicuro che scrivo scrupolosamente la verità, rimettendomi poi interamente ai riflessi del discreto lettore. Eccone il racconto.

Più volte andando in chiesa, specialmente nel giorno che Dome­nico faceva la santa comunione oppure era esposto il santissimo Sa­cramento, egli restava come rapito dai sensi; talmente che lasciava passare del tempo anche troppo lungo, se non era chiamato per com­piere i suoi ordinari doveri. Accadde un giorno che mancò dalla colazione, dalla scuola, e dal medesimo pranzo, e niuno sapeva dove fosse; nello studio non c’era, a letto nemmeno. Riferita al direttore tal cosa, gli nacque sospetto di quello che era realmente, che fosse in chiesa, siccome già altre volte era accaduto. Entra in chiesa, va in coro e lo vede là fermo come un sasso. Egli teneva un piede sull’altro, una mano appoggiata sul leggio dell’antifonario, l’altra sul petto colla faccia fissa e rivolta verso il ta­bernacolo. Non moveva palpebra. Lo chiama, nulla risponde. Lo scuote, e allora gli volge lo sguardo e dice: «Oh è già finita la messa?». «Vedi, soggiunse il direttore, mostrandogli l’orologio, sono le due». Egli dimandò umile perdono della trasgressione delle regole di casa, ed il direttore lo mandò a pranzo, dicendogli: «Se taluno ti dirà: onde vieni? Risponderai, che vieni dall’eseguire un mio comando». Fu detto questo per evitare le dimande inopportune, che forse i compagni avrebbero fatte.

Un altro giorno, terminato l’ordinario ringraziamento della messa, io era per uscire dalla sacrestia, quando sento in coro una voce come di una persona che disputava. Vado a vedere e trovo il Savio che par­lava e poi si arrestava, come chi dà campo alla risposta. Fra le altre cose intesi chiaramente queste parole: «Sì, mio Dio, ve l’ho già detto e ve lo dico di nuovo, io vi amo e vi voglio amare fino alla morte. Se voi vedete che io sia per offendervi, mandatemi la morte: sì, prima la morte, ma non peccare».

Gli ho talvolta dimandato che cosa facesse in quei suoi ritardi, ed egli con tutta semplicità rispondeva: «Povero me, mi salta una di­strazione, e in quel momento perdo il filo delle mie preghiere, e parmi di vedere cose tanto belle, che le ore fuggono come un momento».

Un giorno entrò nella mia camera dicendo: «Presto, venga con me, c’è una bell’opera da fare». «Dove vuoi condurmi?», gli chiesi. «Faccia presto, soggiunse, faccia presto». Io esitava tuttora, ma instando egli, ed avendo già provato altre volte l’importanza di questi inviti, accon­discesi. Lo seguo. Esce di casa, passa per una via, poi un’altra, ed un’altra ancora, ma non si arresta, né fa parola; prende in fine un’altra via, io lo accompagno di porta in porta, finché si ferma. Sale una scala, monta al terzo piano e suona una forte scampanellata. «È qua, che deve entrare», egli dice, e tosto se ne parte.

Mi si apre: «Oh presto, mi vien detto; presto, altrimenti non è più a tempo. Mio marito ebbe la disgrazia di farsi protestante; adesso è in punto di morte e dimanda per pietà di poter morire da buon cattolico».

Io mi recai tosto al letto di quell’infermo, che mostrava viva an­sietà di dar sesto alle cose della sua coscienza. Aggiustate colla mas­sima prestezza le cose di quell’anima, giunge il curato della parrocchia di S. Agostino1, che già prima si era fatto chiamare. Esso poté appena amministrargli il sacramento dell’Olio Santo con una sola unzione, poiché l’ammalato divenne cadavere.

Un giorno ho voluto chiedere al Savio come egli avesse potuto sapere che colà eravi un ammalato, ed egli mi guardò con aria di do­lore, di poi si mise a piangere. Io non gli ho più fatta ulteriore dimanda.

L’innocenza della vita, l’amor verso Dio, il desiderio delle cose celesti aveano portato la mente di Domenico a tale stato che si po­teva dire abitualmente assorto in Dio. Talvolta sospendeva la ricreazione, voltava altrove lo sguardo e si metteva a passeggiare da solo. Interrogato perché lasciasse così i compagni, rispondeva: «Mi assalgono le solite distrazioni, e mi pare che il paradiso mi si apra sopra del capo, ed io debbo allontanarmi dai compagni per non dir loro cose che forse essi metterebbero in ridi­colo».

Un giorno in ricreazione parlavasi del gran premio da Dio preparato in cielo a coloro che conservavano la stola dell’inno­cenza. Fra le altre cose dicevasi: «Gli innocenti sono in cielo i più vi­cini alla persona del nostro divin Salvatore, e gli canteranno speciali inni di gloria in eterno». Questo bastò per sollevare il suo spirito al Signore e, restando im­mobile, si abbandonò come morto nelle braccia di uno degli astanti2.

Questi rapimenti di spirito gli succedevano nello studio, e nell’an­data e ritorno dalla scuola e nella scuola medesima.

Parlava assai volentieri del romano pontefice, ed esprimeva il suo vivo desiderio di poterlo vedere prima di morire, asserendo ripe­tutamente che aveva cosa di grande importanza da dirgli. Ripetendo spesso le medesime cose, volli chiedergli qual fosse quella gran cosa che avrebbe voluto dire al Papa.

Se potessi parlare al Papa, vorrei dirgli che in mezzo alle tri­bolazioni che lo attendono non cessi di occuparsi con particolare sol­lecitudine3 dell’Inghilterra; Iddio prepara un gran trionfo al cattoli­cismo in quel regno.

Sopra quali cose appoggi tu queste tue parole?

Lo dico, ma non vorrei che ne facesse parola con altri, per non espormi forse alle burle. Se però andrà a Roma, lo dica a Pio IX. Ecco dunque: un mattino, mentre faceva il ringraziamento della comunione, fui sorpreso da una forte distrazione, e mi parve di ve­dere una vastissima pianura piena di gente avvolta in densa nebbia. Camminavano, ma come uomini che, smarrita la via, non vedono più ove mettono il piede. Questo paese, mi disse uno che mi era vicino, è l’Inghilterra. Mentre voleva dimandare altre cose vedo il sommo pontefice Pio IX tale quale aveva veduto dipinto in alcuni quadri. Egli maestosamente vestito, portando una luminosissima fiaccola tra le mani, si avanzava verso quella turba immensa di gente. Di mano in mano che si avvicinava, al chiarore di quella fiaccola, scompariva la nebbia, e gli uomini restavano nella luce come di mezzogiorno. Questa fiaccola, mi disse l’amico, è la religione cattolica che deve illu­minare gl’Inglesi.

L’anno 1858 essendo andato a Roma, ho voluto raccontare tale cosa al sommo pontefice, che la udì con bontà e con piacere. «Questo, disse il Papa, mi conferma nel mio proposito di lavorare energica­mente a favore dell’Inghilterra, a cui ho già rivolto le mie più vive sollecitudini. Tal racconto, se non altro, mi è come consiglio di un’anima buona».

Ometto molti altri fatti simiglianti, contento di scriverli, la­sciando che altri li pubblichi, quando si giudicherà che possano tor­nare a maggior gloria di Dio.

47 CAPO XXI

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48 Suoi pensieri sopra la morte, e sua preparazione a morir santamente

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Chi ha letto quanto abbiamo finora scritto intorno al giovine Savio Domenico, conoscerà di leggeri che la vita di lui fu una continua preparazione alla morte. Ma egli reputava la compagnia dell’Imma­colata Concezione come un mezzo efficace per assicurarsi la prote­zione di Maria in punto di morte, che ognuno presagiva non es­sergli lontana. Io non so se egli abbia avuto da Dio rivelazione del giorno e delle circostanze di sua morte, o ne avesse egli solo un pio presentimento. Ma è certo che ne parlò molto tempo avanti che quella avvenisse, e ciò facea con tale chiarezza di racconto, che meglio non avrebbe fatto chi ne avesse parlato dopo la medesima di lui morte1.

In vista del suo stato di salute gli si usavano tutti i riguardi per moderarlo nelle cose di studio e di pietà; tuttavia e per la naturale gracilità, e per alcuni incomodi personali ed anche per la continua tensione di spirito, gli si andavano ogni giorno diminuendo le forze. Egli stesso se ne accorgeva, e talvolta andava dicendo: «Bisogna che io corra, altrimenti la notte mi sorprende per istrada»2. Volendo dire che gli restava poco tempo di vita e che doveva essere sollecito in fare opere buone prima che giungesse la morte.

Havvi l’uso in questa casa che i nostri giovani facciano l’esercizio della buona morte una volta al mese3. Consiste questo esercizio nel pre­pararci a fare una confessione e comunione come fosse l’ultima della vita. Il regnante Pio IX nella sua grande bontà arricchì questo eser­cizio di varie indulgenze. Domenico lo faceva con un raccoglimento, che non si può dire maggiore. In fine della sacra funzione si suole recitare un Pater ed Ave per colui che tra gli astanti sarà il primo a morire. Un giorno scherzando egli disse: «In luogo di dire per colui che sarà il primo a morire, dica così: un Pater ed Ave per Savio Domenico che di noi sarà il primo a morire». Questo disse più volte.

Sul finire di aprile del 1856 egli si presentò al direttore e gli domandò come avrebbe dovuto fare per celebrare santamente il mese di Maria.

Lo celebrerai, rispose, coll’esatto adempimento dei tuoi do­veri, raccontando ogni dì un esempio in onore di Maria, e procurando di regolarti in modo da poter fare in ciascun giorno la santa comu­nione.

Ciò procurerò di fare puntualmente; ma quale grazia dovrò dimandare?

Dimanderai alla santa Vergine che ti ottenga da Dio sanità e grazia per farti santo.

Che mi aiuti a farmi santo, che mi aiuti a fare una santa morte, e che negli ultimi momenti di vita mi assista e mi conduca in cielo.

Di fatto egli dimostrò tale fervore nel decorso di quel mese, che sembrava un angelo vestito di umane spoglie. Se scriveva parlava di Maria, se studiava, cantava, andava a scuola, tutto era per onore di Lei. In ricreazione procurava di aver ogni giorno pronto un esempio per raccontarlo ora a questi, ora a quegli altri compagni radunati. Un compagno un giorno gli disse: «Se fai tutto in quest’anno, che cosa vorrai fare un altro anno?». «Lascia far da me, rispose: in quest’anno voglio fare quel che posso; l’anno venturo, se ci sarò ancora, ti dirò quello che sarò per fare»4.

Per usare tutti i mezzi atti a fargli riacquistare la sanità ho fatto fare un consulto di medici. Tutti ammirarono la giovialità, la pron­tezza di spirito e l’assennatezza delle risposte di Domenico. Il dottor Francesco Vallauri, di felice memoria5, che era uno dei benemeriti consulenti, pieno di ammirazione: «Che perla preziosa, disse, è mai questo giovanetto!».

Qual è l’origine del malore che gli fa diminuire la sanità ogni giorno più? gli dimandai.

La sua gracile complessione, la cognizione precoce, la continua tensione di spirito, sono come lime che gli rodono insensibilmente le forze vitali.

Qual rimedio potrebbe tornargli maggiormente utile?

Il rimedio più utile sarebbe lasciarlo andare al paradiso, per cui mi pare assai preparato. L’unica cosa che potrebbe protrargli la vita si è l’allontanarlo intieramente qualche tempo dallo studio, e trattenerlo in occupazioni materiali adattate alle sue forze.

49 CAPO XXII

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50 Sua sollecitudine per gli ammalati - Lascia l’Oratorio - Sue parole in tale occasione

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Lo sfinimento di forze in cui si trovava non era tale da tenerlo continuamente a letto; perciò talvolta andava a scuola, allo studio; oppure si occupava in affari domestici. Fra le cose in cui si occu­pava con gran piacere era il servire i compagni infermi qualora ve ne fossero stati nella casa.

Io non ho alcun merito avanti a Dio, diceva, nell’assistere o vi­sitare gl’infermi, perché lo fo con troppo gusto; anzi mi è un caro divertimento.

Mentre poi loro faceva dei servizi temporali, era accortissimo nel suggerire sempre qualche cosa di spirituale. «Questa carcassa, diceva ad un compagno incomodato, non vuol durare in eterno, non è vero? Bisogna lasciare che si logori poco per volta, finché vada alla tomba; ma allora, caro mio, l’anima nostra sciolta dagli impacci del corpo vo­lerà gloriosa al cielo e godrà una sanità ed una felicità interminabile».

Avvenne che un compagno rifiutavasi di bere una medicina, per­ché amara. «Caro mio, dicevagli Domenico, noi dobbiamo prendere qualsiasi rimedio, perché così facendo obbediamo a Dio, che ha stabi­lito medici e medicine, perché sono necessari a riacquistare la perduta sanità; che se proviamo qualche ripugnanza per il gusto, avremo maggior merito per l’anima. Del resto credi che questa tua bevanda sia tanto amara ed aspra quanto era amaro il fiele misto con aceto di cui fu abbeverato l’innocentissimo Gesù sopra la croce?». Queste parole dette colla maraviglio­sa sua schiettezza facevano sì che niuno osava più opporre difficoltà.

Sebbene la sanità del Savio fosse divenuta assai cagionevole, tut­tavia l’andare a casa era cosa per lui la più disgustosa, perciocché gli rincresceva interrompere gli studi e le solite sue pratiche di pietà. Alcuni mesi prima io ve l’aveva già mandato, ed egli vi dimorò solo pochi giorni e tosto me lo vidi ricomparire all’Oratorio. Io debbo dirlo, il rincrescimento era reciproco: io l’avrei tenuto in questa casa a qua­lunque costo, il mio affetto per lui era quello di un padre verso di un figliuolo il più degno di affezione. Pure il consiglio dei medici era tale, ed io voleva eseguirlo; tanto più che da alcuni giorni erasi in lui manifestata una ostinata tosse. Se ne avverte adunque il padre, e si stabilisce la partenza per il primo di marzo 1857.

Si arrese Domenico a tale deliberazione, ma solo per farne un sacrificio a Dio. «Perché, gli si domandò, vai a casa così di mal animo; mentre dovresti andarvi con gioia per godervi la compagnia dei tuoi amati genitori?». «Perché, rispose, desidero di terminare i miei giorni all’Oratorio».

Andrai a casa, e, dopo che ti sarai alquanto ristabilito in salute, ritornerai.

Oh! questo poi no, no, io me ne vo e non ritornerò più.

La sera precedente alla partenza non poteva levarmelo d’attorno; sempre aveva cose da dimandare. Fra le altre diceva: «Qual è la cosa migliore che possa fare un ammalato per acquistar merito davanti a Dio?».

Offrire spesso a Dio quanto egli soffre.

Qual altra cosa potrebbe ancor fare?

Offrire la sua vita al Signore.

Posso esser certo che i miei peccati mi siano stati perdonati?

Ti assicuro a nome di Dio che i tuoi peccati ti sono stati tutti perdonati.

Posso essere certo di essere salvo?

Sì, mediante la divina misericordia, la quale non ti manca, tu sei certo di salvarti.

Se il demonio venisse a tentarmi che cosa gli dovrei rispondere?

Gli risponderai che hai venduto l’anima a Gesù Cristo, e che egli l’ha comperata col prezzo del suo sangue1; se il demonio ti facesse ancora altra difficoltà, gli chiederai qual cosa abbia egli fatto per l’a­nima tua. Al contrario Gesù Cristo ha sparso tutto il suo sangue per liberarla dall’inferno e condurla seco lui al paradiso.

Dal paradiso potrò vedere i miei compagni dell’Oratorio, ed i miei genitori?

Sì, dal paradiso vedrai tutte le vicende dell’Oratorio, vedrai i tuoi genitori, le cose che li riguardano, ed altre cose mille volte ancor più belle.

Potrò venire a far loro qualche visita?

Potrai venire, purché tal cosa torni a maggior gloria di Dio.

Queste e moltissime dimande andava facendo, e sembrava una persona che avesse già un piede sulle porte del paradiso e che prima d’entrarvi volesse bene informarsi delle cose che entro vi erano.

51 CAPO XXIII

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52 Dà l’addio ai suoi compagni

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Il mattino di sua partenza fece coi suoi compagni l’esercizio della buona morte con tale trasporto di divozione nel confessarsi e nel comunicarsi, che io, che ne fui testimonio, non so come esprimerlo. «Bisogna, egli diceva, che faccia bene questo esercizio, perché spero che sarà per me veramente quello della mia buona morte. Ché se mi accadesse di morire per la strada, sarei già comunicato». Il rimanente della mattinata lo impiegò tutto per mettere in sesto le cose sue. Aggiustò il baule mettendo ogni oggetto come se non dovesse toc­carlo mai più. Dopo andava visitando un per uno i suoi compagni, a chi dava un consiglio, avvisava questo ad emendarsi di un difetto, incoraggiava quell’altro a perseverare nel bene. Ad uno cui doveva rimettere due soldi1, il richiamò e gli disse: «Vien qua, aggiustiamo i nostri conti, altrimenti tal cosa mi cagionerà imbrogli nell’aggiusta­mento dei conti col Signore». Parlò ai confratelli della società dell’Im­macolata Concezione, e colle più animate espressioni li incoraggiava ad essere costanti nell’osservanza delle promesse fatte a Maria santissima ed a riporre in lei la più viva confidenza. Al momento di partire mi chiamò e dissemi queste precise parole: «Ella adunque non vuole questa mia carcassa (carcame ovvero scheletro) ed io sono costretto a portarla a Mondonio. Il disturbo sarebbe di pochi giorni, ... poi sa­rebbe tutto finito; tuttavia sia fatta la volontà di Dio. Se va a Roma, si ricordi della commissione dell’Inghilterra presso il Papa; preghi affinché io possa fare una buona morte e a rivederci in paradiso». Eravamo giunti alla porta che mette fuori dell’Oratorio, ed egli mi teneva tuttora stretta la mano quando si volta ai compagni che lo attorniavano e disse2: «Addio, amati compagni, addio tutti, pregate per me e a rivederci colà dove saremo sempre col Signore»3. Era già sulla porta del cortile, quando lo vedo tornare indietro e dirmi:

Mi faccia un regalo da conservare per sua memoria.

Dimmi che regalo ti aggrada e te lo farò sull’istante. Vuoi tu un libro?

No: qualche cosa di meglio.

Vuoi danaro per il viaggio?

Sì, appunto: danaro per il viaggio dell’eternità. Ella ha detto che ha ottenuto dal Papa alcune indulgenze plenarie in articolo di morte, metta anche me nel numero di quelli che ne possono partecipare.

Sì, figlio mio, tu puoi ancora essere compreso in quel numero e vo subito a scrivere il tuo nome in quella carta.

Dopo di che egli lasciava l’Oratorio dove era stato circa tre anni con tanto piacere per sé, con tanta edificazione dei suoi compagni e dei medesimi suoi superiori, e lo lasciava per non ritornarvi mai più.

Noi eravamo tutti maravigliati di quei suoi insoliti saluti. Sape­vamo che egli pativa molti incomodi di salute, ma poiché si teneva quasi sempre fuori di letto, non facevamo gran caso della sua malattia. Di più avendo un’aria costantemente allegra, niuno dal volto poteva scorgere, che egli patisse malori di corpo o di spirito. E sebbene quegli insoliti saluti ci avessero posti in afflizione, avevamo però la speranza di rivederlo presto a ritornare fra noi. Ma non era così, egli era ma­turo per il cielo; nel breve corso di vita erasi già guadagnata la mercede dei giusti, come se fosse vissuto a molto avanzata età, ed il Signore lo voleva sul fiore degli anni chiamare a sé per liberarlo dai pericoli in cui spesso fanno naufragio anche le anime più buone4.

53 CAPO XXIV

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54 Andamento di sua malattia - Ultima confessione, riceve il Viatico - Fatti edificanti

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Partiva il nostro Domenico da Torino il primo marzo alle due pomeridiane in compagnia di suo padre, e il suo viaggio fu buono: anzi pareva che la vettura, la varietà de’ paesi, la compagnia dei pa­renti gli avessero fatto del bene. Onde giunto a casa, per quattro giorni non si pose a letto. Ma veduto che gli si diminuivano le forze e l’ap­petito, e che la tosse si mostrava ognor più forte, fu giudicato bene di mandarlo a farsi visitare dal medico. Questi trovò il male assai più grave che non appariva. Comandò che andasse a casa e si mettesse tosto a letto, e giudicando che fosse malattia d’infiammazione fece uso dei salassi1.

È proprio dell’età giovanile il provare grande apprensione pei salassi. Perciò il chirurgo nell’atto di cominciare l’operazione esor­tava Domenico a voltare altrove la faccia2, aver pazienza e farsi co­raggio. Egli si pose a ridere e disse: «Che è mai una piccola puntura in confronto dei chiodi piantati nelle mani e nei piedi dell’innocentissimo nostro Salvatore?». Quindi con tutta pacatezza d’animo, face­ziando e senza dar segno del minimo turbamento mirava il sangue ad uscire dalle vene in tutto il tempo dell’operazione3. Fatti alcuni salassi, la malattia sembrava volgere in meglio; così assicurava il me­dico, così credevano i parenti: ma Domenico giudicava altrimenti. Guidato dal pensiero che è meglio prevenire i sacramenti, che per­dere i sacramenti, chiamò suo padre: «Papà! gli disse, è bene che fac­ciamo un consulto col medico celeste. Io desidero di confessarmi e di ricevere la santa comunione».

I genitori che eziandio giudicarono la malattia in istato di miglio­ramento udirono con pena tale proposta, e solo per compiacerlo fu mandato a chiamare il prevosto, che lo venisse a confessare4. Venne questi prontamente per la confessione, poscia sempre per compia­cerlo gli portò il santo viatico. Ognuno può immaginarsi con quale divozione e raccoglimento siasi comunicato. Tutte le volte che si accostava ai santi sacramenti sembrava sempre un san Luigi. Ora che egli giudicava esser veramente quella l’ultima comunio­ne della sua vita, chi potrebbe esprimere il fervore, gli slanci di teneri affetti che da quell’innocente cuore uscirono verso l’amato suo Gesù?

Richiamò allora alla memoria le promesse fatte nella prima comu­nione. Disse più volte: «Sì, sì, o Gesù, o Maria, voi sarete ora e sempre gli amici dell’anima mia. Ripeto e lo dico mille volte: morire, ma non peccati». Terminato il ringraziamento, tutto tranquillo disse: «Ora sono contento; è vero che debbo fare il lungo viaggio dell’eternità, ma con Gesù in mia compagnia ho nulla a temere. Oh! dite pur sempre, ditelo a tutti: chi ha Gesù per suo amico e compagno non teme più alcun male, nemmeno la morte».

La sua pazienza fu esemplare in tutti gli incomodi sofferti nel corso della vita; ma in questa ultima malattia apparve un vero modello di santità. Non voleva che alcuno lo aiutasse negli ordinari bisogni. «Finché potrò, diceva egli, voglio diminuire il disturbo ai miei cari genitori; essi hanno già tollerati tanti incomodi e tante fatiche per me; potessi io almeno in qualche modo ricompensarli!». Prendeva con indifferenza i rimedi anche i più disgustosi; si sottomise a dieci salassi senza dimo­strare il minimo risentimento.

Dopo quattro giorni di malattia, il medico si rallegrò coll’infermo, e disse ai parenti: «Ringraziamo la divina Provvidenza, siamo a buon punto, il male è vinto, abbiamo soltanto bisogno di fare una giudiziosa convalescenza». Godevano di tali parole i buoni genitori. Domenico però si pose a ridere e soggiunse: «Il mondo è vinto5, ho soltanto bi­sogno di fare una giudiziosa comparsa davanti a Dio». Partito il medico, senza lusingarsi di quanto eragli stato detto, chiese che gli fosse am­ministrato il sacramento dell’Olio Santo. Anche quivi i parenti accon­discesero per compiacerlo, perché né essi, né il prevosto scorgevano in lui alcun pericolo prossimo di morte, anzi la serenità del sembiante e la giovialità delle parole il facevano realmente giudicare in istato di miglioramento. Ma egli o fosse mosso da sentimenti di devozione oppure fosse così inspirato da voce divina che gli parlasse al cuore, fatto sta che contava i giorni e le ore di vita come si calcolano colle operazioni dell’aritmetica, ed ogni momento era da lui impiegato a prepararsi a comparire dinanzi a Dio. Prima di ricevere l’Olio Santo fece questa preghiera: «Oh Signore, perdonate i miei peccati, io vi amo, vi voglio amare in eterno! Questo sacramento, che nella vostra infinita misericordia permettete che io riceva, scancelli dall’anima mia tutti i peccati commessi coll’udito, colla vista, colla bocca, colle mani e coi piedi; sia il mio corpo e l’anima mia santificata dai meriti della vostra passione: così sia».

Egli rispondeva a ciascuna occorrenza con tale chiarezza di voce e giustezza di concetti, che noi l’avremmo detto in perfetto stato di salute.

Eravamo al 9 marzo, quarto di sua malattia, ultimo di sua vita. Gli erano già stati praticati dieci salassi con altri rimedi e le sue forze erano intieramente prostrate, perciò gli fu data la benedizione papale. Disse egli stesso il Confiteor, rispondeva a quanto diceva il sacerdote. Quando intese a dirsi che con quell’atto religioso il Papa gli compar­tiva la benedizione apostolica coll’indulgenza plenaria provò la più grande consolazione. «Deo gratias, andava dicendo, et semper Deo gratias». Quindi si volse al crocifisso e recitò questi versi che gli erano molto famigliari nel corso della vita:


Signor, la libertà tutta vi dono,

Ecco le mie potenze, il corpo mio,

Tutto vi do, che tutto è vostro, o Dio,

E nel vostro voler io m’abbandono6.

55 CAPO XXV

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56 Suoi ultimi momenti e sua preziosa morte

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È verità di fede che l’uomo raccoglie in punto di morte il frutto delle opere sue. Quae seminaverit homo, haec et metet1. Se in vita sua ha seminato opere buone, egli raccoglierà in quegli ultimi momenti frutti di consolazione; se ha seminato opere cattive, allora raccoglierà desolazione sopra desolazione. Nulladimeno avviene talvolta che anime buone dopo una santa vita provino terrore e spavento all’avvi­cinarsi l’ora della morte. Questo accade secondo gli adorabili decreti di Dio, che vuole purgare quelle anime dalle piccole macchie che forse hanno contratto in vita e così assicurare e rendere loro più bella la corona di gloria in cielo. Del nostro Savio non fu così. Io credo che Iddio abbia voluto dargli tutto quel centuplo che alle anime dei giusti egli fa precedere alla gloria del paradiso. Difatti l’innocenza conservata fino all’ultimo momento di vita, la sua viva fede, e le continue pre­ghiere, le lunghe sue penitenze e la vita tutta seminata di tribolazioni gli meritarono certamente quel conforto in punto di morte.

Egli adunque vedeva appressarsi la morte colla tranquillità dell’anima innocente; anzi sembrava che nemmeno il suo corpo provasse gli affanni e le oppressioni che sono inseparabili dagli sforzi che natu­ralmente l’anima deve fare nel rompere i legami del corpo. Insomma la morte del Savio si può chiamare piuttosto riposo, che morte.

Era la sera del 9 marzo 1857, egli aveva ricevuto tutti i conforti di nostra santa cattolica religione. Chi l’udiva soltanto a parlare e ne mirava la serenità del volto, avrebbe in lui ravvisato chi giace a letto per riposo. L’aria allegra, gli sguardi tuttora vivaci, piena cognizione di se stesso, erano cose che facevano tutti maravigliare e niuno fuori di lui poteva persuadersi che egli si trovasse in punto di morte.

Un’ora e mezzo prima che tramandasse l’ultimo respiro il prevosto l’andò a visitare, e al vederne la tranquillità lo stava con istupore ascoltando a raccomandarsi l’anima. Egli faceva frequenti e prolun­gate giaculatorie, che tendevano tutte a manifestare il vivo di lui desiderio di andare presto al cielo. «Quale cosa suggerire per racco­mandare l’anima ad agonizzanti di questa fatta?», disse il prevosto2. Dopo aver recitato con lui alcune preghiere, il parroco era per uscire, quando Savio lo chiamò dicendo: «Signor prevosto, prima di partire mi lasci qualche ricordo». «Per me, rispose, non saprei che ricordo la­sciarti». «Qualche ricordo, che mi conforti». «Non saprei dirti altro se non che ti ricordi della passione del Signore». «Deo gratias, ri­spose, la passione di nostro Signor Gesù Cristo sia sempre nella mia mente, nella mia bocca, nel mio cuore. Gesù, Giuseppe e Maria, assistetemi in questa ultima agonia; Gesù, Giuseppe e Maria, spiri in pace con voi l’anima mia». Dopo tali parole si addormentò e prese mezz’ora di riposo. Indi svegliatosi volse uno sguardo ai suoi parenti: «Papà, disse, ci siamo».

Eccomi, figliuol mio, che ti abbisogna?

Mio caro papà, è tempo; prendete il mio Giovane provveduto (3) e leggetemi le preghiere della buona morte.

A queste parole la madre ruppe in pianto e si allontanò dalla ca­mera dell’infermo. Al padre scoppiava il cuore di dolore, e le lagrime gli soffocavano la voce; tuttavia si fece coraggio e si mise a leggere quella preghiera. Egli ripeteva attentamente e distintamente ogni pa­rola; ma infine di ciascuna parte voleva dire da solo: «Misericordioso Gesù, abbiate pietà di me»4. Giunto alle parole: «Quando finalmente l’anima mia comparirà davanti a voi, e vedrà per la prima volta lo splendore immortale della vostra maestà, non la rigettate dal vostro cospetto, ma degnatevi di ricevermi nel seno amoroso della vostra misericordia, affinché io canti eternamente le vostre lodi»5. «Ebbene, soggiunse, questo è appunto quello che io desidero. Oh caro papà, cantare eternamente le lodi del Signore!». Poscia parve prendere di nuovo un po’ di sonno a guisa di chi riflette seriamente a cosa di grande importanza. Di lì a poco si risvegliò e con voce chiara e ri­dente: «Addio, caro papà, addio: il prevosto voleva ancora dirmi altro, ed io non posso più ricordarmi... Oh! che bella cosa io vedo mai...». Così dicendo e ridendo con aria di paradiso spirò colle mani giunte innanzi al petto in forma di croce senza fare il minimo movimento6.

Va’ pure, anima fedele al tuo Creatore, il cielo ti è aperto, gli angeli ed i santi ti hanno preparata una gran festa; quel Gesù che tanto amasti t’invita e ti chiama dicendo: «Vieni, servo buono e fedele, vieni, tu hai combattuto, hai riportato vittoria, ora vieni al possesso di un gaudio che non ti mancherà mai più: intra in gaudium Domini tui»7.

57 CAPO XXVI

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58 Annunzio di sua morte - Parole del prof. D. Picco ai suoi allievi

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Quando il padre di Domenico il vide proferire parole nel modo che abbiamo riferito, e poi piegare il capo come per riposare, pensavasi realmente che avesse di nuovo preso sonno. Lo lasciò alcuni istanti in quella posizione, ma tosto volle chiamarlo, e si accorse che egli era già fatto cadavere. Lascio ad ognuno immaginare la desola­zione dei genitori per la perdita di un figliuolo che alla innocenza, alla pietà univa i modi più graziosi e più atti a farsi amare!

Noi pure quivi nella casa dell’Oratorio eravamo ansiosi di avere notizie di questo venerato amico e compagno; quando ricevo dal padre di lui una lettera che incominciava così: «Colle lagrime agli occhi le annunzio la più trista novella: il mio caro figliuolo Domenico, di lei discepolo, qual candido giglio, qual Luigi Gonzaga, rese l’anima al Signore ieri sera 9 del corrente mese di marzo dopo aver nel modo più consolante ricevuto i santi sacramenti e la benedizione papale»1.

Tale notizia pose in costernazione i suoi compagni. Chi piangeva in lui la perdita di un amico, di un consigliere fedele; chi sospirava di aver perduto un modello di vera pietà. Alcuni si radunarono a pregare per il riposo dell’anima di lui. Ma il maggior numero andava dicendo: «Egli era santo, ora è già in paradiso». Altri cominciarono a raccoman­darsi a lui come ad un protettore presso Dio. Tutti poi andarono a gara per avere qualche oggetto che avesse appartenuto a lui.

Recata quella notizia al prof. D. Picco, ne fu profondamente addolorato. Come furono radunati i suoi alunni, tutto commosso par­tecipava loro il tristo annunzio con queste parole:

«Non è molto tempo, o giovani carissimi, parlandovi a caso della caducità della vita umana, vi faceva osservare come la morte non ri­sparmii talvolta anche la vostra florida età, e per esempio vi adduceva, come or sono due anni, in questi stessi giorni frequentava questa medesima scuola, sedeva qui presente ad ascoltarmi un giovane pieno di vita e di vigore, il quale, dopo l’assenza di pochi giorni, passava da questa vita, dai parenti e dagli amici compianto (2). Quando io vi rammentava quel caso doloroso era ben lungi dal pensare che il presente anno avesse ad essere funestato da un somigliante duolo, e che tale esempio si avesse a rinnovare sì presto in uno di quelli stessi che mi ascoltavano. Sì, miei cari, io debbo amareggiarvi con una dolo­rosa nuova. La falce della morte mieteva ieri l’altro la vita di uno tra i più virtuosi vostri compagni, del buon giovinetto Domenico Savio. Voi forse vi ricorderete, come negli ultimi giorni, in cui fre­quentò la scuola, si mostrasse tormentato da una tosse maligna che già mi faceva presagire una seria malattia, onde nissuno di noi si stupì quando udimmo che era stato da quella obbli­gato ad assentarsi dalla scuola. Per meglio curare il suo morbo, e già prevedendo, come replicatamente disse ad alcuni, il suo prossimo fine, egli secondò il consiglio dei medici e dei suoi superiori, e andò in seno della famiglia. Quivi la violenza del male si sviluppò oltre modo e dopo soli quattro giorni di malattia rese l’innocente suo spirito al Creatore.

Io lessi ieri la lettera, con cui il desolato genitore dava la dolorosa nuova, e questa nella sua semplicità faceva tale pittura della santa morte di quell’angelo, che mi commosse fino alle lagrime. Egli non trova espressioni più acconce a lodare l’amato suo figliuolo che col chiamarlo un altro S. Luigi Gonzaga sì nella santità della vita come nella beata rassegnazione alla morte. Io vi assicuro che assai mi duole, che egli abbia frequentato sì poco la mia scuola, e che in questo breve tempo la sua poca sanità non mi abbia permesso di conoscerlo e pra­ticarlo più che si può fare in una scuola alquanto numerosa. Perciò io lascio ai suoi superiori il dirvi quale fosse la santità dei suoi senti­menti, quale il suo fervore nella divozione e nella pietà; lascio ai suoi compagni ed amici, che quotidianamente lo avevano seco, e con lui domesticamente conversavano, il dirvi la modestia dei suoi costumi e di ogni suo porta­mento, la severità dei suoi discorsi; lascio ai suoi parenti il dirvi quale fosse la sua obbedienza, il suo rispetto, la sua docilità. E che potrò io ricordarvi che a tutti voi non sia noto? Io altro non dirò se non che sempre si rese commendevole per il suo contegno e per la sua tran­quillità nella scuola, per la sua diligenza ed esattezza nell’adempimento di ogni suo dovere, e per la sua continua attenzione ai miei insegna­menti, e che io sarei beato se ognuno di voi si proponesse di seguirne il santo esempio.

Prima ancor che l’età e gli studi gli permettessero di frequentare la nostra scuola, essendo egli da tre anni annoverato tra quelli che hanno ricetto ed istruzione presso l’Oratorio di S. Francesco di Sales, io ne aveva più volte udito a fare parola dal direttore di quell’Oratorio, e lo aveva udito ad encomiare come uno tra i più studiosi e virtuosi giovani di quella casa. Tale era il suo ardore nello studio, tale il rapido progresso che aveva fatto nelle prime scuole di latinità, che sommo era il mio desiderio di porlo nel numero dei miei allievi e grande era l’aspettazione che io aveva della felicità del suo ingegno. E prima di averlo in iscuola già l’aveva annunziato ad alcuno dei miei allievi come un emulo, con cui bello sarebbe stato il gareggiare non meno nello studio che nella virtù. E nelle frequenti mie visite all’Oratorio scorgendo in lui una fisionomia sì dolce, quale voi sapete essere stata la sua, scor­gendo quel suo sguardo sì innocente, mai non lo vedeva che non mi sen­tissi tratto ad amarlo e ad ammirarlo. Alle belle speranze, che io ne aveva concepite, certamente egli non venne meno allorché nel presente anno scolastico prese a frequentare la mia scuola. A voi mi appello, giovani dilettissimi, che siete stati testimoni del suo raccoglimento e della sua applicazione non solamente nel tempo che il dovere lo chiamava ad ascoltarmi, ma in quello eziandio, il quale per lo più non si fanno scrupolo di perdere molti giovanetti, i quali non sono privi di docilità e diligenza. A voi domando, che gli eravate compagni non solo nella scuola, ma pur anche negli usi domestici della vita, se mai lo avete veduto a far cosa che lo mostrasse dimentico di alcuno dei suoi doveri.

Parmi ancora di vederlo, quando con quella modestia, che era tutta sua propria, entrava nella scuola, prendeva il suo luogo e in tutto il tempo dell’ingresso, lungi dal vano cicaleccio consueto dei giovani della sua età, ripeteva la sua lezione, scriveva annotazioni, oppure si tratteneva in qualche utile lettura; e quindi cominciata la scuola con quale applicazione io vedeva quel suo angelico volto pendere dalle mie parole! Perciò non fa maraviglia se non ostante la sua tenera età e la sua poca salute fosse grandissimo il profitto che col suo ingegno dagli studi ricavava. E prova ne sia che in un considerevole numero di giovani, la maggior parte di più che mediocre ingegno, benché già covasse in seno la malattia, che alfine lo trasse alla tomba, e fosse perciò obbligato a frequenti assenze, tuttavia egli tenne quasi sempre i primi posti della sua classe. Ma una cosa destava in modo affatto particolare la mia attenzione, e traeva a sé la mia ammirazione, ed era il vedere come quella giovanile sua mente si mostrasse unita a Dio, ed affettuosa e fervida nelle preghiere. Ella è cosa consueta anche nei giovani meno dissipati, che tratti dalla naturale vivacità e dalle distra­zioni, a cui va soggetta questa fervida vostra età, pochissima rifles­sione facciano al senso delle orazioni, che sono invitati a recitare, e quasi con nessuno affetto del cuore le accompagnino. Onde avviene che in gran parte di essi niente altro vi ha che le labbra e la voce. Or se così abituale è la distrazione della gioventù anche nelle preghiere che indirizzano al Signore nel silenzio e nella tranquillità delle chiese, oppure nella solitudine delle proprie celle, nelle quotidiane orazioni, voi, o giovani, lo sapete quanto questo avvenga più facilmente in quelle brevissime preghiere che sogliono dirsi prima e dopo le lezioni della scuola. Ed è appunto in queste che mi fu dato di ammirare il fervore del nostro Domenico alla pietà, e l’unione dell’anima sua con Dio. Quante volte io l’osservai con quel suo sguardo rivolto al cielo, al cielo che sì presto doveva essere la sua dimora, raccogliere tutti i suoi sentimenti, e con quell’atto offrirli al Signore e alla beatissima sua madre, con quella pienezza di affetti che appunto richiedono le recitate preghiere! E questi sentimenti, o amatissimi giovani, erano poi quelli, che animavano i suoi pensieri nel compiere ogni suo dovere, erano quelli, che ogni suo atto, ogni sua parola santificavano, che tutta la sua vita interamente dirigevano alla gloria di Dio. O beati quei gio­vani che a tali concetti s’inspirano! Faranno la loro felicità in questa vita e nell’altra, e beati renderanno i parenti che li educano, i maestri che li istruiscono, tutte le persone che si occupano del loro bene.

Dilettissimi giovani, la vita è un dono preziosissimo, che Iddio ci fece, per darci il mezzo di acquistarci dei meriti per il cielo, e così sarà se tutto quello che noi facciamo è tale che offerir si possa a quel su­premo Donatore, come appunto faceva il nostro Domenico. Ma che direm noi di quel giovane, che passa tutta intera la vita dimentico affatto del fine a cui Dio lo ha destinato, che mai non trova un mo­mento, in cui pensi a dedicare i suoi affetti al Creatore, che nel suo cuore non dà mai luogo ad alcuna aspirazione che lo sollevi verso il suo Dio? Inoltre che diremo di quel giovane che fa quanto sta in lui per tenere da sé lontani simili sentimenti, o per combatterli e soffo­carli, se li sente vicini a penetrare nel suo cuore? Deh! riflettete al­quanto sulla santa vita e santo fine del carissimo vostro compagno, sulla invidiabile sorte, di cui possiamo avere fiducia che goda; e quindi ritornando col pensiero su voi stessi esaminate che cosa ancora vi manchi per somigliargli e quali voi essere vorreste, se al pari di lui vi trovaste sul punto di dovervi presentare a quel tribunale ove Dio chiederà a tutti stretto conto di ogni più leggero mancamento. Quindi se a questo confronto voi ritrovate che grande sia la differenza, pro­ponetevelo per esempio, imitatene le cristiane virtù, disponete l’anima vostra ad essere come la sua, pura e monda agli occhi di Dio, acciocché all’improvvisa chiamata, la quale immancabilmente o tosto o tardi dovrà udirsi da tutti noi, le possiamo rispondere coll’ilarità sul volto, col sorriso sulle labbra, come fece l’angelico vostro condiscepolo. Ascol­tate ancora un mio voto, con cui io conchiudo queste mie parole. Se io m’accorgerò che i miei allievi diano luogo nella loro condotta ad un notevole miglioramento, se li vedrò d’or innanzi più esatti nei loro doveri, e più compresi dell’importanza di una vera pietà, lo crederò effetto del santo esempio del nostro Domenico e lo riguarderò quale grazia di lassù impetrata dalle sue preghiere in premio di essergli stati per breve tempo voi compagni ed io maestro»3.

Così il professore D. Picco esponeva ai suoi allievi la profonda e dolo­rosa sensazione provata all’annunzio della morte del caro suo alunno Savio Domenico.

59 CAPO XXVII

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60 Emulazione per la virtù del Savio - Molti si raccomandano a lui per ottenere celesti favori, e ne sono esauditi - Un ricordo per tutti

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Chiunque ha letto le cose che abbiamo scritto intorno al giova­netto Savio Domenico non si maraviglierà che Dio siasi degnato di favorirlo di doni speciali, facendo risplendere le virtù di lui in molte guise. Mentre egli ancor viveva, molti si davano sollecitudine per seguirne i consigli, gli esempi ed imitarne le virtù; molti anche mossi dalla specchiata condotta, dalla santità della vita, dall’innocenza dei suoi costumi, si raccomandavano alle sue preghiere. E si raccontano non poche grazie ottenute per le preghiere fatte a Dio dal giovane Savio mentre egli era ancora nella vita mortale. Ma dopo morte crebbe assai verso di lui la confidenza e la venerazione.

Appena giunse tra noi la notizia di sua morte, parecchi suoi com­pagni lo andavano proclamando per santo. Si radunarono essi per recitare le litanie per un defunto; ma invece di rispondere ora pro eo, cioè Santa Maria, pregate per il riposo dell’anima di lui, non pochi rispondevano: ora pro nobis: Santa Maria, pregate per noi. «Perché, dicevano, a quest’ora Savio gode già la gloria del paradiso e non ha più bisogno delle nostre preghiere».

Altri poi soggiungevano: «Se non è andato direttamente al paradiso Domenico Savio, che tenne una vita così pura e così santa, chi potrà mai dirsi che ci possa andare?». Laonde fin d’allora diversi amici e compagni, che ammirarono le sue virtù in vita, studiavano di farselo modello nel bene operare e cominciavano a raccomandarsi a lui come a celeste protettore.

Quasi ogni giorno si raccontavano grazie ricevute ora per il corpo ora per l’anima. Io ho veduto un giovane che pativa mal di dente che lo faceva smaniare. Raccomandatosi al suo compagno Savio con breve preghiera, ebbe calma sull’istante, e finora non andò più soggetto a questo desolante malore. Molti si raccomandarono per essere liberati dalle febbri e ne furono esauditi. Io fui testimonio di uno che istan­taneamente ottenne la grazia di essere liberato da gagliarda febbre (1). Ho sott’occhio molte relazioni di persone che espongono celesti fa­vori da Dio ottenuti per intercessione del Savio. Ma sebbene il ca­rattere e l’autorità delle persone che depongono questi fatti siano per ogni lato degne di fede, tuttavia essendo esse ancor viventi, stimo meglio di ometterli per ora e contentarmi di riferire qui soltanto una grazia speciale ottenuta da uno studente di filosofia, compagno di scuola di Domenico. L’anno 1858 questo giovane incontrò gravi incomodi di salute. La sua sanità fu così alterata che dovette interrompere il corso di filosofia, assoggettarsi a molte cure e in fine dell’anno non gli fu possi­bile di subire l’esame. Stavagli molto a cuore di potersi almeno pre­parare per l’esame di Tutti i Santi, perciocché in tale guisa avrebbe impedito la perdita di un anno di studio. Ma, aumentandosi i suoi incomodi, le sue speranze andavano ognor più scemando. Si recò a passare il tempo autunnale ora coi parenti in patria, ora con amici in campagna, e già parevagli di avere alquanto migliorato nella sanità. Ma giunto a Torino e postosi per poco tempo a studiare, egli ricadde peggio di prima. «Io era vicino agli esami, egli depone, e la mia salute trovavasi in deplorevole stato. I malori di stomaco e di capo mi toglievano ogni speranza di poter subire il desiderato esame, che per me era cosa della massima importanza. Animato da quanto udiva raccontare del mio amato compagno Domenico, volli anch’io a lui raccomandarmi facendo a Dio una novena in onore di questo mio collega. Fra le preghiere che mi era prefisso di fare era questa: “Caro compagno, tu che a somma mia consolazione e fortuna mi fosti condiscepolo più di un anno, tu che santamente meco gareggiavi per pri­meggiare nella nostra classe, tu sai quanto io abbia bisogno di subire il mio esame. Impetrami adunque, ti prego, dal Signore un po’ di salute, affinché io mi possa preparare”.

Non era ancor compiuto il quinto giorno della novena, quando la mia salute cominciò a fare così notabile e rapido miglioramento, che tosto potei mettermi a studiare, e con insolita facilità imparare le ma­terie prescritte e prendere benissimo l’esame. La grazia poi non fu di un momento, imperciocché attualmente io mi trovo in uno stato di regolare salute, che da oltre un anno non ho più goduto. Riconosco questa grazia ottenuta da Dio per intercessione di questo mio com­pagno, mio famigliare in vita, mio aiuto e conforto ora che gode la gloria del cielo. Sono oltre due mesi che tale grazia fu ottenuta, e la mia sanità continua ad essere la medesima con grande mia consola­zione e vantaggio»2.

Con questo fatto io pongo termine alla vita del giovine Savio, riservandomi a stampare più sotto alcuni altri fatti in forma d’appen­dice3, nel modo che sembrano tornare a maggior gloria di Dio e van­taggio delle anime. Ora, o amico lettore, giacché fosti benevolo di leggere quanto fu scritto di questo virtuoso giovanetto, vorrei che venissi meco ad una conclusione che possa apportar vera utilità a me, a te e a tutti quelli cui accadrà di leggere questo libretto; vorrei cioè che ci adoperassimo con animo risoluto ad imitare il giovane Savio in quelle virtù che sono compatibili col nostro stato. Nella povera sua condizione egli visse una vita la più lieta, virtuosa ed innocente, che fu coronata da una santa morte. Imitiamolo nel modo di vivere ed avremo una doppia4 caparra di essergli simili nella preziosa morte.

Ma non manchiamo d’imitare il Savio nella frequenza del sacra­mento della confessione, che fu il suo sostegno nella pratica costante della virtù, e fu guida sicura che lo condusse ad un termine di vita cotanto glorioso. Accostiamoci con frequenza e con le dovute disposi­zioni a questo bagno di salute nel corso della vita; ma tutte le volte che ci accosteremo al medesimo non manchiamo di volgere un pen­siero sulle confessioni passate per assicurarci che siano state ben fatte, e se ne scorgiam il bisogno rimediamo ai difetti che per avven­tura fossero occorsi. A me sembra che questo sia il mezzo più sicuro per vivere giorni felici in mezzo alle afflizioni della vita, in fine della quale vedremo anche noi con calma avvicinarsi il momento della morte. E allora colla ilarità sul volto, colla pace nel cuore andremo in­contro al nostro Signore Gesù Cristo, che benigno ci accoglierà per giudicarci secondo la sua grande misericordia e condurci, siccome spero per me e per te, o lettore, dalle tribolazioni della vita alla beata eternità, per lodarlo e benedirlo per tutti i secoli. Così sia.


61 Giovanni Bosco

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Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele allievo dell’Oratorio di S. Francesco di Sales



62 Nota introduttiva al testo

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Questa edizione della vita di Michele Magone si attiene al testo dell’ultima edizione curata da don Bosco, la seconda (Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele allievo dell’Orat. di S. Franc. di Sales per cura del sacerdote Bosco Giovanni, seconda edizione accresciuta, Torino, Tip. dell’Orat. di S. Franc. di Sales, 1866, 79 p.), confrontata con la prima edizione (Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele allievo dell’Oratorio di S. Francesco di Sales per cura del sacerdote Bosco Giovanni Torino, Tip. G. B. Paravia e Comp., 1861, 96 p.) e l’edizione commentata da Alberto Caviglia (Opere e scritti editi e inediti di don Bosco, vol. V, parte II: Il “Magone Michele” una classica esperienza educativa, Torino, Società Editrice Internazionale, 1965, 201-247). Abbiamo però tralasciato l’appendice: Pratica di pietà che ogni giorno compieva il giovane Magone Michele, introdotta in ed. 1861 (pp. 91-94) e in ed. 221866 (pp. 76-79).


In nota sono segnalati gli inserimenti e le varianti testuali più significative tra la prima e la seconda edizione. Quando ci è parso utile, abbiamo inserito nelle note altre informazioni di carattere documentario e storico.

Quando nel testo s’incontra un numero di rimando a nota di piè pagina racchiuso tra parentesi tonda (n) significa che tale nota era già nel testo originale o fu aggiunta nella seconda edizione.

Nella numerazione dei capitoli abbiamo conservato le cifre romane, come nelle edizioni originali.



Giovani carissimi,

tra quelli di voi, giovani carissimi, che ansiosi aspettavano la pubblicazione della vita di Savio Domenico1 eravi il giovanetto Magone Michele. Esso in modo industrioso ora dall’uno ora dall’altro raccoglieva i tratti speciali delle azioni che di quel modello di vita cristiana si raccontavano; adoperandosi poi con tutte le sue forze per imitarlo; ma ardentemente desiderava che gli si porgessero insieme raccolte le virtù di colui che egli voleva proporsi a maestro. Se non che appena poteva leggerne alcune pagine, che il Signore ponendo fine alla sua vita mortale chiamavalo, come fondatamente si spera, a godere la pace dei giusti in compagnia del­l’amico di cui intendeva farsi imitatore.

La vita singolare o meglio romantica di questo vostro compagno eccitò in voi il pio desiderio di vederla eziandio stampata; e me ne faceste ripetutamente dimanda. Laonde mosso da queste domande e dall’affetto che nutriva verso quel nostro comune amico, mosso anche dal pensiero che questo tenue lavoro sarebbe tornato dilettevole e nel tempo stesso utile alle anime vostre, mi sono determinato di appagarvi raccogliendo quanto di lui avvenne sotto ai nostri occhi per darvelo stampato in un libretto.

Nella vita di Savio Domenico voi osservate la virtù nata con lui, e coltivata fino all’eroismo in tutto il corso della vita sua mortale.

In questa di Magone noi abbiamo un giovanetto che abbandonato a se stesso era in pericolo di cominciar a battere il tristo sentiero del male; ma che il Signore invitò a seguirlo2. Ascoltò egli l’amorosa chiamata e costantemente corrispondendo alla grazia divina giunse a trarre in ammirazione quanti lo conobbero, palesandosi così quanto siano maravigliosi gli effetti della grazia di Dio verso di coloro che si adoperano per corri­spondervi.

Voi troverete qui parecchie azioni da am­mirare, molte da imitare, anzi incontrerete certi tratti di virtù, certi detti che sembrano fino anche superiori all’età di quattordici anni. Ma appunto perché sono cose non comuni mi parvero degne di essere scritte. Ogni lettore per altro è sicuro della verità dei fatti; imperciocché io non feci altro che disporre e collegare in forma storica quanto è avvenuto sotto agli occhi di una moltitudine di viventi che ad ogni momento possono essere interrogati su quanto viene ivi esposto.

In questa seconda edizione aggiunsi parecchi fatti che non mi erano noti quando fu fatta la prima3; altri fatti poi meglio spiegati per le speciali circostanze che posteriormente da fonti sicure ho potuto attingere intorno ai medesimi4.

La divina Provvidenza che dà lezione all’uomo col chiamare quando vecchi cadenti, quando giovanetti imberbi, ci conceda il grande favore di poterci trovare tutti preparati in quell’ultimo momento da cui dipende la beata o la infelice eternità. La grazia di nostro Signor Gesù Cristo sia il nostro aiuto nella vita, nella morte, e tenga fermi nella via che conduce al cielo. Così sia.

63 CAPO I

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64 Curioso incontro

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Una sera di autunno1 io ritornava da Som­mariva del Bosco2, e giunto a Carmagnola dovetti attendere oltre un’ora il convoglio della ferrovia per Torino3. Già suonavano le ore sette, il tempo era nuvoloso, una densa nebbia risolvevasi in minuta pioggia. Queste cose contribuivano a rendere le tenebre così dense, che a distanza di un passo non sarebbesi più conosciuto uomo vivente. Il fosco lume della stazione lanciava un pallido chiarore che a poca distanza dello scalo perdevasi nell’oscurità. Soltanto una turba di giovanetti con trastulli e schiamazzi attraevano l’attenzione, o meglio assordavano le orecchie degli spettatori. Le voci di aspetta, prendilo, corri, cogli questo, arresta quell’altro servivano ad occupare il pensiero dei viaggiatori. Ma tra quelle grida rendevasi notabile una voce che distinta alzavasi a dominare tutte le altre; era come la voce di un capitano, che ripetevasi da compagni ed era da tutti seguita quale rigoroso comando. Tosto nacque in me vivo desiderio di conoscere colui che con tanto ardire, e tanta prontezza sapeva regolare il trastullo in mezzo a così svariato schiamazzo. Colgo il destro che tutti sono radunati intorno a colui che la faceva da guida; di poi con due salti mi lancio tra di loro. Tutti fuggirono come spaventati; un solo si arresta; si fa avanti e appoggiando le mani sui fianchi con aria imperatoria comincia a parlare così:

Chi siete voi, che qui venite tra i nostri giuochi?

Io sono un tuo amico.

Che cosa volete da noi?

Voglio, se ne siete contenti, divertirmi e trastullarmi con te e coi tuoi compagni.

Ma chi siete voi? Io non vi conosco.

Te lo ripeto, io sono un tuo amico: desidero di fare un po’ di ricreazione con te e coi tuoi compagni. Ma tu chi sei?

Io? Chi sono? Io sono, soggiunse con grave e sonora voce, Magone Michele4 generale della ricreazione.

Mentre facevansi questi discorsi, gli altri ragazzi, che un panico timore aveva dispersi ci si avvicinarono. Dopo avere vagamente indirizzato il discorso ora agli uni, ora agli altri volsi di nuovo la parola a Magone e continuai così:

Mio caro Magone, quanti anni hai?

Ho tredici anni.

Vai già a confessarti?

Oh sì, rispose ridendo.

Sei già promosso alla santa comunione?

Sì che sono già promosso, e ci sono già andato.

Hai tu imparata qualche professione?

Ho imparato la professione del far niente.

Finora che cosa hai fatto?

Sono andato a scuola.

Che scuola hai fatto?

Ho fatto la terza elementare5.

Hai ancora tuo padre?

No, mio padre è già morto.

Hai ancora la madre?

Sì, mia madre è ancora viva e lavora a servizio altrui, e fa quanto può per dare del pane a me ed ai miei fratelli che la facciamo continuamente disperare.

Che cosa vuoi fare per l’avvenire?

Bisogna che io faccia qualche cosa, ma non so quale.

Questa franchezza di espressioni unita ad una loquela ordinata e assennata fecemi ravvisare un gran pericolo per quel giovane qualora fosse lasciato in quella guisa abbandonato. D’altra parte sembravami che se quel brio, e quell’indole intraprendente fossero coltivati, egli avrebbe fatto qualche buona riuscita: laonde ripigliai il discorso così:

Mio caro Magone, hai tu volontà di abbandonare questa vita da monello e met­terti ad apprendere qualche arte o mestiere, oppure continuare gli studi?

Ma sì, che ho volontà, rispose commosso, questa vita da dannato non mi piace più; alcuni miei compagni sono già in prigione; io temo altrettanto per me; ma che cosa devo fare? Mio padre è morto, mia madre è povera, chi mi aiuterà?

Questa sera fa’ una preghiera fervorosa al padre nostro che è nei cieli; prega di cuore, spera in lui, egli provvederà per me, per te e per tutti.

In quel momento la campanella della stazione dava gli ultimi tocchi, ed io doveva partire senza dilazione. «Prendi, gli dissi, prendi questa medaglia, domani va’ da D. Ariccio tuo viceparroco6; digli che il prete il quale te l’ha donata desidera delle in­formazioni sulla tua condotta».

Prese egli con rispetto la medaglia. «Ma quale è il vostro nome, di qual paese siete, D. Ariccio vi conosce?». Queste ed altre cose andava domandando il buon Magone, ma non ho più potuto rispondere, perché essendo giunto il convoglio della ferrovia, dovetti montare in vagone alla volta di Torino.

65 CAPO II

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66 Sua vita precedente e sua venuta all'Oratorio di S. Francesco di Sales

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Il non avere potuto conoscere il prete, con cui aveva parlato, fece nascere in Magone vivo desiderio di sapere chi egli fosse; quindi invece di aspettare l’indomani si recò immediatamente dal sig. D. Ariccio raccontando con enfasi le cose udite. Il viceparroco comprese ogni cosa, e nel giorno seguente mi scrisse una lettera in cui dava giusto ragguaglio delle maraviglie riguardanti alla vita del nostro generale.

«Il giovane Magone Michele, mi scriveva, è un povero ragazzo orfano di padre; la madre dovendo pensare a dar pane alla famiglia non può assisterlo, perciò egli passa il suo tempo nelle vie e nelle piazze coi monelli. Ha un ingegno non ordinario; ma la sua volubilità e sbadataggine l’hanno fatto licenziare più volte dalla scuola; tuttavia egli ha fatto abbastanza bene la terza elementare.

In quanto alla moralità io lo credo buono di cuore, e di semplici costumi; ma difficile a domarsi. Nelle classi di scuola o di catechismo è il disturbatore universale; quando non interviene tutto è in pace; e quando se ne parte fa un beneficio a tutti.

L’età, la povertà, l’indole, l’ingegno lo rendono degno d’ogni caritatevole riguardo. Egli è nato il 19 settembre nel 1845».

Dietro queste informazioni ho deciso di riceverlo tra i giovani di questa casa per destinarlo allo studio o ad un’arte meccanica. Ricevuta la lettera di accettazione il nostro candidato era impaziente di venire a Torino. Pensavasi egli di godere le delizie del paradiso terrestre, e diventare padrone dei danari di tutta questa capitale.

Pochi giorni dopo me lo vedo comparire avanti1. «Eccomi, disse, correndomi incontro, eccomi, io sono quel Magone Michele che avete incontrato alla stazione della ferrovia a Carmagnola».

So tutto, mio caro; sei venuto di buona volontà?

Sì, sì, la buona volontà non mi manca.

Se hai buona volontà, io ti raccomando di non mettermi sossopra tutta la casa.

Oh state pure tranquillo, che non vi darò dispiacere. Per il passato mi sono regolato male; per l’avvenire non voglio più che sia così. Due miei compagni sono già in prigione ed io...2

Sta’ di buon animo; dimmi soltanto se3 ami meglio di studiare, o intraprendere un mestiere?4

Sono disposto di fare come volete; se però mi lasciate la scelta, preferirei di studiare.

Posto che ti metta allo studio, che cosa ti sembra di avere in animo di fare ter­minate le tue classi?

Se un birbante..., ciò disse e poi chinò il capo ridendo.

Continua pure, che vuoi dire; se un birbante...

Se un birbante potesse diventare abbastanza buono per ancora farsi prete, io mi farei volentieri prete.

Vedremo adunque che cosa saprà fare un birbante. Ti metterò allo studio; in quanto poi al farti prete od altro, ciò dipenderà dal tuo progresso nello studio, dalla tua condotta morale, e dai segni che darai di essere chiamato allo stato ecclesiastico.

Se gli sforzi di una buona volontà potranno riuscire a qualche cosa, vi assicuro che non avrete ad essere malcontento di me.

Per prima cosa gli venne assegnato un compagno, che a lui facesse da angelo custode. È consuetudine di questa casa che quando si riceva qualche giovanetto di moralità sospetta o non abbastanza conosciuta si affidi ad un giovane dei più anziani della casa, e di moralità assicurata, affinché lo assista, lo corregga secondo il bisogno fino a tanto che si possa senza pericolo ammettere cogli altri compagni5. Senza che Magone il sapesse, nel modo più accorto e più caritatevole quel compagno non lo perdeva mai di vista: lo accompagnava nella scuola, nello studio, nella ricreazione: scherzava con lui, giuocava con lui. Ma ad ogni momento bisognava che gli dicesse: «Non fare questo discorso che è cattivo; non dire quella parola, non nominare il santo nome di Dio invano». Ed egli, sebbene spesso gli apparisse l’impazienza sul volto, non altro diceva che: «Bravo, hai fatto bene di avvi­sarmi; tu sei proprio un buon compagno. Se per il passato avessi avuto te per compagno non avrei contratte queste pessime abitudini che adesso non posso più abbandonare».

Nei primi giorni egli non provava gusto quasi in nessuna cosa dalla ricreazione in fuori. Cantare, gridare, correre, saltare, schiamazzare erano gli oggetti che appagavano l’indole sua focosa e vivace. Quando però il compagno gli diceva: «Magone, il campanello ci invita allo studio, alla scuola, alla preghiera», o simili, dava ancora un compassionevole sguardo ai trastulli, di poi, senza opporre difficoltà andavasene ove il dovere lo chiamava.

Ma un bel momento di vederlo era quando il campanello dava il segno del fine di qualche dovere, cui teneva dietro la ricreazione. Sembrava che uscisse dalla bocca di un cannone; volava in tutti gli angoli del cortile; ogni trastullo ove fosse stata impiegata destrezza corporale, formava la sua delizia. Il giuoco che noi diciamo barrarotta era a lui prediletto e in esso era celeberrimo6. Mescolando così la ricreazione agli altri doveri scolastici egli trovava assai dolce il novello tenore di vita.

67 CAPO III

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68 Difficoltà e riforma morale

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Il nostro Michele era da un mese nell’Oratorio, e di ogni occupazione servivasi come mezzo a far passare il tempo; egli era felice purché avesse avuto campo a fare salti e star allegro, senza riflettere che la vera contentezza deve partire dalla pace del cuore, dalla tranquillità di coscienza. Quando all’improvviso cominciò a scemare quell’ansietà di trastullarsi! Appariva alquanto pensieroso, né più prendeva parte ai trastulli, se non invitato. Il compagno che gli faceva da custode se ne accorse, e cogliendone l’occasione un giorno gli parlò così:

Mio caro Magone, da qualche giorno io non ravviso più nel tuo volto la solita giovialità; sei forse male in salute?

Oibò, di salute sto benissimo.

Da che adunque deriva questa malinconia?

Questa malinconia deriva dal vedere i miei compagni a prendere parte alle pra­tiche di pietà. Quel vederli allegri, pregare, accostarsi alla confessione, alla comunione mi cagiona continua tristezza1.

Non capisco come la divozione degli altri possa esserti oggetto di malinconia.

La ragione è facile a capirsi: i miei compagni che sono già buoni praticano la
religione e si fanno ancora più buoni; ed io che sono un birbante non posso prendervi parte, e questo mi cagiona grave rimorso e grande inquietudine.

Oh ragazzo che sei! Se ti cagiona invidia la felicità dei compagni, chi ti impe­disce di seguirne l’esempio? se hai rimorsi sulla coscienza non puoi forse levarteli?

Levarteli... levarteli... presto detto! ma se tu fossi nei miei panni, diresti ezian­dio che... — ciò detto, crollando il capo in segno di rabbia e di commozione, fuggì nella sacristia2.

Il suo amico lo seguì; e come lo raggiunse, «Mio caro Magone, gli disse, perché mi fuggi? Dimmi le tue pene; chissà che io non sappia suggerirti il modo di sollevarle?».

Tu hai ragione, ma io mi trovo in un pasticcio3.

Qualunque pasticcio tu abbia, avvi mezzo per aggiustarlo.

Come mai potrò darmi pace se mi sembra di aver mille demonii in corpo?

Non affannarti4; va’ dal confessore, aprigli lo stato della tua coscienza; egli ti darà tutti i consigli che ti saranno necessari. Quando noi abbiamo dei fastidi fac­ciamo sempre così; e perciò siamo sempre allegri.

Questo va bene ma... ma... — intanto si mise a piangere. Passarono ancora alcuni giorni, e la malinconia giungeva alla tristezza. Il trastullarsi tornavagli di peso; il riso non appariva più sulle sue labbra; spesso mentre i compagni erano corpo ed anima in ricreazione, egli si ritirava in qualche angolo a pensare, a riflettere e talvolta a piangere. Io teneva dietro a quanto accadeva di lui, perciò un giorno lo mandai a chiamare e gli parlai così:

Caro Magone, io avrei bisogno che mi facessi un piacere; ma non vorrei un rifiuto.

Dite pure, rispose arditamente, dite pure, sono disposto a fare qualunque cosa mi comandiate.

Io avrei bisogno che tu mi lasciassi un momento padrone del tuo cuore, e mi manifestassi la cagione di quella malinconia che da alcuni giorni ti va travagliando.

Sì, è vero, quanto mi dite, ma... ma io sono disperato e non so come fare.

Proferite queste parole diede in un dirotto pianto. Lo lasciai disfogare alquanto; quindi a modo di scherzo gli dissi: «Come! tu sei quel generale Michele Magone capo di tutta la banda di Carmagnola? Che generale tu sei! non sei più in grado di esprimere colle parole quanto ti duole nell’animo?».

Vorrei farlo, ma non so come cominciare; non so esprimermi.

Dimmi una sola parola, il rimanente lo dirò io.

Ho la coscienza imbrogliata.

Questo mi basta; ho capito tutto. Aveva bisogno che tu dicessi questa parola affinché io potessi dirti il resto. Non voglio per ora entrare in cose di coscienza; ti darò solamente le norme per aggiustare ogni cosa. Ascolta adunque: se le cose di tua coscienza sono aggiustate nel passato, preparati soltanto a fare una buona confessione5, esponendo quanto ti è accaduto di male dall’ultima volta che ti sei confessato. Che se per timore o per altro motivo hai omesso di confessare qualche cosa; oppure conosci qualche tua confessione mancante di alcuna delle condizioni necessarie, in questo caso ripiglia la confessione da quel tempo in cui sei certo di averla fatta bene, e confessa qualunque cosa ti possa dare pena sulla coscienza.

Qui sta la mia difficoltà. Come mai potrò ricordarmi di quanto mi è avvenuto in più anni addietro?

Tu puoi aggiustare tutto colla massima facilità. Di’ solo al confessore che hai qualche cosa da rivedere nella tua vita passata, di poi egli prenderà il filo delle cose tue, di maniera che a te non rimarrà più altro se non dire un sì o un no; quante volte questa o quella cosa ti sia accaduta.

69 CAPO IV

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70 Fa la sua confessione e comincia a frequentare i santi sacramenti

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Magone passò quel giorno nel prepararsi a fare l’esame di coscienza; ma tanto gli stava a cuore di aggiustare le partite dell’anima che la sera non volle andarsi a coricare senza prima confessarsi. «Il Signore, egli diceva, mi aspettò molto, questo è certo; che poi mi voglia ancora aspettare fino a domani è incerto. Dunque se questa sera posso confessarmi, non debbo più oltre differire, e poi è tempo di romperla col demonio». Fece pertanto la sua confessione con grande commozione, e la interruppe più volte per dare corso alle lagrime. Come l’ebbe terminata prima di partire dal confessore1 gli disse: «Vi sembra che i miei peccati mi siano tutti perdonati? se io morissi in questa notte sarei salvo?».

Va’ pure tranquillo, gli fu risposto. Il Signore che nella sua grande misericordia ti aspettò finora perché avessi tempo a fare una buona confessione, ti ha certamente perdonati tutti i peccati; e se nei suoi adorabili decreti egli volesse chiamarti in questa notte all’eternità tu sarai salvo.

Tutto commosso, «Oh quanto mai io sono felice!», soggiunse. Di poi rompendo di nuovo in lagrime andò per prendere riposo. Questa fu per lui una notte d’agitazione, di emozione. Egli più tardi espresse ad alcuni suoi amici le idee che in quello spazio di tempo gli corsero per la mente. «È difficile, soleva dire, di esprimere gli affetti che occuparono il mio povero cuore in quella notte memoranda. La passai quasi intieramente senza prendere sonno. Rimaneva qualche momento assopito, e tosto l’immaginazione facevami vedere l’inferno aperto pieno di demoni2. Cacciava tosto questa tetra immagine riflettendo che i miei peccati erano stati tutti perdonati, e in quel momento sembravami di vedere una grande quantità di angeli che mi facessero vedere il paradiso, e mi dicessero: “Vedi che grande felicità ti è riserbata, se sarai costante nei tuoi proponimenti!”.

Giunto poi alla metà del tempo stabilito per il riposo, io era così pieno di contentezza, di commozione e di affetti diversi, che per dare qualche sfogo all’animo mio mi alzai, mi posi ginocchioni, e dissi più volte queste parole: Oh quanto mai sono disgraziati quelli che cadono in peccato! ma quanto più sono infelici coloro che vivono nel peccato. Io credo che se costoro gustassero anche un solo momento la grande consolazione che provasi da chi si trova in grazia di Dio, tutti andrebbero a confessarsi per placare l’ira di Dio, dare tregua ai rimorsi della coscienza, e godere della pace del cuore. O peccato, peccato! che terribile flagello sei tu a coloro che ti lasciano entrare nel loro cuore!3 Mio Dio, per l’avvenire non voglio mai più offendervi; anzi vi voglio amare con tutte le forze dell’anima mia; che se per mia disgrazia cadessi anche in un piccolo peccato andrò tosto a confessarmi»4.

Così il nostro Magone esprimeva il suo rincrescimento di aver offeso Dio, e prometteva di mantenersi costante nel santo divino servizio. Di fatto egli cominciò a frequentare i santi sacramenti della confessione e della comunione; e quelle pratiche di pietà che prima gli cagionavano ripugnanza, dopo le frequentava con grande trasporto di gioia. Anzi provava tanto piacere nel confessarsi, e vi andava con tanta frequenza, che il confessore dovette moderarlo per impedire che non restasse dominato dagli scrupoli. Questa malattia con grande facilità si fa strada nella mente dei giovanetti, quando vogliono darsi davvero a servire il Signore. Il danno ne è grave, perciocché con questo mezzo il demonio turba la mente, agita il cuore, rende gravosa la pratica della religione; e spesso fa tornare a mala vita coloro che avevano già fatti molti passi nella virtù.

Il mezzo più facile per liberarci da tale sciagura si è l’abbandonarci all’obbedienza illimitata del confessore. Quando esso dice che una cosa è cattiva, facciamo quanto possiamo per non più commetterla. Dice in questa o in quell’altra azione non esservi alcun male? Si segua il consiglio, e si vada avanti con pace ed allegria di cuore. Insomma l’obbedienza al confessore è il mezzo più efficace per liberarci dagli scrupoli e perseverare nella grazia del Signore.

71 CAPO V

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72 Una parola alla gioventù

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Le inquietudini e le angustie del giovane Magone da un canto, e dall’altra la maniera franca e risoluta con cui egli aggiustò le cose dell’anima sua, mi porge occasione di suggerire a voi, giovani amatissimi, alcuni ricordi che credo molto utili per le anime vostre. Abbiateli come pegno di affetto di un amico che ardentemente desidera la vostra eterna salvezza.

Per prima cosa vi raccomando di fare quanto potete per non cadere in peccato1, ma se per disgrazia vi accadesse di commetterne, non lasciatevi mai indurre dal demonio a tacerlo in confessione2. Pensate che il confessore ha da Dio il potere di rimettervi ogni qualità, ogni numero di peccati. Più gravi saranno le colpe confessate, più egli godrà in cuor suo, perché sa essere assai più grande la misericordia divina che per mezzo di lui vi offre il perdono, ed applica i meriti infiniti del prezioso sangue di Gesù Cristo, con cui egli può lavare tutte le macchie dell’anima vostra.

Giovani miei, ricordatevi che il confessore è un padre, il quale desidera ardentemente di farvi tutto il bene possibile, e cerca di allontanare da voi ogni sorta di male. Non temete di perdere la stima presso di lui confessandovi di cose gravi, oppure che egli venga a svelarle ad altri. Perciocché il confessore non può servirsi di nessuna notizia avuta in confessione per nessun guadagno o perdita del mondo. Dovesse anche perdere la propria vita, non dice né può dire a chicchessia la minima cosa relativa a quanto ha udito in confessione. Anzi posso assicurarvi che più sarete sinceri ed avrete confidenza con lui, egli pure accrescerà la sua confidenza in voi e sarà sempre più in grado di darvi quei consigli ed avvisi che gli sembreranno maggiormente necessari ed opportuni per le anime vostre3.

Ho voluto dirvi queste cose affinché non vi lasciate mai ingannare dal demonio tacendo per vergogna qualche peccato in confessione4. Io vi assicuro, o giovani cari, che mentre scrivo mi trema la mano pensando al gran numero di cristiani che vanno all’eterna perdizione soltanto per aver taciuto o non aver esposto sinceramente certi peccati in confessione! Se mai taluno di voi ripassando la vita trascorsa venisse a scorgere qualche peccato volontariamente omesso, oppure avesse solo un dubbio intorno alla validità di qualche confessione, vorrei tosto dire a costui: «Amico, per amore di Gesù Cristo, e per il sangue prezioso che egli sparse per salvare l’anima tua, ti prego di aggiustare le cose di tua coscienza la prima volta che andrai a confessarti, esponendo sinceramente quanto ti darebbe pena se ti trovassi in punto di morte. Se non sai come esprimerti, di’ solamente al confessore che hai qualche cosa che ti dà pena nella vita passata. Il confessore ne ha abbastanza; seconda solo quanto egli ti dice, e poi sta’ sicuro che ogni cosa sarà aggiustata».

Andate con frequenza a trovare il vostro confessore, pregate per lui, seguite i suoi consigli. Quando poi avrete fatta la scelta di un confessore che conoscete adattato per i bisogni dell’anima vostra, non cangiatelo più senza necessità5. Finché voi non avete un confessore stabile, in cui abbiate tutta la vostra confidenza, a voi mancherà sempre l’amico dell’anima. Confidate anche nelle preghiere del confessore il quale nella santa messa prega ogni giorno per i suoi penitenti, affinché Dio loro conceda di fare buone confessioni e possano perseverare nel bene; pregate anche voi per lui.

Potete però senza scrupolo cangiare confessore quando voi o il confessore cangiaste dimora e vi riuscisse di grave incomodo il recarvi presso di lui, oppure fosse ammalato, o in occasione di solennità ci fosse molto concorso presso il medesimo. Parimente se aveste qualche cosa sulla coscienza che non osaste manifestare al confessore ordinario, piuttosto di fare un sacrilegio cangiate non una ma mille volte il confessore.

Che se mai questo scritto fosse letto da chi è dalla divina Provvidenza destinato ad ascoltare le confessioni della gioventù6, vorrei, omettendo molte altre cose, umilmente pregarlo a permettermi di dirgli rispettosamente7:

1° Accogliete con amorevolezza ogni sorta di penitenti, ma specialmente i giovanetti. Aiutateli ad esporre le cose di loro coscienza; insistete che vengano con frequenza a confessarsi. È questo il mezzo più sicuro per tenerli lontani dal peccato. Usate ogni vostra industria affinché mettano in pratica gli avvisi che loro suggerite per impedire le ricadute. Correggeteli con bontà, ma non isgridateli mai; se voi li sgridate, o essi non vengono più a trovarvi, oppure tacciono quello per cui avete loro fatto aspro rimprovero.

2° Quando sarete loro entrato in confidenza, prudentemente fatevi strada ad indagare se le confessioni della vita passata siano ben fatte. Perocché autori celebri in morale ed in ascetica e di lunga esperienza, e specialmente un’autorevole persona che ha tutte le garanzie della verità, tutti insieme convengono a dire che per lo più le prime confessioni dei giovanetti se non sono nulle, almeno sono difettose per mancanza di istruzione, o per omissione volontaria di cose da confessarsi. Si inviti il giovinetto a ponderare bene lo stato di sua coscienza particolarmente dai sette sino ai dieci, ai dodici anni. In tale età si ha già cognizione di certe cose che sono grave male, ma di cui si fa poco conto, oppure si ignora il modo di confessarle. Il confessore faccia uso di grande prudenza e di grande riserbatezza, ma non ometta di fare qualche interrogazione intorno alle cose che riguardano alla santa virtù della modestia.

Vorrei dire molte cose sul medesimo argomento, ma le taccio perché non voglio farmi maestro in cose di cui non sono che povero ed umile discepolo. Qui ho detto queste poche parole che nel Signore mi sembrano utili alle anime della gioventù, al cui bene intendo di consacrare tutto quel tempo che al Signore Dio piacerà lasciarmi vivere in questo mondo. Ora fo ritorno al giovane Magone.

73 CAPO VI

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74 Sua esemplare sollecitudine per le pratiche di pietà

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Alla frequenza dei sacramenti della confessione e della comunione egli unì uno spirito di viva fede, un’esemplare sollecitudine, un contegno edificante in tutte le pratiche di pietà. Nella ricreazione egli sembrava un cavallo sbrigliato; in chiesa poi non trovava posto o modo che gli piacesse; ma poco per volta giunse a starvi con tale raccoglimento che l’avreste messo a modello di qualunque fervoroso cristiano. Si preparava a dovere per l’esame di confessione1; al confessionale lasciava che altri passasse avanti prima di lui; ed egli sempre raccolto e paziente attendeva che potesse comodamente appressarsi al confessore. Fu talvolta veduto durarla quattro ed anche cinque ore raccolto, immobile e ginocchioni sul nudo pavimento per attendere l’opportunità di confessarsi. Un compagno volle far prova d’imitarlo; ma dopo due ore cadde di sfinimento, né mai più cercò d’imitare il suo amico in quel genere di penitenza. Questo sembrerebbe quasi incredibile in quella tenera età se chi scrive non ne fosse stato testimonio oculare2. Sentiva con grande piacere a parlare del modo edificante con cui Savio Domenico si accostava ai sacramenti della confessione e comunione, ed egli si adoperava con tutte le forze per imitarlo.

Quando venne in questa casa lo stare in chiesa era per lui fatica appena sopportabile; alcuni mesi dopo provava grande consolazione per le funzioni religiose comunque promulgate. «Ciò che si fa in chiesa, egli diceva, si fa per il Signore, ciò che si fa per il Signore, non si perde più». Un giorno erasi già dato il segno delle sacre funzioni, ed un compagno lo esortava a volere ancora condurre a termine la partita. «Sì, rispose, mi fermo ancora, se tu mi dai la paga che mi dà il Signore». A tali parole quegli si tacque, e andò con lui a compiere quel religioso dovere.

Un altro compagno gli disse una volta:

Non ti senti annoiato delle funzioni quando sono tanto lunghe?

O ragazzo, ragazzo, tu sei come io era una volta, rispose: tu non conosci le cose utili. Non sai che la chiesa è la casa del Signore? più staremo in casa sua in questo mondo, maggiore speranza abbiamo di stare poi eternamente con lui nella chiesa trionfante del paradiso. Anzi se coll’uso si acquista diritto nelle cose temporali, perché non si acquisterà, nelle spirituali? quindi stando noi nella casa materiale del Signore in questo mondo, acquistiamo il diritto di andare un giorno con lui in cielo.

Dopo l’ordinario ringraziamento della confessione e comunione e dopo le sacre funzioni egli si fermava accanto all’altare del santissimo Sacramento, o davanti a quello della Beata Vergine a fare speciali preghiere3. Egli era talmente attento, raccolto e composto nella persona che pareva insensibile ad ogni cosa esterna. Talvolta i compagni uscendo di chiesa e passandogli vicino lo urtavano; spesso inciampavano nei suoi piedi ed anche glieli calpestavano. Ma egli come se nulla avvenisse proseguiva tranquillo la sua preghiera o meditazione.

Aveva poi molta stima per tutte le cose di divozione. Una medaglia, una piccola croce, una immagine erano per lui oggetti di grande venerazione. In qualunque mo­mento avesse inteso che si distribuisse la santa comunione, si recitasse qualche preghiera, o si cantasse qualche lode, fosse in chiesa, o fuori di chiesa, egli tosto interrompeva la ricreazione, e andava a prendere parte a quel canto, o a quella pratica di pietà.

Amava assai il canto e poiché aveva una voce argentina e gratissima si applicava anche allo studio della musica. In poco tempo acquistò cognizioni da poter prendere parte a pubbliche e solenni funzioni. Ma assicurava, e lo lasciò scritto, che egli non avrebbe giammai voluto sciogliere il labbro a proferire una sola parola che non si potesse indirizzare a maggior gloria di Dio. «Pur troppo, egli diceva, questa mia lingua non ha fatto per il passato quello che doveva fare; almeno per l’avvenire potessi rimediare al passato!». In un foglietto fra i suoi proponimenti eravi questo: «O mio Dio, fate che questa mia lingua resti secca in mezzo ai denti prima di proferire ancora una parola a voi dispiacevole».

L’anno 1858 prendeva parte alle funzioni che nella novena del santo Natale avevano luogo in un ritiro di questa capitale. Una sera i compagni andavano decantando il buon esito della parte fatta da lui nel canto di quella giornata. Egli confuso si ritirò in disparte pieno di malinconia. Interrogatone del motivo si mise a piangere dicendo: «Ho lavorato invano, poiché mi sono compiaciuto quando cantava ed ho perduto la metà del merito; ora queste lodi mi fanno perdere l’altra metà; e per me nulla più rimane che la stanchezza».

75 CAPO VII

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76 Puntualità nei suoi doveri

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La sua indole focosa, la sua fervida immaginazione, il suo cuore pieno di affetti lo portavano naturalmente ad essere vivace e a primo aspetto dissipato. Per altro a tempo debito egli sapeva contenersi e comandare a se stesso. La ricreazione, come si è detto, la faceva compiuta. Tutti i lati dell’ampio cortile di questa casa in pochi minuti erano battuti dai piedi del nostro Magone1. Né eravi trastullo in cui egli non primeggiasse. Ma dato il segno dello studio, della scuola, del riposo, della mensa, della chiesa, egli interrompeva ogni cosa e correva a compiere i suoi doveri. Era maraviglioso il vedere colui che era l’anima della ricreazione e teneva tutti in movimento, come se fosse portato da una macchina, trovarsi il primo in quei luoghi ove il dovere lo chiamava.

Riguardo ai doveri scolastici stimo bene di riferire qui una parte della giudiziosa dichiarazione del suo professore sac. Francesia Giovanni che l’ebbe a scolaro nelle classi di latinità2.

«Ben volentieri, egli scrive, rendo pubblica testimonianza alle virtù del mio caro alunno Magone Michele. Egli stette sotto la mia disciplina tutto l’anno scolastico 1857 ed una parte del 1858-59. Che io mi sappia nulla avvenne di straordinario nel suo primo anno di latinità. Egli si regolava costantemente bene. Mediante la sua applicazione e diligenza nella scuola fece in un solo anno due classi di latinità; perciò alla fine di questo anno medesimo meritò di essere ammesso alla classe di terza grammatica latina. Questa sola cosa basta a farci conoscere che il suo inge­gno non era ordinario. Non mi ricordo di averlo dovuto sgridare mai per la sua indisciplina; ma placidissimo era egli nella scuola, malgrado la sua grande vivacità, di cui dava splendido saggio nel cortile in tempo di ricreazione. Anzi so che stretto in amichevole relazione coi più buoni dei condiscepoli procurava di imitarne gli esempi. Arrivato al secondo anno (1858-59) mi vedeva attorniato da una bella corona di giovani allegri e tutti unanimi nel desiderio di non perdere un piccolo ritaglio di tempo, ma di occupare tutto per avanzarsi negli studi. Michele Magone era tra i primi di costoro. Ebbi per altro non poco a maravigliarmi del suo totale cangiamento sì nel fisico che nel morale; ed una cotale insolita gravità mista ad un’aria che lo fa­ceva comparire nella fronte e nello sguardo piuttosto serio; la quale cosa indicava che il cuore di lui era in grave pensiero. Credo che questo cangiamento esterno derivasse dalla presa deliberazione di volersi dare tutto alla pietà; e poteva veramente proporsi a modello di virtù. Mi pare ancora di vederti, o compianto allievo, in quell’atteggiamento devoto ascoltar me tuo maestro, ma oscuro discepolo delle tue virtù! pareva proprio che si fosse spogliato dell’antico Adamo. Nel contemplarlo così attento ai suoi doveri, così alieno dalla divagazione, cosa tanto propria di quella età, chi non avrebbe appropriato a lui il verso di Dante, Sotto biondi capei canuta mente3?

Ricordomi che una volta per tentare l’attenzione ed il profitto del sempre caro discepolo l’invitai a scandere un distico che io aveva poco prima dettato4. “Son poco capace”, mi risponde modestamente Michele. “Sentiamo adunque il poco, gli soggiunsi.

Ma che? il fece tanto bene che fu salutato da me e dai maravigliati compagni con prolungati applausi. D’allora in poi il poco di Magone passava per proverbio nella scuola per indicare un giovane segnalato nello studio e nell’attenzione». Così il suo professore.

Nell’adempimento degli altri suoi doveri era in ogni cosa esemplare. Il superiore della casa aveva più volte detto che ogni momento di tempo è un tesoro5. Dunque, egli andava spesso ripetendo: «Chi perde un momento di tempo, perde un tesoro».

Mosso da questo pensiero non si lasciava sfuggire un istante senza fare quel tanto che le sue forze comportavano. Io ho qui presenti i voti di diligenza e di condotta di ciascuna settimana per tutto il tempo che fu tra noi. Nelle prime settimane la condotta fu mediocre, di poi buona, quindi quasi ottima. Dopo tre mesi cominciò ad avere ottimamente; e così fu in ogni cosa per tutto il tempo che visse in questa casa.

Nella Pasqua di quell’anno (1858) fece gli spirituali esercizi con grande esemplarità per i compagni e con vera consolazione del suo cuore. Effettuò il vivo desiderio di fare la confessione generale, scrivendosi di poi parecchi proponimenti da praticarsi in tutta la sua vita. Fra gli altri voleva far voto di non mai perdere un momento di tempo. La qual cosa non gli fu permessa. «Almeno, egli disse, mi si conceda di promettere al Signore di fare sempre ottimamente nella mia condotta». «Fa’ pure, gli rispose il direttore, purché questa promessa non abbia forza di voto». Fu allora che egli formò un quadernetto sopra cui preventivamente notava ciascun giorno della settimana: «Coll’aiuto di Dio, egli diceva, e colla protezione di Maria santissima voglio fare: domenica ottimamente; lunedì ottimamente; martedì ecc…».

Ogni mattina poi era suo primo pensiero di portare lo sguardo sopra il piccolo quadernetto, e più volte lungo il giorno il leggeva e rinnovava la promessa di volersi regolare ottimamente. Qualora poi secondo lui vi fosse stata alcuna anche piccola trasgressione, egli la puniva con penitenze volontarie, come sarebbe colla privazione di qualche momento di ricreazione, coll’astinenza di qualche cosa che fosse stata di speciale suo gusto, con qualche preghiera e simili.

Questo quadernetto fu trovato dai compagni dopo la morte di lui, e ne furono molto edificati delle sante industrie usate dal loro condiscepolo per avanzarsi nella via della virtù. Egli voleva che tutto fosse ottimamente; perciò dato il segno di fare qualche cosa, tosto sospendeva la ricreazione, rompeva ogni discorso e spesso troncava la parola, deponeva anche la penna a metà di linea per andare prontamente ove il dovere lo chiamava. Talvolta egli diceva: «È vero che terminando quanto ho tra mano fo cosa buona; ma il mio cuore non prova più alcuna soddisfazione nel farla; anzi ne rimane angustiato. Il mio cuore prova il più grande piacere nell’adempimento dei miei doveri di mano in mano che mi sono indicati dalla voce dei superiori o dal suono del campanello».

L’esattezza nei suoi doveri non lo impediva di prestarsi a quei tratti di cortesia che sono dalla civiltà e dalla carità consigliati. Perciò egli offerivasi pronto a scrivere lettere per chi ne avesse avuto bisogno. Il pulire abiti altrui, aiutare a portar acqua; aggiustare i letti; scopare, servire a tavola; cedere i trastulli a chi li avesse desiderati; insegnare agli altri il catechismo, il canto; spiegare difficoltà di scuola, erano cose cui egli prestavasi col massimo gusto ogni qualvolta se ne fosse data occa­sione6.

77 CAPO VIII

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78 Sua divozione verso la B. Vergine Maria

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Bisogna dirlo, la divozione verso della Beata Vergine è il sostegno d’ogni fedele cristiano. Ma lo è in modo particolare per la gioventù. Così a nome di lei parla lo Spirito Santo: Si quis est parvulus, veniat ad me1. Il nostro Magone conobbe questa importante verità, ed ecco il modo provvidenziale con cui vi fu invitato. Un giorno gli fu regalata un’immagine della B. V. nel cui fondo era scritto: Venite, filii, audite me, timorem Domini docebo vos; cioè: Venite, o figliuoli, ascoltatemi, io vi insegnerò il santo timor di Dio2. Egli cominciò a pensare seriamente a questo invito; di poi scrisse una lettera al suo direttore in cui diceva come la B. V. gli aveva fatta udire la sua voce, lo chiamava a farsi buono, e che ella stessa voleva insegnargli il modo di temere Iddio, di amarlo e servirlo.

Cominciò pertanto a farsi alcuni fioretti che costantemente praticava in onore di colei che prese ad onorare sotto il titolo di madre celeste3, divina maestra, pietosa pastora. Ecco dunque i principali tratti di sua filiale divozione che con fervore ognora crescente andava esercitando verso Maria. Ogni domenica faceva la santa comunione per quell’anima del purgatorio che in terra era stata maggiormente divota di Maria santissima

Perdonava volentieri qualunque offesa in onore di Maria. Freddo, caldo, dispiaceri, stanchezza, sete, sudore e simili incomodi delle stagioni erano altrettanti fioretti che egli con gioia offeriva a Dio per mano della pietosa sua madre celeste.

Prima di mettersi a studiare, a scrivere in camera o nella scuola, tirava fuori da un libro un’immagine di Maria, nel cui margine era scritto questo verso: Virgo parens studiis semper adesto meis, Vergine Madre, assistetemi sempre negli studi miei.

A lei sempre si raccomandava in principio di tutte le scolastiche sue occupazioni. «Io, soleva dire, se incontro difficoltà negli studi miei, ricorro alla mia divina maestra, ed ella mi spiega tutto». Un giorno un suo amico si rallegrava con lui del buon esito del suo tema di scuola. «Non con me devi rallegrarti, rispose, ma con Maria che mi aiutò, e mi pose in mente molte cose che da me non avrei saputo».

Per avere ognora presente qualche oggetto che gli ricordasse il patrocinio di Maria nelle ordinarie sue occupazioni, scriveva ovunque potesse: Sedes sapientiae, ora pro me: O Maria, sede della sapienza, pregate per me. Quindi sopra tutti i suoi libri, sulla coperta dei quaderni, sul tavolo, sui banchi, sulla propria sedia, e sopra qualunque sito avesse potuto colla penna o colla matita scrivere, leggevasi: Sedes sapientiae, ora pro me.

Nel mese di maggio di quell’anno 1858 si propose di fare quanto poteva per onorare Maria. In quel mese la mortificazione degli occhi, della lingua, e degli altri sensi fu compiuta. Voleva pure privarsi di una parte della ricreazione, digiunare, passare qualche tempo della notte in preghiera; ma queste cose gli furono vietate, perché non compatibili colla sua età.

Sul finire dello stesso mese egli si presentò al suo direttore e dissegli: «Se voi siete contento, voglio fare una bella cosa in onore della gran madre di Dio. Io so che S. Luigi Gonzaga piacque molto a Maria perché fin da fanciullo consacrò a lei la virtù della castità4. Vorrei anch’io fare questo dono, e perciò desidero di fare il voto di farmi prete e di conservare perpetua castità».

Il direttore rispose che non era ancora all’età di fare voti di quella importanza. «Pure, egli interruppe, io mi sento grande volontà di darmi tutto a Maria; e se a lei mi consacro, certamente ella mi aiuterà a mantenere la promessa». «Fa’ così, soggiunse il direttore, invece d’un voto limitati a fare una semplice promessa di abbracciare lo stato ecclesiastico, purché in fine delle classi di latinità appariscano chiari segni di essere al medesimo chiamato. In luogo del voto di castità fa’ soltanto una promessa al Signore di usare per l’avvenire sommo rigore per non mai fare, né dire parola, neppure una facezia che per poco sia contraria a quella virtù». Ogni giorno invoca Maria con qualche speciale preghiera affinché ti aiuti a mantenere questa promessa.

Egli fu contento di quella proposta e con animo allegro promise di adoperarsi quanto poteva in ogni occasione per metterla in esecuzione.

79 CAPO IX

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80 Sua sollecitudine e sue pratiche per conservare la virtù della purità

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Oltre alle pratiche suddette aveva eziandio ricevuti alcuni ricordi, cui egli dava massima importanza, e soleva nominarli padri, custodi, ed anche carabinieri della virtù della purità. Noi abbiamo quei ricordi nella risposta da lui fatta ad una lettera scrittagli da un suo compagno sul finire del mentovato mese di Maria1. Scriveva quegli al nostro Michele pregandolo di dirgli che cosa soleva praticare per assicurarsi la conservazione della regina delle virtù, la purità.

Quel compagno mi trasmise la lettera da cui rilevo quanto segue: «Per darti una compiuta risposta, sono parole di Magone, vorrei poterti parlare a voce e dirti più cose che non sembrano convenienti a scriversi. Qui esporrò soltanto i principali avvisi datimi dal mio direttore, mercé cui mi assicura la conservazione della più preziosa fra le virtù. Un giorno mi diede un bigliettino dicendomi: “Leggi e pratica”. Lo aprii, ed era di questo tenore: Cinque ricordi che S. Filippo Neri dava ai giovani per conservare la virtù della purità: Fuga delle cattive compagnie. Non nutrire delicatamente il corpo. Fuga dell’ozio. Frequente orazione. Frequenza dei sacramenti, specialmente della confessione. Ciò che qui è in breve me lo espose altre volte più diffusamente, ed io te lo dico siccome l’ho ascoltato dalla sua bocca. Mi disse egli adunque:

1° Mettiti con filiale fiducia sotto alla protezione di Maria; confida in lei, spera in lei. Non si è mai udito al mondo che alcuno abbia con fiducia ricorso a Maria senza che ne sia stato esaudito. Sarà essa tua difesa negli assalti che il demonio sarà per dare all’anima tua.

2° Quando ti accorgi di essere tentato mettiti sull’istante a fare qualche cosa2. Ozio e modestia non possono vivere insieme. Perciò evitando l’ozio vincerai eziandio le tentazioni contro a questa virtù.

3° Bacia spesso la medaglia, oppure il crocifisso, fa’ il segno della santa croce con viva fede, dicendo: Gesù, Giuseppe, Maria, aiutatemi a salvare l’anima mia. Questi sono i tre nomi più terribili e più formidabili al demonio.

4° Che se il pericolo continua, ricorri a Maria colla preghiera propostaci da santa Chiesa, cioè: Santa Maria madre di Dio, pregate per me peccatore.

5° Oltre al non nutrire delicatamente il corpo, oltre alla custodia dei sensi, spe­cialmente degli occhi, guardati ancora da ogni sorta di cattive letture. Anzi qualora cose indifferenti fossero a te di pericolo, cessa tosto da quella lettura; per opposto leggi volentieri libri buoni, e tra questi preferisci quelli che parlano delle glorie di Maria e del santissimo Sacramento.

6° Fuggi i cattivi compagni; al contrario fa’ scelta di compagni buoni, cioè di quelli che per la loro buona condotta odi a lodare dai tuoi superiori. Con essi parla volentieri, fa’ ricreazione, ma procura di imitarli nel parlare, nell’adempimento dei doveri e specialmente nelle pratiche di pietà.

7° Confessione e comunione con quella maggiore frequenza che giudicherà bene il tuo confessore; e se le tue occupazioni il permettono, va’ sovente a fare visita a Gesù sacramento».

Questi erano i sette consigli che Magone nella sua lettera chiama i sette carabinieri di Maria destinati a fare la guardia alla santa virtù della purità. Per avere poi ogni giorno un particolare eccitamento alla pietà, egli ne praticava specialmente uno per ciascun dì della settimana, aggiungendovi qualche cosa in onore di Maria. Così il 1° consiglio era congiunto colla considerazione della prima allegrezza che gode Maria in cielo3, e questo era per la domenica. Il 2° alla seconda allegrezza, ed era per il lunedì; e così del resto. Compiuta la settimana in questa maniera, faceva la medesima alternazione in onore dei sette dolori di Maria4, di modo che il consiglio indicato col N° 1° lo praticava la domenica in onore del 1° dolore di Maria, e così degli altri.

Forse taluno dirà che simili pratiche di pietà sono troppo triviali. Ma io osservo che siccome lo splendore della virtù di cui parliamo può oscurarsi e perdersi ad ogni piccolo soffio di tentazione, così qualunque più piccola cosa che contribuisca a conservarla, deve tenersi in gran pregio. Per questo io consiglierei di caldamente invigilare che siano proposte cose facili, che non ispaventino, e neppure stanchino il fedele cristiano, massime poi la gioventù. I digiuni, le preghiere prolungate e simili rigide austerità per lo più si omettono, o si praticano con pena e rilassatezza. Teniamoci alle cose facili, ma si facciano con perseveranza. Questo fu il sentiero che condusse il nostro Michele ad un maraviglioso grado di perfezione.

81 CAPO X

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82 Bei tratti di carità verso del prossimo

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Allo spirito di viva fede, di fervore, di divozione verso della B. V. Maria, Magone univa la più industriosa carità verso dei suoi compagni. Sapeva che l’esercizio di questa virtù è il mezzo più efficace per accrescere in noi l’amore di Dio. Questa massima destramente egli praticava in ogni più piccola occasione. Alla ricreazione prendeva parte con tale entusiasmo che non sapeva più se fosse in cielo o in terra. Ma se gli avveniva di vedere un compagno ansioso di trastullarsi, a lui tosto faceva parte dei suoi trastulli, contento di continuare altrimenti la sua ricreazione. Più volte io l’ho veduto a desistere dal giuocare alle pallottole, ovvero bocce, per rimetterle ad un altro; più volte discendere dalle stampelle per lasciarvi montare un collega, che egli in bel modo assisteva e ammaestrava affinché il trastullo fosse più ameno, e nel tempo stesso esente da pericolo.

Vedeva un compagno afflitto? se gli avvicinava, il prendeva per mano; lo accarezzava; gli raccontava mille storielle. Se poi giungeva a conoscere la causa di quell’afflizione procurava di confortarlo con qualche buon consiglio, e se era il caso facevasi di lui mediatore presso ai superiori o presso di chi l’avesse potuto sollevare.

Quando poteva spiegare una difficoltà a qualcheduno; aiutarlo in qualche cosa; servirlo di acqua; aggiustargli il letto, erano per lui occasioni di grande piacere. In tempo d’inverno un condiscepolo, soffrendo i geloni, non poteva né ricrearsi, né adempiere i suoi doveri come bramava. Magone scrivevagli volentieri il tema della scuola, ne faceva copia sulla pagina da consegnare al maestro; di più lo aiutava a vestirsi, gli aggiustava il letto, e infine gli diede i suoi medesimi guantini perché viemmeglio si potesse riparare dal freddo. Che cosa poteva fare di più un giovanetto di quella età? Di carattere focoso come era, non di rado lasciavasi trasportare ad involontari impeti di collera; ma bastava il dirgli: «Magone, che fai? È questa la vendetta del cristiano?». Ciò bastava per calmarlo, umiliarlo così, che andava egli stesso a domandare scusa al compagno pregandolo di perdonarlo e non prendere scandalo dal suo villano trasporto.

Ma se nei primi mesi che venne all’Oratorio aveva spesso bisogno di essere corretto nei collerici trasporti, colla sua buona volontà giunse in breve a vincere se stesso e divenire pacificatore dei suoi compagni medesimi. Perciò nascendo risse di qualsiasi genere, egli sebbene piccolo di persona, tosto lanciavasi tra i litiganti, e con parole, ed anche colla forza procurava di calmarli. «Noi siamo ragionevoli, soleva dire, dunque in noi deve comandare la ragione e non la forza». Altra volta aggiungeva: «Se il Signore appena offeso usasse la forza, molti di noi saremmo sterminati sull’istante. Dunque se Dio onnipotente che è offeso usa misericordia nel perdonare chi lo percuote col peccato, perché noi miserabili vermi di terra non useremo la ragione tollerando un dispiacere ed anche un insulto senza tosto farne vendetta?». Diceva ancora ad altri: «Noi siamo tutti figliuoli di Dio, perciò tutti fratelli; chi fa vendetta contro al prossimo egli cessa d’essere figlio di Dio, e per la sua collera diviene fratello di satanasso».

Faceva di buon grado il catechismo; si prestava molto volentieri a servire malati, e chiedeva con premura di passare anche le notti presso di loro, quando ne fosse stato mestieri. Un compagno mosso dalle cure che in più occasioni gli aveva prodigate, gli disse: «Che cosa potrei fare per te, o caro Magone, per compensarti di tanti disturbi che ti sei dato per mio riguardo?». «Niente altro, rispose, che offerire una volta il tuo male al Signore in penitenza dei miei peccati».

Altro compagno assai divagato era più volte stato causa di dispiacere ai superiori. Costui fu in modo particolare raccomandato a Magone, affinché studiasse modo di condurlo a buoni sentimenti. Michele si accinge all’opera. Comincia per farselo amico; gli si associa nelle ricreazioni, gli fa dei regali, gli scrive avvisi in forma di bigliettini, e così giunge a contrarre con lui intima relazione, senza però parlargli di religione.

Cogliendo poi il destro della festa di san Michele, un giorno Magone gli parlò così:

Di qui a tre giorni corre la festa di S. Michele; tu dovresti portarmi un bel regalo.

Sì che te lo porto: soltanto mi rincresce che me ne abbi parlato, perché calcolava di farti un’improvvisata.

Ho voluto parlartene perché vorrei che questo regalo fosso anche di mio gusto.

Sì, sì: di’ pure, sono pronto a fare quanto posso per compiacerti.

Sei disposto?

Sì.

Se ti costasse qualche cosa un po’ pesante, lo faresti egualmente?

Te lo prometto, lo fo egualmente.

Vorrei che per il giorno di S. Michele mi portassi per regalo una buona confes­sione, e se ne sei preparato una buona comunione.

Attese le fatte e replicate promesse il compagno non osò opporsi a quell’amichevole progetto; si arrese, ed i tre giorni precedenti a quella festa furono impiegati in pratiche particolari di pietà. Il Magone si adoperò in tutti i modi per preparare l’amico a quel festino spirituale, e nel giorno stabilito si accostarono ambidue a ricevere i santi sacramenti con vera soddisfazione dei superiori, e con buon esempio dei compagni.

Magone passò tutto quel giorno in onesta allegria col suo amico: giunta poi la sera gli disse: «Abbiamo fatto una bella festa, ne sono contento; mi hai fatto veramente piacere. Ora dimmi: Sei tu pure contento di quanto abbiamo fatto quest’oggi?».

Sì, ne sono contentissimo; e lo sono specialmente perché mi ci sono ben preparato. Ti ringrazio dell’invito che mi hai fatto; ora se hai qualche buon consiglio a darmi io lo riceverò con vera gratitudine.

Sì che avrei ancora un buon consiglio a darti; perciocché quanto abbiamo fatto è soltanto la metà della festa; ed io vorrei che mi portassi l’altra metà del regalo. Da qualche tempo, o mio caro amico, la tua condotta non è come dovrebbe essere. Il tuo modo di vivere non piace ai tuoi superiori, affligge i tuoi parenti, inganna te stesso, ti priva della pace del cuore e poi... un giorno dovrai rendere conto a Dio del tempo perduto. Dunque d’ora in avanti fuggi l’ozio, sta’ allegro fin che vuoi, purché non trascuri i tuoi doveri1.

Il compagno già vinto per metà lo fu interamente. Divenne amico fedele di Magone, prese ad imitarlo nell’esatto adempimento dei doveri del suo stato, e presentemente per diligenza e moralità forma la consolazione di quanti hanno relazione con lui.

Ho voluto corredare questo fatto con più minute circostanze sia perché esso rende sempre più luminosa la carità di Magone, sia perché si volle trascrivere nella sua integrità quale me lo espose il compagno che vi ebbe parte.

83 CAPO XI

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84 Fatti e detti arguti di Magone

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Quanto abbiamo detto fin qui sono cose facili e semplici che ognuno può di leggieri imitare. Ora espongo alcuni fatti e detti arguti che sono piuttosto da ammirarsi per la loro amenità e piacevolezza, di quello che siano da seguirsi. Servono tuttavia a far sempre più rilevare la bontà di cuore e il coraggio religioso del nostro giovanetto. Eccone alcuni fra molti di cui sono stato io medesimo testimonio.

Era un giorno in conversazione coi suoi compagni, quando alcuni introdussero discorsi che un giovane cristiano e ben educato debbe evitare. Magone ascoltò poche parole; quindi messe le dita in bocca fece un fischio così forte che squarciava a tutti il cervello. «Che fai, disse uno di loro, sei pazzo?». Magone nulla dice e manda un’altra fischiata maggiore della prima. «Dov’è la civiltà, ripigliò un altro, è questo il modo di trattare?». Magone allora rispose: «Se voi fate i pazzi parlando male, perché non posso farlo io per impedire i vostri discorsi? se voi rompete le leggi della civiltà introducendo discorsi che non convengono ad un cristiano, perché non potrò io violare le medesime leggi per impedirli?». Quelle parole, assicura uno di quei compagni, furono per noi una potente predica. Ci guardammo l’un l’altro; niuno più osò proseguire in quei discorsi, che erano mormorazioni. D’allora in poi ogni volta che Magone trovavasi in nostra compagnia ognuno misurava bene le parole che gli uscivano di bocca per tema di sentirsi stordire il cervello con uno di quegli orribili fischi.

Accompagnando un giorno il suo superiore per la città di Torino giunse in mezzo a piazza castello1, dove udì un monello a bestemmiare il santo nome di Dio. A quelle parole parve tratto fuori di senno; più non riflettendo né al luogo né al pericolo, con due salti vola sul bestemmiatore, gli dà due sonori schiaffi dicendo: «È questo il modo di trattare il santo nome del Signore?». Ma il monello che era più alto di lui, senza badare al riflesso morale, irritato dalla baia dei compagni, dall’insulto pubblico, e dal sangue che in copia gli colava dal naso, si avventa arrabbiato sopra Magone; e qui calci, pugni e schiaffi non lasciavano tempo né all’uno né all’altro da respirare. Fortunatamente corse il superiore e postosi paciere tra le parti belligeranti, riuscì, non senza difficoltà a stabilire la pace con vicendevole soddisfazione. Quando Michele fu padrone di se medesimo si accorse dell’imprudenza fatta nel correggere in cotal guisa quello sconsiderato. Si pentì del trasporto e assicurò che per l’avvenire avrebbe usato maggior cautela, limitandosi a semplici amichevoli avvisi.

Altra volta alcuni giovani discorrevano sull’eternità delle pene dell’inferno, ed uno di essi in tono di facezia disse: «Procureremo di non andarci, che se ci andremo, pazienza». Michele finse di non aver inteso; ma intanto si allontanò da quel crocchio, cercò un zolfanello e come lo trovò, corse nella compagnia di prima. Accesolo di poi, destramente lo pose sotto alla mano che il compagno mentovato tenevasi dietro. Al primo sentirsi a scottare, «Che fai, disse tosto, sei matto?». «Non sono matto, rispose, ma voglio solamente mettere alla prova la eroica tua pazienza; perciocché se ti senti di sopportare con pazienza le pene dell’inferno per una eternità, non devi inquietarti per la fiammella di un zolfanello che è cosa di un momento». Tutti si misero a ridere, ma il compagno scottato disse ad alta voce: «Si sta veramente male all’inferno».

Altri compagni volevano un mattino condurlo seco loro a confessarsi in luogo determinato per avere un confessore sconosciuto, e gli adducevano mille pretesti. «No, loro rispondeva, io non voglio andare in niun luogo senza permesso dei miei superiori. Altronde io non sono un bandito. I banditi temono ad ogni momento di essere conosciuti dai carabinieri; per ciò vanno sempre in cerca di luoghi e di persone sconosciute per timore di essere scoperti. No, io ho il mio confessore; a lui confesso e piccolo e grosso senza timore alcuno. La smania di andarvi a confessare altrove dimostra o che voi non amate il vostro confessore, o che avete cose gravi da confessare. Comunque sia, voi fate male allontanandovi in tal modo dalla casa senza permesso. Che se avete qualche ragione di cangiare confessore io vi consiglio di andare, come io andrei, da qualcheduno di quelli che ogni sabato e tutti i giorni festivi vengono ad ascoltare le confessioni dei giovani dell’Oratorio».

In tutto il tempo che fu tra noi una volta sola andò a casa in tempo di vacanza. Di poi anche a mia persuasione non volle più andarvi, sebbene sua madre ed altri parenti, cui portava grande affetto, lo aspettassero. Gliene fu chiesta più volte la cagione, ed egli si schermiva sempre ridendo. Finalmente un giorno svelò l’arcano ad un suo confidente. «Io sono andato una volta, disse, a fare alcuni giorni di vacanza a casa, ma in avvenire, se non sarò costretto, non ci andrò più».

Perché? gli chiese il compagno.

Perché a casa vi sono i pericoli di prima. I luoghi, i divertimenti, i compagni mi strascinano a vivere come faceva una volta, ed io non voglio più che sia così.

Bisogna andare con buona volontà e mettere in pratica gli avvisi che ci danno i nostri superiori prima di partire.

La buona volontà è una nebbia che scomparisce di mano in mano che vivo lungi dall’Oratorio; gli avvisi servono per alcuni giorni, di poi i compagni me li fanno dimenticare.

Dunque secondo te niuno dovrebbe più andare a casa a fare le vacanze, niuno a vedere i propri parenti?

Dunque secondo me vada pure in vacanza chi sentesi di vincere i pericoli; io non sono abbastanza forte. Quello che credo certo si è che se i compagni potessero ve­dersi nell’interno se ne scorgerebbero molti i quali vanno a casa colle ali da angeli, ed al loro ritorno portano due corna sulla testa come altrettanti diavoletti.

Magone era di quando in quando visitato da un antico compagno che egli desiderava di guadagnare alla virtù. Fra gli altri pretesti, costui soleva un giorno opporgli come egli conosceva un cotale che da molto tempo non frequentava cose di religione. «Eppure, diceva, egli è pingue, vegeto, e sta benissimo». Michele prese l’amico per mano, lo condusse presso di un carrettiere che scaricava materiali da costruzione nel cortile, di poi cominciò a parlargli così: «Vedi tu quel mulo? Anch’egli è pingue, grasso e grosso e non si è mai confessato, neppure credo che sia mai andato in chiesa: vorresti anche tu diventar simile a questo animale che non ha né anima, né ragione, e che deve solo lavorare per il suo padrone per servire un giorno ad ingrassare i campi dopo morte?». Il compagno rimase mortificato, e per l’avvenire non osò più addurre i suoi frivoli motivi per esimersi dalla pratica dei suoi doveri religiosi.

Ometto molti simili aneddoti; bastino questi per far sempre più conoscere la bontà del suo cuore, e la grande avversione che egli aveva per il male, lasciandosi talvolta trasportare ad eccessi di zelo per impedire l’offesa di Dio.

85 CAPO XII

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86 Vacanze di Castelnuovo d’Asti — Virtù praticate in quella occasione

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Siccome il nostro Michele andava di mala voglia a fare le vacanze alla casa materna, così a ristorarlo alquanto delle fatiche scolastiche ho deliberato di mandarlo a Morialdo, borgo di Castelnuovo d’Asti, dove a più riprese vanno a godere un po’ di cam­pagna i giovani di questa casa, specialmente quelli che non hanno luogo o parenti presso cui recarsi nella stagione autunnale1. Attesa poi la sua buona condotta, a titolo di premio, volli fargli anticipare la gita, e con pochi altri farmelo compagno di viaggio. Durante il cammino ebbi tempo a discorrere a lungo col buon giovinetto, e ravvisare in lui un grado di virtù di gran lunga superiore alla mia aspettazione. Lascio da parte i belli ed edificanti discorsi tenutimi in quella occasione e mi limito soltanto all’esposizione di alcuni fatti che servono a fare conoscere altre virtù dell’animo suo, specialmente la gratitudine.

Per la strada fummo sorpresi dalla pioggia; e giungemmo a Chieri tutti inzuppati nell’acqua2. Ci recammo dal cav. Marco Gonella3, il quale con bontà suole accogliere i nostri giovani tutte le volte che sono di andata o di ritorno da Castelnuovo di Asti.

Egli ci somministrò quanto occorreva per gli abiti; di poi ci apprestò una refezione che se da una parte era da signore, dall’altra trovò un appetito corrispondente.

Dopo qualche ora di riposo ripigliammo il cammino. Percorso un tratto di strada Magone rimase indietro dalla comitiva ed uno dei compagni pensandosi che fosse per istanchezza gli si avvicinava, quando si accorse che bisbigliava sotto voce.

Sei stanco, gli disse, caro Magone, non è vero? le tue gambe sentono il peso di questo viaggio?

Oibò: stanco niente affatto; andrei ancor sino a Milano.

Che cosa dicevi ora che andavi sotto voce da solo parlando?

Io recitava il rosario di Maria santissima per quel signore che ci ha accolti tanto bene; io non posso altrimenti ricompensarlo, e perciò prego il Signore e la B. Vergine affinché moltiplichino le benedizioni sopra di quella casa, e le doni cento volte tanto di quello che ha dato a noi.

È bene di notare qui di passaggio come simile pensiero di gratitudine dimostrasse per ogni piccolo favore. Ma verso i suoi benefattori era sensibilissimo. Se non temessi di annoiare il lettore vorrei trascrivere alcune delle molte lettere e dei molti biglietti scrittimi per esternare la sua riconoscenza di averlo accolto in questa casa. Dirò soltanto che aveva per massima di andare ogni giorno a fare una visita a Gesù sacramentato; dire al mattino tre Pater, Ave e Gloria per coloro che in qualche modo lo avevano beneficato.

Non rare volte mi stringeva affettuosamente la mano e guardandomi cogli occhi pregni di lacrime diceva: «Io non so come esprimere la mia riconoscenza per la grande carità che mi avete usato coll’accettarmi nell’Oratorio. Studierò di ricompensarvi colla buona condotta, e pregando ogni giorno il Signore affinché benedica voi e le vostre fatiche»4. Parlava volentieri dei maestri, di quelli che lo avevano inviato presso di noi, o che in qualche modo lo aiutavano; ma ne parlava sempre con rispetto, non mai arrossendo di professare la sua povertà da una parte, e la sua riconoscenza dall’altra. «Mi rincresce, fu udito a dire più volte, che non ho mezzi per dimostrare, come vorrei, la mia gratitudine, ma conosco il bene che mi fanno, né sarò per dimenticarmi dei miei benefattori, e fino a che vivrò, pregherò sempre il Signore che doni a tutti larga ricompensa».

Questi sentimenti di gratitudine dimostrò pure allora che il prevosto di Castelnuovo d’Asti invitò i nostri giovani a lieta mensa a casa sua5. La sera di quel giorno mi disse: «Se siete contento domani io fo la comunione per il signor prevosto che ci ha fatti stare allegri quest’oggi». La qual cosa non solo gli fu permessa, ma ad esempio di lui fu raccomandato agli altri di fare altrettanto, siccome siamo soliti di fare in simili occasioni per i benefattori della nostra casa.

Fu eziandio mentre era a Morialdo che ho notato un bell’atto di virtù che parmi degno di essere riferito. Un giorno i nostri giovani erano andati a divertirsi nella vicina boscaglia. Chi andava in cerca di funghi, altri di castagne, di noci; alcuni ammassavano foglie e simili cose, che per essi formavano il più gradito passatempo. Erano tutti attenti a ricrearsi quando Magone si allontana dai compagni e tacito tacito va a casa. Uno lo vede, e nel timore che avesse qualche male lo segue. Michele pensandosi di non essere veduto da alcuno entra in casa, non cerca persona, non fa parola con chicchessia, ma va direttamente in chiesa6. Chi gli tien dietro giunge a trovarlo tutto solo ginocchioni accanto all’altare del santo Sacramento che con invidiabile raccoglimento pregava.

Interrogato di poi sullo scopo di quella partenza inaspettata dai suoi compagni per andare a far visita al santissimo Sacramento, schiettamente rispondeva: «Io temo assai di ricadere nell’offesa di Dio, perciò vado a supplicare Gesù nel santissimo Sacramento affinché mi doni aiuto e forza a perseverare nella sua santa grazia».

Altro curioso episodio succedette in quei medesimi giorni. Una sera mentre i nostri giovani erano già tutti a riposo, odo uno a piangere. Mi metto pian piano alla finestra e veggo Magone in un angolo dell’aia che mirava la luna e lagrimando sospirava. «Che hai, Magone, ti senti male?», gli dissi. Egli che pensava di essere solo, né essere da alcuno veduto, ne fu turbato, e non sapeva che rispondere; ma replicando io la domanda, rispose con queste precise parole: «Io piango nel rimirare la luna che da tanti secoli comparisce con regolarità a rischiarare le tenebre della notte, senza mai disobbedire agli ordini del Creatore, mentre io che sono tanto giovane, io che sono ragionevole, che avrei dovuto essere fedelissimo alle leggi del mio Dio, io l’ho disobbedito tante volte, e l’ho in mille modi offeso». Ciò detto si mise di nuovo a piangere. Io lo consolai con qualche parola, onde egli dando calma alla commozione andò di nuovo a continuare il suo sonno.

È certamente cosa degna di ammirazione che un giovanetto di appena quattordici anni già possedesse tanta elevatezza di criterio, di raziocinio: pure è così, e potrei addurre moltissimi altri fatti che tutti concorrono a far conoscere il giovane Magone capace di riflessioni molto superiori alla sua età, specialmente nel ravvisare in ogni cosa la mano del Signore, e il dovere di tutte le creature di obbedire al Creatore.

87 CAPO XIII

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88 Sua preparazione alla morte

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Dopo le vacanze di Castelnuovo d’Asti il nostro Michele visse ancora circa tre mesi. Egli era di corporatura piuttosto piccola, ma sano e robusto. D’ingegno svegliato e sufficiente a percorrere con onore qualunque carriera avesse intrapresa. Amava molto lo studio, e vi faceva non ordinario profitto. In quanto alla pietà egli era giunto ad un grado che nella sua età io non avrei saputo quale cosa aggiungere o quale cosa togliere per fare un modello alla gioventù. D’indole vivace, ma pio, buono, divoto, stimava molto le piccole pratiche di religione. Egli le praticava con allegria, con disinvoltura, e senza scrupoli: di modo che per pietà, studio e affabilità era amato e venerato da tutti; mentre per vivacità e belle maniere era l’idolo della ricreazione.

Noi avremmo certamente desiderato che quel modello di virtù fosse rimasto nel mondo sino alla più tarda vecchiaia, e sia nello stato sacerdotale, cui mostravasi inclinato, sia nello stato laicale, avrebbe fatto molto bene alla patria ed alla religione. Ma Iddio aveva altrimenti decretato, e voleva togliere questo fiore dal giardino della Chiesa militante e chiamarlo a sé trapiantandolo nella Chiesa trionfante del paradiso. Lo stesso Magone senza sapere che gli fosse cotanto vicina, si andava preparando alla morte con un tenore di vita ognor più perfetto.

Fece la novena dell’Immacolata Concezione con particolare fervore. Noi abbiamo scritte da lui medesimo le cose che si propose di praticare in quei giorni, e sono di questo tenore:

«Io Magone Michele voglio far bene questa novena e prometto di:

1° Staccare il mio cuore da tutte le cose del mondo per darlo tutto a Maria.

2° Fare la mia confessione generale per avere poi la coscienza tranquilla in punto di morte.

3° Ogni giorno lasciare la colazione in penitenza dei miei peccati, e recitare le sette allegrezze di Maria a fine di meritarmi la sua assistenza nelle ultime ore di mia agonia.

4° Col consiglio del confessore fare ogni giorno la santa comunione.

5° Ogni giorno raccontare un esempio ai miei compagni in onore di Maria.

6° Porterò questo biglietto ai piedi dell’immagine di Maria e con questo atto intendo di consacrarmi tutto a Lei, e per l’avvenire voglio essere tutto suo sino agli ultimi istanti della mia vita».

Le cose sopra descritte gli furono concesse ad eccezione della confessione generale che aveva fatto non molto tempo prima; invece poi di lasciare la colazione gli fu ordinato di recitare ogni giorno un De profundis in suffragio delle anime del purgatorio1.

Cagionava certamente grande stupore la condotta di Magone in quei nove giorni della novena di Maria Immacolata. Dimostrava straordinaria allegria; ma sempre affacendato nel raccontar esempi morali agli uni, invitar altri a raccontarne; raccoglier quanti compagni poteva per andare a pregare dinanzi al santissimo Sacramento o dinanzi alla statua di Maria. Fu in questa novena che si privò ora di alcuni frutti, di confetti, di commestibili; ora di libretti, di immagini divote, di medaglie, piccole croci e di altri oggetti a lui donati, per regalarli ad alcuni compagni alquanto dissipati. Ciò faceva o per premiarli della buona condotta tenuta in quella novena o per ingaggiarli a prendere parte alle opere di pietà che egli loro proponeva2.

Con eguale fervore e raccoglimento celebrò la novena e la festa del santo Natale. «Voglio, diceva sul principio di quella novena, voglio adoperarmi in tutti i modi per far bene questa novena, e spero che Dio mi userà misericordia, e che Gesù Bambino verrà anche a nascere nel mio cuore coll’abbondanza delle sue grazie».

Giunta intanto la sera dell’ultimo giorno dell’anno il superiore della casa raccomandava a tutti i suoi giovani di ringraziare Dio per i benefizi ricevuti nel corso dell’anno che era per terminare. Incoraggiava poi ognuno a farsi un santo impegno per passare il nuovo anno nella grazia del Signore; perché, soggiungeva, forse per taluno di noi sarà l’ultimo anno di vita3. Mentre diceva queste cose teneva la mano sopra il capo di colui che gli era più vicino, e il più vicino era Magone. «Ho capito, egli disse pieno di stupore, sono io che debbo farmi il fagotto per l’eternità; bene mi ci terrò preparato». Coteste parole furono accolte con riso, ma i com­pagni se ne ricordarono e lo stesso Magone andava spesso ripetendo quel fortunato incidente4. Non ostante questo pensiero non fu minimamente alterata la sua allegria e la sua giovialità; onde continuò ad adempiere colla massima esemplarità i doveri del suo stato.

Avvicinandosi per altro ognora più l’ultimo giorno di sua vita, Dio volle dargliene più chiaro avviso. La domenica del 16 gennaio i giovani della compagnia del santissimo Sacramento5, di cui faceva parte Magone, si radunarono come sogliono tutti i giorni festivi (6). Dopo le solite preghiere e la solita lettura, dati quei ricordi che sembravano più adatti al bisogno, uno dei compagni prende il taschino dei fioretti ovvero dei bigliettini sopra cui era scritta una massima da praticarsi lungo la settimana. Con esso fa il giro, e ogni giovanetto ne estrae uno a sorte. Magone tira fuori il suo e vede sopra di esso scritte queste notabili parole: Al giudizio sarò solo con Dio. Lo legge e con atto di maraviglia lo comunica ai compagni dicendo: «Credo che questa sia una citatoria mandatami dal Signore per dirmi che mi tenga preparato». Dopo andò dal superiore e gli mostrò lo stesso fioretto con molta ansietà, ripetendo che egli lo giudicava una chiamata del Signore che lo citava a comparire davanti a lui. Il superiore lo esortò a vivere tranquillo e tenersi preparato non in virtù di quel biglietto, ma in virtù delle replicate raccomandazioni che Gesù Cristo fa a tutti nel S. Vangelo di tenerci preparati in ogni momento della vita7.

Dunque, replicò Magone, ditemi quanto tempo dovrò ancor vivere?

Noi vivremo finché Dio ci conserverà in vita.

Ma io vivrò ancora tutto quest’anno? disse agitato ed alquanto commosso.

Datti pace, non affannarti. La nostra vita è nelle mani del Signore che è un buon padre; egli sa fino a quando ce la debba conservare. D’altronde il sapere il tempo della morte non è necessario per andare in paradiso; ma bensì il prepararci con opere buone.

Allora tutto malinconico: «Se non volete dirmelo è segno che ci sono vicino».

Non lo credo, soggiunse il direttore, che ci sii tanto vicino, ma quando anche ciò fosse, avresti forse a paventare di andare a fare una visita alla B. Vergine in cielo?

È vero, è vero.

Presa quindi la ordinaria giovialità se ne andò a fare ricreazione.

Lunedì, martedì ed il mattino del mercoledì fu sempre allegro, né provò alterazione alcuna nella sua sanità, e adempì con regolarità tutti i suoi doveri.

Solamente nel dopo pranzo del mercoledì lo vidi che stava sul balcone a rimirare gli altri a trastullarsi, senza che andasse a prendervi parte; cosa affatto insolita, e indizio non dubbio che egli non era nello stato ordinario di sanità.

89 CAPO XIV

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90 Sua malattia e circostanze che l’accompagnano

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La sera del mercoledì (19 gennaio 1859) gli ho dimandato che cosa avesse, ed egli rispose aver niente; sentirsi alquanto incomodato dai vermi, che era la sua solita malattia. Per la qual cosa gli si diede qualche bibita secondo quel bisogno; di poi andò a letto, e passò tranquillamente la notte. Al mattino seguente si levò all’ora ordinaria coi suoi compagni, prese parte agli esercizi di pietà e fece con alcuni altri la santa comunione per gli agonizzanti, siccome soleva fare il giovedì di ogni settimana. Andato poscia per prendere parte alla ricreazione non poté più, perché sentivasi molto stanco, ed i vermi rendevangli alquanto penoso il respiro. Gli furono dati alcuni rimedi per somiglianti incomodi, fu pure visitato dal medico che non ravvisò alcuni sintomi di malattia, e ordinò la continuazione degli stessi rimedi. Sua madre trovandosi allora in Torino venne pure a vederlo, ed ella stessa asserì che suo figliuolo andava soggetto a quella malattia fin da ragazzo, e che i rimedi somministrati erano i soli già altre volte da lei usati1.

Il venerdì mattina voleva levarsi per il desiderio di fare la santa comunione, siccome egli soleva fare in onore della passione di nostro signor Gesù Cristo per ottenere la grazia di fare una buona morte; ma ne fu impedito perché apparve dal male più aggravato. Siccome aveva evacuato molti vermi, così fu ordinata la continuazione della cura medesima con qualche specifico diretto ad alleggerirgli il respiro. Finora niun sintomo di malattia pericolosa. Il pericolo cominciò a manifestarsi alle due dopo mezzodì allora che andatolo a vedere mi accorsi che alla difficoltà del respiro erasi aggiunta la tosse, e che lo sputo era tinto di sangue. Richiesto come sentivasi, rispose che non sentiva altro male che l’oppressione di stomaco cagionata dai vermi. Ma io mi accorsi che la malattia aveva cangiato aspetto ed era divenuta seria assai. Laonde per non camminare con incertezza e forse sbagliare nella scelta dei rimedi, si mandò tosto per il medico. In quel momento la madre, guidata da spirito cristiano, «Michele, gli disse, intanto che si attende il medico non giudicheresti bene di confessarti?». «Sì, cara madre, volentieri. Mi sono soltanto confessato ieri mattina, ed ho pure fatta la santa comunione, tuttavia vedendo che la malattia si fa grave desidero di fare la mia confessione».

Si preparò qualche minuto, fece la sua confessione; dopo con aria serena in presenza mia e di sua madre disse ridendo: «Chi sa se questa mia confessione sia un esercizio della buona morte, oppure non sia realmente per la mia morte?».

Che te ne sembra? gli risposi, desideri di guarire, o di andare in paradiso?

Il Signore sa ciò che è meglio per me; io non desidero di fare altro se non quello che piace a lui.

Se il Signore ti facesse la scelta o di guarire o di andare in paradiso, che sce­glieresti?

Chi sarebbe tanto matto da non scegliere il paradiso?

Desideri tu di andare in paradiso?

Se lo desidero! lo desidero di tutto cuore, ed è quello che da qualche tempo domando continuamente a Dio.

Quando desidereresti di andarvi?

Io vi andrei sull’istante, purché piaccia al Signore.

Bene; diciamo tutti insieme: In ogni cosa e nella vita e nella morte facciasi la santa, adorabile volontà del Signore.

In quel momento giunse il medico che trovò la malattia cangiata affatto di aspetto. «Siamo male, disse, un fatale corso di sangue si porta allo stomaco, e non so se ci troveremo rimedio».

Si fece quanto l’arte può suggerire in simili occasioni. Salassi, vescicanti2, bibite tutto fu messo in pratica a fine di deviare il sangue che furioso tendeva a soffocargli il respiro. Tutto invano.

Alle nove di quella sera (21 gennaio 1859) egli medesimo disse che desiderava di fare ancora una volta la santa comunione prima di morire, «Tanto più, egli diceva, che questa mattina non l’ho potuta fare». Egli era impaziente di ricevere quel Gesù che da molto tempo riceveva con frequenza esemplare.

Nel cominciare la santa funzione dissemi in presenza di altri: «Mi raccomandi alle preghiere dei compagni; preghino affinché Gesù sacramentato sia veramente il mio viatico, il mio compagno per la eternità». Ricevuta l’ostia santa si pose a fare l’analogo ringraziamento aiutato da un assistente.

Passato un quarto d’ora cessò di ripetere le preghiere che gli si andavano suggerendo, e non profferendo più alcuna parola noi ci pensavamo che fosse stato sorpreso da repentino sfinimento di forze. Ma indi a pochi minuti con aria ilare, e quasi in forma di scherzo fe’ cenno di essere ascoltato e disse: «Sul biglietto di domenica vi era un errore. Là stava scritto: Al giudizio sarò solo con Dio, e non è vero, non sarò solo, ci sarà anche la B. Vergine che mi assisterà; ora non ho più nulla a temere: andiamo pure quando che sia. La Madonna santissima vuole ella stessa accompagnarmi al giudizio».

91 CAPO XV

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92 Suoi ultimi momenti e sua preziosa morte

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Erano le dieci di sera ed il male appariva ognor più minaccioso; perciò nel timore di perderlo forse in quella notte medesima avevamo stabilito che il sacerdote D. Zattini1, un chierico ed un giovane infermiere passassero la metà della notte; D. Alasonatti poi (2), prefetto della casa, con altro chierico e con altro infermiere prestassero regolare assistenza per il rimanente della notte sino a giorno. Dal mio canto non ravvisando alcun prossimo pericolo dissi all'infermo: «Magone, procura di riposare un poco; io vado alcuni momenti in mia camera e poi ritornerò».

No, rispose tosto, non mi abbandonate.

Vado soltanto a recitare una parte di breviario e poi sarò di nuovo accanto a te.

Ritornate al più presto possibile.

Partendo io dava ordine che al minimo segno di peggioramento fossi tosto chiamato; perciocché io amava teneramente quel caro allievo, e desiderava trovarmi presso di lui soprattutto in caso di morte. Era appena in camera, quando mi sento a dire di fare presto ritorno all’infermo perché pareva avvicinarsi all’agonia.

Era proprio così; il male precipitava terribilmente, quindi gli fu amministrato l’Olio santo dal sacerdote Zattini Agostino. L’infermo era in piena cognizione di se stesso.

Rispondeva alle varie parti dei riti e delle cerimonie stabilite per l’amministrazione di questo augusto sacramento. Anzi ad ogni unzione voleva aggiungere qualche giaculatoria3. Mi ricordo che alla unzione della bocca disse: «O mio Dio, se voi mi aveste fatta seccare questa lingua la prima volta che la usai ad offendervi, quanto sarei fortunato! quante offese di meno; mio Dio, perdonatemi tutti i peccati che ho fatti colla bocca, io me ne pento con tutto il cuore».

All’unzione delle mani aggiunse: «Quanti pugni ho dati ai miei compagni con queste mani; mio Dio, perdonatemi questi peccati, ed aiutate i miei compagni ad essere più buoni di me».

Compiuta la sacra funzione dell’Olio Santo gli dissi se desiderava che avessi chiamata sua madre, che era andata a riposarsi alquanto in una camera vicina, persuasa ella pure che il male non fosse cotanto grave.

No, rispose; è meglio non chiamarla; povera mia madre! ella mi ama tanto, e vedendomi a morire proverebbe troppo dolore; cosa che potrebbe cagionarmi grande affanno. Povera mia madre! che il Signore la benedica! quando sarò in paradiso pregherò molto Iddio per lei.

Fu esortato a stare alquanto tranquillo, e prepararsi a ricevere la benedizione papale colla indulgenza plenaria. Nel corso di sua vita faceva gran conto di tutte le pratiche religiose cui erano annesse le sante indulgenze, e si adoperava quanto poteva per approfittarne. Perciò accolse con vero piacere l’offerta della papale benedizione. Prese parte a tutte le preghiere analoghe; volle egli stesso recitare il Confiteor. Ma le sue parole erano pronunciate con tanta unzione, con sentimenti di così viva fede, che tutti ne fummo commossi fino alle lagrime.

Dopo sembrava voler prendere un momento di sonno e si lasciò alcuni istanti in pace: ma tosto si risvegliò. Era cosa che riempiva di stupore chiunque lo rimirasse. I polsi facevano conoscere che egli trovavasi all’estremo della vita, ma l’aria serena, la giovialità, il riso, e l’uso di ragione manifestavano un uomo di perfetta salute. Non già che egli non sentisse alcun male, imperciocché l’oppressione di respiro prodotta dalla rottura di un viscere cagiona un af­fanno, un patimento generale in tutte le facoltà morali e corporali. Ma il nostro Michele aveva più volte domandato a Dio di fargli compiere tutto il suo purgatorio in questa vita a fine di andare tosto dopo morte in paradiso. Questo pensiero era quello che gli faceva soffrire tutto con gioia; anzi quel male, che per via ordinaria cagionerebbe affanni ed angustie, in lui produceva gioia e piacere.

Quindi per grazia speciale di nostro signor Gesù Cristo non solo pareva insensibile al male, ma pareva sentire grande consolazione nei medesimi patimenti. Né occorreva suggerirgli sentimenti religiosi, poiché egli stesso di quando in quando re­citava commoventi giaculatorie. Erano le dieci e tre quarti, quando mi chiamò per nome, e mi disse: «Ci siamo, mi aiuti». «Sta’ tranquillo, gli risposi, io non ti abbandonerò finché tu non sarai col Signore in paradiso. Ma poscia che mi dici d’essere per partire da questo mondo, non vuoi almeno dare l’ultimo addio a tua madre?».

No, rispose, non voglio cagionarle tanto dolore.

Non mi lasci almeno qualche commissione per lei?

Sì, dite a mia madre, che mi perdoni tutti i dispiaceri che le ho dati nella mia vita. Io ne sono pentito. Ditele che io la amo; che faccia coraggio a perseverare nel bene, che io muoio volentieri: che io parto dal mondo con Gesù e con Maria e vado ad attenderla dal paradiso.

Queste parole cagionarono il pianto in tutti gli astanti. Tuttavia fattomi animo, e per occupare in buoni pensieri quegli ultimi momenti, gli andava di quando in quando facendo alcune domande.

Che cosa mi lasci da dire ai tuoi compagni?

Che procurino di fare sempre delle buone confessioni.

Quale cosa in questo momento ti reca maggiore consolazione di quanto hai fatto nella tua vita?

La cosa che più di ogni altra mi consola in questo momento si è quel poco che ho fatto ad onore di Maria. Sì, questa è la più grande consolazione. O Maria, Maria, quanto mai i vostri divoti sono felici in punto di morte. Ma, ripigliò, ho una cosa che mi dà fastidio; quando l’anima mia sarà separata dal corpo e sarò per entrare in paradiso, che cosa dovrò dire? a chi dovrò indirizzarmi?

Se Maria ti vuole ella stessa accompagnare al giudizio, lascia a lei ogni cura di te stesso. Ma prima di lasciarti partire per il paradiso vorrei incaricarti d’una commissione.

Dite pure io farò quanto potrò per obbedirvi.

Quando sarai in paradiso e avrai veduta la grande Vergine Maria, falle un umile e rispettoso saluto da parte mia e da parte di quelli che sono in questa casa. Pregala che si degni di darci la sua santa benedizione; che ci accolga tutti sotto la potente sua protezione, e ci aiuti in modo che niuno di quelli che sono, o che la divina Provvidenza manderà in questa casa abbia a perdersi.

Farò volentieri questa commissione; ed altre cose?

Per ora niente altro, riposati un poco.

Sembrava di fatto che egli volesse pren­dere sonno. Ma sebbene conservasse la solita sua calma e favella, ciò non ostante i polsi annunciavano imminente la sua morte. Per la qual cosa si cominciò a leggere il Proficiscere4; alla metà di quella lettura egli come se si svegliasse da profondo sonno, colla ordinaria serenità di volto e col riso sulle labbra mi disse: «Di qui a pochi momenti farò la vostra commissione, procurerò di farla esattamente; dite ai miei compagni che io li attendo tutti in paradiso». Di poi strinse colle mani il crocifisso, lo baciò tre volte, poscia proferì queste sue ultime parole: «Gesù, Giuseppe e Maria io metto nelle vostre mani l’anima mia». Quindi piegando le labbra come se avesse voluto fare un sorriso, placidamente spirò.

Quell’anima fortunata abbandonava il mondo per volare, come piamente speriamo, in seno a Dio alle ore undici di sera, il 21 gennaio 1859, in età appena di quattordici anni. Non fece agonia di sorta; nemmeno dimostrò agitazione, pena, affanno od altro dolore che naturalmente si prova nella terribile separazione dell’anima dal corpo. Io non saprei qual nome dare alla morte di Magone se non dicendola un sonno di gioia che porta l’anima dalle pene della vita alla beata eternità.

Gli astanti piangevano più commossi che addolorati; perciocché a tutti doleva la perdita di un amico, ma ognuno ne invidiava la sorte. Il prelodato D. Zattini lasciando liberi gli affetti, che più non capiva in cuore, profferì queste gravi parole: «O morte! tu non sei un flagello per le anime innocenti; per costoro tu sei la più grande benefattrice che loro apri la porta al godimento dei beni che non si perderanno mai più. Oh perché io non posso essere in tua vece, o amato Michele? In questo momento l’anima tua giudicata è già condotta dalla Vergine Beata a deliziarsi nella immensa gloria del cielo. Caro Magone, vivi felice in eterno; prega per noi; e noi ti renderemo un tributo di amicizia facendo calde preci al sommo Iddio per assicurare sempre più il riposo dell’anima tua».

93 CAPO XVI

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94 Sue esequie; ultime rimembranze; conclusione

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Fattosi giorno la buona genitrice di Michele voleva recarsi nella camera del figliuolo per averne notizie; ma quale non fu il suo dolore quando fu prevenuta che egli era morto! Quella donna cristiana stette un momento immobile senza proferir parola, né dare un sospiro, quindi proruppe in questi accenti: «Dio grande, voi siete padrone di tutte le cose... Caro Michele, tu sei morto... io piangerò sempre in te la perdita di un figliuolo; ma ringrazio Dio che ti abbia concesso di morire in questo luogo con tale assistenza; di morire di una morte così preziosa agli occhi del Signore1. Riposa con Dio in pace, prega per tua madre, che tanto ti amò in questa vita mortale, e che ti ama ancora più ora che ti crede coi giusti in cielo. Finché vivrò in questo mondo non cesserò mai di pregare per il bene dell’anima tua, e spero di andare un giorno a raggiungerti nella patria dei beati». Dette queste parole diede in dirottissimo pianto, di poi andò in chiesa a cercare conforto nella preghiera.

La perdita di questo compagno fu altresì dolorosissima ai giovani della casa e a tutti quelli che ebbero occasione di conoscerlo.

Egli era molto conosciuto per le sue morali e fisiche qualità, ed era molto stimato e venerato per le rare virtù che fregiavano l’animo di lui.

Si può dire che il giorno seguente a quella morte i compagni lo passarono in esercizi di pietà per il riposo dell’anima dell’amico. Essi non trovavano conforto se non nel recitare il rosario, l’uffizio dei defunti, fare delle confessioni e delle comunioni. Tutti piangevano in lui un amico, ma ciascuno provava in cuore un gran conforto dicendo: «A questo momento Magone è già con Savio Domenico in cielo».

La sensazione provata dai suoi condiscepoli e dallo stesso suo professore sac. Francesia venne da esso medesimo espressa colle seguenti parole: «Al domani della morte di Magone io mi portai alla scuola. Era un giorno di sabato, e si doveva dare un lavoro di prova. Ma il posto di Magone vacante mi annunziava che aveva perduto uno scolaro e che forse il cielo aveva un cittadino di più. Io era profondamente commosso; i giovani erano costernati, e nel silenzio generale non fu possibile pronunziare altra parola che: È morto, e tutta la scuola ruppe in dirottissimo pianto. Tutti l’amavano; e chi non avrebbe amato un fanciullo adorno di tante belle virtù? La grande riputazione di pietà che egli si era acquistato presso i compagni si fece conoscere dopo la sua morte. Le pagine di lui erano disputate una per una; ed un mio degnissimo collega2 si stimò assai fortunato di avere un quadernetto del piccolo Michele, e di attaccarvi il nome che si tagliò da una pagina d’esame dell'anno precedente. Io stesso poi mosso dalle sue virtù praticate in vita con tanta perfezione, non esitai con piena confidenza ad invocarlo nei miei bisogni: e ad onore del vero devo confessare che non mi fallì mai la prova. Abbi, o angioletto, la più sentita mia riconoscenza, e ti piaccia d’intercedere presso il trono di Gesù per il tuo maestro. Fa’ che si desti nel mio cuore una scintilla della grande umiltà che tu avevi. O Michele! o caro, prega ancora per tutti i tuoi compagni che furono molti e buoni, affinché tutti ci possiamo riabbracciare in paradiso» (fin qui il suo maestro).

Per dare un segno esterno del grande affetto che da tutti portavasi all’amico defunto, fu fatta una sepoltura solenne quanto era compatibile coll’umile nostra condizione.

Con ceri accesi, con cantici funebri, con musica istrumentale e vocale accompagnarono la cara di lui salma fino alla tomba, dove pregandogli riposo eterno gli diedero l’ultimo addio nella dolce speranza di essergli un giorno compagni in una vita migliore della presente.

Un mese dopo gli fu fatta una rimembranza funebre; il sacerdote Zattini, celebre oratore, espose in patetico e forbito discorso l’elogio del giovane Michele. Rincresce che la brevità di questo libretto non comporti di inserirlo per intiero; voglio tuttavia metterne gli ultimi periodi che serviranno anche di conclusione ai presenti cenni biografici.

Dopo di aver esposto in forma oratoria le principali virtù di cui era ricco l’animo del defunto, invitava i dolenti e commossi compagni a non dimenticarlo: anzi a spesso ricordarsi di lui, e per confortarlo colla preghiera, e per seguirlo nei begli esempi che ci lasciò nella sua vita mortale. In fine conchiuse così:

«Questi esempi in vita e queste parole in morte ci porgeva il comune amico Michele Magone da Carmagnola. Ora egli non è più, la morte ha vuotato il suo seggio qui in chiesa, ove egli veniva a pregare, e la sua preghiera eragli così dolce, e la pace così profonda. Egli non è più, e colla sua subita scomparsa ci prova che ogni astro si spegne quaggiù, ogni tesoro si dissipa, ogni anima è richiamata. Trenta giorni or sono noi abbiamo consegnate alla terra le sue care giovanili spoglie. Se io fossi stato presente, ad uso del popolo di Dio, avrei estirpato presso la tua fossa una manciata di erba e gettandola dietro le spalle, avrei mormorato in mesto accento come il figlio di Giuda: Fioriranno essi come l’erba dei campi3: dalle tue ossa risorgano altri cari giovanetti che risveglino tra noi la tua ricordanza, ne rin­novino gli esempi, e ne moltiplichino le virtù.

Addio dunque per l’ultima volta, o dolce, o caro, o fedele nostro compagno, o buono e valoroso Michele! Addio! Tu crescevi trepida speranza dell’ottima tua madre, che sopra di te pianse le lagrime della pietà più ancora che quelle della natura e del sangue… Tu crescevi bella speranza di quel padre adottivo che ti accoglieva nel nome del provvido Iddio, che ti chiamava a questo dolce e benedetto asilo dove imparasti sì bene e sì presto l’amore di Dio e lo studio della virtù... Tu amico ai tuoi condiscepoli, rispettoso ai superiori, ai maestri docile, a tutti benevolo! Tu crescevi al sacerdozio... e forse in esso saresti stato esempio e maestro della sapienza celeste!... Tu hai lasciato al nostro cuore un vuoto... una ferita...! Ma tu ti sei involato, o piuttosto morte ti involò alla nostra stima, al nostro affetto... ah dunque avevamo noi bisogno delle lezioni della morte? Sì, ne avevano bisogno i fervidi, i meno solleciti, i trascurati; bisogno il negligente, il sonnolento, il pigro, il debole, il tiepido, il freddo. Deh! ti preghiamo, facci conoscere che tu sei ora nel luogo della gioia, nella terra beata dei viventi; facci sentire che tu ti ritrovi ora presso alla fonte, anzi al mare della grazia e che la tua musica voce interfusa a quella dei cori celesti è possente, è gradita alle orecchie di Dio! Impetraci zelo, amore e carità... impetraci di vivere buoni, casti, divoti, virtuosi... di morire lieti, sereni, calmi, fidenti nelle divine misericordie. Impetraci che la morte non ci tocchi coi suoi tormenti, come rispettava te medesimo. Non tangat nos tormentum mortis!4 Prega per noi cogli angelici giovanetti pur di questa casa che ti precedettero nel seno di Dio, Gavio Camillo, Fascio Gabriele, Rua Luigi, Savio Domenico, Massaglia Giovanni, e prega con essi soprattutto per il tanto amato capo di questa casa. Noi ti rammenteremo sempre nelle nostre preci, noi non ti oblieremo giammai, finché non ci sia dato di raggiungerti sulle stelle. Oh benedetto sia Dio che ti formò, che ti nutrì, ti mantenne e ti tolse la vita. Benedetto sia quegli che toglie la vita, e benedetto sia quegli che la rende!»5.


95 Giovanni Bosco

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Il pastorello delle Alpi ovvero vita del giovane Besucco Francesco d’Argentera



96 Nota introduttiva al testo

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Questa edizione della vita di Francesco Besucco si attiene al testo dell’ultima edizione curata da don Bosco, la seconda (Il pastorello delle Alpi ovvero vita del giovane Besucco Francesco d’Argentera pel sacerdote Giovanni Bosco, edizione seconda, Torino, Tipografia e Libreria Salesiana, 1878, 164 p.), confrontata con la prima edizione (Il pastorello delle Alpi ovvero vita del giovane Besucco Francesco d’Argentera pel sacerdote Bosco Giovanni, Torino, Tip. dell’Orat. di S. Franc. di Sales, 1864, 192 p.) e con l’edizione commentata da Alberto Caviglia (Opere e scritti editi e inediti di don Bosco, vol. VI: La vita di Besucco Francesco, Torino, Società Editrice Internazionale, 1965, pp. 21-101). Abbiamo pubblicato anche l’Appendice sopra il benedetto crocifisso (introdotta nell’ed. 1864, pp. 182-190, e riportata senza alcuna variante significativa nell’ed. 221878, pp. 154-161) perché collegata con gli eventi narrati.


In nota sono segnalati gli inserimenti e le varianti testuali più significative tra la prima e la seconda edizione. Quando ci è parso utile, abbiamo inserito nelle note altre informazioni di carattere documentario e storico.

Quando nel testo s’incontra un numero di rimando a nota di piè pagina racchiuso tra parentesi tonda (n) significa che tale nota era già nel testo originale o fu aggiunta nella seconda edizione.

Nella numerazione dei capitoli abbiamo conservato le cifre romane, come nelle edizioni originali.




Giovani carissimi,

Mentre aveva tra mano a scrivere la vita di un vostro compagno, la morte inaspettata del giovane Besucco Francesco, mi fece sospendere quel lavoro per occuparmi di lui medesimo. Egli è per appagare le vive istanze dei suoi compatrioti, dei suoi amici e per secondare le molte vostre dimande, che ho divisato di mettermi a raccogliere le più interessanti notizie di questo compianto vostro compagno, e di presentarvele ordinate in un libretto, persuaso di farvi cosa utile e gradita.

Taluno di voi potrà chiedere a quali fonti io abbia attinte le notizie, per accertarvi che le cose ivi esposte siano realmente avvenute.

Vi soddisferò con poche parole. Per il tempo che il giovane Besucco visse in patria, mi sono tenuto alla relazione trasmessami dal suo parroco1, dal suo maestro di scuola2, e dai suoi parenti ed amici. Si può dire, che io non ho fatto altro che ordinare e trascrivere le memorie a questo uopo inviatemi. Per il tempo che visse tra noi ho procurato di raccogliere accuratamente3 le cose avvenute in presenza di mille testimoni oculari: cose tutte scritte e firmate da testimonii degni di fede.

È vero che ci sono dei fatti, i quali4 recano stupore a chi legge, ma questa è appunto la ragione per cui li scrivo con premura particolare, poiché, se fossero soltanto cose di poca importanza, non meriterebbero di essere nemmeno pubblicate. Quando poi osserverete questo giovanetto a manifestare nei suoi discorsi un grado di scienza ordinariamente superiore a questa età, dovete notare che la grande diligenza del Besucco per imparare, la felice memoria nel ritenere le cose udite e lette e il modo speciale con cui Iddio lo favorì dei suoi lumi, contribuirono potentemente ad arricchirlo di cognizioni certamente superiori alla sua età.

Una cosa ancora vi prego5 di notare riguardo a me stesso. Forse troppa compiacenza nello esporre le relazioni che passarono tra me e lui. Questo è vero e ne chiedo benevolo compatimento: vogliate qui ravvisare in me un padre che parla di un figlio teneramente amato; un padre, che dà campo ai paterni affetti, mentre parla ai suoi amati figli. Egli loro apre tutto il suo cuore per appagarli, ed anche istruirli nella pratica delle virtù, di cui il Besucco si rese modello. Leggete adunque, o giovani carissimi, e se nel leggere vi sentirete mossi a fuggire qualche vizio, o a praticare qualche virtù, rendetene gloria a Dio, solo Datore di veri beni.

Il Signore ci benedica tutti e ci conservi nella sua santa grazia qui in terra, affinché possiamo giungere un giorno a benedirlo eternamente in cielo.

97 CAPO I

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98 Patria - Genitori - Prima educazione del giovane Besucco

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Se mai ti accadesse, o lettore, di camminare da Cuneo alla volta delle alte giogaie delle Alpi, dopo lungo, ripido e faticoso cammino tu giungeresti sull’alta vetta delle medesime, ove in una specie di altipiano ti si presenta alla vista una delle più amene e pittoresche vedute. A notte tu vedi la cresta più elevata delle Alpi, che è il colle della Maddalena1, così detto per tradizione da quei popolani, che credono essere questa santa venuta di Marsiglia ad abitare sopra queste quasi inabitabili montagne. La sommità di questo colle forma un largo piano ove giace un lago assai esteso da cui nasce il fiume Stura2. A sera il tuo sguardo si perde in una lunga, larga e profonda vallata detta Valle delle basse Alpi3, che già appartiene al territorio francese. A mattino il tuo occhio è deliziato da una moltitudine di colli uno più basso dell’altro, che quasi gradinata semicircolare vanno abbassandosi fino a Cuneo ed a Saluzzo4. A giorno poi e precisamente ottanta metri dai confini di Francia5, ma sempre sul medesimo piano, giace l’alpestre villaggio di Argentera6, patria del pastorello Besucco Francesco, di cui intraprendo a scrivere la vita.

Egli nacque in umile edificio di questo paese da poveri, ma onesti e religiosi genitori il primo marzo 1850. Suo padre chiamavasi Matteo e sua madre Rosa7. Attesa la loro povera condizione si indirizzarono al parroco, che ha titolo di arciprete, affinché volesse battezzarlo e guardarlo come figlioccio. In quel tempo governava già con zelo la parrocchia dell’Argentera l’attuale arciprete di nome D. Pepino Francesco che ben volentieri si prestò al pietoso uffizio8. Madrina fu la madre dello stesso arciprete di nome Anna9, donna di vita esemplare, e che non mai si rifiutava ad opere di carità. Per ordine espresso dei genitori gli fu imposto nel Battesimo il nome del padrino, cioè Francesco, al quale volle l’arciprete aggiunger quello del santo occorso nel giorno della sua nascita, sant’Albino. Appena il nostro giovinetto giunse all’età in cui poté essere ammesso alla santa comunione, non lasciava mai in quel giorno, 1° di marzo, di accostarsi ai santi sacramenti, e per quanto gli era possibile passava tutta la giornata in opere di cristiana pietà.

Conoscendo sua madre quanto importi il cominciar per tempo a dare buona educazione alla figliuolanza non risparmiava sollecitudine per insinuare sodi principii di pietà nel tenero cuore del caro figlioletto. I nomi di Gesù e di Maria furono le prime parole, che ella studiò di fargli imparare. Non di rado fissandolo in volto e portando il pensiero sulla vita futura di Francesco, tutta tremante pei gravi pericoli, cui sogliono andare esposti i giovanetti, commossa esclamava: «Caro Franceschino, io ti amo assai, ma assai più del corpo amo l’anima tua. Vorrei prima vederti morto, che vederti offendere Iddio! Oh! potessi io essere consolata da te col vederti sempre in grazia di Dio!». Queste e simili espressioni erano il condimento quotidiano che animava lo spirito di questo fanciullino, il quale contro ogni aspettazione cresceva robusto in età e nello stesso tempo in grazia appresso di tutti. Allevato con questi sentimenti non è a dire di quanta consolazione Francesco riuscisse a tutta la famiglia. Tanto i genitori di Francesco, quanto i suoi fratelli godono di poter attestare come il loro fratellino si compiacesse, appena cominciò parlare, di nominare sovente i santi nomi di Gesù e di Maria, che furono i primi nomi ben pronunciati da quella innocente lingua. Fin dalla più tenera età manifestò gran gusto nell’imparare orazioni e canzoncine spirituali, che compiacevasi canterellare in compagnia della sua famiglia. Era poi una delizia il vedere con quanta gioia tutte le feste prima del vespro si unisse cogli altri fedeli a cantar le lodi a Maria e a Gesù. Pareva allora nella pienezza delle sue consolazioni. L’amore alla preghiera sembrò nato con lui. Dall’età di soli tre anni, secondo le attestazioni dei genitori, dei fratelli e delle sorelle, non diede mai occasione di esserne invitato; ed egli stesso ne domandava l’insegnamento. La mattina e la sera all’ora consueta s’inginocchiava e recitava da sé quelle brevi preghiere, che già aveva imparato, né alzavasi finché non ne avesse imparato alcun che di più.

99 CAPO II

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100 Morte della madrina - Affetto alle cose di chiesa - Amore alla preghiera

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Il giovanetto Besucco portava grande affetto alla sua madrina, la quale sia pei piccoli regali che gli faceva, sia pei segni speciali di benevolenza che gli usava, teneva come sua seconda madre. Correva egli solamente il quarto anno di sua età, quando Anna Pepino cadde gravemente inferma. Il suo affezionato figlioccio dimandava spesso di poterla visitare, pregava per lei, e le faceva mille carezze. Sembra che egli di lontano abbia avuto segni straordinari della morte di lei, che spirava l’anima sua il 9 maggio 1853.

Non ostante così tenera età da quel giorno cominciò a recitare mattina e sera un Pater per la defunta madrina, uso che ritenne sempre. Egli lo assicurò più volte dicendo: «Mi ricordo e prego tutti i giorni per la mia madrina, sebbene io abbia molta speranza che ella goda già la gloria del paradiso». Appunto in riconoscenza della pietà, che Francesco dimostrava alla cara sua madre, l’arciprete lo amò con predilezione e lo tenne d’occhio per quanto gli fu possibile.

Qualora Francesco avesse veduto quelli di sua famiglia a far preghiere, tosto mettevasi in atteggiamento divoto, alzando gli occhi e le innocenti sue manine al cielo quasi presago di quei grandi favori, che in seno versato gli avrebbe il misericordioso Iddio.

La mattina, contro la consuetudine dei ragazzi, non voleva assaggiare cosa alcuna se prima non avesse recitate le sue orazioni. Venendo fin dall’età di tre anni condotto alla chiesa, non mai successe il caso, in cui disturbasse i vicini, che anzi osservandone perfino i movimenti divoti procurava d’imitarli. Cosicché accadeva sovente, che coloro i quali l’osservavano con queste sorprendenti disposizioni dicessero: «Sembra incredibile tanta compostezza in un fanciullo di quella età».

Egli prestavasi volentieri a tutti gli uffizi di chiesa di qualunque genere, a segno che pareva nato fatto per compiacer tutti, anche con grande suo incomodo. Infatti molte volte d’inverno accadde che per la quantità della neve caduta non potesse intervenir persona di sorta all’unica messa del parroco per servirla. Soltanto l’intrepido Fran­cesco affrontando coraggioso ogni pericolo facevasi strada colle mani e coi piedi in mezzo alla neve, e giungeva solo alla chiesa. Al primo vederlo l’avresti creduto un animale, che camminasse o meglio si avvoltolasse in mezzo alla neve, la cui altezza superava di molto quella di Francesco. Matteo Valorso testimonio oculare depone, che circa la metà del mese di gennaio 1863, chiamato dal parroco a servirgli messa, al momento di accendere le candele all’altare, con sua sorpresa vide entrare uno in chiesa di cui a stento ravvisava le sembianze umane. Ma quale non fu la sua meraviglia, quando scoprì in quel co­raggioso il nostro giovanetto, che contento della felice riuscita dei suoi sforzi esclamò: «Finalmente ci sono». Servì difatti la messa, dopo la quale sorridendo disse al parroco: «Questa ne vale due, ed io l’ho ascoltata con doppia attenzione, e ne sono tanto contento. Seguiterò a venirvi a qualunque costo». E chi non avrebbe amato sì grazioso giovanetto?

Con queste disposizioni cresceva il fanciullino in età ed in grazia presso Dio e gli uomini1. All’età d’anni cinque sapeva già perfettamente le orazioni della mattina e della sera, che recitava tutti i giorni insieme colla famiglia, il quale uso ritenne finché dimorò nella casa paterna2. Mentre mostravasi ansioso di pregare, mostravasi eziandio assai premuroso nell’imparare preghiere o giaculatorie. Bastava che Francesco udisse alcuno a recitare una preghiera a lui ancora ignota, che non gli si toglieva dai panni se non dopo che l’aveva imparata; quindi tutto allegro, come avesse scoperto un tesoro, la insegnava a quei di sua casa. Ed allora giubilava molto osservando la nuova sua preghiera entrata in consuetudine nella famiglia, o recitata dai suoi compagni. Le due seguenti erano per così dire il suo mattutino e la sua compieta.

Appena svegliato, fatto il segno della santa croce, balzava dal letto recitando forte, od anche cantando la seguente orazione: «Anima mia, alzati su: guarda al ciel, ama Gesù: ama chi ti ama, lascia il mondo che t’inganna: pensa che hai da morir, tuo corpo ha da marcir: e perché sii esaudito, di’ a Maria tre volte l’Ave Maria»3.

Siccome nei primi anni non poteva comprendere il significato di questa orazione, così importunava ora il padre, ora la madre; o qualche altro, che gliela spiegassero. Quando poi era giunto a comprenderla diceva: «Adesso la recito con maggior divozione». Col tempo questa preghiera divenne la regola di sua condotta.

La sera poi incamminandosi al riposo, come la mattina recitava con espressione assai viva la seguente: «A coricarmi io mi vo, non so se mi leverò: quattro cose dimanderò: confessione, comunione, Olio santo, benedizione papale. Nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo».

Compiacevasi in modo particolare di ragionare delle cose di religione, degli esempi di virtù da altri praticati, che egli subito cercava di imitare. Se talvolta era alquanto malinconico, e volevasi rallegrare, bastava parlargli di cose spirituali, o del profitto, che poteva ricavare nel frequentare la scuola.

101 CAPO III

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102 Sua obbedienza - Un buon avviso - Lavora la campagna

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La sua obbedienza agli ordini dei genitori, dice il parroco, era così pronta che sovente ne preveniva i desiderii in modo, che non ebbero mai ripulsa dal medesimo, e nemmeno ravvisarono la più piccola indolenza nell’eseguire i loro comandi. Le sue sorelle ancora affermano essere non rare volte accaduto, che per inavvertenza, o perché occupate in altri lavori, avendo esse alquanto differita l’esecuzione degli ordini dei genitori, ne furono sempre rimproverate dal loro fratellino. Atteggiandosi in tali circostanze in atto supplichevole, «e che?, esclamava, è già una mezz’ora che nostra madre vi comandò quella cosa, e voi aspettate ad eseguirla? Non è bene dar motivo di disgusto a chi tanto ci ama».

Era poi tutto dolcezza ed amore verso i fratelli e le sorelle, non mai offendendosi quantunque fosse dai medesimi rimproverato. Con loro compiacevasi d’ordinario trattenersi a divertimento, perché egli giudicava non potere dai medesimi imparare altro che bene. Confidava loro ogni pensiero, e perfino li pregava ad invigilare sopra dei suoi difetti. «Qui mi rincresce, dice il parroco, di non poter descrivere la buona armonia, che regnava in questa famiglia composta in allora di otto persone, le quali potevano dirsi esemplari in tutta la loro condotta, sia per la ritiratezza in casa, sia per la loro frequenza e divozione alle sacre funzioni».

Cinque anni fa essendo partito per il servizio militare il suo maggior fratello Giovanni, il nostro Francesco non cessava di dargli santi avvertimenti per sua norma, affinché si mantenesse buono come era in casa. «Procura, conchiudeva, di essere vero divoto di Maria santissima. Essa certamente ti aiuterà. Io dal mio canto non mancherò di pregare per te. Fra poco ti scriveremo delle lettere». Tutto ciò diceva in età appena di anni nove. Quindi rivolto ai genitori, che in quel figlio perdevano il braccio più forte pei lavori di campagna, «voi piangete, loro diceva, ma Iddio ci consolerà in altro modo col conservarci la sanità, ed aiutarci nei nostri lavori. Io poi farò tutto il possibile per aiutarvi». Che gran lavoratore di campagna! Eppure fu così; con grande stupore di tutti attendeva in modo straordinario ai lavori che gli erano comandati, volendo anzi intraprenderne molti altri, che i parenti credevano incompatibili colle sue forze. In mezzo ai lavori di campagna manteneva sempre inalterata la sua giovialità, non ostante la stanchezza inseparabile dal suo ardore nei medesimi. Se qualche volta suo padre per celia dicevagli: «Francesco, sembri assai stanco dal lavoro»; egli ridendo rispondeva: «Ah! mi sembra che questi lavori non siano fatti per me. Mio padrino mi dice sempre che studii; chi sa che egli non mi aiuti». Né passava mai giorno senza parlare in famiglia del suo desiderio di frequentare le scuole. Andava a scuola nell’in­vernale stagione, ma non dispensavasi mai dai servigi domestici, come pur troppo si usa dai ragazzi, per attendere ai divertimenti nelle ore libere dallo studio. Il tenore della sua vita per il tempo in cui frequentò la scuola in Argentera fu il seguente.

103 CAPO IV

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104 Episodi e condotta di scuola

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Sebbene i genitori di Francesco avessero molto bisogno del suo servizio, tuttavia persuasi che la scientifica istruzione è un mezzo efficacissimo per imparare la religione, lo avviarono per tempo a scuola1. Ecco pertanto qual fu la sua condotta scolastica. Alzavasi alla mattina di buon'ora recitando l’indicata orazione: Anima mia, alzati, su, ecc., fermandosi ben sovente a meditarne il significato. Appena levato o solo o colla famiglia recitava le lunghe sue orazioni, quindi attendeva allo studio fino al tempo della scuola, dopo la quale con sollecitudine ritiravasi nella casa paterna per attendere ad alcuni lavori di famiglia. A tanta diligenza corrispondeva il profitto che otteneva in classe, e sebbene non dimostrasse grande ingegno, tuttavia supplendovi colla diligenza nei doveri, e coll’esatta occupazione del tempo nel fare i temi e nello studiare le lezioni vi fece notabilissimo progresso.

Il maestro aveva in generale proibito ai suoi allievi di andare girovagando nelle stalle durante la invernale stagione. In ciò Besucco fu oggetto di ammirazione a tutti. Non solo osservò scrupolosamente la ritiratezza, ma col suo esempio trasse molti compagni ad imitarlo con grande vantaggio della scienza e della moralità, e con viva soddisfazione di Valorso Antonio, maestro, dei genitori e degli allievi2.

Raramente dopo il pranzo usciva di casa a divertimento, e se n’era quasi intieramente dimenticato alcuni mesi prima che venisse all’Oratorio.

Esilarato alcuni istanti il suo giovanile temperamento ritornava allo studio finché suonasse la scuola, nella quale per testimonianza del citato suo maestro dimostrò mai sempre tutta la possibile diligenza ed attenzione a quanto insegnavasi3, e rispetto inalterabile. Esso procurava di aiutare il maestro nell’insegnare a leggere ai fanciulli principianti, e lo faceva con disinvoltura e con edificazione4. In tutto il tempo che frequentò la scuola comunale fu sempre riguardato dai compagni quale esempio di morigeratezza e diligenza. Essi avevano concepito tanta stima per il nostro Francesco che guardavansi fino di lasciarsi sfuggir parole meno dicevoli alla sua presenza. Erano certi che le avrebbe disapprovate e fattene loro severe dimostranze, come accadde non poche volte. Che se alcuno più giovane di lui lo richiedeva di istruzione fuori della scuola, era sua passione il prestarsi di buon cuore, animandolo ancora a richiederlo ben sovente. Ma nello stesso tempo non mancava mai di pascolarne lo spirito con avvisi salutari ed animarlo alla divozione.

Dalla relazione fatta dallo zelante suo maestro raccolgo ancora alcuni fatti che qui letteralmente trascrivo5. Ogni qual volta fossero sorte risse fra i suoi condiscepoli si lanciava tosto in mezzo di loro per acquetarli. «Amici come siamo, loro diceva, non conviene percuoterci, tanto meno per queste inezie che non hanno alcun nome: vogliamoci bene, sappiamo compatirci gli uni gli altri come comanda Iddio». Queste ed altre simili parole bastavano d’ordinario a mettere la pace tra i compagni litiganti. Se osservava le sue parole non essere capaci di pacificarli, abbandonavali all’istante.

Quando udiva darsi il segno della scuola o delle sacre funzioni egli invitava i suoi compagni a desistere dai divertimenti. Giuocando un giorno alle bocce udì il suono della campana che li chiamava al catechismo. Francesco disse tosto: «Compagni, andiamo al catechismo, finiremo la partita dopo la funzione parrocchiale». Ciò detto disparve dai loro occhi. Terminata la funzione si restituì ai compagni, ai quali dolcemente rimproverò la perdita di questa pratica di pietà e d’istruzione; intanto per renderseli vie più amici comprò loro delle ciliegie. A questi segni di generosità e di cortesia quei compagni promisero che in avvenire non avrebbero mai più trascurate le cose di religione per attendere ai divertimenti.

Se a caso avesse udito taluno a pronunziar parole indecenti mostravasi tosto in volto mortificato; quindi lo abbandonava o facevagli severo rimprovero. Spesse volte fu udito dire: «Cari compagni, non dite tali parole! con queste voi offendete Dio e date scandalo ad altri». Attestano anche i medesimi compagni che Francesco li invitava ben sovente a far qualche visita al SS. Sacramento ed a Maria santissima e che si prestava volenteroso ogni qual volta poteva compiacere i medesimi in ciò che riguardava la scuola.

Altre volte sentendo suonare l’Ave Maria: «Orsù, amici, diceva, recitiamo l’Angelus e poi seguiteremo il nostro divertimento». Il medesimo invito ripeteva ai compagni nei giorni di vacanza per farli assistere alla santa messa.

Nella mia qualità di maestro comunale d’Argentera debbo, per maggior gloria di Dio, dichiarare, che il pio giovinetto Besucco, nei cinque anni in cui frequentò la mia scuola6, non fu mai secondo ad alcuno nella diligenza nel recarsi alla scuola. Se mai avesse osservato compagni negligenti, sapeva così ben avvertirneli che quasi da volere o non volere divenivano più diligenti. Nella scuola poi il suo contegno non poteva essere migliore, sia nell’osservare il silenzio, sia nella costante attenzione a quanto insegnavasi. Prestavasi inoltre con gran piacere a far leggere i più piccoli e ciò faceva con sì bel garbo e con tanta amorevolezza che era da loro assaissimo amato e rispettato (fin qui il maestro).

105 CAPO V

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106 Vita di famiglia - Pensiero notturno

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Ritornato appena dalla scuola correva ad abbracciare i suoi genitori, esibendosi pronto ai loro cenni fino all’ora di prender cibo. Nella frugale mensa non trovava mai alcun motivo di lamento o per la qualità o per la quantità dei cibi. In tutte le sue azioni non dimostrava volontà alcuna e scorgendo altri in famiglia non soddisfatti nei proprii desideri loro diceva: «Quando sarete padroni farete poi a modo vostro, ma fin ora dobbiamo uniformarci alla volontà dei nostri cari genitori. Siamo poveri e non possiamo vivere e comparire ricchi. A me non importa niente vedere i miei compagni ben vestiti, mentre io non posso avere belle vestimenta. La più bella veste che possiam desiderare è la grazia di Dio». Egli aveva per i suoi genitori rispetto sommo; li amava col più tenero amor filiale, loro ubbidiva ciecamente, né cessava mai dal magnificare quanto essi facevano per lui. Per il che era da loro tanto amato, che sembrava troppo molesto il tempo in cui non l’avevano in loro compagnia. Se qualche volta i fratelli e le sorelle o per divertimento o per altro motivo gli dicevano: «Tu, Francesco, hai ben ragione di essere contento, perché sei il beniamino di tutti». «Sì, è vero, rispondeva, ma io procurerò sempre di essere buono e meritarmi il loro e il vostro amore». La qual cosa era tanto vera, che ricevendo qualche piccolo regaluzzo, o guadagnando qualche moneta per servizi ad altri prestati, giunto a casa, o rimetteva il guadagno nelle mani dei genitori, oppure ne faceva parte ai fratelli ed alle sorelle dicendo: «Vedete, quanto vi amo!». Vegliando la sera nella propria stalla, da cui usciva rarissimamente, per non associarsi con altri compagni, impiegava il tempo divertendosi coi famigliari, studiava le sue lezioni, oppure compieva qualche altro suo dovere scolastico. Di poi ad un’ora determinata invitava tutti a recitare la terza parte del rosario colle solite orazioni, prolungandole per il vivo desiderio di trattenersi con Dio recitando molti Pater noster. Né mai dimenticava di raccomandare speciali preghiere per ottenere da Dio sanità a suo padre ed ai suoi fratelli che nell’inverno dimoravano fuori del paese a fine di guadagnare col lavoro delle loro mani di che sostentare la famiglia.

«Chi sa, diceva sovente piangendo, quanto freddo soffrirà nostro padre per noi! oh quanto sarà mai stanco, e noi stiam qui tranquilli mangiando il frutto dei suoi sudori! Ah! preghiamo almeno per lui».

Di suo padre assente discorreva ogni giorno, e, per dir così, lo accompagnava ovunque col pensiero nei suoi viaggi.

Soleva eziandio nelle veglie applicarsi alla lettura di libri divoti, che procurava farsi provvedere dal padrino e dal maestro, che ben volentieri gliene somministravano. Più volte nel giorno o lungo la sera, vedendo la stalla piena di gente, loro diceva: «Oh! ascoltate il bello esempio che ho trovato in questo libro»; e lo leggeva ad alta e sonora voce, a segno che pareva un predicatore. Che se gli cadeva tra le mani la vita di qualche pio giovinetto, oh! allora questo era il suo caro libro, che diventava il soggetto dei suoi discorsi e della sua imitazione. «Fosse vero che potessi anch’io diventar tanto buono, quanto costui! sì che sarei fortunato, non è vero, mia cara madre?». «Due anni fa, dice il parroco, lesse la vita di san Luigi Gonzaga, e da quel tempo ne divenne imitatore, specialmente nell’occultare le buone azioni che faceva. Ma alcuni mesi dopo, essendogli stata regalata la vita di Savio Domenico e di Michele Magone1, specialmente leggendo la vita di quest’ultimo diceva con gioia: “Ho trovato il vero ritratto delle mie divagazioni; ma almeno Iddio mi concedesse di potermi emendare dei miei difetti, ed imitare la buona condotta ed il santo fine del mio caro Magone”, così lo chiamava. E qui gli nacque, continua il parroco, curiosità straordinaria di farsi spiegare il modo, con cui doveva imitare quel giovinetto, e mi richiese se non sarebbe stato possibile di farlo entrare nel medesimo stabilimento, in cui parevagli, che avrebbe tanto profittato nella virtù. È questo il frutto principale che il nostro Francesco ricavò dalla lettura dei libri buoni. Dio volesse che tutti i miei fanciulli parrocchiani attendessero a queste buone letture. Sarebbero al certo di grande consolazione ai loro genitori».

Siccome la mattina Francesco invitava l’anima sua innocente a sollevarsi al cielo, così la sera la intratteneva nelle tenebre del sepolcro con qualche pio e devoto pensiero. Interrogato più volte che facesse posto a letto, rispondeva: «Mi figuro di mettermi nel sepolcro, ed allora il primo pensiero che mi viene in mente è questo: Che sarà di te, se cadrai nel sepolcro dell’inferno? Spaventato da questo riflesso, mi metto a pregare ben di cuore Gesù, Maria, san Giuseppe ed il mio angelo custode, e non finisco più di pregare, finché non sia addormentato. Oh! quanti bei proponimenti faccio mai la sera posto a letto per timore di dannarmi. Se mi sveglio la notte seguito a pregare, e mi rincresce molto se il sonno nuovamente mi sorprende».

107 CAPO VI

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108 Besucco e il suo parroco - Detti - Pratica della confessione

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Sebbene il nostro Besucco sia stato fin da fanciullo prediletto dal Signore, tuttavia dobbiam dire che la vigilanza dei genitori, la sua buona indole, la cura amorevole che di lui si prese il proprio parroco giovarono potentemente al felice risultato della morale sua educazione. Fanciullino ancora era già dai suoi genitori condotto alla chiesa; gli prendevano le mani, lo aiutavano a far bene il segno della croce, gli additavano il modo ed il luogo, in cui doveva inginocchiarsi, e l’assistevano colla massima amorevolezza. Appena ne fu capace era dai medesimi condotto a confessarsi. Ed egli mosso dall’esempio, dai consigli, dagli incoraggiamenti dei parenti si affezionò per tempo a questo sacramento in modo che ben lungi dal provare l’ordinaria apprensione, o specie di ripugnanza, che i ragazzi sogliono manifestare nel presentarsi a persona autorevole, egli ne provava invece tutto il piacere. Ma la fortuna di questo giovanetto è in gran parte dovuta al proprio parroco D. Francesco Pepino. Questo esemplare sacerdote occupava con zelo le sue forze, e le sue sostanze a bene dei suoi parrocchiani. Persuaso che non si possono avere buoni parrocchiani, se la gioventù non è bene educata, niente risparmiava, che potesse tornare a favore dei fanciulli. Faceva loro il catechismo in qualsiasi stagione o tempo dell’anno; li ammaestrava intorno al modo ed alle cerimonie stabilite per servire la santa messa; faceva anche la scuola, e non di rado andava di loro in cerca alle proprie case, sui lavori, e negli stessi luoghi dei pascoli. Quando gli avveniva di ravvisare qualche fanciullo che palesasse attitudine allo studio, alla pietà, ne formava specialissimo oggetto delle sue sollecitudini. Per la qual cosa appena si accorse delle benedizioni, che il Signore spandeva copiose sopra del nostro caro Besucco, non lo perdé più di vista, e volle egli stesso dargli le prime cognizioni del catechismo, e a suo tempo prepararlo alla1 prima confessione. Con maniere amorevoli e proprie di un tenero padre si guadagnò il cuore di lui per modo, che il giovanetto provava le sue delizie ogni qualvolta poteva conversare coll’amato suo padrino, o udire da lui qualche parola di conforto o di pietà.

Lo scelse per suo stabile confessore, e continuò a confessarsi da lui in tutto il tempo che visse in Argentera. Il parroco lo consigliò a cangiar qualche volta confessore, e gliene porse ben anche occasione, ma egli lo pregava di volerlo sempre confessare egli stesso. «Con lei, diceva, caro padrino, ho tutta la confidenza. Ella conosce il mio cuore. Io le manifesto sempre ogni segreto. Io l’amo molto, perché Ella molto ama l’anima mia»2.

Io credo, che la più grande fortuna per un giovanetto sia la scelta di un confessore stabile, cui apra il suo cuore, confessore che si prenda cura dell’anima di lui, e che coll’amorevolezza, e colla carità lo incoraggi alla frequenza di questo sacramento.

Non solamente il nostro Francesco dipendeva dal suo parroco nelle cose di confessione, ma eziandio in tutto ciò che avrebbe potuto contribuire al suo bene spirituale e temporale. Un semplice consiglio od anche un solo desiderio esternato dal suo padrino era per lui un comando, che con gioia premurosamente eseguiva. È poi sommamente amena ed edificante la maniera, che egli teneva nella frequenza di questo sacramento. Alcuni giorni prima parlava della prossima sua confessione, protestando coi fratelli e colle sorelle di volerne quella volta ricavare profitto. Ad essi tanto più nei primi anni raccomandavasi, affinché gli insegnassero a confessarsi bene, interrogavali, come essi facevano a conoscere le mancanze commesse, e a ricordarsi dei peccati in sì lungo spazio di tempo, che era circa un mese. Faceva poi grandi maraviglie che dopo la confessione si potesse di nuovo offendere Iddio, al quale si è promessa fedeltà. «Quanto mai è buono, diceva, Iddio a perdonarci i nostri peccati non ostante la nostra infedeltà ad osservare i fatti proponimenti; ma quanto è più grande l’ingratitudine, che continuamente usiamo ai tanti benefizi, che ci fa! Ahi! dovremmo tremare al solo riflettere alle nostre infedeltà. Io per me sono disposto a fare e a soffrire ogni cosa prima di offenderlo nuovamente». La sera precedente alla confessione interrogava suo padre, se la mattina vegnente non aveva qualche lavoro pressante a fare. Richiesta la ragione gli diceva, che aveva piacere di andarsi a confessare. Al che di buon animo accondiscendeva sempre il genitore e Francesco passava quasi tutta quella notte nel pregare o nell’esaminarsi per meglio disporsi, quantunque la sua vita fosse una continua preparazione. La mattina poi senza più parlare con alcuno recavasi in chiesa, ove col massimo raccoglimento preparavasi alla grande azione. Lasciava per altro sempre che si confessassero quelle persone che dubitava aver poco tempo per fermarsi in chiesa. «Questa sua condiscendenza verso gli altri, specialmente nel rigore dell’inverno, mi obbligò non poche volte, dice il parroco, a chiamarlo io stesso al confessionale, vedendolo già tutto intirizzito dal freddo». Fu talvolta richiesto del suo lungo attendere prima di confessarsi. «Io posso aspettare, rispondeva, perché i miei genitori non mi rimproverano del tempo passato in chiesa; ma forse gli altri potrebbero annoiarsi, o ricevere qualche rimbrotto in casa, tanto più le donne che hanno ragazzi». I fratelli e le sorelle alle volte per facezia gli dicevano: «Tu vai sovente a confessarti per ischivar la fatica». «Quando voi altri andrete a confessarvi, rispondeva egli, io vi supplirò di buon grado in tutto ciò che posso. Oh! sì andate pur sovente, che io ne sono ben contento!». E qui qual maestro di spirito non rare volte loro diceva: «Quella pigrizia che alle volte si sente, quella incertezza per la confessione, quel differirla da un giorno all’altro sono altrettante tentazioni del demonio. Sapendo esso quanto potente ed efficace rimedio sia la frequente confessione per correggerci dei nostri difetti, fa ogni sforzo per tenercene lontani. Oh! quando trattasi di fare il bene abbiam sempre paura del mondo; alla fine dei conti non è il mondo che ci dovrà giudicare dopo la morte: è Dio che ci dovrà giudicare, a lui solo e non ad altri dovremo dar conto delle nostre opere, e non al mondo: da lui solo dovremo aspettarci eterna ricompensa»3. «Quando sono confessato, diceva altre volte ai famigliari, provo tanta contentezza che desidererei fino di tosto morire per liberarmi dal pericolo di offender di nuovo Iddio». Il giorno in cui si accostava ai santi sacramenti privavasi quasi sempre d’ogni divertimento. Interrogato dal parroco perché ciò facesse, rispondeva: «Quest’oggi non debbo contentare il mio corpo, perché il mio Gesù fece goder tante e sì dolci consolazioni all’anima mia. Quello che mi rincresce si è di non esser capace di ringraziare il mio Gesù sacramentato dei benefizi continui che mi fa». Passava intanto quella giornata in un santo raccoglimento e per quanto gli era possibile in chiesa.

Da sicure informazioni mi risulta che il buon Francesco per meglio disporsi a ricevere degnamente i santi sacramenti soleva dire: «Questa confessione può essere l’ultima di mia vita, ed io voglio farla come se realmente fosse l'ultima».

109 CAPO VII

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110 La santa messa - Suo fervore - Conduce il gregge sulle montagne

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Non è fuor di luogo il notare come i genitori di Francesco gli lasciassero piena libertà di andar tutti i giorni a udire la santa messa; anzi parendo talvolta dubbioso, se dovesse andare o no ad ascoltarla per timore di trascurare qualche suo dovere, lo mandavano eglino stessi. Della qual cosa molto contento soleva dire ai suoi genitori: «Oh! siate certi, che il tempo impiegato nell’udir la santa messa si compenserà abbondantemente nella giornata, perché Iddio è buon rimuneratore, ed io lavorerò molto più volentieri». Che se avvenivagli qualche mattina di non potervi assistere, soleva recitare in compenso questa popolare preghiera, che è molto divulgata in quel paese: l’avea imparata in età di quattro anni. «La messa suona, san Marco l’intuona, gli angeli la cantano, e Gesù bambino porge l’acqua e il vino. Fatemi, o Gesù, un po’ parte della messa del corrente mattino».

Il padre di Francesco soleva per facezia interrogarlo come avrebbe fatto a passare quella giornata senza messa, ed egli colla massima semplicità rispondevagli: «Iddio mi aiuterà lo stesso, perché ho detta la mia orazione, e poi pregherò un poco di più questa sera».

Credeva assai facilmente ai detti altrui, così che per divertimento i suoi compagni talvolta gliene facevano credere delle grosse. Ma quando si accorgeva di essere burlato si mostrava tutto contento. Non mai si vide dar segni di vanagloria per la stima, in cui era tenuto dai genitori, conoscenti e dal parroco. «Buon per me, diceva alcuna volta, che non mi conoscono, altrimenti non mi vorrebbero tanto bene». La sua attività nello studio, che lo rendeva superiore ai suoi compagni, ben lungi dal farglieli disprezzare, faceva loro usare ogni possibile indulgenza nella recita delle lezioni. Se veniva alcuna fiata rimproverato di qualche ragazzata sia che fosse o non fosse colpevole, tutto contrito rispondeva: «Non la farò più, e mi farò più buono. Voi mi rimproverate, ma so che mi compatite». E qui correva ad abbracciare ed accarezzare i suoi genitori il più sovente colle lagrime agli occhi. Essi non ebbero mai occasione di castigare questo loro figlio. Nella stagione estiva attendeva in compagnia della famiglia ai lavori di campagna, nei quali godeva poter sollevare alcun poco i fratelli e le sorelle, per quanto il comportavano le sue forze.

Nel tempo del riposo non volendo neppure stare ozioso iniziava alcuni discorsi di religione, oppure interpellava suo padre su qualche dubbio, od oscurità in materia spirituale.

Nella preghiera con piacere si tratteneva andando e venendo dalla campagna. Ben sovente accadde a me, e ad altri, dice il parroco, d’incontrarlo per via tanto assorto nella preghiera che neppure accorgevasi di averci vicini. Se fuor di casa incontravasi in qualche pericolo od occasione di essere scandalizzato per le imprecazioni o bestemmie udite, o pei cattivi discorsi che non poteva non udire, tosto faceva il segno della santa croce, oppure diceva: «Dio sia benedetto, benedetto il suo santo nome». Se gli riusciva incominciava egli stesso discorsi diversi. Avvertito qualche volta dai suoi parenti a guardarsi dal seguir le massime di alcuni perversi compagni, loro rispondeva: «Vorrei che piuttosto mi seccasse la lingua in bocca a preferenza di servirmene a disgustare il mio Dio».

Quando andava alla pastura delle pecore1 portava sempre seco qualche buon libro divoto, o scientifico, che procurava di leggere in presenza di altri compagni quando essi avevano piacere di ascoltarlo, altrimenti leggeva da sé, o si occupava nella preghiera osservando a puntino il comando del Salvatore, di pregare senza intermissione2.

Il padre di Francesco per provvedere alla famiglia il necessario sostentamento prese la custodia del gregge comunale3, al quale ufficio di quando in quando destinava eziandio il figliuolo specialmente nei giorni festivi, affinché gli altri fratelli potessero almeno in qualche festa intervenire alle funzioni parrocchiali. L’ubbidiente Francesco accettava di buon grado quell’incarico dicendo: «Se non posso in questo giorno intervenire alle sacre funzioni, procurerò di santificare la festa in qualche altro modo. Tu intanto, diceva al fratello, ricordati di me in chiesa». Giunta poi l’ora delle sacre funzioni, egli soleva condurre il gregge in luogo sicuro, quindi formata una croce su qualunque oggetto, davanti a quella s’inginocchiava per farvi preghiera o lettura. Talvolta andava a nascondersi in un antro della montagna, dove prostrato innanzi a qualche sacra immagine, che sempre conservava in un libro divoto, recitava le medesime preghiere, come se fosse realmente presente alle funzioni di chiesa: poscia faceva la Via Crucis. La sera cantava da solo il vespro, recitava la terza parte del rosario, ed era per lui grande festa, quando poteva trovar compagni, che lo aiutassero a lodare Iddio. In questi atteggiamenti fu dai medesimi compagni sorpreso ben sovente in preghiera e meditazione così fervorosa, che il suo sembiante pareva quello di un angelo. Se gli avveniva di trovar compagni indulgenti pregavali a dar d’occhio alle sue pecore dicendo aver egli qualche cosa a fare, e così se ne allontanava per un certo tempo. Ma conscii i compagni della sua consuetudine per lo più vi si prestavano volentieri.

Più tardi egli ricordava con gran piacere i pascoli del Roburent e del Drec4, che sono le montagne, sopra cui Francesco soleva condurre il gregge al pascolo5.

«Quando mi trovava, soleva dire, nelle solitudini del Roburent io provava eziandio colà le mie delizie. Io volgeva gli occhi in quei profondi dirupi, che conducevano il mio sguardo in una specie d’oscura voragine; e questo mi ricordava gli oscuri abissi e le eterne oscurità dell’inferno. Qualche uccello dal basso delle valli volava talvolta fin sopra al mio capo; e questo mi faceva venire in pensiero, che noi dobbiamo dalla terra sollevare gli affetti del cuore in alto verso Dio. Rimirando il sole a spuntar sul mattino diceva in cuor mio: “Ecco la nostra venuta nel mondo”. Il tramonto poi della sera mi annunziava la brevità e la fine della vita che viene senza che noi ci badiamo. Quando poi mi metteva a rimirare le alte cime della Maddalena e di altri monti bianchi di neve, facevami venir in mente l’innocenza della vita, che ci solleva fino a Dio e ci merita le sue grazie, le sue benedizioni, il gran premio del paradiso. Dopo queste ed altre considerazioni mi volgeva verso al seno di qualche monte e mi metteva a cantar lodi alla Madonna. Quello era per me uno dei più cari momenti, imperciocché io cantava e l’eco degli antri della montagna ripeteva la mia voce, ed io godeva come se gli angeli del paradiso mi aiutassero a cantar le glorie della grande madre di Dio».

Questi erano i pensieri che occupavano il cuore del pio pastorello, quando conduceva le pecore sopra le montagne d’onde non poteva recarsi a prendere parte alle sacre funzioni di chiesa.

Ma alla sera appena giunto a casa, si ristorava alquanto, di poi correva tosto alla chiesa per compensare (sono sue parole) la mancanza di divozione di quel giorno. Oh! quante scuse domandato avrà in quelle visite a Gesù sacramentato!

Non mancava mai di farsi il segno della santa croce e recitare qualche preghiera ogni volta che passava avanti a qualche chiesa, e molto più se vi era il SS. Sacramento.

Che se custodiva solamente il gregge paterno, come in primavera ed in autunno, allora di consenso coi genitori conduceva le sue pecore a casa, o le consegnava ad altri compagni per accorrere alle funzioni parrocchiali della mattina e della sera. Oh! perché non tutti imitano sì santa industria del nostro Francesco per non mancare né ai doveri di religione, né agli affari di casa. Pur troppo si osserva che molti si dispensano per futili motivi di frequentare le funzioni parrocchiali nei giorni festivi. L’esempio del buon giovanetto aggiunge efficacia alle raccomandazioni dei sacerdoti, che predicano ed inculcano la santificazione delle feste.

111 CAPO VIII

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112 Conversazioni - Contegno in chiesa - Visite al SS. Sacramento

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Nelle conversazioni e ricreazioni coi compagni egli era gioviale quanto altri mai. Sceglieva d’ordinario quei divertimenti, che addestrano il corpo alla fatica, solendo dire ai compagni ed ai genitori: «Dovendo poi partire per il militare servizio mi addestro per tempo e potrò certamente riuscire un buon bersagliere»1. Fuggiva gli alterchi, e per evitarli tollerava talvolta insulti ed anche maltrattamenti. Non di rado per non venire a contesa abbandonava l’indiscreta compagnia e ritornavasi frettoloso a casa. Tale prudenza usò mai sempre nel fuggire qualunque discorso, che potesse ridondare in discredito di alcuno, cogliendo invece le frequenti occasioni di lodare le altrui virtù. Se veniva corretto di qualche sua fanciullaggine non mai offendevasi, né tampoco rispondeva bruscamente, ma chinando il capo ne dimostrava il suo pentimento; soleva dire: «Questa correzione è segno dell’amore che mi portano». Se nel tempo delle ricreazioni udiva il segno della scuola, della messa, delle sacre funzioni, o la voce dei genitori che il richiamavano a casa, non frapponeva indugio, dicendo: «Quei richiami sono altrettante voci di Dio, che richiedono da me pronta ubbidienza».

Fin da giovanetto, come si disse più sopra, cominciò Francesco a dimostrare alla santa casa di Dio straordinario rispetto e venerazione. Appena giunto sul limitare della medesima comparivagli sulla faccia quella gravità di portamento che si conviene al luogo santo. Per desiderio di giugnere il primo in sacrestia a servire la santa messa, inconsideratamente gli avvenne talvolta di correre per la chiesa, ma una semplice occhiata del parroco o di altra persona bastava a fargli comprendere l’inconsiderato suo procedere: per la qual cosa imponevasi tosto qualche penitenza, o con fare una visita al SS. Sacramento, o stando per tempo notabile in chiesa da solo a pregare in positura incomoda, o colle braccia in forma di croce, o colle mani sotto le ginocchia. «Quante gare, dice il parroco, mi occorse di vedere nella sagrestia tra il nostro Francesco ed altri giovanetti per essere trascelti al servizio dell’altare! Non di rado succedeva che io stesso per mettere alla prova la sua virtù, e per evitare la taccia di parzialità, per essere mio figlioccio, preferiva altri a lui quantunque venuti insieme in chiesa. Rimaneva, è vero, alquanto confuso, ed anche lacrimante, ma ben lungi dal mostrarsi offeso lo rimirava star con eguale divozione alla santa messa. “Ebbene io mi rifarò di questa mortificazione, diceva ai compagni, dimani verrò io il primo”, e lo era quasi sempre. Queste furono forse le uniche contese coi suoi compagni. D’allora in poi animati essi dall’esempio di Francesco seguono molti a dimostrare per il servizio della santa messa quello zelo che loro infuse». D’ordinario egli stava colle mani giunte, e cogli occhi fissi nel sacro ciborio, o nel sacerdote celebrante, oppure leggendo qualche libro divoto. Inteneriva al solo vederlo porgere le ampolline. Le sue labbra erano in continuo movimento di preghiera mentre le sue mani servivano all’altare. Tu il vedevi con ciglio dimesso, con sembiante raccolto, passo grave attendere al suo ufficio di ministro, come se fosse già un chierico perfettamente addottrinato nelle cerimonie della chiesa. Non contento Francesco di prestare a Gesù sacramentato tutto quell’onore, che da sé poteva, procurava ancora colle sue belle maniere di farlo onorare dai suoi compagni. Andava perciò tutte le feste in sacrestia a richiedere libri di divozione appositamente provvisti per dispensarli egli stesso ai suoi compagni, affinché udissero con divozione la santa messa, e non si divagassero al tempo del vespro.

«Ma, mio caro, che hai che tanto piangi?», il richiese non rare volte i1 parroco. «Ho ben motivo di piangere, rispondeva, perché alcuni non vogliono accettare il libro, mentre so che non l’hanno, ed io li vedo guardare qua e là senza pregare». Solamente allora consolavasi quando venivano a lui richiesti i libri. Prestavasi volentieri a tutti gli uffici di chiesa. Provvedeva il fuoco per la benedizione, l’acqua ed il vino per la santa messa, prima di cui aveva la sorprendente avvertenza d’invigilare, se niente vi mancasse per il decoro delle funzioni. Egli insomma poteva dirsi trapiantato nella casa del Signore.

Era suo costume non solo d’intervenire ogni giorno per le funzioni parrocchiali, ma bensì tutti i giorni faceva la visita al SS. Sacramento. Andava poi a prostrarsi innanzi all’altare consacrato a Maria santissima trattenendosi non di rado delle lunghe ore. Non solamente il parroco, ma molti eziandio dei suoi compatriotti, attestano di averlo veduto in queste visite in atteggiamento tanto divoto da sembrare estatico. Recitava tutti i giorni il Ricordatevi, o piissima Vergine Maria, ecc.2, con un’Ave Maria e l’invocazione Sancta Maria Auxilium christianorum, ora pro nobis3. Di questa orazione facevasi maestro ai suoi compagni, perché tutti l’imparassero, e la recitassero sovente. Nelle feste poi, e sovente ancora nei giorni feriali, oltre la consueta visita amava recitare le orazioni della sera in chiesa, e tutte le altre sue predilette preghiere, che per dimenticanza o per impotenza avesse tralasciate nel decorso di quella settimana con ammirazione di quanti osservavano tanta virtù in un giovanetto di sì tenera età.

113 CAPO IX

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114 Il benedetto crocifisso - La corona del rosario - La presenza di Dio

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Qui pare a proposito di accennare, come Francesco fosse molto divoto verso il crocifisso miracoloso, che da tempo immemorabile si venera nella confraternita dei Disciplinanti d’Argentera, di Sambuco, Pietraporzio, Pontebernardo, e Bersezio. A questo crocifisso si fa ogni stagione dell’anno grande concorso di gente per ottenere la fer­tilità della campagna in occasione di siccità, o di piogge troppo pro­lungate (1). È rarissimo il caso, in cui venendo processionalmente ad intercedere favori non siano stati esauditi. Non poteva ancora il pio ragazzo pronunziare distintamente queste due parole: «Benedetto Cristo» (nome che si dà al crocifisso miracoloso), che richiedeva già dai genitori un Pater al bep Crist. Nacque con lui questa divozione. Oltre a quelle frequenti visite recitò nella stessa confraternita per tre anni (1861‑62‑63) nelle sere estive il rosario. Per soddisfare a questo pio desiderio del rosario e per udire la santa messa tutti i giorni talora dimenticava il desinare o la cena, dicendo voler prima pensare all’anima che al corpo. Questa sua mortificazione per attendere alle opere di pietà era divenuta così abituale, che gli stessi parenti usavano molta attenzione per non darci causa. Terminato il rosario Francesco non usciva cogli altri di chiesa, ma fermavasi ancora in essa notabile tempo a fine di appagare l’ardente suo desiderio di onorare Iddio e la sua santissima madre. Credevasi a ciò tenuto, perché vedevasi da Dio in modo particolare favorito, come più volte lo attestò al suo parroco, assicurando ancora, che sempre sentiva d’essere realmente alla presenza di Dio.

Il pensiero della presenza di Dio gli diventò così famigliare negli ultimi anni di sua vita, che potevasi dire in continua unione col medesimo. Ora che Francesco non è più fra noi, scrive il parroco, ci pare tuttavia di vederlo al suo luogo attorno ai sacri altari, sentirlo dirigere le pubbliche preghiere, tanto ci eravamo abituati a contemplarlo in ogni occasione di qualche esercizio di cristiana pietà. Nell’anno 1860 richiesto a voler coadiuvare all’Opera pia della divozione a Maria santissima nel mese di maggio, egli vi si prestò volenteroso. Tutte le sere del mese recitava pubblicamente la terza parte del rosario, oltre le ordinarie e particolari preghiere che a voce chiara da lui recitavansi e che i fedeli accompagnavano. Grande era la frequenza e tutti ammiravano la straordinaria divozione che spiccava nel nostro Francesco. Se il parroco abbisognava di particolari aiuti nel disimpegno del suo dovere, o per animare qualche infermo alla confessione o prepararlo a ricevere il viatico, raccomandava ogni cosa alle preghiere di Francesco ed era sicuro del favorevole risultato. Avvenne difatti un caso particolare di un certo, conosciuto da tutti come trascurato nelle cose dell’anima, che nell’ultima sua malattia non voleva riconciliarsi con Dio. Ma con grande ammirazione si arrese ben presto, dopo che il parroco lo aveva raccomandato alle preghiere di Francesco.

115 CAPO X

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116 Fa il catechismo - Il giovane Valorso

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Mancando il solito catechista ai fanciulli nei giorni festivi, per quattro anni Francesco ne fece le veci. Tanto impegno e tanta sollecitudine dimostrava nell’insegnarlo, che i medesimi ragazzi lo desideravano, professandogli grande rispetto. Per questo già da tre anni era dal parroco trascelto a fare il catechismo in numerosa classe nella quaresima. Soddisfatta la sua classe, ben lungi dall’andarsi a sollazzare coi compagni, egli invitavali ad andar seco ad ascoltare la spiegazione che del catechismo facevasi alla classe dei più adulti. In questa istruzione e in tutte le prediche egli pendeva propriamente dal labbro del sacerdote. Non di rado avvenne che terminata la predica prendeva il parroco in disparte, richiedendolo in qual modo potesse corrispondere alle prediche udite.

Giunto a casa aveva per costume di raccontare ai genitori e a tutta la famiglia quanto aveva udito in chiesa. Tutti erano grandemente maravigliati nel mirare un giovanetto di sì fresca età a ricordarsi di tante cose.

In questa come in tutte le altre sue pratiche religiose seguiva un altro suo compagno e cugino dell’Argentera morto nel 1861 di nome Valorso Stefano. Costui era tanto amante delle pratiche di divozione, che la sua perdita fu sentita in tutto il paese. Radunai allora, dice il parroco, varii giovanetti e li interpellai, se vi era alcuno, che si sentisse di sottentrare nella diligenza e nella pratica dei religiosi esercizi di chiesa al compianto pio giovanetto. Guardaronsi un istante gli uni gli altri e tosto gli sguardi di tutti si voltarono verso di Francesco. Con volto rosso per verecondia, ma con animo risoluto egli si avanza verso di me dicendo: «Eccomi pronto a sottentrare al mio cugino nelle pratiche religiose che mi verranno da lei indicate. Per quanto potrò prometto e voglio non solo emulare la diligenza per gli uffizi di chiesa praticati dal defunto mio cugino; ma se Iddio me ne darà la grazia, procurerò di sorpassarlo. Io porto le sue vestimenta, che mi furono regalate, e spero di vestirmi eziandio di tutte le virtù di lui».

Francesco cominciò la sua pia carriera coll’invitare i suoi compagni a fare una novena di preghiere all’altare di Maria santissima per l’anima del predetto Valorso, assistendo in ciascun giorno alla santa messa. Chi mai avrebbe detto, che una seconda novena si sarebbe presto fatta a questo stesso altare in suffragio dell’anima di lui, che fu primo a darne l’esempio? Feci menzione di questo fatto per far conoscere la molta arrendevolezza del nostro Francesco per tutto ciò che potesse tornare ad onor di Dio, ed a vantaggio dell’anima dei trapassati.

117 CAPO XI

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118 La santa infanzia - La Via Crucis - Fuga dei cattivi compagni

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Nell’anno 1857 si fece ascrivere alla Pia opera della santa infanzia1. Godeva egli molto di essersi fatto ascrivere, ma una spina gli feriva il cuore, cioè la mancanza del soldo che ciascuno deve mensilmente pagare2. Se ne accorse il parroco, che tosto lo liberò da ogni angustia col somministrargli quanto occorreva per quel bisogno, e ciò faceva volentieri per così premiarlo della lodevole sua condotta. Amava leggerne gli annali; e godeva assai nel mirare la pia sollecitudine e le industrie di tanti ragazzi nel coadiuvare tale opera. Non di rado Francesco piangeva per dolore di non poter recare ai poveri bambini infedeli quel soccorso che avrebbe desiderato. Ora per compensare la scarsità dei suoi mezzi naturali per il bene di quest’opera offeriva a Dio fervorose preghiere, e procurava che altri si ascrivessero ad essa, raccontando specialmente ai compagni gli esempi di tanti bambini stati salvati.

Nell’anno 1858 calpestando ogni umano rispetto aggiunse alle sue divozioni quella di fare tutte le feste la Via Crucis dopo la messa parrocchiale. Tale uso ritenne finché partì per l’Oratorio. Ma l’ammirabile divozione con cui compieva questa pratica religiosa lo rendette non rare volte oggetto di disprezzo ad alcuni compagni. Trovarono essi un amaro rimprovero alla loro poco cristiana condotta nella divozione di Francesco, perciò tacciandolo d’impostore, di bacchettone, lo esposero ad una specie di persecuzione, a fine di raffreddarlo nell’esercizio delle sue belle pratiche di pietà. Ma animato dai genitori, e confortato dal confessore non badò più ad alcuno e disprezzando le dicerie, le derisioni dei maligni fuggiva per fino il loro incontro, e proseguì sempre intrepido a praticare la Via Crucis con grande edificazione e vantaggio dei numerosi fedeli, che vi assistevano. Da quel tempo soleva dir sovente alle sorelle, che egli non badava più ad alcuna diceria del mondo e che anch’esse non si lasciassero mai intimidire nel fare il bene. Rispondendogli esse che alcuni gli davano il titolo di fratino, bigotto, ecc., «E sapete, diceva, perché sono così deriso dal mondo? Perché io mi sono deciso a non più appartenere al mondo. Noi siamo al mondo per piacere e servire unicamente a Dio e non per servire e piacere al mondo. Procuriamo adunque di guadagnarci solo il paradiso. Questo è appunto il fine, per cui Iddio ci lascia nel mondo».

Con questi santi pensieri in mente e sulle labbra, quando udiva alcuno a disapprovare il bene che faceva, per tutta risposta volgendogli le spalle ritiravasi nella casa paterna; mettendo in questo modo in pratica ciò che diceva ogni mattina nel levarsi: Lascia il mondo che t’inganna. Per questo il mondo maligno non lo amava, perché Francesco era distaccato dal mondo.

Nei famigliari discorsi, in cui il suo parroco compiacevasi di trattenersi con esso, usciva spesse volte ad interpellarlo, se avrebbe ancora ritardato molto quel giorno da lui cotanto desiderato, nel quale potesse anch’egli accostarsi alla santa comunione. Forse presto, rispondeva il parroco, se studierai bene il catechismo, e se mi darai sempre buone prove del profitto che fai nella virtù. Tardarono pochi mesi che il giovinetto casto qual altro Giuseppe3 in premio della sua virtù meritò di essere ammesso alle nozze dell’Agnello immacolato4, senza badare tanto alla tenera età di anni otto e mesi sei.

Trovandosi alla custodia delle pecore con altri due ragazzi poco di lui più giovani in una campagna vicina al paese nella primavera del 1858, questi fecero alcuni atti immodesti alla presenza del nostro Francesco. Offeso da quell’indegno procedere li rimproverò acremente dicendo: «Se non volete farvi del bene col buon esempio, almeno non datevi scandalo. Fareste voi tali cose alla presenza del nostro arciprete, o dei nostri genitori? Se non osate farle in presenza degli uomini come si oserà poi alla presenza di Dio?». Ma quando vide che tornavano inutili i suoi detti tutto sdegnato si allontanò dalla perversa compagnia. Ma che? uno di quei scellerati vedendolo a fuggire gli corse dietro per indurlo al male. Il povero Francesco scorgendosi inseguito si fermò ed affrontò il seduttore con calci, pugni e schiaffi. Neppure con questi mezzi potendo liberarsi dal pericolo, si servì di un mezzo piuttosto da ammirare, che da imitare. Giunto presso ad un mucchio di pietre si pose a gridare: «O che ti allontani o che ti rompo il capo». Ciò detto, come furioso si pose con tutte le sue forze a gettar sassi contro al nemico dell’anima sua. Il compagno dopo aver riportate non leggere contusioni nella faccia, nelle spalle e sopra la testa se ne fuggì. Allora Francesco spaventato dal pericolo, ma contento della vittoria riportata, si recò frettolosamente a casa per mettersi in sicuro e per ringraziare Iddio che dal pericolo l’aveva liberato.

Chi racconta questo fatto, dice il parroco, l’osservò dal principio al fine da un luogo lungi appena 50 metri, ed appunto fu osservato per vedere fino a qual punto sarebbe giunta la virtù di Francesco.

119 CAPO XII

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120 La prima comunione - Frequenza a questo sacramento

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Il giorno dopo avendolo il parroco interrogato sul caso sopra narrato rispose tutto commosso: «La grazia di Dio mi ha liberato da quella cattiva occasione, né mai più andrò con simili compagni». Come per premio del coraggio dimostrato in quel pericoloso incontro il parroco lo assicurò che lo avrebbe ammesso quanto prima a fare la santa comunione. Molto contento di quella promessa, cominciò fin da quel giorno a prepararsi e colla fuga di ogni più piccolo difetto, che egli avesse conosciuto, e colla pratica di quelle virtù che erano compatibili col suo stato. Nella sua semplicità richiedeva sovente il parroco ed i suoi parenti, che lo aiutassero a tanta azione, e diceva: «Quando io mi accosterò alla santa comunione, mi figurerò di ricevere Gesù sacramentato dalle mani di Maria santissima alla quale ora sento maggior propensione a raccomandarmi».

Con grande premura raccomandossi alla vigilanza di un suo compagno molto dato alla divozione, affinché vegliasse su di lui attentamente, perché non commettesse alcuna irriverenza. La sua preparazione non poteva al certo essere maggiore, poiché dalle deposizioni dei parenti, del Maestro, e dello stesso parroco consta, che il nostro Francesco in tutto il tempo, che visse in famiglia, non mai commise alcuna cosa che si possa giudicare colpa veniale deliberata. La bella stola dell’innocenza fu la prima e la più essenziale preparazione, che egli portò nella sua prima comunione.

Appena comunicato pareva estatico: cangiò di colore in faccia, il suo volto dimostrava la pienezza della gioia del suo cuore, e gli atti di amore verso Gesù in sacramento fatti in tale occasione saranno stati proporzionati alla diligenza usata nel prepararsi a riceverlo.

Da quel tempo accostavasi ogni mese al sacramento della Penitenza: alla comunione poi si accostava quando dal confessore gli era permesso. Negli ultimi anni egli stesso fecesi guida ai più giovani per aiutarli a prepararvisi, ed a fare il ringraziamento. Dopo la comunione col massimo raccoglimento ascoltava la santa messa, non essendo neppur sollecito quella mattina di servirla per esser più raccolto. Durante la messa tutto assorto nel contemplare, come egli diceva, l’infinita degnazione di Gesù, non leggeva nemmeno il solito libro di divozione, ma impiegava quel prezioso tempo, nascosto il capo tra le mani, in continui atti d’amore in Dio. Prima di uscire di chiesa andava cogli altri compagni all’altare di Maria santissima a ringraziarla dell’assistenza, che loro aveva usato, e recitando con voce chiara e commossa il Ricordatevi, ed altre non poche orazioni. Egli è a questo fuoco, che il nostro Francesco tanto s’infiammò d’amor di Dio che nulla più desiderava in questo mondo se non far la santa divina volontà. «Io resto fuor di me, diceva, al considerare come al giorno della comunione mi senta così vivo desiderio di pregare. Parmi di parlare personalmente col mio stesso Gesù». E ben poteva dirgli: Loquere, Domine, quia audit servus tuus1.

Il suo cuore era vuoto delle cose del mondo, e Iddio lo riempiva delle sue grazie. Il giorno della comunione era da lui passato unicamente in casa ed in chiesa, ove invitava anche altri amici a recarvisi la sera per terminar bene quella solenne giornata.

Negli ultimi anni veniva animato ad accostarsi alla santa comunione ogni domenica, ed occorrendo qualche solennità eziandio nel decorso della settimana, ma non ardiva accostarvisi senza prima essersi confessato. Era così grande l’umiltà sua, che non credevasi mai abbastanza purificato: per altro al cenno del confessore deponeva ogni perplessità, ed in tutto gli professava cieca ubbidienza e pari docilità.

121 CAPO XIII

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122 Mortificazioni - Penitenze - Custodia dei sensi - Profitto nella scuola

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Queste sue rare virtù erano difese, per così dire, da un continuo spirito di mortificazione. Fin da giovinetto soleva digiunare severamente una buona parte della Quaresima. Ai famigliari, che gli mostravano indiscreti quei digiuni per la sua tenera età, soleva rispondere: «In paradiso non si va senza mortificazione; perciò e vecchi e giovani, se vogliono andare in paradiso, bisogna che ci vadano per la via della mortificazione. Questa mortificazione è poi necessaria ai giovanetti, sia per dare soddisfazione a Dio pei tanti disgusti che gli cagionano coi frequenti loro difetti, e sia per addestrarsi a quella vita mortificata, necessaria a tutti per salvarsi. Voi spesso mi dite che io sono molto difettoso: per questo voglio anche digiunare». Queste e simili sapienti osservazioni faceva Francesco, come ne fanno ampia testimonianza i suoi genitori, fratelli e sorelle.

Guidato dal medesimo spirito di mortificazione sapeva custodire i suoi occhi dagli sguardi pericolosi, e le orecchie dai discorsi sconvenienti ad ogni cristiano, la lingua dalle parole inconsiderate. Se alcuna volta per inavvertenza sfuggivangli parole meno esatte, da se medesimo imponevasi qualche penitenza, condannando la sua lingua a segnare sul pavimento molte croci1. Non rare volte ne furono testimoni oculari i suoi parenti, che lo sorprendevano in quel volontario esercizio di mortificazione. Essi un giorno gli dimandarono, se quella era penitenza impostagli dal confessore. «No, ingenuamente rispondeva, ma vedendo la mia lingua troppo veloce ad espressioni sconvenevoli, voglio strascinarla volontariamente nel fango, perché la medesima non istrascini me nel fuoco eterno. Faccio anche questa penitenza, affinché Dio mi conceda la grazia di andare in quel luogo, in cui ha detto mio padrino di mandarmi, perché possa studiare».

Quasi che tutte queste sante industrie, non fossero sufficienti a salvarlo dalla terribile corruzione, che si osserva nelle conversazioni, il pio giovanetto negli ultimi anni di sua vita in famiglia rarissimamente accomunavasi ai compagni, cercando solo di trattenersi con quelli dai quali sapeva certo non correre alcun pericolo per l’anima sua.

Cresceva in lui ognora più il vivo desiderio di venire all’Oratorio di S. Francesco di Sales (2), ma una difficoltà gli si opponeva. Per essere accolti come studenti in questa Casa fa d’uopo, che i giovanetti abbiano fatto almeno quel corso di scuole elementari, che è necessario per entrare nella prima classe ginnasiale3. Ma le scuole del villaggio si estendevano solamente alla prima e a qualche materia della seconda elementare. Come superare adunque questa difficoltà? La superarono la buona condotta di Besucco e la carità del suo parroco. Questi non esitò di aggiugnere alle parrocchiali occupazioni anche il peso della scuola quotidiana e per Besucco e per altri giovanetti di buona speranza. Il buon Francesco esultò a quell’invito dell’amato padrino e col consenso dei genitori cominciò a frequentare quella scuola con nuovo vigore, e con nuova diligenza, onde corrispondere al favore che gli era fatto. Con quanto profitto abbia fatto il comprovò l’essere stato dipoi accettato in prima classe ginnasiale4. Quante volte colle lacrime agli occhi prorompeva in queste espressioni di ringraziamento al suo parroco: «Come mai potrò io corrispondere a tanta carità che mi è usata!». Erasi perciò fatta una legge di recarsi ogni giorno impreteribilmente prima della scuola innanzi all’altare di Maria santissima, e là prostrato colla confidenza d’un figlio raccomandava alla Sede della sapienza se stesso e chi lo istruiva. «Quali colloquii facesse allora il nostro Francesco, dice il suo parroco, non lo so; il certo si è, che molte volte uscendo di chiesa si osservò cogli occhi bagnati di lacrime, effetto indubitato della commozione provata. Interrogato a spiegare il motivo di quella sensazione, rispondeva: “Vengo adesso da pregare Maria santissima per Lei, caro padrino, affinché le ottenga da Dio quella ricompensa, che io sono incapace di darle”.

In tutto il tempo, in cui frequentò la mia scuola, asserisce il medesimo, neppure una volta mi diede motivo di rimproverarlo della sua negligenza, perché faceva ogni suo possibile per corrispondere alle cure di chi lo instruiva».

123 CAPO XIV

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124 Desiderio e deliberazione di recarsi all’Oratorio di S. Francesco di Sales

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In questo tempo il parroco mi scrisse raccomandando un suo parrocchiano di condotta esemplare, povero di beni di fortuna, ma molto ricco di virtù. «Questo giovanetto, diceva egli, da più anni è la mia delizia ed il mio aiuto per le cose parrocchiali». Servire la messa, prendere parte alle funzioni di chiesa, fare il catechismo ai più piccoli, pregare con gran fervore, con esemplarità frequentare i santi sacramenti sono in breve ciò che fa costantemente. Io me ne privo volentieri, perché spero di farne un ministro del Signore.

Nel desiderio di cooperare all’educazione di così caro giovinetto l’accettai di buon grado in questa casa. Egli mi era eziandio stato raccomandato dal signor Eyzautier luogo‑tenente delle guardie reali1, e me lo aveva raccomandato come un modello per istudio e per condotta morale. «A questa notizia non poté più rispondermi l’innocente giovanetto, dice il parroco, fuorché colle lagrime, che esprimevano tutta la sua gioia e la sua riconoscenza». Ma qui sorse ancora una grave difficoltà ad eseguire il concepito disegno, voglio dire la povertà dei genitori, i quali lottavano tra la buona disposizione del loro figlio, e la loro insufficienza dei mezzi umani. In questo doloroso stato d’incertezza il parroco lo animò a fare frequenti visite a Gesù sacramentato, ed a Maria santissima chiedendo istantemente qual fosse la loro volontà a suo riguardo. «Ma raccomandati, gli disse, che ti manifestino la tua vocazione in modo chiaro per non fallire in affare di tanta importanza». Dio esaudì le sue innocenti preghiere. Una mattina, dopo essersi accostato alla santa comunione, venendo dopo messa alla solita scuola parve più contento dell’usato. «Ebbene, dissegli il parroco, che buone nuove mi porti questa mattina, o Francesco? Hai tu avuto qualche risposta alle tue dimande?». «Sì, che l’ho avuta questa volta, ed ecco in qual modo. Dopo la comunione ho fatto le più vive promesse di voler servire Iddio per sempre, e con tutto il mio cuore, che gli offersi più volte. Pregai anco Maria santissima affinché mi aiutasse in questo bisogno. Quindi mi parve proprio di udire queste parole, le quali mi fecero provare una contentezza immensa: Fa’ cuore, Francesco, che il tuo desiderio sarà soddisfatto». Era sì grande la sua persuasione d’aver udito questa risposta, che la confermò molte volte anche in presenza di tutta la famiglia, e senza alcuna variazione. D’allora in poi soleva dire: «Io sono certo di andare ove ella, caro padrino, intende inviarmi, perché questa è volontà di Dio». Che se qualche volta ancora i parenti mettevano in dubbio il loro consenso: «Deh! esclamava, per carità non interrompete il mio destino, altrimenti io sarò un giovane2 disgraziato». Quindi raccomandavasi ora alla madre, al fratello, alle sorelle, ora al parroco, e ad altre persone, affinché procurassero colle loro osservazioni d’ottenere il consenso del padre, il quale per altro desiderava internamente di appagare le giuste brame del figlio. Si vedeva in questo suo procedere ben chiara la volontà del Signore, che chiamava Francesco nella sua vigna3.

Sul finire del mese di maggio 1863 per manifesta disposizione della divina Provvidenza, essendo scomparse tutte le insorte difficoltà, fu stabilito dai genitori di inviare Francesco all’Oratorio. Egli da quel momento manifestando ai genitori la sua contentezza diceva: «Io sono il figlio della fortuna: oh quanto sono mai felice: siate certi, che vi voglio consolare colla mia condotta». «Raddoppiando il fervore nella pietà e nello studio, scrive il parroco, fece tanto profitto nel mese di giugno e luglio, quanto fatto ne avrebbe appena in un anno». Di che accorgendosi egli medesimo, diceva: «Ella mi dice, signor arciprete, che è contento di me, anche io ora non so spiegare, come in sì breve tempo possa imparare la mia lezione, e questo è segno evidente, che in ciò io faccio la volontà di Dio». «Ma qual ricompensa, soggiungeva l’arciprete, mi darai poi tu per quanto faccio per te? Sappi che io voglio essere pagato abbondantemente». «Sì, certamente, prometto di pregare sovente Iddio e Maria santissima affinché le ottengano tutte quelle grazie che desidera; stia pur certo che non mai mi dimenticherò di Lei, né di quelli che fra poco mi saranno altrettanti padri». La riconoscenza era una delle prerogative di questo grazioso fanciullo.

Eravamo all’ultimo giorno di luglio, vigilia della partenza del nostro caro Francesco per l’Oratorio. La mattina accostossi per l’ultima volta in Argentera ai santi sacramenti. «Colle lagrime agli occhi il vidi per l’ultima volta, dice il parroco, a rimirare il confessionale e gli altari, chi sa con quale presentimento. Insolita gioia in quel volto sfavillò dopo la comunione. Il fervore ed il lungo tempo impiegato nel ringraziamento compensarono al certo abbondantemente le molte comunioni che ancor credevasi fare in questa chiesa. Tutto quel giorno fu festivo per il nostro Francesco, né io son capace per la presente commozione a descrivere la scena tenerissima succeduta nella mia camera. Qui alla presenza di suo padre, il mio caro figlioccio in ginocchione struggevasi in atti di ringraziamento pei benefizii da lui amplificati, assicurandomi dell’eterna sua gratitudine ed arrendevolezza a tutti gli avvisi dati».

In casa poi non pareva più di questo mondo, ogni momento andava esclamando: “Sono fortunato, son felice. Oh! quanto debbo mai ringraziare Iddio d’avermi tanto favorito”. Diede anche l’addio a tutti i suoi parenti, i quali rimasero stupefatti al vedere il loro nipotino e cugino provare nel suo cuore tanta contentezza. “Ma tu, gli dicevano, sarai poi annoiato e malinconico per essere lontano dai tuoi parenti, e chi sa, forse patirai il clima troppo caldo di Torino nell’estate”. “No, non abbiate paura di me; quanto ai genitori, fratelli e sorelle purché sappiano buone nuove di me saranno contenti, ed io farò in modo colle mie lettere di consolarli. Io non temo di patire, e d’esser malinconico, perché son certo di trovare in quel luogo tutto ciò che potrà rendermi contento. Immaginatevi quanto grande dovrà essere la mia gioia quando sarò sicuro di rimanere nell’Oratorio, se il solo desiderio e la speranza di andarvi mi rende già fuor di me stesso per la consolazione. Solamente vi raccomando di pregare per me, affinché possa sempre fare la volontà di Dio”.

Incontrandomi per via in quel giorno tutto intenerito mi disse: “Mi rincresce tanto di abbandonarla, ma la consolerò con darle buone notizie di me”. Per la contentezza non poté più chiuder occhio in quella notte, che passò in continua orazione ed unione con Dio».

125 CAPO XV

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126 Episodi e viaggio a Torino

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La mattina di buon’ora diede l’ultimo addio alla cara sua madre, ai fratelli ed alle sorelle piangenti mentre egli solo con aria serena e tranquilla, sebben commosso, incoraggiava tutti alla perfetta rassegnazione alla volontà di Dio. Solamente allora diede in dirottissimo pianto, quando raccomandossi alle loro orazioni per esser costante nel corrispondere alla voce di Dio, che lo chiamava a sé. Il suo padrino lo salutò con queste ultime parole: «Oh! sì, vanne amabilissimo Francesco, che quel Dio, il quale in una maniera maravigliosa ti toglie ora ai nostri terreni sguardi, il fa per chiamarti in quell’Oratorio medesimo, in cui potrai santificare l’anima tua, emulando le virtù, che già condussero al bel paradiso i fortunati giovani Savio Domenico e Michele Magone, alla cui vita e morte preziosa attingesti negli ultimi mesi di tua dimora fra noi quell’ardente desiderio, che ti condusse nel provvidenziale Oratorio di S. Francesco di Sales»1.

Con un piccolo corredo il padre accompagnò Francesco alla volta di Torino e partivano il primo agosto 1863. A misura che si allontanavano da Argentera il buon genitore andava interpellando il figlio, se non gli rincresceva di abbandonare la patria, la famiglia, e principalmente la madre. Francesco gli rispose sempre con dire: «Io sono persuaso di fare la volontà di Dio andando a Torino, e quanto più mi allontano da casa, tanto più cresce la mia contentezza». Cessate quelle momentanee risposte seguitava a pregare, e assicurò il padre, che il viaggio da Argentera a Torino fu per Francesco quasi una continua preghiera.

Il due agosto giunsero a Cuneo circa le ore 4 del mattino2. Passando avanti al palazzo vescovile Francesco dimandò: «Di chi è questa bella casa?». «È del vescovo, gli rispose»3. Francesco allora fe’ segno al padre di volersi fermare un momento. Fermatosi il figliuolo, il padre si avanzò alcuni passi. Rivoltosi poi indietro lo vide ginocchioni presso alla porta del vescovo. «Che fai tu ora?», gli disse. «Prego Iddio per Monsignore, affinché eziandio mi aiuti a farmi accettare nell’Oratorio di Torino e che a suo tempo si degni poi di annoverarmi fra i suoi chierici, e così esser utile per me e per gli altri».

Giunto a Torino il padre gli faceva notare le meraviglie di questa capitale4. Il padre stesso dopo aver osservate le vie simmetriche, le piazze riquadrate e spaziose, i portici alti e maestosi, le gallerie magnificamente adornate di oggetti vari, preziosi e stranieri, dopo di aver ammirata l’altezza e la eleganza degli edifizi credeva di trovarsi nell’altro mondo. «Che ne dici, Francesco, dicevagli pieno di meraviglia, non ti sembra proprio di essere in paradiso?». Al che Francesco sorridendo rispose: «Tutte queste cose a me poco importano, ché di nulla sarà contento il mio cuore, finché non sarò ricevuto in quel benedetto Oratorio, al quale fui inviato».

Finalmente entrò nel luogo tanto desiderato e pieno di gioia esclamò: «Questa volta ci sono». Quindi fece una breve preghiera per ringraziare Iddio e la beata Vergine del buon viaggio, che avea fatto, e dei desideri appagati.

Suo padre nel licenziarsi da lui era commosso fino alle lacrime, ma Francesco lo confortò dicendo: «Non datevi alcuna pena per me; il Signore non mancherà di aiutarci: io pregherò ogni giorno per tutta la nostra famiglia». Vie più commosso il padre gli disse ancora: «Ti occorre qualche cosa?». «Sì, caro padre, ringraziate mio padrino della cura che si prese di me: assicuratelo, che non dimenticherò giammai i suoi benefizi, e coll’assiduità nello studio, e colla buona mia condotta mi dimostrerò tale da renderlo soddisfatto. Dite a quei di casa che io son pienamente felice, e che ho trovato il mio paradiso».

127 CAPO XVI

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128 Tenore di vita nell’Oratorio - Primo trattenimento

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Tutto quello che ho fin qui esposto intorno al giovanetto Besucco forma per così dire la prima parte della sua vita; e in ciò mi sono tenuto alle notizie inviatemi da chi lo conobbe, lo trattò e visse con lui in patria. Quanto sarò per dire riguardo al nuovo genere di vita nell’Oratorio formerà la seconda parte. Ma qui racconterò tutte cose udite, vedute coi proprii occhi, oppure riferite da centinaia di giovanetti che gli furono compagni per tutto il tempo che visse ancor mortale tra noi. Mi sono poi in modo particolare servito di una lunga e minuta relazione fatta dal sac. Ruffino professore e direttore delle scuole di questa casa1, che ebbe tempo e occasione di conoscere e di raccogliere i continui tratti di virtù dal nostro Besucco praticati.

Da lungo tempo adunque Francesco ardentemente desiderava di trovarsi in quest’Oratorio, ma quando ci fu di fatto ne rimase sbalordito. Oltre settecento giovanetti gli divenivano in un momento amici e compagni nella ricreazione, a mensa, in dormitorio, in chiesa, nella scuola e nello studio. A lui sembrava impossibile che tanti giovanetti potessero vivere insieme in una sola casa senza mettere ogni cosa in disordine. Tutti voleva interrogare, d’ogni cosa voleva chiedere la ragione, la spiegazione. Ogni avviso dato dai superiori, ogni iscrizione sopra le mura erano per lui soggetto di letture, di meditazione e di profondo riflesso.

Egli aveva già passato alcuni giorni nell’Oratorio2, ed io non l’aveva ancor veduto, né altro sapeva di lui se non quel tanto, che l’arciprete Pepino per lettera mi aveva comunicato. Un giorno io faceva ricreazione in mezzo ai giovani di questa casa, quando vidi uno vestito quasi a foggia di montanaro, di mediocre corporatura, di aspetto rozzo, col volto lentigginoso3. Egli stava cogli occhi spalancati rimirando i suoi compagni a trastullarsi. Come il suo sguardo s’incontrò col mio fece un rispettoso sorriso portandosi verso di me.

Chi sei tu? gli dissi sorridendo.

Io sono Besucco Francesco dell’Argentera.

Quanti anni hai?

Ho presto quattordici anni.

Sei venuto tra noi per istudiare, o per imparare un mestiere?

Io desidero tanto tanto di studiare.

Che scuola hai già fatto?

Ho fatto le scuole elementari del mio paese.

Con quale intenzione tu vorresti continuare gli studi e non intraprendere un mestiere?

Ah! il mio vivo, il mio gran desiderio si è poter abbracciare lo stato ecclesiastico.

Chi ti ha mai dato questo consiglio?

Ho sempre avuto questo nel cuore ed ho sempre pregato il Signore, che mi aiutasse per appagare questa mia volontà.

Hai già dimandato consiglio a qualcheduno?

Sì, ne ho già parlato più volte con mio padrino; sì, con mio padrino... Ciò detto apparve tutto commosso, che cominciavano spuntargli sugli occhi le lagrime.

Chi è tuo padrino?

Mio padrino è il mio prevosto l’arciprete dell’Argentera, che mi vuole tanto bene. Egli mi ha insegnato il catechismo, mi ha fatto scuola, mi ha vestito, mi ha mantenuto. Egli è tanto buono, mi ha fatto tanti benefizi, e dopo d’avermi fatto scuola quasi due anni mi ha raccomandato a lei, affinché mi ricevesse nell’Oratorio. Quanto mai è buono mio padrino! quanto mai egli mi vuol bene!

Ciò detto si pose di nuovo a piangere. Questa sensibilità ai benefizi ricevuti, questo affetto al suo benefattore fecemi concepire una buona idea dell’indole e della bontà di cuore del giovanetto. Allora richiamai eziandio alla memoria le belle raccomandazioni, che di lui eranmi state fatte dal suo parroco e dal luogo‑tenente Eyzautier; e dissi tosto tra me: «Questo giovanetto mediante coltura farà eccellente riuscita nella sua morale educazione. Imperciocché è provato dall’esperienza che la gratitudine nei fanciulli è per lo più presagio di un felice avvenire; al contrario coloro che dimenticano con facilità i favori ricevuti e le sollecitudini a loro vantaggio prodigate rimangono insensibili agli avvisi, ai consigli, alla religione, e sono perciò di educazione difficile, di riuscita incerta». Dissi pertanto a Francesco: «Sono molto contento che tu porti grande affetto a tuo padrino, ma non voglio che ti affanni. Amalo nel Signore, prega per lui, e se vuoi fargli cosa veramente grata, procura di tenere tale condotta che io possa mandargli buone notizie, oppure possa essere egli soddisfatto del tuo profitto e della tua condotta venendo a Torino. Intanto vai coi tuoi compagni a fare ricreazione». Asciugandosi le lagrime mi salutò con affettuoso sorriso, quindi andò a prendere parte ai trastulli coi suoi compagni.

129 CAPO XVII

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130 Allegria

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Nella sua umiltà Francesco giudicava tutti i suoi compagni più virtuosi di lui, e gli sembrava di essere uno scapestrato in confronto della condotta degli altri. Laonde pochi giorni dopo me lo vidi nuovamente venire incontro con aspetto turbato.

Che hai, gli dissi, mio caro Besucco?

Io mi trovo qui in mezzo a tanti compagni tutti buoni, io vorrei farmi molto buono al par di loro, ma non so come fare, ed ho bisogno ch’ella mi aiuti.

Ti aiuterò con tutti i mezzi a me possibili. Se vuoi farti buono pratica tre sole cose e tutto andrà bene.

Quali sono queste tre cose?

Eccole: Allegria, Studio, Pietà. È questo il grande programma, il quale praticando, tu potrai vivere felice, e fare molto bene all’anima tua.

Allegria... Allegria... Io sono fin troppo allegro. Se lo stare allegro basta per farmi buono io andrò a trastullarmi da mattina a sera. Farò bene?

Non da mattino a sera, ma solamente nelle ore in cui è permessa la ricreazione.

Egli prese il suggerimento in senso troppo letterale; e nella persuasione di far veramente cosa grata a Dio trastullandosi, mostravasi ognora impaziente del tempo libero per approfittarne. Ma che? Non essendo pratico di certi esercizi ricreativi ne avveniva, che spesso urtava o cadeva qua o là. Voleva camminar sulle stampelle, ed eccolo rotolar per terra; voleva montar sulle parallele, ed eccolo cader capitombolo. Giocava le bocce? o che le gettava nelle gambe altrui, o che metteva in disordine ogni divertimento. Per la qual cosa potevasi dire che i capitomboli, i rovescioni, gli stramazzoni erano l’ordinaria conclusione dei suoi trastulli. Un giorno mi si avvicinò tutto zoppicante ed impensierito.

Che hai, Besucco? gli dissi.

Ho la vita tutta pesta, mi rispose.

Che ti è accaduto?

Son poco pratico dei trastulli di questa casa, perciò cado urtando ora col capo ora colle braccia o colle gambe. Ieri correndo ho battuto colla mia faccia in quella di un compagno, e ci siam fatto insanguinare il naso ambidue.

Poverino! usati qualche riguardo, e sii un po’ più moderato.

Ma ella mi dice che questa ricreazione piace al Signore, ed io vorrei abituarmi a far bene tutti i giuochi che hanno luogo tra i miei compagni.

Non intenderla così, mio caro; i giuochi ed i trastulli devono impararsi poco alla volta di mano in mano che ne sarai capace, sempre per altro in modo che possano servire di ricreazione, ma non mai di oppressione al corpo.

Da queste parole egli comprese, come la ricreazione debba esser moderata, e diretta a sollevare lo spirito, altrimenti sia di nocumento alla medesima sanità corporale. Quindi continuò bensì a prendere volentieri parte alla ricreazione, ma con grande riserbatezza; anzi quando il tempo libero era alquanto prolungato soleva interromperlo per intrattenersi con qualche compagno più studioso, per informarsi delle regole e della disciplina della casa, farsi spiegare qualche difficoltà scolastica ed anche per recarsi a compiere qualche esercizio di cristiana pietà. Di più egli imparò un segreto per far del bene a sé ed ai suoi compagni nelle stesse ricreazioni, e ciò col dare buoni consigli, o avvisando con modi cortesi coloro cui si fosse presentata occasione, siccome soleva già fare in sua patria in una sfera tuttavia assai più ristretta. Il nostro Besucco temperando così la sua ricreazione con detti morali, o scientifici, divenne in breve un modello nello studio e nella pietà.

131 CAPO XVIII

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132 Studio e diligenza

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Un giorno il Besucco in mia camera lesse sopra un cartello queste parole: Ogni momento di tempo è un tesoro1.

Non capisco, mi chiese con ansietà, che cosa vogliano significare queste parole. Come noi possiamo in ogni momento di tempo guadagnare un tesoro?

È proprio così. In ogni momento di tempo noi possiamo acquistarci qualche cognizione scientifica o religiosa, possiamo praticare qualche virtù, fare un atto di amor di Dio, le quali cose avanti al Signore sono altrettanti tesori, che ci gioveranno per il tempo e per l’eternità.

Non proferì più alcuna parola, ma scrisse sopra un pezzetto di carta quel detto, di poi soggiunse: «Ho capito». Comprese egli quanto fosse prezioso il tempo, e richiamando alla memoria quanto gli aveva raccomandato il suo arciprete, disse: «Mio padrino me lo aveva già detto anch’egli che il tempo è molto prezioso e che noi dobbiamo occuparlo bene cominciando dalla gioventù».

D’allora in poi si occupava con assai maggior applicazione intorno ai suoi doveri.

Io posso dire a gloria di Dio, che in tutto il tempo che passò in questa casa non si ebbe mai motivo di avvisarlo od incoraggiarlo all’adempimento dei suoi doveri.

Vi è l’uso in questa casa che ogni sabato si danno e si leggono i voti della condotta che ciascun giovane tenne nella settimana nello studio e nella scuola. I voti di Besucco furon sempre uguali cioè optime2. Dato il segno dello studio egli vi si recava immediatamente senza più fermarsi un istante. Quivi poi era bello il vederlo continuamente raccolto, studiare, scrivere colla avidità di chi fa cosa di suo maggior3 gusto. Per qualsiasi motivo non si moveva mai di posto, né comunque fosse lungo il tempo di studio alcuno lo vedeva togliere il guardo dai suoi libri o dai quaderni.

Uno dei suoi grandi timori era che gli avvenisse contro sua volontà di trasgredire le regole; perciò specialmente nei primi giorni chiedeva sovente se si potesse fare questa o quell’altra cosa. Chiese per esempio una volta con santa semplicità se nello studio fosse lecito lo scrivere, temendo che quivi non si dovesse far altro che studiare. Altra volta se in tempo di studio era permesso mettere in ordine i libri. All’esatta occupazione del tempo egli aggiunse la invocazione dell’aiuto del Signore. Alcuna volta lo vedevano i compagni durante lo studio farsi il segno della santa croce, alzare gli occhi verso il cielo e pregare. Richiesta la cagione, rispondeva: «Spesse volte incontro difficoltà nello imparare, perciò mi raccomando al Signore affinché mi dia il suo aiuto».

Aveva letto nella vita di Magone Michele, che prima dei suoi studi sempre diceva: Maria, sedes sapientiae, ora pro me. O Maria, sede della sapienza, pregate per me4. Egli volle fare altrettanto. Scrisse queste parole sopra i libri, sopra i quaderni e sopra parecchie liste di carta, di cui valevasi per segnacoli. Scrisse eziandio5 biglietti ai suoi compagni, ma o in principio del foglio, o sopra un pezzetto di carta a parte notava sempre il prezioso saluto alla sua celeste madre, siccome egli soleva chiamarla. In un biglietto indirizzato a un compagno leggo quanto segue: «Tu mi hai chiesto come io abbia potuto sostenermi in seconda grammatica, mentre che il mio corso regolare dovrebbe essere appena la prima6. Io ti rispondo schiettamente che questa è una special benedizione del Signore, che mi dà sanità e forza. Mi sono per altro servito di tre segreti che ho trovato e praticato con grande mio vantaggio e sono:

1° Di non mai perdere briciolo7 di tempo in tutte le cose stabilite per la scuola o per lo studio.

2° Nei giorni di vacanza ed in altri in cui siavi ricreazione prolungata, dopo mezz’ora vado a studiare, oppure mi metto a discorrere di cose di scuola con alcuni compagni più avanzati di me nello studio.

3° Ogni mattina prima d’uscir di chiesa dico un Pater ed un’Ave a san Giuseppe. Questo fu per me il mezzo efficace che mi portò avanti nella scienza e da che ho cominciato a recitare questo Pater, ho sempre avuto maggior facilità sia per imparare le lezioni, sia per superare le difficoltà che spesso incontro nelle materie scolastiche.

Prova anche tu a fare altrettanto, conchiudeva la lettera, e ne sarai certamente contento».

Non deve pertanto recar meraviglia se con tanta diligenza abbia fatto così rapido progresso nella scuola.

Quando venne tra noi si perdeva quasi di speranza di poter reggere nella prima ginnasiale, ma dopo soli due mesi riportava dei voti assai soddisfacenti nella sua classe. Nella scuola pendeva immobile dal labbro del maestro, che non ebbe mai occasione di avvisarlo per disattenzione.

Quello che dissi intorno alla diligenza di Besucco in materia di studio, si deve estendere a tutti gli altri doveri anche più minuti: egli era esemplare in tutto. Era stato incaricato di scopare il dormitorio8. In questo uffizio si faceva ammirare per l’esattezza con cui lo disimpegnava senza dimostrare minimamente di sentirne peso.

Allora che per motivo di malattia non poté più levarsi di letto, chiese scusa all’assistente perché non poteva compiere il solito suo dovere, e ringraziò con vivo affetto un compagno che lo supplì in quell’umile servizio.

Besucco venne all’Oratorio con uno scopo prefisso; perciò nella sua condotta aveva sempre di mira il punto cui tendeva, cioè di dedicarsi tutto a Dio nello stato ecclesiastico. A questo fine cercava di progredire nella scienza e nella virtù. Discorreva un giorno con un compagno intorno ai propri studi ed intorno al fine per cui ciascuno era venuto in questa casa. Besucco espresse il proprio pensiero, poi conchiuse: «Insomma il mio scopo è di farmi prete; coll’aiuto del Signore farò ogni sforzo per poterlo conseguire».

133 CAPO XIX

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134 La confessione

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Dicasi pure quanto si vuole intorno ai vari sistemi di educazione, ma io non trovo alcuna base sicura, se non nella frequenza della confessione e della comunione; e credo di non dir troppo asserendo che omessi questi due elementi la moralità resta bandita1. Il Besucco, come abbiamo detto, fu coltivato ed avviato per tempo alla frequenza di ambidue questi sacramenti. Giunto qui all’Oratorio crebbe di buona volontà e di fervore nel praticarli.

Sul principio della novena della natività di Maria santissima si presentò al suo direttore dicendogli: «Io vorrei passar bene questa novena e fra le altre cose desidero di fare la mia confessione generale». Il direttore come ebbe inteso i motivi che a ciò lo determinavano rispose di non ravvisare alcun bisogno di far simile confessione, ed aggiunse: «Tu puoi vivere tranquillo, tanto più che l’hai già fatta altre volte dal tuo arciprete». «Sì, ripigliò, io l’ho già fatta all’occasione della mia prima comunione, ed anche quando ci furono gli esercizi spirituali al mio paese, ma siccome io voglio mettere l’anima mia nelle sue mani, così desidero di manifestarle tutta la mia coscienza, affinché meglio mi conosca, e possa con più sicurezza darmi quei consigli che pos­sono meglio giovare a salvarmi l’anima». Il direttore acconsentì: lo lodò della scelta, che voleva fare d’un confessore stabile; lo esortò a voler bene al confessore, pregare per lui, e manifestargli sempre qualunque cosa inquietasse la sua coscienza. Quindi lo aiutò a fare la desiderata confessione generale. Egli compié quell’atto coi più commoventi segni di dolore sul passato e di proponimento per l’av­venire, sebbene, come ognuno può giudicare, consti dalla sua vita non aver mai commessa azione, che si possa appellare peccato mortale. Fatta la scelta del confessore, non lo cangiò più per tutto il tempo che il Signore lo conservò tra noi. Egli aveva con esso piena confidenza, lo consultava anche fuori di confessione, pregava per lui, e godeva grandemente ogni volta che poteva da lui avere qualche buon consiglio per sua regola di vita.

Scrisse una volta una lettera ad un suo amico che gli aveva manifestato il desiderio di venire anch’egli in quest’Oratorio. In essa gli raccomandava di pregare il Signore per questa grazia, e poi gli suggerì alcune pratiche di pietà, come la Via Crucis; ma più di tutto lo esortò a confessarsi ogni otto giorni ed a comunicarsi più volte la settimana.

Mentre lodo grandemente il Besucco intorno a questo fatto, raccomando coi più vivi affetti del cuore a tutti, ma in ispecial modo alla gioventù di voler fare per tempo la scelta d’un confessore stabile, né mai cangiarlo, se non in caso di necessità. Si eviti il difetto di alcuni, che cangiano confessore quasi ogni volta che vanno a confessarsi; oppure dovendo confessare cose di maggior rilievo vanno da un altro, ritornando poscia dal confessore primitivo. Facendo così costoro non fanno alcun peccato, ma non avranno mai una guida sicura che conosca a dovere lo stato di loro coscienza. A costoro accadrebbe quello che ad un ammalato, il quale in ogni visita volesse un medico nuovo. Questo medico difficilmente potrebbe conoscere il male dell’ammalato, quindi sarebbe incerto nel prescrivere gli opportuni rimedi.

Che se per avventura questo libretto fosse letto da chi è dalla divina Provvidenza destinato all’educazione della gioventù, io gli raccomanderei caldamente tre cose nel Signore. Primieramente inculcare con zelo la frequente confessione, come sostegno della instabile giovanile età, procurando tutti i mezzi che possono agevolare l’assiduità a questo sacramento. Insistano secondariamente sulla grande utilità della scelta d’un confessore stabile da non cangiarsi senza necessità, ma vi sia copia di confessori, affinché ognuno possa scegliere colui, che sembri più adattato al bene dell’anima propria. Notino sempre per altro, che chi cangia confessore non fa alcun male, e che è meglio cangiarlo mille volte piuttosto che tacere alcun peccato in confessione.

Né manchino mai di ricordare spessissimo il grande segreto della confessione. Dicano esplicitamente che il confessore è stretto da un segreto naturale, ecclesiastico, divino e civile per cui non può per nessun motivo, a costo di qualunque male fosse anche la morte, manifestare ad altri cose udite in confessione o servirsene per sé; che anzi può nemmeno pensare alle cose udite in questo sacramento; che il confessore non fa alcuna maraviglia, né diminuisce l’affezione per cose comunque gravi udite in confessione, al contrario acquista credito al penitente. Siccome il medico quando scopre tutta la gravezza del male dell’ammalato gode in cuor suo perché può applicarvi l’opportuno rimedio; così fa il confessore che è medico dell’anima nostra, e a nome di Dio coll’assoluzione guarisce tutte le piaghe dell’anima. Io sono persuaso che se queste cose saranno raccomandate e a dovere spiegate, si otterranno grandi risultati morali fra i giovanetti, e si conoscerà coi fatti qual maraviglioso elemento di moralità abbia la cattolica religione nel sacramento della Penitenza.

135 CAPO XX

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136 La santa comunione

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Il secondo sostegno della gioventù è la santa comunione. Fortunati quei giovanetti che cominciano per tempo ad accostarsi con frequenza e colle debite disposizioni a questo sacramento. Il Besucco era stato dai suoi parenti e dal suo prevosto animato ed ammaestrato intorno al modo di comunicarsi sovente e con frutto. Mentre era ancora in patria soleva già accostarsi ogni settimana; di poi in tutti i giorni festivi, ed anche qualche volta lungo la settimana. Venuto nell’Oratorio continuò per qualche tempo a comunicarsi colla stessa frequenza, di poi eziandio più volte la settimana, e in alcune novene anche tutti i giorni.

Sebbene l’anima sua candida e la esemplarissima sua condotta lo rendessero degno della frequente comunione, tuttavia a lui sembrava di non esserne degno. Le apprensioni crebbero da che una persona venuta in questa casa disse al Besucco, che era meglio accostarsi più di rado per accostarsi con più lunga preparazione e con maggior fervore.

Un giorno egli si presentò ad un suo superiore, e gli espose tutte le sue inquietudini. Questi studiò di appagarlo dicendo:

Non dai tu con grande frequenza il pane materiale al corpo?

Sì, certamente.

Se tanto frequentemente diamo il pane materiale al corpo che soltanto deve vivere qualche tempo in questo mondo, perché non dovremo dare sovente anche ogni giorno il pane spirituale all’anima, che è la santa comunione? (S. Agostino).

Ma mi sembra di non essere abbastanza buono per comunicarmi tanto sovente.

Appunto per farti più buono è bene accostarti spesso alla santa comunione. Gesù non invitò i santi a cibarsi del suo corpo, ma i deboli, gli stanchi, cioè quelli che abborriscono il peccato, ma per la loro fragilità sono in gran pericolo di ricadere. Venite a me tutti, egli dice, voi che siete travagliati ed oppressi, ed io vi ristorerò1.

Mi sembra che se si andasse più di rado si farebbe la comunione con maggior divozione.

Non saprei dirlo; quello che è certo, si è che l’uso insegna a far bene le cose, e chi fa sovente una cosa impara il vero modo di farla: così colui che va con frequenza alla comunione impara il modo di farla bene.

Ma chi mangia più di rado mangia con maggior appetito.

Chi mangia molto di rado e passa più giorni senza cibo egli o cade per debolezza, o muore di fame, oppure il primo momento che mangia corre pericolo di fare una rovinosa indigestione.

Se è così, per l’avvenire procurerò di fare la santa comunione con molta frequenza, perché conosco veramente che è un mezzo potente per farmi buono.

Va’ colla frequenza che ti sarà prescritta dal tuo confessore.

Egli mi dice di andare tutte le volte che niente m’inquieta la coscienza.

Bene, segui pure questo consiglio. Intanto voglio farti osservare che nostro Signore Gesù Cristo c’invita a mangiare il suo corpo e a bere il suo sangue tutte le volte che ci troviamo in bisogno spirituale, e noi viviamo in continuo bisogno in questo mondo. Egli giunse fino a dire: Se non mangerete il mio corpo e non beverete il mio sangue non avrete con voi la vita2. Per questo motivo al tempo degli apostoli i cristiani erano perseveranti nella preghiera e nel cibarsi del pane eucaristico3. Nei primi secoli tutti quelli che andavano ad ascoltare la santa messa facevano la santa comunione. E chi ascoltava la messa ogni giorno, eziandio ogni giorno si comunicava. Finalmente la Chiesa Cattolica rappresentata nel concilio Tridentino raccomanda ai cristiani di assistere quanto loro è possibile al santo sacrificio della messa, e fra le altre ha queste belle espressioni: «Il sacrosanto concilio desidera sommamente che in tutte le messe i fedeli che le ascoltano facciano la comunione non solo spiritualmente, ma eziandio sacramentalmente, affinché in loro sia più copioso il frutto che proviene da questo augustissimo sacrificio» (Sess. 22, c. 6)4.

137 CAPO XXI

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138 Venerazione al SS. Sacramento

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Dimostrava il suo grande amore verso il SS. Sacramento non solo colla frequente comunione, ma in tutte le occasioni che gli si presentavano. Già si è detto come al suo paese si prestava col massimo piacere ad accompagnare il viatico. Uditone appena il segno dimandava tosto il permesso ai suoi genitori, che assai di buon grado lo appagavano; indi volava alla chiesa a fine di prestare quei servigi che erano compatibili colla sua età. Suonare il campanello, portare i lumi accesi, portare e tenere aperto l’ombrello, recitare il Confiteor, il Miserere, il Te Deum, erano per lui care delizie. Eziandio in patria si occupava volentieri ad aiutare i compagni più giovani di lui o meno istruiti a prepararsi per comunicarsi degnamente, e a fare dopo il dovuto ringraziamento.

Giunto qui nell’Oratorio continuò nel suo fervore, e fra le altre cose prese la commendevolissima abitudine di fare ogni giorno una breve visita al SS. Sacramento. Si vedeva spesso intorno a qualche prete o chierico, affinché radunati alcuni giovani li conducesse in chiesa a recitare preghiere particolari davanti a Gesù sacramentato. Era poi cosa veramente edificante l’industria con cui egli studiava di condurre seco in chiesa qualche compagno. Un giorno ne invitò uno dicendogli: «Vieni meco e andremo a dire un Pater a Gesù sacramentato, che è là tutto solo nel tabernacolo». Il compagno, che era tutto affaccendato nei trastulli, rispose che non ci voleva andare. Il Besucco andò solo ugualmente. Ma il compagno preso dal rincrescimento di essersi rifiutato dall’amorevole invito del virtuoso amico, il giorno seguente gli si avvicinò e gli disse: «Ieri tu mi hai invitato ad andare in chiesa e non ho voluto andarvi, oggi invito te affinché tu mi venga a tener compagnia a far quello che non ho fatto ieri». Il Besucco ridendo rispose: «Non darti pena di ieri, io ho fatto la parte tua e la parte mia: dissi tre Pater per me, di poi ne ho detto tre per te a Gesù sacramentato. Tuttavia ci vado molto volentieri e adesso e in qualunque altra occasione tu desideri avermi per compagno».

Mi è più d’una volta accaduto di dovermi recare dopo cena in chiesa per qualche mio dovere, mentre appunto i giovanetti della casa facevano la più allegra ed animata ricreazione nel cortile. Non avendo tra mano il lume inceppai in cosa che sembravami sacco di frumento con rischio prossimo di cadere stramazzoni. Ma quale non fu la mia sorpresa quando mi accorsi aver urtato nel divoto Besucco, che in un nascondiglio dietro, ma vicino all’altare in mezzo alle tenebre della notte pregava l’amato Gesù a favorirlo dei celesti lumi per conoscere la verità, farsi ognor più buono, farsi santo? Serviva eziandio molto volentieri la santa messa. Preparare l’altare, accendere i lumi, apprestare le ampolline, aiutare il sacerdote a vestirsi erano cose di massimo suo gusto. Qualora per altro qualcheduno avesse desiderato di servirla egli si mostrava contento e la udiva con grande raccoglimento. Quelli che lo hanno osservato ad assistere alla santa messa od alla benedizione della sera vanno d’accordo nell’asserire, che era impossibile il mirarlo senza sentirsi commossi ed edificati per il fervore che dimostrava nel pregare, e per la compostezza della persona.

Era poi ansiosissimo di leggere libri, cantare canzoncine che riguardassero il SS. Sacramento. Fra le molte giaculatorie, che egli recitava lungo il giorno, la più familiare era questa: Sia lodato e ringraziato ogni momento il santissimo e divinissimo sacramento. «Con questa bella giaculatoria, diceva, io guadagno cento giorni d’indulgenza ogni volta che la dico; e di più appena che la dico mi sfuggono tutti i cattivi pensieri che mi corrono per la mente1. Questa giaculatoria per me è un martello con cui sono sicuro di rompere le corna al demonio, quando viene a tentarmi».

139 CAPO XXII

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140 Spirito di preghiera

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È cosa assai difficile il far prender gusto alla preghiera ai giovanetti. La volubile età loro fa sembrare nauseante ed anche enorme peso qualunque cosa richieda seria attenzione di mente. Ed è una grande ventura per chi da giovanetto è ammaestrato nella preghiera e ci prende gusto. Per essa è sempre aperta la sorgente delle divine benedizioni.

Il Besucco fu nel bel numero di costoro. L’assistenza prestatagli dai genitori fin dai più teneri anni, la cura che se ne prese il suo maestro e specialmente il suo parroco produssero il desiderato frutto nel nostro giovanetto. Egli non era abituato a meditare, ma faceva molte preghiere vocali. Proferiva le parole chiare e distinte e le articolava in modo, che sembrava parlasse col Signore e colla santa Vergine o con qualche santo, cui indirizzava le sue orazioni. Al mattino appena dato il segno della levata si vestiva prontamente, e aggiustato quanto di dovere, discendeva tosto in chiesa, o s’inginocchiava accanto al letto per pregare fino a tanto che il campanello indicasse di recarsi altrove. In chiesa poi oltre la sua specchiata puntualità andava a prendere posto presso a quei compagni ed in quei siti dove non fosse in alcun modo distratto, e gli dava gran pena il vedere qualcheduno ciarlare o tenere un contegno dissipato. Un giorno appena uscito andò subito in cerca di uno che aveva commesso tal mancamento. Come lo ebbe trovato gli ricordò quanto aveva fatto; poi fattogli vedere quanto si fosse diportato male gli inculcò di stare nel luogo santo con maggior raccoglimento.

Nutriva poi un affetto speciale per Maria santissima. Nella novena della sua natività dimostrava un fervore particolare verso di essa. Il direttore soleva dare ogni sera qualche fioretto da praticarsi in onore di Lei. Besucco non solo ne faceva egli gran conto, ma si adoperava affinché fosse eziandio da altri praticato. Per non dimenticarsene li scriveva sopra un quaderno. «In questo modo, egli diceva, in fine dell’anno avrò una bella raccolta di ossequi da presentare a Maria». Lungo il giorno li andava ripetendo e ricordando ai suoi compagni. Volle sapere il luogo preciso dove Savio Domenico si poneva ginocchione a pregare dinanzi l’altare della Vergine Maria. Colà egli si raccoglieva a pregare con grande consolazione del suo cuore. «Oh! se io potessi, diceva, stare da mattino a sera a pregare in quel sito, quanto volentieri il farei! Imperciocché mi sembra di avere lo stesso Savio a pregare con me, e mi pare che egli risponda alle mie preghiere, e che il suo fervore si infonda nel mio cuore». Per lo più era l’ultimo ad uscire di chiesa, perché soleva sempre fermarsi un po’ di tempo davanti alla statua di Maria santissima. Per questo motivo spesso gli accadeva di perdere la colazione con molto stupore di quelli, che vedevano un giovanetto sui quattordici anni sano e robusto dimenticare il cibo corporale per il cibo spirituale della preghiera.

Non di rado specialmente nei giorni di vacanza d’accordo con alcuni compagni andava in chiesa per recitare le sette allegrezze, i sette dolori di Maria, le litanie o la corona spirituale a Gesù sacramentato. Ma il piacere di leggere per tutti quelle preghiere non voleva mai cederlo ad altri. Nei giorni di Venerdì se gli era possibile, faceva od almeno leggeva la Via Crucis, che era la sua pratica di pietà prediletta. La Via Crucis, soleva dire, è per me una scintilla di fuoco, che mi anima a pregare, mi spinge a sopportare qualunque cosa per amor di Dio.

Egli era così amante della preghiera, ed erasi cotanto ad essa abi­tuato, che appena rimasto solo o disoccupato qualche momento si metteva subito a recitare qualche preghiera. Nel medesimo tempo di ricreazione non di rado si metteva a pregare, e come trasportato da moti involontari talvolta scambiava i nomi dei trastulli in giacu­latorie. Un giorno vedendo il suo superiore gli corse incontro per salutarlo col suo nome e gli disse: «O Santa Maria». Altra volta volendo chiamare un compagno con cui si trastullava disse ad alta voce: «O Pater noster». Queste cose mentre da una parte erano cagione di riso fra i compagni, dall’altra dimostravano quanto il suo cuore si dilet­tasse della preghiera, e quanto egli fosse padrone di raccogliere il suo spirito per elevarlo al Signore. La qual cosa, secondo i maestri di spirito, segna un grado di elevata perfezione che raramente si os­serva nelle stesse persone di virtù consumata.

La sera terminate in comune le preghiere, recavasi in dormitorio, dove ponendosi ginocchione sopra l’incomodo dorso del suo baule fermavasi un quarto d’ora od anche mezz’ora a pregare. Ma avvisato che tal cosa recava disturbo ai compagni, che già erano in riposo, egli abbreviò il tempo e procurava di essere a letto contemporaneamente agli altri. Tuttavia appena coricato egli giungeva le sue mani dinanzi al petto e pregava finché fosse preso dal sonno. Se gli accadeva di svegliarsi lungo la notte si metteva subito a pregare per le anime del purgatorio, e sentiva gran dispiacere quando sorpreso dal sonno doveva interrompere la preghiera. «Mi rincresce tanto, diceva ad un amico, di non poter reggere un po’ di tempo in letto senza dormire. Sono proprio miserabile, quanto bene farei alle anime del purgatorio se potessi pregare come io desidero!».

Insomma se noi esaminiamo lo spirito di preghiera di questo giovanetto possiamo dire avere egli letteralmente eseguito il precetto del Salvatore, che comandò di pregare senza interruzione1, imperciocché i giorni e le notti da lui erano passate in continua preghiera.

141 CAPO XXIII

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142 Sue penitenze

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Parlare di penitenza ai giovanetti generalmente è recar loro spavento. Ma quando l’amor di Dio prende possesso di un cuore, niuna cosa del mondo, nissun patimento lo affligge, anzi ogni pena della vita gli riesce di consolazione. Dai teneri cuori nasce già il nobile pensiero che si soffre per un grande oggetto, e che ai patimenti della vita è riservata una gloriosa ricompensa nella beata eternità.

Ognuno ha già potuto vedere quanto fosse grande il desiderio di patire del nostro Besucco, siccome dimostrò fin dalla sua prima età. Qui nell’Oratorio raddoppiò il suo ardore.

Si presentò un giorno al suo superiore e gli disse queste parole: «Io sono molto angustiato, il Signore dice nel Vangelo, che non si può andare in paradiso se non coll’innocenza o colla penitenza. Coll’innocenza io non posso più andare, perché l’ho perduta; dunque bisogna ch’io ci vada colla penitenza».

Il superiore rispose che considerasse come penitenza la diligenza nello studio, l’attenzione nella scuola, l’ubbidire ai superiori, il sopportare gli incomodi della vita quali sono caldo, freddo, vento, fame, sete. «Ma, ripigliò l’altro, queste cose si soffrono per necessità». «Appunto quello che si soffre per necessità, se tu aggiugni di soffrire per amor di Dio diventerà vera penitenza, piacerà al Signore, e sarà di merito all’anima tua»1.

Egli per allora si acquetò, ma dimandava sempre di voler digiunare, di lasciare o tutta o in parte la colazione del mattino, di potersi mettere degli oggetti che gli recassero dolore o sotto gli abiti o nel letto, le quali cose gli furono sempre negate. Alla vigilia di tutti i santi dimandò come speciale favore di poter digiunare a pane ed acqua, il quale digiuno gli fu cangiato nella sola astinenza dalla colazione. Il che gli tornò di molto piacere, perché, diceva, «Così potrò almeno in qualche cosa imitare i santi del paradiso, che battendo la via dei patimenti giunsero a salvare le anime loro».

Non occorre parlare della custodia dei sensi esterni e specialmente degli occhi. Chi l’ha osservato per molto tempo nella compostezza della persona, nel contegno coi compagni, nella modestia in casa e fuori di casa non esita di asserire che egli si possa proporre qual compiuto modello di mortificazione e di esemplarità esterna alla gioventù.

Essendo proibito di far penitenza corporale egli ottenne di poterne fare di altro genere, cioè esercitare i lavori più umili nella casa. Il fare commissioni ai compagni, portare loro acqua, nettare le scarpe, servire anche a tavola quando gli era permesso, scopare in refettorio, nel dormitorio, trasportare la spazzatura, portare fagotti, bauli, purché il potesse, erano cose, che egli faceva con gioia e colla massima sua soddisfazione2. Esempi degni d’essere imitati da certi giovanetti, che per trovarsi fuori di casa hanno talvolta rossore di fare una commissione o di prestar servizio in cose compatibili col loro stato. Anzi talvolta ci sono giovanetti, che hanno fino vergogna di accompagnarsi coi propri genitori per l’umile loro foggia di vestire. Quasi che il trovarsi fuori di casa cambi la loro condizione, facendo dimenticare i doveri di pietà, di rispetto e di ubbidienza verso i genitori, e di carità verso tutti.

Ma queste piccole mortificazioni contentarono soltanto per poco tempo il nostro Besucco. Egli desiderava di mortificarsi di più. Fu udito qualche volta lagnarsi dicendo, che a casa sua faceva maggiori penitenze e che la sua sanità non ne aveva mai sofferto. Il superiore rispondeva sempre, che la vera penitenza non consiste nel fare quello che piace a noi, ma nel fare quello che piace al Signore, e che serve a promuovere la sua gloria. «Sii ubbidiente, aggiungeva il superiore, e diligente nei tuoi doveri, usa molta bontà e carità verso i compagni, sopporta i loro difetti, da’ loro buoni avvisi e consigli e farai cosa che al Signore piacerà più d’ogni altro sacrificio»3.

Prendendo egli letteralmente ciò che se gli era detto di sopportare con pazienza il freddo delle stagioni, egli lasciò inoltrare la stagione invernale senza vestirsi come conveniva. Un giorno lo vidi tutto pallido nella faccia, e chiedendogli se era male in salute: «No, disse, sto benissimo». Intanto prendendolo per mano mi accorsi che aveva una sola giubbetta da estate, mentre eravamo già alla novella del santo Natale.

Non hai abiti da inverno? gli dissi.

Sì che li ho, ma in camera.

Perché non te li metti?

Eh... per il motivo ch’Ella sa: sopportare il freddo nell’inverno per amor del Signore.

Va’ immediatamente a metterli: fa’ in modo di essere ben riparato dalle intemperie della stagione, e qualora ti mancasse qualche cosa fanne dimanda, e sarai senza altro provveduto.

Malgrado questa raccomandazione non si poté impedire un disordine, da cui forse ebbe origine quella malattia, che lo condusse alla tomba, siccome più sotto racconteremo.

143 CAPO XXIV

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144 Fatti e detti particolari

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Vi sono parecchi detti e fatti, i quali non hanno diretta relazione con quanto ho finora esposto, che perciò vengono qui separatamente registrati. Comincio dalle conversazioni. Ne’ suoi discorsi era assai riservato, ma gioviale e faceto. Raccontava assai volentieri le sue vicende di pastorello, quando conduceva le pecore e le capre al pascolo. Parlava dei cespugli, degli erbaggi, dei seni, degli antri, delle voragini della montagna del Roburent e del Drec come di altrettante maraviglie del mondo.

Aveva poi alcuni proverbi, che per lui erano verità incontrastabili. Quando voleva eccitare qualcheduno a non affezionarsi alle cose del mondo e pensare vie più alle celesti, soleva dire: Chi guarda a terra — Come la capra — È ben difficile — Che il ciel se gli apra.

Un giorno un compagno entrato in questioni di religione lasciava sfuggire non leggeri spropositi. Il nostro Besucco e perché più giovane e perché non abbastanza istruito taceva, ma con animo assai inquieto e risentito. Poscia fattosi animo, con viso allegro: «Ascoltate, prese a dire a tutti i presenti: tempo fa ho letto nel dizionario la spiegazione della parola mestiere, e fra le altre cose ho notato questa frase: Chi fa l’altrui mestiereFa la zuppa nel paniere. Mio padre asseriva lo stesso con altre parole dicendo: Chi fa quel che non sa, guasta quel che fa». Compresero tutti il significato delle espressioni; tacque l’indiscreto parlatore; e gli altri ammirarono l’accortezza e la prudenza del nostro giovinetto.

Egli era sempre contento delle disposizioni dei superiori; né mai lamentavasi dell’orario della casa, degli apprestamenti di tavola, degli ordini scolastici e simili. Trovava sempre ogni cosa di suo gusto. Interrogato come mai potesse egli essere sempre contento di tutto, rispose: «Io sono di carne e di ossa come gli altri, ma desidero di fare tutto per la gloria di Dio, perciò quello che non piacerà a me, tornerà certamente di gradimento a Dio: quindi ho sempre eguale motivo di essere contento».

Avvenne un giorno che alcuni compagni da poco tempo venuti nella casa non potevano abituarsi al nuovo genere di vita. Egli li confortava dicendo: «Se ci toccherà di andar militare, potremo noi farci un orario a nostro modo? Potremo andarci a coricare, o levarci di letto quando a noi piacerà? oppure andare liberamente al passeggio?».

No certamente, risposero, ma un po’ di libertà...

Noi siamo sicuramente liberi se facciamo la volontà di Dio, e solamente diventiamo veri schiavi quando cadiamo nel peccato, poiché restiamo allora schiavi del maggior nostro nemico che è il demonio.

Ma a casa mia mangiava e dormiva meglio, diceva uno.

Posta la verità di quanto asserisci, cioè che a casa tua mangiassi meglio e dormissi di più, ti dirò, che tu nutrivi teco due grandi nemici, quali sono l’ozio e la gola. Debbo eziandio notarti, che noi non siamo nati per dormire e per mangiare come fanno le capre e le pecore, ma dobbiamo lavorare per la gloria di Dio, e fuggir l’ozio che è il padre di tutti i vizi. Del rimanente non hai udito ciò che ha detto il nostro superiore?

Non mi ricordo più.

Ieri fra le altre cose il superiore ci ha detto, che esso tiene volentieri i giovani, ma vuole che nessuno stia per forza. Chiunque non sia contento, egli conchiudeva, lo dica, e procurerò d’appagarlo; chi non vuol restare in questa casa, egli è pienamente libero, ma se rimane non dissemini il malcontento, ci stia volentieri1.

Io andrei altrove, ma bisogna pagare ed i miei parenti non possono.

Tanto maggior motivo per te di dimostrarti contento: se tu non paghi dovresti mostrarti soddisfatto più di ogni altro: perché a caval donato non si guarda in bocca. Dunque, o cari compagni, persuadiamoci, noi siamo in una casa di provvidenza; chi paga poco, chi paga niente, e dove potremo avere altrettanto a questo prezzo?

È vero quanto dici, ma se si potesse avere una buona tavola...

Giacché tu muori per avere una buona tavola, io ti suggerirò un mezzo con cui tu la puoi avere; va’ in pensione coi tuoi superiori.

Ma io non ho danari da pagare pensione.

Dunque datti pace e contentati di quel tanto che ci danno per nostro alimento; tanto più che tutti gli altri nostri compagni si mostrano contenti. Che se poi volete, o cari amici, che vi parli schietto, dirò che, giovani robusti come siamo noi, non dobbiamo badare alla delicatezza della vita; come cristiani dobbiamo anche fare un poco di penitenza se vogliamo andare in paradiso, dobbiamo mortificare a tempo debito questa golaccia. Credetelo, questo è per noi un mezzo facilissimo per meritarci la benedizione del Signore, e farci dei meriti per il paradiso.

Con questi ed altri simili modi di parlare, mentre confortava i suoi compagni, ne diveniva anche il modello nelle regole di civiltà e di carità cristiana.

Nel discorrere, soleva sempre scrivere sopra i quaderni, sopra i libri proverbi o sentenze morali che avesse udito2.

Nelle lettere, poi, era assai facondo, ed io credo di far cosa grata coll’inserirne alcune, il cui originale mi fu graziosamente comunicato da coloro cui erano state dirette.

145 CAPO XXV

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146 Sue lettere

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Queste lettere sono un segno manifesto della bontà di cuore e nel tempo stesso della pietà sincera del nostro Besucco1. È cosa assai rara anche in persone attempate lo scrivere lettere senza umano rispetto e condite di religiosi e morali pensieri, come veramente dovrebbe fare ogni cristiano: ma è poi rarissima cosa, che ciò si pratichi fra i giovanetti. Io desidererei che ognuno di voi, o giovani amatissimi, evitasse quel genere di lettere che nulla hanno di sacro, a segno che potrebbero inviarsi ai medesimi pagani. Non sia così; serviamoci pure di questo mezzo maraviglioso per comunicare i nostri pensieri, i nostri progetti a quelli che sono da noi lontani; ma sappiamo sempre distinguere le corrispondenze, quando sono coi cristiani o coi pagani; né mai sia dimenticato qualche morale pensiero. Per questo motivo io inserisco alcune lettere del giovinetto Besucco che, per semplicità e per tenerezza d’affetto, giudico vi torneranno gradite2.

La prima di queste è indirizzata a suo padrino arciprete dell’Argentera colla data 27 settembre 1863. In essa gli dà ragguaglio della felicità, che egli gode nell’Oratorio, e lo ringrazia di averlo qua inviato.

La lettera è del tenor seguente:


Carissimo signor padrino3,

Le partecipo, carissimo signor padrino, che i miei compagni da quattro giorni sono andati a casa per passare una ventina di giorni in vacanza. Io sono molto contento che essi li passino allegramente, ma io godo assai più di loro, perché stando qui ho tempo di scriverle questa lettera, che spero tornerà anche a lei di gradimento. Le dico prima di tutto che non posso trovare espressioni valevoli a ringraziarla dei benefizi che mi ha fatto. Oltre i favori che mi prodigò, specialmente col farmi scuola in sua casa, mi ha eziandio insegnate tante belle cose spirituali e temporali, che mi sono di potente aiuto. Ma il maggiore di questi favori fu quello di mandarmi in questa casa dove nulla più mi manca né per l’anima, né per il corpo. Io ringrazio ognor più il Signore, che mi abbia concesso così segnalato favore a preferenza di tanti altri giovani. Lo preghi di cuore per me affinché mi conceda la grazia di corrispondere a tanti segni di celeste bontà. Ora io sono pienamente felice in questo luogo, nulla più ho a desiderare, ogni mia brama è appagata. Ringrazio lei e tutti gli altri benefattori degli oggetti che mi hanno mandati. La scorsa settimana sperava di avere la consolazione di vederla qui in Torino, affinché potesse parlare coi miei superiori della mia condotta: pazienza, il Signore vuole differirmi questa consolazione.

Dalla lettera di lei ho conosciuto, che i miei di casa piangevano al sentir leggere la mia lettera. Dica loro che hanno motivo di rallegrarsi e non di piangere perché io sono pienamente felice. La ringrazio dei preziosi avvertimenti, che mi dà, e l’assicuro che finora ho fatto quanto ho potuto per metterli in pratica. Ringrazi per me la mia sorella di quella comunione che ha fatto espressamente per me. Credo che questo mi abbia molto aiutato nei miei studi. Imperocché mi sembra quasi impossibile che in tempo così breve io abbia potuto passare nella seconda ginnasiale. La prego di salutare i miei parenti e dir loro, che preghino per me, ma non si diano alcun fastidio, perché io godo buona sanità, sono provveduto di tutto, in una parola sono felice. Mi scusi se ho ritardato a scriverle; nei giorni scorsi avea molto da fare per prepararmi agli esami, i quali mi riuscirono bene più di quanto mi aspettava. Io desidero ardentemente di mostrarle la mia gratitudine; ma non potendo in altro modo, procurerò di darle qualche compenso pregando il Signore a concederle sanità e giorni felici.

Mi dia la sua santa benedizione e mi consideri sempre

Suo affezionatissimo figlioccio

Besucco Francesco.


Il padre di Francesco, di professione arrotino, passa la bella stagione lavorando la campagna e coltivando i bestiami in Argentera, ma di autunno parte e va in vari paesi per guadagnar pane per sé e per la famiglia esercitando il suo mestiere. Francesco il 26 ottobre scrivevagli una lettera in cui, notando la sua contentezza di trovarsi a Torino, esprime i suoi teneri filiali affetti nel modo seguente:


Carissimo padre4,

Si avvicina il tempo in cui voi, carissimo padre, dovete partire per far campagna e provvedere quanto è necessario per la famiglia. Io non posso come vorrei accompagnarvi nei vostri viaggi, ma sarò sempre con voi col mio pensiero e colla preghiera. Vi assicuro che ogni giorno io prego il Signore, perché vi dia sanità e la sua santa grazia.

Mio padrino fu qui all’Oratorio, e ne ho avuto il più gran piacere. Fra le altre cose mi dice che voi avete paura che io patisca di fame; no, state tranquillo, che ho pane in grande abbondanza; e se mettessi a parte il pane che eccede il mio bisogno, in fine di ciascuna settimana voi potreste fare una grossa panata, come diciamo noi. Vi basti sapere che mangiamo quattro volte al giorno e sempre finché vogliamo; a pranzo ci è minestra e pietanza, a cena minestra. Una volta si dava il vino tutti i giorni, ma dacché è venuto così caro l’abbiamo soltanto nei giorni festivi. Non datevi pertanto alcun fastidio per me: io ho niente più a desiderare, quanto desiderava mi è stato concesso.

Vi partecipo due cose con piacere, e sono che i miei superiori si mostrano molto contenti di me ed io lo sono ancor più di loro. L’altra cosa è la visita dell’arcivescovo di Sassari. Esso venne a fare una visita al Direttore; visitò la casa, si trattenne molto coi giovani, ed io ebbi il piacere di baciargli la mano e di ricevere la sua santa benedizione.

Caro padre, salutate tutti quelli di nostra famiglia e specialmente la mia cara madre. Date delle mie notizie al mio padrino e ringraziatelo sempre di quanto ha fatto per me. Fate buona campagna, e se avrete dimora fissa in qualche paese, fatemelo sapere e vi manderò tosto delle mie notizie. Pregate anche per me, che di tutto cuore sarò sempre

Vostro affez. figliuolo

Francesco.


Da che era stato visitato dal suo padrino, desiderava ardentemente di ricevere da lui qualche lettera. Ne fu appagato con uno scritto, in cui quel zelante arciprete gli dava parecchi consigli per suo bene spirituale e temporale. Francesco risponde esprimendo la sua contentezza; lo ringrazia, e gli promette di mettere in pratica i suoi avvisi.

La lettera del 23 novembre 1863 è del tenore seguente:


Carissimo signor padrinomo,

Il giorno 14 di questo mese ho ricevuto la sua lettera. Ella può immaginarsi quale grande consolazione io abbia provato. Io passai in gran festa tutto il giorno in cui ho ricevuto la sua lettera. La lessi e rilessi più volte, e più la leggo più grande è il coraggio che mi sento di studiare e di farmi migliore. Adesso conosco quale grande benefizio mi abbia fatto mandandomi in questo Oratorio. Non posso sfogare la riconoscenza del mio cuore, se non andando in chiesa a pregare per i miei benefattori e specialmente per lei; e per non perdere il tempo di studio io vado a pregare in tempo di ricreazione5. Debbo per altro fermarmi poco, perché sebbene io provi maggior contentezza nello studio e nel pregare, che non nel divertimento, tuttavia io debbo fare con gli altri la ricreazione, perché così è comandato dai superiori, come cosa utile e necessaria allo studio e alla sanità.

Adesso tutte le scuole sono cominciate e dal mattino alla sera tra scuola, studio, scuola di canto fermo, di musica, pratiche religiose e divertimenti non mi rimane più un momento di tempo per pensare alla mia esistenza.

Io sono con gran piacere sovente visitato dal luogo‑tenente Eyzautier; alcuni giorni sono mi portò un fracco così bello che se ella me lo vedesse in dosso mi crederebbe un cavaliere.

Ella mi raccomandò di cercarmi un buon compagno, ed io l’ho subito trovato. Esso è migliore di me nello studio ed anche assai più virtuoso. Appena ci siamo conosciuti abbiamo fatto grande amicizia. Tra noi due non si parla di altro che di studio e di pietà. Egli ama eziandio la ricreazione, ma dopo aver saltellato un poco ci mettiamo subito a passeggiare discorrendo di cose scolastiche. Il Signore mi aiuta sensibilmente; nei lavori dei posti vado sempre più avanti: di novanta che sono in mia classe, ne ho ancora una quindicina prima di me.

Mi consolo molto nel sapere che i miei compagni si ricordano di me; dica loro che li amo assai e che si occupino con diligenza nello studio e nella pietà. La ringrazio della bella lettera che mi ha scritto, e procurerò di mettere in pratica gli avvisi in essa contenuti. Io desidero ardentemente di farmi buono, perché so che Iddio tiene preparato un gran premio per me e per quelli che lo amano e lo servono in questa vita6.

Mi perdoni se ho ritardato a scrivere e se non ho messo in pratica gli avvisi datimi da lei, mio caro benefattore. La prego di salutare tutti quelli di mia casa, e non potendo porgere saluti a mio padre lo faccio col cuore pregando Iddio per lui. Sia in ogni cosa fatta la volontà di Dio non mai la mia7, mentre mi affermo nei cuori amabilissimi di Gesù e di Maria

Di V. S. Ill.

Obbl.mo figlioccio

Besucco Francesco.


Nella lettera inviata al suo arciprete, e colla medesima data, Francesco ne chiudeva eziandio un’altra indirizzata ad un suo amico e virtuoso cugino di nome Antonio Beltrandi dell’Argentera.

L’ordine, la dicitura, i pensieri della medesima sembrano degni di essere anche qui pubblicati a modello delle lettere, che si possono scrivere vicendevolmente tra due buoni giovanetti. Eccone il tenore:


Carissimo compagno Antonioma,

Che bella notizia mi ha dato il mio padrino a tuo riguardo! Egli mi scrive, che tu devi eziandio intraprendere gli studi come ho fatto io. Ti dirò che questo è un ottimo pensiero e sarai ben fortunato se lo manderai ad effetto. E poiché questo benefico nostro arciprete si dispone a farti scuola, procura di compensarlo colla diligenza nello adempimento dei tuoi doveri. Occupati nello studio, ma accanto allo studio metti subito la preghiera e la divozione: questo è l’unico mezzo per riuscire in questa impresa ed essere poi contento. Io godo già al pensiero che l’anno venturo mi sarai compagno in questa casa.

I ricordi che io posso darti si riducono ad uno solo: ubbidienza e sommissione ai tuoi parenti ed al signor arciprete. Ti raccomando poi il buon esempio verso i tuoi compagni.

Un favore per altro debbo dimandarti ed è che in questo inverno tu faccia la Via Crucis dopo le sacre funzioni come io faceva, quando era in patria. Procura di promuovere quest’opera di pietà, e ne sarai benedetto dal Signore. Il tempo è prezioso, procura di occuparlo bene; se ti rimane qualche ora libera, raduna alcuni ragazzi e loro fa’ ripetere quella lezione della dottrina cristiana, che si è insegnata nella domenica antecedente. È questo un mezzo efficacissimo per meritare la benedizione del Signore. Quando il mio padrino mi scriverà, digli che mi dia delle tue notizie, e così sarò sempre più rassicurato della tua buona volontà. Presentemente io mi trovo molto occupato. O mio caro, che grande afflizione io provo nel pensare al tempo che ho speso invano, e che avrei potuto spendere nello studio e in altre opere buone.

Credo che prenderai questa mia lettera in buona parte, e se mai qualche cosa ti dispiacesse, te ne dimando perdono. Fa’ tutto quello che puoi affinché possiamo l’anno venturo essere compagni qui in Torino, se così piacerà al Signore.

Addio, caro Antonio, prega per me.

Tuo affezionatissimo amico

Besucco Francesco.

147 CAPO XXVI

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148 Ultima lettera - Pensieri alla madre

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Dalle lettere fin qui esposte apparisce la grande pietà, che nel cuore nutriva Francesco: ogni suo detto, ogni suo scritto è un complesso di teneri affetti e di santi pensieri. Sembra tuttavia, che, di mano in mano che si avvicinava al fine della sua vita, egli divenisse ognor più infiammato d’amor di Dio. Anzi da certe espressioni sembra che egli ne avesse presentimento. Il suo stesso padrino quando ricevette quest’ultima lettera esclamò: «Mio figlioccio mi vuole abbandonare; Iddio lo vuole con sé».

Io la riferisco qui per intero come vero modello di chi vuole augurare cristianamente un buon capo d’anno. Essa porta la data del 28 dicembre 1863.


Carissimo signor padrino1,

Ogni giovine ben educato commetterebbe certamente un atto d’ingratitudine altamente da biasimarsi, se in questi giorni non iscrivesse ai suoi genitori e benefattori augurando loro felicità e benedizioni. Ma quali sentimenti non dovrò io mai manifestare verso di lei, mio caro ed insigne benefattore? Fin dal giorno che io nacqui ella cominciò a beneficarmi e a prendersi cura dell’anima mia. Le prime cognizioni della scienza, della pietà, del timor di Dio, le debbo a lei. Se ho fatto qualche corso di scuola, se ho potuto fuggire tanti pericoli dell’anima mia, è tutta opera dei suoi consigli, delle sue cure e sollecitudini.

Come mai pertanto la potrò degnamente ricompensare? Non potendolo in altra guisa procurerò almeno di darle segni della mia costante gratitudine col conservare nella mente impressa la ricordanza dei benefizi ricevuti, ed in questi pochi giorni mi adoprerò con tutte le forze ad augurarle copiose benedizioni dal cielo con buon fine dell’anno presente e buon principio dell’anno nuovo.

Egli è antico il proverbio, che dice: Un buon principio è la metà dell’opera; pertanto anche io desidererei cominciare bene quest’anno e d’incominciarlo colla volontà del Signore e continuarlo secondo la sua santa volontà.

Al presente i miei studi vanno bene; la condotta nello studio, nel dormitorio, nella pietà fu sempre optime. Ho avuto notizie di mio padre e di mio fratello i quali godono buona salute. Dia questa notizia a quelli di mia casa e ne avranno certamente piacere. Dica loro che non istiano inquieti per niente; io sto bene e nulla mi manca.

La prego eziandio di salutare il mio buon maestro signor Antonio Valorso, e gli dica che gli chiedo perdono delle disobbedienze e dei dispiaceri che tante volte gli ho dato, mentre frequentava la sua scuola.

Finalmente rinnovo l’assicurazione che non passerò mai giorno senza pregar Dio che conservi lei in sanità ed in lunga vita. Caro signor padrino, mi perdoni anche ella di tutti i disturbi, che le ho dato; continui ad aiutarmi coi suoi consigli. Io non desidero altro che di farmi buono, e di correggermi dei tanti miei difetti. Sia per sempre fatta la volontà di Dio, e non mai la mia2.

Con gran rispetto ed affezione mi professo

Suo obbligatissimo figlioccio

Besucco Francesco.



Nella lettera indirizzata al suo padrino racchiudevasi un biglietto per sua madre, che è l’ultimo dei suoi scritti e si può considerare come il suo testamento ovvero le ultime parole scritte ai suoi genitori.


Amatissima madre3,

Siamo alla fine dell’anno, Iddio ci aiutò a passarlo bene. Anzi posso dire che quest’anno fu per me una continua serie di celesti favori. Mentre vi auguro buon fine per questi pochi giorni che ci rimangono, prego il Signor che voglia concedervi un buon principio dell’anno novello continuato e ricolmo di ogni sorta di beni spirituali e temporali. La beatissima Vergine Maria vi ottenga dal divin suo figliuolo lunga vita e giorni felici.

Quest’oggi ho ricevuto una lettera di mio padre, da cui conosco che tanto esso quanto mio fratello godono buona salute, e questo mi recò grande consolazione. Vi mando qui la nota di alcuni oggetti che ancora mi occorrono.

Mia cara madre, vi ho dati tanti fastidi quando ero a casa, e ve ne do ancora presentemente; ma procurerò di compensarvi colla mia buona condotta e colle mie preghiere. Vi prego di fare in modo che mia sorella Maria possa studiare, perché colla scienza può assai meglio istruirsi nella religione.

Addio, cara madre, addio, offriamo al Signore le nostre azioni ed i nostri cuori, ed a lui raccomandiamo in particolar modo la salvezza delle anime nostre. Sia sempre fatta la volontà del Signore.

Augurate ogni bene da parte mia a tutti quelli di nostra casa, pregate per me, che di cuore vi sono

Affez. figliuolo

Francesco.


Da queste ultime lettere chiaro apparisce che il cuore di Besucco non sembrava più di questo mondo, ma di chi cammina coi piedi sulla terra, e che abbia già l’anima sua con Dio, di cui voleva continuamente parlare e scrivere.

Col fervore nelle cose di pietà cresceva eziandio l’ardore di allontanarsi dal mondo. «Se potessi, diceva talvolta, vorrei separare l’anima dal corpo per meglio gustare, che cosa voglia dire amar Dio. Se non ne fossi proibito, diceva eziandio, io vorrei cessare da ogni alimento per godere a lungo il grande piacere, che si prova nel patire per il Signore. Che grande consolazione hanno mai provato i martiri nel morire per la fede!».

Insomma egli e colle parole e coi fatti manifestava quanto già diceva san Paolo: «Desidero di essere disfatto per essere col mio Signore glorificato»mo. Dio vedeva il grande amore che regnava verso di Lui in quel piccolo cuore, e affinché la malizia del mondo non cangiasse il suo intelletto volle chiamarlo a sé4, e permise che un eccessivo affetto alle penitenze ne desse in certo modo occasione.

149 CAPO XXVII

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150 Penitenza inopportuna e principio di sua malattia

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Egli aveva letto nella vita di Savio Domenico, come esso un anno aveva imprudentemente lasciato assai inoltrare la stagione senza coprirsi convenientemente nel letto. Besucco lo volle imitare e giudicato che l’ordine datogli di coprirsi fosse limitato soltanto agli abiti del giorno pensò di essere libero di mortificarsi nel letto di notte. Senza dire nulla egli prendeva le coperte di lana insieme cogli altri compagni, ma invece di coprirsi le piegava e le metteva sotto al capezzale. La cosa andò avanti fino ai primi giorni di gennaio, finché un mattino rimase talmente intirizzito che non poté levarsi cogli altri. Riferito ai superiori, come Besucco fosse a letto per incomodo di sanità, fu inviato l’infermiere della casa per visitarlo e riconoscerne i bisogni. Come costui gli fu vicino, lo richiese che cosa avesse.

Niente niente, egli rispose.

Se non hai niente, perché dunque sei a letto?

Così, così... un po’ incomodato.

Intanto l’infermiere si avvicina per aggiustargli le coperte, e si accorge che ha una sola copertina da estate sopra il suo letto.

E le tue coperte, Besucco, dove sono?

Son qua sotto al capezzale.

Perché mai fare tal cosa?

Oh niente... quando Gesù pendeva in croce non era meglio coperto di me.

Si conobbe tosto, che il male del Besucco non era leggiero, laonde fu immediatamente portato nell’infermeria.

Fu subito fatto chiamare il medico, che da prima ravvisò non grave la sua malattia reputandola soltanto un semplice raffreddore1.

Ma il dì seguente si accorse, che invece di dileguarsi minacciava una congestione catarrale allo stomaco, che perciò la malattia prendeva una pericolosa intensità. Furono quindi praticati i rimedi ordinari dei purganti, dell’emetico, alcuni salassi, e bibite di vario genere, ma non si poté ottenere alcun favorevole risultato.

Interrogato un giorno, perché avesse fatto quella sbadataggine, cioè, non si fosse coperto in letto, rispose: «Mi rincresce che tal cosa abbia recato dispiacere ai miei superiori, spero per altro che il Signore riceverà questa piccola penitenza in soddisfazione dei miei peccati».

Ma e le conseguenze della tua imprudenza?

Le conseguenze io le lascio tutte nelle mani del Signore; qualunque cosa sia per avvenire di questo mio corpo non ci bado, purché ogni cosa torni a maggior gloria di Dio, e a vantaggio dell’anima mia.

151 CAPO XXVIII

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152 Rassegnazione nel suo male - Detti edificanti

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La sua malattia fu di soli otto giorni che per lui furono altrettanti esercizi ed ai compagni esempi di pazienza e di cristiana rassegnazione. Il male gli opprimeva il respiro, gli cagionava acuto e continuo mal di capo; fu sottoposto a molte e dolorose operazioni chirurgiche; gli furono amministrati parecchi rimedi energici. Ma tutte queste prescrizioni, tutte queste cure non valsero ad alleviare il suo male, e servirono soltanto a far risplendere l’ammirabile sua pazienza. Egli non diede mai alcun segno di risentimento o di lamento. Talvolta gli si diceva: «Questo rimedio dispiace, non è vero?». Egli rispondeva tosto: «Se fosse una dolce bibita questa mia boccaccia sarebbe più soddisfatta, ma è giusto che essa faccia un poco di penitenza delle ghiottonerie passate». Altra volta gli si diceva: «Besucco, tu soffri molto, non è vero?». «È vero che soffro alquanto, ma che cosa è mai questo in confronto di quello che dovrei patire per i miei peccati? Debbo per altro assicurarvi che sono così contento, che non mi sarei giammai immaginato che si provasse tanto piacere nel patire per amor del Signore».

Chiunque poi gli avesse prestato qualche servizio lo ringraziava di tutto cuore dicendo subito: «Il Signore vi ricompensi della carità che mi usate». Non sapendo poi come esprimere la sua gratitudine all’infermiere gli disse più volte queste parole: «Il Signore vi paghi in mia vece, e se andrò in paradiso lo pregherò con tutto il cuore per voi affinché vi aiuti e vi benedica». Un giorno l’infermiere lo interrogò se non aveva paura di morire. «Caro infermiere, rispose, se il Signore mi volesse prendere con Lui in paradiso io sarei contentissimo di ubbidire alla sua chiamata, ma temo assai di non essere preparato. Ciò non ostante spero tutto nella infinita sua misericordia, e raccomandandomi di cuore a Maria santissima, a san Luigi Gonzaga, a Savio Domenico, colla loro protezione spero di fare una buona morte»1.

Eravamo soltanto al quarto giorno della malattia, quando il medico cominciò a temere della vita del nostro Francesco. Per cominciare a parlargli di quell’ultimo momento gli dissi:

Mio caro Besucco, ti piacerebbe di andare in paradiso?

Si immagini se non mi piacerebbe di andare in paradiso! Ma bisogna guadagnarmelo.

Supponi che si tratti di scegliere tra guarire o andare in paradiso: che sceglieresti?

Son due cose distinte, vivere per il Signore o morire per andare col Signore2. La prima mi piace, ma assai più la seconda. Ma chi mi assicura il paradiso dopo tanti peccati che ho fatti?

Facendoti tale proposta io suppongo che tu sii sicuro di andare al paradiso, del resto se trattasi di andare altrove io non voglio che per ora tu ci abbandoni.

Come mai potrò meritarmi il paradiso?

Ti meriterai il paradiso pei meriti della passione e della morte di nostro Signore Gesù Cristo.

Ci andrò dunque in paradiso?

Ma sicuro e certamente, ben inteso quando al Signore piacerà.

Allora egli diede uno sguardo a quelli che erano presenti, di poi fregandosi le mani disse con gioia: «Il contratto è fatto: il paradiso e non altro; al paradiso e non altrove. Non mi si parli più d’altro, che del paradiso».

Io, gli dissi allora, sono contento, che tu manifesti questo vivo desiderio per il paradiso, ma voglio che sii pronto a fare la santa volontà del Signore...

Egli interruppe il mio discorso dicendo: «Sì sì, la santa volontà di Dio sia fatta in ogni cosa, in cielo ed in terra».

Nel quinto giorno della malattia chiese egli stesso di ricevere i santi sacramenti. Voleva fare la confessione generale; cosa che gli fu negata non avendone alcun bisogno, tanto più che l’aveva fatta alcuni mesi prima. Tuttavia egli si preparò a quell’ultima confessione con un fervore tutto singolare e mostravasi molto commosso. Dopo la confessione apparve assai allegro, e andava dicendo a chi l’assisteva: «Per il passato ho promesso mille volte di non più offendere il Signore; ma non ho mantenuta la parola. Oggi ho rinnovata questa promessa, e spero di essere fedele fino alla morte».

Egli fu nella sera di quel giorno che gli si domandò se aveva qualche cosa da raccomandare a qualcheduno.

Oh sì, dicevami; dica a tutti che preghino per me affinché sia breve il mio purgatorio.

Che vuoi ch’io dica ai tuoi compagni da parte tua?

Dica loro che fuggano lo scandalo, che procurino di far sempre delle buone confessioni.

E ai chierici?

Dica ai chierici, che diano buon esempio ai giovani, e che si adoprino sempre per dar loro dei buoni avvisi, e dei buoni consigli ogni qual volta sarà occasione.

E ai tuoi superiori?

Dica ai miei superiori che io li ringrazio tutti della carità che mi hanno usata; che continuino a lavorare per guadagnare molte anime; e quando io sarò in paradiso pregherò per loro il Signore.

E a me che cosa dici?

A queste parole egli si mostrò commosso e dando uno sguardo fisso, «A Lei chiedo, ripigliò, che mi aiuti a salvarmi l’anima. Da molto tempo prego il Signore che mi faccia morire nelle sue mani, mi raccomando che compia l’opera di carità, e mi assista fino agli ultimi momenti della mia vita».

Io lo assicurai di non abbandonarlo, sia che egli guarisse, sia che egli stesse ammalato, ed assai più ancora qualora si fosse trovato in punto di morte. Dopo prese un’aria molto allegra, né ad altro più badò che a prepararsi a ricevere il santo viatico.

153 CAPO XXIX

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154 Riceve il viatico - Altri detti edificanti - Un suo rincrescimento

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Eravamo al sesto giorno della sua malattia (otto gennaio) quando egli stesso dimandò di fare la santa comunione. «Quanto volentieri andrei a farla coi miei compagni in chiesa, diceva, sono otto giorni dacché non ho più ricevuto il mio caro Gesù». Mentre si preparava a riceverlo dimandò a chi lo assisteva che cosa volesse dire viatico.

Viatico, gli fu risposto, vuol dire provvigione e compagno di viaggio.

Oh che bella provvigione ho io avendo con me il pane degli angioli nel cammino che io sono per intraprendere!

Non solo avrai questo pane celeste, gli fu soggiunto, ma avrai il medesimo Gesù per aiuto e per compagno nel grande viaggio, che ti prepari a fare per la tua eternità.

Se Gesù è mio amico e compagno non ho più nulla a temere; anzi ho tutto a sperare nella sua grande misericordia. Gesù, Giuseppe e Maria, vi dono il mio cuore e l’anima mia.

Dopo fece la sua preparazione, né fu mestieri che altri l’aiutasse, imperciocché aveva le sue solite preghiere che con ordine recitava l’una dopo l’altra. Ricevette l’ostia santa con quei segni di pietà, che piuttosto si possono immaginare che descrivere.

Fatta la comunione si pose a pregare per far il ringraziamento. Richiesto se aveva bisogno di qualche cosa, nulla più rispondeva, che: «Preghiamo». Dopo un considerevole ringraziamento chiamò gli astanti a sé e loro si raccomandò di non parlargli più di altro che del paradiso.

In questo tempo fu visitato dall’economo della casa, la qual cosa gli tornò di gran piacere1.

O D. Savio, si pose a dire ridendo, questa volta ci vado al paradiso.

Fatti coraggio, e mettiamo nelle mani del Signore e la vita e la morte, speriamo di andare al paradiso, ma quando a Dio piacerà.

Al paradiso, D. Savio, mi perdoni i dispiaceri che le ho cagionati; preghi per me, e quando sarò al paradiso io pregherò anche il Signore per lei.

Qualche tempo dopo vedendolo tranquillo il richiesi se aveva qualche commissione da lasciarmi per il suo arciprete. A questa parola si mostrò turbato. «Il mio arciprete, rispose, mi ha fatto molto bene; egli ha fatto quanto ha potuto per salvarmi; gli faccia sapere che io non ho mai dimenticato i suoi avvisi. Io non avrò più la consolazione di vederlo in questo mondo, ma spero di andare in paradiso e di pregare la santa Vergine affinché lo aiuti a conservare buoni tutti i miei compagni, e così un giorno io lo possa vedere con tutti i suoi parrocchiani in paradiso». Ciò dicendo la commozione gli interruppe il discorso.

Dopo alquanto di riposo gli dimandai se non desiderava di vedere i suoi parenti. «Io non li posso più vedere, rispondeva, perché essi sono molto distanti, sono poveri e non possono fare la spesa del viaggio. Mio padre poi è lontano da casa lavorando nel suo mestiere2. Faccia loro sapere, che io muoio rassegnato, allegro e contento. Preghino essi per me, io spero di andarmene in paradiso, di là li attendo tutti... A mia madre...», e sospese il discorso.

Qualche ora dopo gli dissi: «Avresti forse qualche commissione per tua madre?».

Dica a mia madre che la sua preghiera fu ascoltata da Dio. Ella mi disse più volte: Caro Franceschino, io desidero che tu viva lungo tempo in questo mondo, ma desidero che tu muoia mille volte piuttosto di vederti divenuto nemico di Dio col peccato. Io spero che i miei peccati saranno stati perdonati, e spero di essere amico di Dio e di poter presto andarlo a godere in eterno. O mio Dio, benedite mia madre, datele coraggio a sopportare con rassegnazione la notizia di mia morte; fate che io la possa vedere con tutta la famiglia in paradiso a godere la vostra gloria.

Egli voleva ancora parlare, ma io l’ho obbligato a tacere per riposare alquanto. La sera del giorno otto aggravandosi ognora il suo male fu deciso di amministrargli l’Olio santo. Richiesto se desiderava di ricevere questo sacramento:

Sì, rispose, io lo desidero con tutto il cuore.

Non hai forse alcuna cosa che ti faccia pena sulla coscienza?

Ah! sì, ho una cosa che mi fa molto pena e mi rimorde assai la coscienza!

Qual è mai questa cosa? Desideri di dirla in confessione o altrimenti?

Ho una cosa cui ho sempre pensato in mia vita; ma non mi sarei immaginato che dovesse cagionar tanto rincrescimento al punto di morte.

Qual è mai dunque la cosa che ti cagiona questa pena e tanto rincrescimento?

Io provo il più amaro rincrescimento perché in vita mia non ho amato abbastanza il Signore come Egli si merita.

Datti pace a questo riguardo, poiché in questo mondo non potremo giammai amare il Signore come si merita. Qui bisogna che facciamo quanto possiamo; ma il luogo dove lo ameremo come dobbiamo è l’altra vita, è il paradiso. Là lo vedremo come Egli è in se stesso3, là conosceremo e gusteremo la sua bontà, la sua gloria, il suo amore. Tu fortunato che fra breve avrai questa ineffabile ventura! Ora preparati a ricevere l’Olio santo che è quel sacramento che scancella le reliquie dei peccati e ci dà anche la sanità corporale se è bene per la salute dell’anima.

Per la salute del corpo, egli ripigliò, non se ne parli più; in quanto ai peccati io ne domando perdono, e spero che mi saranno interamente perdonati; anzi confido che potrò ottenere anche la remissione della pena che dovrei sopportare pei medesimi nel purgatorio.

155 CAPO XXX

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156 Riceve l’Olio santo - Sue giaculatorie in questa occasione

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Preparata ogni cosa per l’ultimo sacramento che l’uomo riceve in questa vita mortale, volle egli stesso recitare il Confiteor colle altre preghiere che riguardano questo sacramento, facendo speciale giaculatoria all’unzione di ciascun senso1.

Il sac. D. Alasonatti, prefetto della casa, glielo amministrava. Quando fu all’unzione degli occhi il pio infermo prese a dire così: «O mio Dio, perdonatemi tutti gli sguardi cattivi, e tutte le cose lette, che non doveva leggere». Alle orecchie: «O mio Dio, perdonatemi tutto quello che ho sentito con queste orecchie, e che era contrario alla vostra santa legge. Fate che chiudendosi esse per sempre al mondo si aprano di poi per udire la voce che mi chiamerà a godere la vostra gloria».

All’unzione delle narici: «Perdonate, o Signore, tutte le soddisfazioni che ho dato all’odorato».

Alla bocca: «O mio Dio, perdonatemi le golosità e tutte le parole che in qualsiasi modo vi abbiano recato qualche disgusto. Fate che questa mia lingua possa cantare al più presto le vostre lodi in eterno».

A questo punto il prefetto rimase vivamente commosso ed esclamò: «Che bei pensieri, che meraviglia in un ragazzo di così giovanile età!». Continuando di poi l’amministrazione di quel sacramento, ungendo le mani diceva: «Per questa santa unzione e per la sua piissima misericordia ti perdoni Iddio ogni mancanza commessa col tatto». L’infermo continuò: «O mio grande Iddio, col velo della vostra misericordia e pei meriti delle piaghe delle vostre mani coprite e scancellate tutti i peccati che ho commesso colle opere in tutto il corso di mia vita».

Ai piedi: «Perdonate, o Signore, i peccati che ho commessi con questi piedi sia quando sono andato dove non avrei dovuto, sia non andando dove mi chiamavano i miei doveri. La vostra misericordia mi perdoni tutti i peccati che ho commesso in pensieri, parole, opere ed omissioni».

Gli fu più volte detto che bastava dire quelle giaculatorie col cuore, né il Signore dimandare tanti gravi sforzi quali doveva fare pregando ad alta voce: allora egli taceva un istante, ma dopo continuava sullo stesso tono di voce come prima. Infine apparve così stanco, ed i polsi erano così sfiniti, che ci pensavamo che egli fosse per tramandare l’ultimo sospiro. Poco dopo si riebbe alquanto e in presenza di molti indirizzò queste parole al superiore: «Io ho pregato molto la beata Vergine che mi facesse morire in un giorno a Lei dedicato, e spero che sarò esaudito. Che cosa potrei ancora dimandare al Signore?».

Per secondare la pia domanda gli fu risposto: «Dimanda ancora al Signore, che ti faccia fare tutto il purgatorio in questo mondo, a segno che morendo l’anima tua voli subito al paradiso». «Oh! sì, tosto soggiunse, lo dimando di cuore, mi doni la sua benedizione; spero che il Signore mi farà patire in questo mondo, finché abbia fatto tutto il mio purgatorio, e così l’anima mia separandosi dal corpo voli tosto al paradiso».

Pare proprio che il Signore l’abbia esaudito, imperciocché prese un po’ di miglioramento e la sua vita venne ancora prolungata di circa ventiquattro ore.

157 CAPO XXXI

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158 Un fatto meraviglioso - Due visite - Sua preziosa morte

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Il nove gennaio, giorno di sabato, fu l’ultimo del caro nostro Besucco. Egli conservò il perfetto uso dei sensi e della ragione in tutta la giornata. Voleva continuamente pregare, ma ne fu proibito per il motivo che troppo si stancava. «Oh! almeno, disse, qualcheduno preghi vicino a me, e così io ripeterò col cuore quello che egli dirà colle parole». Per appagare questo suo ardente desiderio uopo era che vi fosse qualcheduno che recitasse preghiere o almeno giaculatorie accanto al suo letto. Tra gli altri che lo visitarono in quel giorno fu un suo compagno alquanto dissipato. «Besucco, gli disse, come stai?». «Caro amico, rispose, mi trovo al fine della mia vita, prega per me in questi miei ultimi momenti. Ma pensa che tu eziandio dovrai trovarti in simile stato. Oh quanto sarai contento se farai opere buone! ma se non cangi vita ah quanto ti rincrescerà al punto della morte!». Quel compagno si mise a piangere, e da quel punto cominciò si pensare più seriamente alle cose dell’anima, ed oggidì ancora tiene buona condotta.

Alle dieci di sera fu visitato dal signor Eyzautier luogo‑tenente delle guardie di S. M. in compagnia di sua moglie. Aveva esso preso parte per farlo venire all’Oratorio, e gli aveva fatto molti benefizi. Besucco se ne mostrò molto contento, e diede vivi segni di ringraziamento. Quel coraggioso militare al vedere l’allegria che traspariva in quel volto e i segni di divozione che egli manifestava e l’assistenza che aveva, rimase profondamente commosso e disse queste parole:

Il morire in questo modo è un vero piacere, e vorrei anch’io potermi trovare in tale stato. Indi volgendo il discorso all’infermo gli disse: «Caro Franceschino, quando sarai in paradiso prega anche per me e per mia moglie». Vie più commosso non poté più parlare, e dando all’infermo l’ultimo saluto se ne partì.

Circa alle dieci e mezzo pareva non potesse più avere che pochi minuti di vita; quando egli trasse fuori le mani tentando di levarle in alto. Io gli presi le mani e le raggiunsi insieme affinché di nuovo le appoggiasse sul letto. Egli le sciolse e le levò di nuovo in alto con aria ridente tenendo gli occhi fissi come chi rimira qualche oggetto di somma consolazione. Pensando che forse volesse il crocifisso glielo posi nelle mani; ma egli lo prese, lo baciò, e lo ripose sul letto, rialzando tosto con impeto di gioia in alto le mani1. In quell’istante la faccia di lui appariva vegeta e rubiconda più che non era nello stato regolare di sua sanità. Sembrava che gli balenasse sul volto una bellezza, un tale splendore che fece scomparire tutti gli altri lumi dell’infermeria. La sua faccia dava una luce sì viva, che il sole in mezzodì sarebbe stato come oscure tenebre2. Tutti gli astanti, che erano in numero di dieci, rimasero non solo spaventati ma sbalorditi, attoniti e in profondo silenzio tenevano tutti gli sguardi rivolti alla faccia di Besucco, che mandava un chiarore che avvicinandosi alla luce elettrica dovevano tutti abbassare lo sguardo3. Ma crebbe in tutti la maraviglia quando l’infermo, elevando alquanto il capo e prolungando le mani quanto poteva come chi stringe la mano a persona amata, cominciò con voce giuliva e sonora a cantar così: Lodate Maria | O lingue fedeli || Risuoni nei cieli | La vostra armonia4.

Dopo faceva vari sforzi per sollevare più in alto la persona che di fatto si andava elevando, mentre egli stendendo5 le mani unite in forma divota, si pose di nuovo a cantare così: O Gesù d’amor acceso | Non vi avessi mai offeso || O mio caro e buon Gesù | Non vi voglio offender più6. Senza interrompere intonò la lode: Perdon, caro Gesù | Pietà, mio Dio || Prima di peccar più | Morir vogl’io7.

Noi eravamo tutt’ora in silenzio, e i nostri sguardi stavano rivolti all’infermo che sembrava divenuto un angiolo cogli angioli del paradiso. Per rompere lo stupore il Direttore disse: «Io credo che in questo momento il nostro Besucco riceva qualche grazia straordinaria dal Signore o dalla sua celeste madre, di cui fu tanto divoto in vita. Forse Ella venne ad invitare l’anima di lui per condursela seco in cielo».

Il sac. Alasonatti, prefetto, ebbe ad esclamare: «Niuno si spa­venti. Questo giovane è in comunicazione con Dio»8. Besucco continuò il suo canto, ma le sue parole erano tronche e mutilate, quasi di chi risponde ad amorevoli interrogazioni. Io ho potuto soltanto rac­cogliere queste: «Re del ciel... Tanto bel... Son pover peccator... A voi dono il mio cuor... Datemi il vostro amor... Mio caro e buon Signor...». Indi si lasciò cadere regolarmente sul letto. Cessò la luce maravigliosa, il suo volto ritornò come prima; riapparvero gli altri lumi e l’infermo non dava più segno di vita9. Ma accorgendosi che non si pregava più, né gli suggerivano più giaculatorie, tosto si voltò dicendomi: «Mi aiuti, preghiamo. Gesù, Giuseppe, Maria, assistetemi in questa mia agonia. Gesù, Giuseppe, Maria, spiri in pace con voi l’anima mia»10.

Io raccomandavagli di tacere, ma egli senza badare continuò: «Gesù nella mia mente, Gesù nella mia bocca, Gesù nel mio cuore; Gesù e Maria a voi do l’anima mia». Erano le undici quando egli volle parlare, ma non potendo più disse solo questa parola: «Il crocifisso». Con questa parola egli chiamava la benedizione del crocifisso con l’indulgenza plenaria in articolo di morte, cosa da lui molte volte richiesta e da me promessa.

Datagli quella ultima benedizione il prefetto si pose a leggere il Proficiscere mentre gli altri pregavano ginocchioni11. Alle undici e un quarto il Besucco fissandomi collo sguardo si sforza di fare un sorriso in forma di saluto, di poi alzò gli occhi al cielo indicando che egli se ne partiva. Pochi istanti dopo l’anima sua lasciava il corpo e se ne volava gloriosa, come fondatamente speriamo, a godere la gloria celeste in compagnia di quelli che coll’innocenza della vita hanno servito Iddio in questo mondo, ed ora lo godono e lo benedicono in eterno.

159 CAPO XXXII

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160 Suffragi e tumulazione

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Non si può esprimere il dolore e il rincrescimento cagionato a tutta la casa dalla perdita di sì caro amico. Furono fatte in quel mo­mento molte preghiere intorno al suo medesimo letto. Fattosi giorno se ne diffuse la notizia fra i suoi compagni, i quali per trovare un qualche conforto dell’afflizione e per pagare un tributo all’amico defunto si radunarono in chiesa a fine di pregare in suffragio1 dell’anima di lui, se mai ne avesse avuto ancora bisogno. Molti fecero la santa comunione con questo medesimo scopo. Rosario, uffizio, preghiere in comune ed in privato, comunioni, messa, tutte insomma le pratiche di pietà che in quel giorno festivo ebbero luogo nella nostra chiesa furono indirizzate a Dio per il riposo eterno dell’anima del buon Francesco. In quel giorno apparve altra cosa singolare. Nella fisionomia divenne così avvenente e il suo volto così rubicondo, che in nessun modo pareva morto. Anzi quando era bene in sanità non apparve mai in lui sintomo di quella straordinaria bellezza. Gli stessi compagni ben lungi dall’avere il panico timore che generalmente si ha dei morti, andavano con ansietà a vederlo e tutti dicevano che egli sembrava veramente un angiolo del cielo. Questo è il motivo che nel ritratto preso dopo morte presenta fattezze molto più gentili e leggiadre che non aveva nel corso della vita. Quelli poi che vedevano oggetti che in qualche modo avessero appartenuto al Besucco andavano a gara per averli e conservarseli come cosa della più grata ricordanza. La voce comune che correva fra tutti era che egli fosse volato al cielo. «Egli non ha più bisogno delle nostre preghiere, dicevano alcuni; a quest’ora egli gode già la gloria del paradiso». «Anzi, soggiungeva un altro, certamente gode già la vista di Dio e lo prega per noi». «Io credo, conchiudeva un terzo, che Besucco possieda già un trono di gloria in cielo, e che invochi le divine benedizioni sopra i suoi compagni ed amici». Il giorno seguente, undici gennaio, gli fu cantata messa dai suoi compagni, qui nella chiesa dell’Oratorio, tra cui molti fecero la santa comunione sempre per maggior gloria di Dio e per il riposo eterno dell’anima di lui, se mai avesse ancora avuto bisogno di qualche suffragio. Terminata la funebre funzione fu dagli addolorati condiscepoli accompagnato alla parrocchia, quindi al campo santo.

Il sito che ora occupa è segnato col n.° 147, nella fila quadrata a ponente2.

161 CAPO XXXIII

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162 Commozione in Argentera e venerazione per il giovane Besucco

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Le virtù che in questo meraviglioso giovanetto risplendettero per lo spazio di circa 14 anni nel paese di Argentera divennero più luminose ancora quando egli mancò dai vivi, e quando si ebbero notizie della preziosa sua morte. Il sacerdote Pepino Francesco mi mandò una commovente relazione di cose che hanno del soprannaturale. Io le conserverò gelosamente per un tempo più opportuno, e mi limiterò a ricavare da quella alcuni tratti. «Saputasi la notizia della grave infermità del nostro Francesco, egli scrive, si fecero pubbliche preghiere per il medesimo cantandovi la messa colla benedizione del SS. Sacramento, ed orazione pro infirmo. Giunta poi la notizia della sua morte la sera del giorno tredici corse tosto di bocca in bocca ed in meno di un’ora Francesco era ovunque proclamato modello della gioventù cristiana1. Non è a dire quanta afflizione recasse ai genitori e benefattori di questo caro giovanetto che contentò colla sua esemplare condotta sempre tutti, non offese mai nessuno. La sorella minore di Francesco, chiamata Maria, ne annunziò evidentemente la morte il giorno dieci gennaio, assicurando che circa la mezza notte dal nove venendo al dieci essendo in letto con sua madre sentì forte un rumore nella stanza superiore ove soleva dormire Francesco. Ella udì chiaramente gettare un pugno di sabbia sul pavimento, e per tema che la madre ad un tal rumore non venisse a sospettare della morte di Francesco la intertenne in discorsi ad alta voce disusati a quella figlia. Parecchi altri commossi alla santità di lui non esitarono raccomandarsegli per ottenere celesti favori con esito il più felice». Io non voglio discutere sopra i fatti che qui sono esposti: io intendo solo di fare la parte dello storico rimettendomi a qualsiasi osservazione che sia per fare il benevolo lettore. Ecco adunque alcuni altri brani della relazione mentovata: «Nel mese di febbraio un ragazzo di circa due anni trovavasi in grave pericolo della vita; reputando il caso disperato i parenti si raccomandarono al nostro Besucco, di cui ognuno andava glorificando le virtù. Promisero inoltre che se quel fanciullo fosse guarito l’avrebbero animato alla pratica della santa Via Crucis ad imitazione di Francesco. Il fanciullo guarì in brevissimo tempo, ed ora gode perfetta salute. Giorni sono, continua il parroco, raccomandai io stesso alle preghiere del caro giovinetto un padre di famiglia gravemente infermo, lo raccomandai pure nel medesimo tempo a Gesù sacramentato, al cui onore e gloria si consacra il predetto padre di famiglia in qualità di cantore. Ometto i nomi di questi raccomandati unicamente per salvarli da qualche critica indiscreta. L’infermo prese tosto miglioramento e fra pochi giorni apparve perfettamente guarito.

La sorella maggiore di Francesco per nome Anna, maritata nel mese di marzo, trovandosi oppressa da grave incomodo che non lasciavala più riposare né giorno né notte, in un momento di maggior inquietudine esclamò: “Mio caro Franceschino, aiutami in questo grave bisogno, ottienimi un po’ di riposo”. Detto fatto. Da quella notte cominciò e continuò a riposare tranquillamente.

Animata la predetta Anna dal felice risultato della sua preghiera raccomandossi di nuovo a Francesco che la soccorresse in un momento in cui la sua vita versava in vero pericolo, e ne fu oltre ogni sua aspettazione favorita.

Io poi che raccolgo i fatti altrui a maggior gloria di Dio non debbo omettere di notare che solito a raccomandarmi alle preghiere del mio figlioccio ancor vivente, con maggior fiducia feci a lui ricorso dopo la sua morte, e di questa mia fiducia ottenni in diverse circostanze felici risultati».

163 CAPO XXXIV

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164 Conclusione

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Qui metto termine alla vita di Francesco Besucco. Avrei ancora parecchie cose a riferire intorno a questo virtuoso giovanetto; ma siccome esse potrebbero dar motivo a qualche critica da parte di chi rifugge di riconoscere le maraviglie del Signore nei suoi servi, così mi riserbo di pubblicarle a tempo più opportuno, se la divina bontà mi concederà grazia e vita.

Intanto, o amato lettore, prima di terminare questo comunque siasi mio scritto vorrei che facessimo insieme una conclusione, che tornasse a mio e a tuo vantaggio. È certo che o più presto o più tardi la morte verrà per ambidue e forse l’abbiamo più vicina di quel che ci possiamo immaginare. È parimente certo che se non facciamo opere buone nel corso della vita, non potremo raccoglierne il frutto in punto di morte, né aspettarci da Dio alcuna ricompensa. Ora dandoci la divina Provvidenza qualche tempo a prepararci per quell’ultimo momento, occupiamolo ed occupiamolo in opere buone, e sta’ sicuro che ne raccoglieremo a suo tempo il frutto meritato. Non mancherà, è vero, chi si prenda giuoco di noi, perché non ci mostriamo spregiudicati in fatto di religione. Non badiamo a chi parla così. Egli inganna e tradisce se stesso e chi lo ascolta. Se vogliamo comparire sapienti innanzi a Dio, non dobbiamo temere di comparire stolti in faccia al mondo, perché Gesù Cristo ci assicura che la sapienza del mondo è stoltezza presso Dio1. La sola pratica costante della religione può renderci felici nel tempo e nell’eternità. Chi non lavora d’estate non ha diritto di godere in tempo d’inverno, e chi non pratica la virtù nella vita, non può aspettarsene alcun premio dopo morte.

Animo, o cristiano lettore, animo a fare opere buone mentre siamo in tempo; i patimenti sono brevi, e ciò che si gode dura in eterno2. Io invocherò le divine benedizioni sopra di te, e tu prega anche il Signore Iddio che usi misericordia all’anima mia, affinché dopo aver parlato della virtù, del modo di praticarla e della grande ricompensa che Dio alla medesima tien preparata nell’altra vita non mi accada la terribile disgrazia di trascurarla con danno irreparabile della mia salvezza.

Il Signore aiuti te, aiuti me a perseverare nell’osservanza dei suoi precetti nei giorni della vita, perché possiamo poi un giorno andare a godere in cielo quel gran bene, quel sommo bene pei secoli dei secoli. Così sia.


165 Appendice sopra il benedetto crocifisso1

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Il culto del benedetto crocifisso in Argentera risale a tempo immemorabile, e la tradizione ce lo dà come fonte inesauribile di grazie.

Da documenti autentici giurati ed approvati dall’autorità ecclesiastica e civile, che il parroco di Argentera mi trasmise, e che sono propri dell’archivio parrocchiale, si ricava quanto segue. Nell’anno 1681, il giorno 6 del mese di gennaio, precipitando una valanga di neve da una montagna, che domina il paese dell’Argentera, fu colpita la sottoposta cappella della compagnia dei Disciplinanti sotto il titolo del nome di Gesù e dei santi Rocco e Sebastiano. Il muro dietro l’altare rovinò, precipitò a terra gran parte del tetto, e quindi furono ridotti in frantumi i banchi e gli altri oggetti che qui si trovavano. Un solo oggetto restò intatto. Fu un crocifisso in legno dell’altezza di un metro in circa, circondato da un velo. Pareva impossibile che non fosse anch’esso stato ridotto in pezzi; perciò gli abitanti di Argentera testimoni dell’accaduto giudicarono che il Signore con un atto di speciale provvidenza lo avesse voluto conservare.

Questo fatto fu preludio di altri assai più maravigliosi, che ora sono per narrare in seguito a documenti del pari giurati ed approvati.

L’anno 1695 il primo giorno di novembre dedicato a tutti i santi, i confratelli Disciplinanti andarono secondo il solito nella cappella a recitare l’ufficio di Maria santissima. Stando alcuni inginocchiati cogli occhi fissi in esso, lo videro ad un tratto bagnarsi di sudore sanguigno e grosse gocce grondare per tutta la sacra effigie. Lo stesso effetto videro riprodursi a varie riprese in tutto l’ottavario dei santi. Quel fatto destò gran rumore nel paese e fuori. Per questo Giovelli D. Sebastiano, vicario foraneo di Bersezio, si portò ad Argentera affine di accertarsene coi propri occhi. Vide anch’egli l’aspetto compassionevole che presentava quel crocifisso tutto grondante sudore a guisa di chi molto patisce. Il sole giunto ad un certo punto sull’orizzonte mandava direttamente i suoi raggi sul crocifisso; ciò nonostante continuava il sudore, ed il velo che lo circondava non fu mai bagnato. Il vicario ordinò che con un pannolino venisse rasciugato, e poco di poi vide il sudore uscire di bel nuovo dalle ferite come da tante fonti, specialmente dalla testa e dal costato.

D’ordine di monsignor Vibò, arcivescovo di Torino, furono destinate alcune persone conosciute per probità, scienza e prudenza, affinché facessero di continuo la guardia al crocifisso. Nei giorni dal 9 al 14 novembre il cielo era nuvoloso, poi cadde grande pioggia e neve; ma il benedetto crocifisso fu sempre asciutto senza verun indizio di sudore sofferto. Il giorno 16 poi essendo il cielo sereno al mezzogiorno di bel nuovo si rinnovò il sudore specialmente al costato dove pareva fosse la sorgente principale.

Nello scopo di camminare con grandissima cautela in affare di tanta importanza, ed assicurarsi che non vi intervenisse alcun inganno, l’arcivescovo di Torino ordinò che il crocifisso fosse tolto dal proprio posto, fosse collocato in una stanza ben chiusa entro cassetta serrata a chiave; non si permettesse a nessuno di visitarlo senza il vicario foraneo di Bersezio; e si sospendesse di pubblicare il fatto come miracoloso. Dal 28 novembre 1695, giorno in cui fu riposto nella cassa, fino al 2 giugno 1696, in cui fu rimesso nella cappella, non comparve più goccia di sudore. Il 7 di ottobre dello stesso anno, festa di Maria santissima del rosario, essendo priva di umidità l’atmosfera, si vide di nuovo il sudore ricomparire sul capo intorno alla corona, nella bocca e poi nelle braccia e sul petto presso alle ferite, e questo continuò fino al diciotto dello stesso mese. Si ripeterono i diligenti esami; ma la commissione arcivescovile dovette conchiudere non potere tal cosa avvenire altrimenti che per miracolo.

Dopo questo pubblico e straordinario avvenimento la venerazione verso al benedetto crocifisso fra gli abitanti dell’Argentera e della valle superiore di Stura fu sempre più costante e segnata da diversi fatti parimenti prodigiosi.

Io ne aggiungerò ancora alcuni scegliendoli specialmente da un’autentica relazione che quel parroco si compiacque d’inviarmi.

Nell’ultima invasione dei Francesi in Italia, un generale passando per l’Argentera entrò nella confraternita, fece bere al cavallo l’acqua benedetta vicino alla porta, quando il suo domestico fatto ardimentoso disse al padrone: «Generale, voi usate una grande irriverenza a questa chiesa, osservate là quel crocifisso, che sta alla custodia della santa sua casa». «Poco importa a me, rispose al domestico il superbo generale, e del crocifisso e dell’acqua santa». Ciò detto uscì dalla confraternita e montò sul suo cavallo avviandosi per il suo destino. Ma che! fatti appena cinquanta passi, giunto all’ultimo abitato del paese, ove è una breve e piccola salita, il cavallo s’inginocchiò e non ci fu più modo di fargli proseguire il cammino. Lo spronò il generale, quindi disceso da cavallo il fece battere aspramente da due soldati; ma tutto invano. In questo tempo fecesi gran concorso di gente chi per curiosità chi per vedere se avesse potuto recar soccorso a quell’infelice. Il domestico allora vedendo il suo padrone al colmo della disperazione in faccia della moltitudine: «Ecco, gli disse, signor generale, il castigo dell’irriverenza usata in chiesa al crocifisso; pentitevi del fallo e dimandategliene perdono». «Ebbene, soggiunse il generale, se il cavallo si alza, lo condurrò alla confraternita, ove lasciandolo fuori rientrerò in chiesa a chiederò perdono del fallo mio, e crederò che miracoloso sia quel crocifisso». Prese quindi per la briglia il cavallo che senza difficoltà si levò su e lasciossi senza opposizione condurre alla porta della chiesa, ove il generale entrato prostrossi con grande ammirazione dei circostanti innanzi al crocifisso, che in allora era collocato sopra un’alta trave in mezzo alla chiesa. Fece preghiera, dimandò di cuore perdono delle bestemmie e delle profanazioni fatte, ed uscendo lasciò una somma di denaro affinché facesse una nicchia dentro il muro per riporvi il crocifisso, come fu fatto. E questo, scrive il parroco, mi fu raccontato ripetutamente da Bertino Stefano morto nel 1854, in età d’anni 87, e da Matteo Valorso morto nel 1857 in età d’anni 80.

Certa Giovanna Maria Bosso moglie di Lunbat sapendo che il mattino vegnente i Francesi sarebbero venuti in Argentera per saccheggiare il paese, sollecita di salvare il benedetto crocifisso, notte tempo dalla confraternita lo trasportò nella propria casa. Persuasa che la camera in cui era stato riposto il crocifisso sarebbe stata risparmiata dai saccheggiatori, vi trasportò tutti gli altri mobili della casa. Infatti la mattina seguente tutto il paese fu derubato e l’unica stanza rispettata in Argentera fu quella in cui la predetta donna nascosto aveva il benedetto crocifisso, il quale a tempo opportuno fu resti­tuito al suo posto. Questo fatto, dice la relazione, fu molte volte raccontato e deposto da Valorso Gio. Batta, sindaco di questo comune nell’anno 1848, morto nel 1852 in età d’anni 70.

Da tempo immemorabile le popolazioni del Sambuco, Pietraporzio e Pontebernardo quando erano afflitte da lunga siccità facevano sovente voto di una processione, e tutte e tre unite insieme si recavano a visitare il2 benedetto crocifisso, e ben raramente poterono ritornarsene sempre processionalmente alle proprie case coi panni asciutti. Anzi così grande era ed è giornalmente la loro certezza di ottenere la desiderata pioggia, che quasi tutti vengono alla visita muniti d’ombrelli. La prima volta, scrive il parroco, che ho veduto questa processione nel 1849, composta di mille e più persone, io rimasi maravigliato oltremodo al vederle tutte munite d’ombrelli per ripararsi dalla pioggia in un tempo perfettamente sereno e asciutto; ma cessò intieramente in me lo stupore quando fui testimonio dell’efficacia della loro divozione, imperocché quei divoti non erano a metà del loro viaggio che cominciava a cadere una dirotta pioggia. Essa però per niente poteva impedirli dal continuo salmeggiare, e cantar lodi al Signore accogliendo volentieri sopra di se stessi la sospirata pioggia fino al termine della processione. La s’incomincia per lo più col cielo sereno ma è ben raro che si possa terminare senza pioggia. È questo un fatto notorio di cui parlano ben sovente gli abitanti di questa valle i quali ancora nelle loro private necessità fanno ricorso al benedetto crocifisso.



Allegati


165.1 1. Breve ristretto della vita di Savio Domenico

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ASC A4920140, ms. Bonetti, s.d. [1858].

Non potrei, a dirle il vero, ricordare tutti gli eroici atti di virtù di quel devotissimo giovane, nullameno per appagare la S.V. desiderando anche io che le virtù, che quel forte praticò in vita sua, sieno a tutti note, e da tutti possano essere praticate, le narrerò quello che mi è più noto, e di cui posso essere, qualora fosse mestieri, testimonio.

Era esattissimo osservatore delle regole della casa; ed io da questo canto, senza difficoltà, gli darei il primo posto. Nello studio io posso dire schiettamente di non averlo mai e poi mai veduto a ciarlare, o stare in ozio, o di essere di menomo disturbo ai compagni. Io aveva il luogo a lui vicino cosi ché, qualora egli avesse avuto bisogno di qualche cosa da me, poteva farmelo sapere a voce bassa senza menomo altrui disturbo: ma pure quando spinto dalla necessità doveva chiedermi qualche cosa, mi faceva scorrere un piccolo biglietto, in cui mi diceva quello che aveva bisogno di dirmi; pregandomi ad un tempo di fargli nell’istesso modo la risposta, tanta era la tema che per cagion sua si disturbasse.

Caritatevolissimo verso i compagni, cui, quando l’occasione glielo permetteva, ammoniva e correggeva con tanta dolcezza e pazienza che pareva un angioletto inviato dal cielo. Paziente in modo ammirabile; se gli veniva fatto qualche torto, non mai si lamentava. Quando alcuno de’ suoi compagni un poco irriverente gli faceva qualche ingiuria, o gli diceva qualche parola offensiva, egli per vendicarsi, con aspetto ridente, e con edificanti parole, cercava di riconciliarsi l’animo del suo offensore.

Quando trattavasi di fare qualche cosa che potesse ridondare ad onore e gloria di Dio e al bene spirituale dei compagni, non era mai l’ultimo a dare il consenso di approvazione. A tale uopo parlava in modo che pareva un dottorino; così ché le sue parole, le sue proposte con grande utilità dei compagni e di tutto l’oratorio venivano sempre dalla intiera conferenza approvate.

Divotissimo della SS. Vergine tutti i venerdì procurava di avere qualche compagno col quale recarsi in tempo di ricreazione in chiesa a recitare la corona dei 7 dolori della B.V. o almeno le litanie dell’Addolorata; al qual esercizio fui anch’io da lui spesse volte invitato.

Insomma, io per terminare di dire, confesso che, in due anni in cui usai con lui, io non ho mai scorto nella sua vita altro che bene. Tanta fu ed è presentemente la buona opinione che tutti i suoi compagni avevano ed hanno di lui, che alla sua morte andavano a gara di avere qualche sua memoria, la quale custodir potessero come una reliquia.

Son certo che quanto io ho qui narrato, essendo pura verità, sarà e da Dio, ed anche dalla SantaVergine accettato ed approvato.

Bonetti Gioanni


165.2 2. Fatti e detti del Savio Domenico

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ASC A4920139, ms. Bonetti, s.d. [1859].

[1°] Una mattina d’inverno egli andava a scuola solo e soletto, essendosi incamminato un poco prima degli altri. Io ed un altro compagno ci trovavamo un poco indietro da lui. Quel mattino il freddo era rigidissimo; ed io mi ricordo che quasi piangeva pel dolore. Perciò noi andavamo a passo concitato per giungere presto alla scuola. Il Savio invece era tutto tranquillo, e teneva un passo così regolato che pareva che egli andasse al passeggio. Chiunque lo avesse veduto facilmente giudicava che egli lo faceva a bella posta per patire quel freddo per amore di Gesù Bambino, intorno al cui Natale noi ci trovavamo. Noi intanto lo raggiungemmo. Quando gli fummo accanto vedendo che non lo aspettavamo ci disse: aspettatemi che andiamo insieme. Ma noi oppressi dal freddo gli rispondemmo che non ci conveniva perché egli voleva andare troppo adagio. Noi continuammo del nostro passo e giungemmo al nostro destino declamando il rigore di tanto freddo. Il Savio egli pure vi giunse ma molto dopo, ed io nol sentii a lamentarsi menomamente

2° Sebbene quello che ora sono per raccontare dell’angelico Savio Domenico possa ridondare un poco a mio disonore, tuttavia lo racconterò, sia per far sempre più conoscere quanta fosse la santità di quell’ottimo giovane, sia anche perché possa servire di esempio ad altri. Essendo io l’anno 1856 e 57 condiscepolo del Savio, per la mia più avanzata età fui eletto decurione, cioè fui destinato a far recitare la lezione mattina e sera a circa dieci giovani miei condiscepoli. Tra questi eravi pure quella bell’anima del Savio Domenico. Egli era il più diligente nel venire a compiere il suo dovere. Studiata ottimamente la sua lezione, subito che lo studio fosse finito, con la massima sollecitudine veniva a recitarmela. Ma alcune volte io non essendo pronto a riceverlo perché per la sua diligenza anticipava il tempo destinato alla recita delle lezioni, egli colla sua buona grazia, col suo grazioso riso sulle labbra, tanto sapeva dire, tanto sapeva fare che io, sebbene occupato in cose che mi stavano a cuore, tuttavia non poteva resistere a quella dolce violenza che egli mi faceva, e mi sentiva in obbligo d’ascoltare la sua lezione. Ma siccome quasi sempre recitava da solo molto prima degli altri, così io non mi prendeva poi a cuore di subito notarmi come egli avesse saputo la sua lezione, aspettando di notarmelo molto tempo dopo quando venivano gli altri. Ora sia perché mi dimenticassi del voto preciso, sia che io fossi troppo rigido e severo, fatto sta ed è che le lezioni del Savio sulla decuria non erano notate come egli le aveva sapute. Un giorno trovandoci noi soli insieme egli prendendo a parlare delle lezioni dolcemente mi disse: «mi credeva di aver sempre saputo ottime le mie lezioni; ma essendomi per caso venuta in mano la decuria ho veduto che la cosa sta al contrario», ciò detto voltò il discorso ad altre cose. Queste parole dette dal Savio il più diligente e studioso dei miei compagni mi fecero entrare in me stesso. Esaminai ogni cosa e fui propriamente convinto che il Savio aveva ragione, e che io non compiva bene il mio dovere, perché dopo aver pensato e ripensato trovai che egli non mi aveva mai recitato una lezione che non fosse degna di un ottimo voto. Io ammirai con stupore una tanta moderazione in uno scolaro, e mi determinai di compiere dabbene il mio uffizio per l’avvenire. Ma egli sebbene sapesse che quelle lezioni così mal notate gli facessero poco onore, tuttavia non fece mai parola né con me né con altri per farsi rendere giustizia; e certamente egli ne avrebbe nemmeno parlato con me se non avesse temuto che alcuno de’ suoi compagni venendolo a sapere, avesse potuto prendere scandalo da lui credendo che egli istudiasse poco, e non facesse il suo dovere. Quanti guai e risse siansi fatte e facciansi tuttora dagli scolari per queste lezioni ben lo sanno quelli che furono e sono studenti. Possa l’esempio del Savio servire d’or innanzi di modello a tutti quelli che desiderano di esser suoi imitatori.

3° Qualche tempo prima della sua morte mi ricordo che trovandomi un bel giorno con lui io gettai il discorso sulla pessima sua salute. Come amico lo interrogai quali fossero i suoi incomodi. Egli non con poca pena fra gli altri mi disse che pativa male di stomaco, non potendo digerire bene il cibo. Ma dunque, se è così, gli dissi, perché mangi il medesimo vitto che mangiano gli altri che sono sani e robusti? Parlane al nostro Sig. D. Bosco, che subito ti farà dare qualche cosa da parte che ti faccia bene. Son ben persuaso, egli mi rispose, che il Sig. D. Bosco mi farebbe dare qualche cosa d’altro, ma a qual pro fare così il particolare? Bisogna mangiare cogli altri quello che ci danno a tavola.

4° Una mattina andavamo a scuola noi due insieme. Il giorno dopo si dava il lavoro dei posti. Siccome il costume degli scolari noi ci siamo messi a discorrere del lavoro, mostrando io il desiderio che non fosse stato molto difficile. Dopo aver per un poco parlato di questo, il Savio mi disse: «comunque sia per essere il lavoro, ti prego di dirmi un Pater ed un Ave Maria al nostro S. Luigi, affinché mi aiuti a farlo bene». Quanti sono quegli scolari che si stimino tanto da poco di raccomandarsi al Signore per far bene i loro doveri?

5° Egli sebbene fosse parco nel mangiare, tuttavia la menava sempre in lungo di modo che era quasi sempre l’ultimo ad uscire dal refettorio. Ma ciò egli non faceva senza il nobile suo fine. Imperocché quando tutti ne erano usciti egli passava di tavola in tavola, e raccogliendo le briciole di pane che gli altri avevano lasciato cadere, le mangiava.

Tutto sia a gloria di Dio e del suo servo Savio Domenico

Bonetti Gioanni


165.3 3. Lettera del chierico Angelo Savio

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ASC A4920132: lett. A. Savio - G. Bosco, 13 dic. 1858.


Dall’Oratorio il 13 dicembre ’58

Molto Rev.do Signore,

Se sono ancora in tempo desidero anch’io di cooperare nell’onorare il Savio Domenico, epperciò ecco alcuni detti e fatti di cui posso attestarne la verità.

Prima che venisse all’Oratorio io già lo conosceva come un giovane di non comune virtù. Più volte mi aveva manifestato il grande desiderio di essere annoverato fra i figli dell’Oratorio. Un dì che gli fu chiesto il perché volesse colà recarsi, egli rispose: desidero farmi prete per poter più facilmente salvar l’anima mia e far del bene a molti altri. Furono esauditi i suoi voti e fu visto crescere nella virtù di giorno in giorno in modo sorprendente.

Nelle vacanze io mi trovava a casa non troppo in salute; egli veniva a consolarmi colle belle sue maniere e dolci parole. Lasciandomi un dì gli dissi, Domenico, prega per me! Rispose egli: le mie preghiere varranno poco, perché non son troppo buono; dì alla Madonna che mi faccia suo vero divoto e figlio e poi ti otterrò da Lei quanto desideri.

Alle volte per mano conduceva seco due suoi fratellini, a cui indirizzava le più tenere parole e diceva: che angioletti son dessi! saranno ben cari al Signore; e cose simili. I vicini che lo sentivano erano maravigliati al vedere un giovanetto sì buono e giudizioso. Erano questi gli indizii certi dell’esimia virtù a cui lo vedemmo arrivare.

A lei ed ai suoi compagni son conte l’esemplarità nei doveri, l’amore grande al SS. Sacramento, e la figliale divozione alla B. Vergine perciò non ne faccio parola solo faccio menzione di ciò che avveniva non di rado nell’Oratorio. Avevamo un altarino che egli ajutò moltissimo ad erigere ed ornare assai bene. A questo altarino, innanzi l’immagine di M. Vergine Addolorata l’ho veduto più volte solo, colle mani giunte, fissi gli occhi nella sacra immagine, pregare con tal fervore, che sembravami in estasi sollevato alla contemplazione delle cose celesti. Da luogo ove non poteva essere veduto lo osservava senza distrarlo per lungo tempo, perché mi sentiva nel cuore una contentezza inesprimibile.

Ho anche ferma persuasione che egli conoscesse la vicina sua morte. Poiché la vigilia della sua partenza a sera tarda recatomi da lui ragionammo per un po’ di tempo. Le sue parole mi erano soavi più del solito e mi manifestò rincrescimento di lasciar l’Oratorio, perché ei diceva non vi ritornerò più. All’indomani poi venne per darmi l’ultimo abbraccio. Mi disse: le mie robe le lascio lì, non ne ho bisogno, consegnale a D. Bosco o a chi verrà poi a prenderle. Erano ordinate in modo come se non le avesse più dovute toccare. Poi colla sua strinse fortemente la mia mano e disse con vivo accento: prega per me, forse non ci vedremo più in questa vita. Addio. Partì e più non l’ho veduto; ma il pensiero delle ultime sue parole non mi abbandonò mai e quando mi si recò la trista novella della sua morte esclamai: era un santo!

In questa persuasione mi sono più volte a lui raccomandato, nei miei bisogni. A questo proposito non le sia discaro che le narri due fatti di cui posso attestare la sincerità. Tristo e malinconico alcuni mesi or sono io passava giorni infelici combattuto da mille pensieri ed immaginazioni peccaminose. Cercai ogni via per liberarmene, ma inutilmente; già stava per credermi abbandonato da Dio. Non poteva né mangiare di giorno, né dormire di notte. Ogni cosa era per me causa di nuova tristezza; era in uno stato che non so se vi possa essere il più deplorabile. Una sera, più tentato del solito passeggiava per la stanza senza darmi pensiero di coricarmi. Mi gettai poscia, da ignota forza oppresso, sopra del letto; ma tosto balzai quasi forsennato e mi posi al tavolino. Apro senza sapere il perché il cassetto e la mano s’incontra in un piccolo crocifisso; era una memoria del Savio Domenico che gelosamente custodiva, lo stringo con ambe le mani e gettatomi a terra ginocchioni esco in questa esclamazione: amico mio, tu vedi la mia angoscia, se qualche cosa presso Dio tu puoi, deh! ottienimi d’essere liberato da questa anticamera dell’inferno. In sull’istante i miei occhi si sciolsero in dirotto pianto e dopo un po’ di tempo, recitate alcune preghiere, me ne andai a letto per passare una notte la più tranquilla. Al mattino mi sentii spinto a recarmi dal confessore, il che fatto il mio cuore ricuperò la pace perduta. Anche altre volte al santo giovanetto mi sono raccomandato e ne ho provato salutari effetti.

Un fatto non molto dissimile dal sopra accennato mi avvenne circa la metà del mese di ottobre di quest’anno. È il seguente: una disgrazia si aggravò sopra di me ed il mio naturale bizzarro mi incitava ad atti sconvenevoli contro chi credeva autore della mia disgrazia e per tutto un giorno non ho preso altro che un po’ di brodo. Meditava sempre il modo di vendicarmi e non aveva requie. Ricordandomi poscia del favore ottenuto altra volta dal Savio Domenico, mi vergognai di me stesso e raccomandatomi anche questa volta a lui a poco a poco la calma ritornò e provai poscia, che il danno immaginato era di gran lunga maggiore a quello che naturalmente si doveva attendere. Il fatto è l’accusa fattami in Alessandria a lei già altra volta narrato.

Se ella giudica valersi di quanto le ho esposto finora, sarò lieto d’aver potuto esser grato al mio benefattore, al compianto mio amico, che ora gode certamente la sorte dei beati.

Intanto pregandole dal Signore ogni benedizione, con tutta la stima e riverenza di cui sono capace ho l’onore di sottoscrivermi

Della S.V. Ill.ma e Molto Rev.da

Obb. Figlio in G.C.

Savio Angelo Ch.

165.4 4. Cenni sulla vita di Michele Magone qui morto il 21 Gennaio 1859

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ASC A1230107, ms. anonimo, s.d. [1859].

Già non aspetterebbe a me lo scrivere questo, ma non volendo, che si smorzi la memoria di un sì caro compagno, mi posi a scrivere questi cenni, e per poi di servirmene di esemplare, e per poi presentarli ai superiori qualora li richiedano.

Appena suonava il campanello della scuola, egli prendeva i suoi libri, sotto il braccio, e se ne veniva in scuola, perché l’andar presto a scuola faceva anche piacere al professore. Entrato in scuola non faceva più motto, con alcuno. Silenzioso se ne iva al suo luogo, e quel poco d’ingresso che vi era, non lo spendeva, come si usa dalla maggior parte degli scolari nel chiacchierare, ma nel ripassare o la lezione e qualche cosa di già spiegato, o le difficoltà.

Detta la preghiera, tutta l’attenzione era rivolta al maestro. Nulla ha di scuola, come pure degli altri luoghi, che si possa censurare, o frammettervi la minima cosa. Alle spiegazioni del professore, lo si vedeva tutto orecchie, e non ne perdeva, come si dice, un iota. Nel far il lavoro dei luoghi, che aveva luogo ogni settimana, non alzava la testa, meno poi parlava coi compagni vicini, come si suole fare in tale [occasione].

Se poi diceva qualche difficoltà, egli per tema di non ricordarsene, se la notava nel suo piccolo quaderno, per poi mandarla alla memoria.

L’assiduità che aveva nella scuola, non venivagli meno nello studio. Io, girando gli occhi qua e là come divagato, nol vedeva mai e poi mai alzare gli occhi dal libro, ma sempre fisso in ciò, che aveva d’innanzi, che avresti detto esservi la calamita, che là lo attraesse.

Non mai, come fanno certi uni, guardava chi entrasse o uscisse di studio; ad eccezione poi che o vi fosse venuto qualche superiore a dir qualche cosa, o l’assistente ci avesse avvertiti di qualche cosa. Veniva da scuola, e temendo che il tempo di studio gli venisse meno, subito lo si vedeva applicato al suo lavoro dei versi latini (poiché appunto un mese prima della sua morte ci furono insegnati), e da questo non si partiva, finché avesse superate le difficoltà, che dai principianti in tale studio s’incontrano ad ogni piè sospinto. Era un figlio degno di essere ammirato nello studio. Veniva qualcheduno a pregarlo della matita, linea, penna o che so io, egli cortese, con un dolce sorriso, senza però trattenersi in chiacchiere, glieli offeriva. Si dovrebbe prendere per modello da tutti, ma principalmente da quelli che credono la gioventù, come primavera dell’uomo, un’età da dare al mondo, alle gozzoviglie, ai passatempi, e non a Dio, credendolo ricettacolo della vecchiezza, e non sanno quale terribile castigo sovrasti sul suo capo.

Anch’io prima che Dio m’inspirasse questa santa risoluzione, me ne andava fantasticando, e facendo castelli in aria nella mia mente, ma i terribili esempi che egli mi pone tuttodì sott’occhio mi fecero svanire tutto questo.

Anch’io, avendo sotto gli occhi questo esemplare me ne doveva servire, ma la superbia mi faceva dire: forse ché tu sei da meno di questo giovinetto? Me ne accorgo ora.

Ecco, amorevolissimo Padre, tutto quello che io le posso presentare, a forza di lambicare il mio cervello intorno al presente mio compagno defunto, del quale Ella è in procinto di scrivere la vita. Le quali cose confesso d’aver veduto co’ miei occhi, e pronto a sostenerle.

Molto ci sarebbe ancora da dire sulla sua condotta, morale e religiosa di questo giovane, ma non aspetta a me una sì alta impresa.

165.5 5. Lettera del parroco di Argentera a Francesco Besucco

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ASC A1010907: lett. F. Pepino – F. Besucco, 3 ott. 1863.

Argentera li 3 ottobre 1863

Caro figlioccio,

La tua lettera ricevuta lunedì scorso 28 settembre mi ha fatto piacere per le buone nuove di tua salute, dello studio e condotta lodevole lo stesso giorno l’ho letta in tua casa ai tuoi parenti, i quali ne furono molto consolati, e m’incaricarono di raccomandarti di attendere sempre e con maggior diligenza allo studio, ad accrescere tutti i giorni nella virtù, e ad ubbidire e compiacere in tutto i tuoi amorevolissimi Superiori che fanno per te le parti di amatissimo padre. Mi piace che conservi memoria dei benefizi che ti ho fatti; ma ricordati pure della costante ricompensa che io ne pretendo col pregare fervorosamente Iddio e Maria SS. nostra amatissima Madre affinché io possa sempre fare in tutto e per tutto la volontà di Dio, e col sempre più renderti degno delle affettuose cure del Sig. D. Bosco e D. Rua, dei quali mi ricordo tutti i giorni nella celebrazione della S. Messa, non dimentico di raccomandare te medesimo ancora.

Intanto debbo notificarti che, non avendo finora potuto recarmi in Torino, ho scritto ai tuoi Superiori per sapere nuove sicure di tua condotta, dello studio e se intendevano ritenerti nell’Oratorio. Sabato scorso, cioè li 26 settembre scorso ne ho ricevuto la risposta, da cui ho conosciuto che la tua condotta fu buona, lo studio solamente mediocre e che in questi due mesi sei stato un poco divagato, che eri stato accettato in codesto Oratorio, in cui seguiterai li tuoi studi.

Ora qui prima di tutto debbo darti un avvertimento molto importante, ed è questo: di non mai offenderti di qualunque avvertimento o correzione ti sarà fatta dai tuoi superiori, anzi esserne contento perché in questo modo dimostrano di amarti molto mentre procurano sempre il tuo maggior profitto. Dato questo avvertimento fa attenzione a quanto sono per dirti. La tua condotta fu buona, questo è un grado positivo, vi è ancora il comparativo e il superlativo. Se per lo passato la tua condotta fu buona, per l’avvenire devi regolarti ancor meglio per meritarti un grado comparativo di bontà, e questo si fa colla maggior esattezza nell’adempimento di tutti li tuoi doveri. Tu mi dici che il Signor D. Bosco ti chiama Besucco il buono, e tu che rispondi? Vedi la risposta che devi dare almeno col cuore: — Io che ho ancora tanti difetti, che sono divagato, troppo attaccato ai divertimenti corporali sono tuttavia chiamato buono: oh! Questo titolo mi è dato unicamente per farmi conoscere il mio dovere di regolarmi in modo da meritarmi questo nome; quindi potresti qualche volta rispondere ingenuamente al Sig. D. Bosco: — Io la ringrazio di questo avvertimento, prometto coll’aiuto di Dio di esser buono, anzi di rendermi ancor più buono; ma per far questo io la pregherei di avvertirmi o di farmi avvertire di tutti li miei difetti.

In secondo luogo ho saputo che nello studio fosti mediocre: questa mediocrità poteva bastare in questi due mesi di prova, perché nel principio di un’opera si trova sempre difficoltà; ma io spero che colla tua maggior diligenza nello studio fra pochi mesi meriterai di sentirti a dire che nello studio fosti buono, e progredendo di questo passo cioè di bene in meglio contenterai Iddio che per sua grazia speciale ti fece entrare in codesto Oratorio, compiacerai li tuoi Superiori per le cure amorose che ti usano, sarai di consolazione a me ed ai tuoi parenti, e godrai in te stesso una grande contentezza.

In terzo luogo ho saputo che in questi due mesi di prova sei stato alquanto divagato: questo non mi fece meraviglia, ricordandomi che qui eri moltissimo attento ai divertimenti, anzi troppo; e l’essere stato solamente alquanto divagato in questi due mesi, mi fa conoscere che ti sei già emendato un poco, e se farai profitto di questa mia lunga lettera ti correggerai interamente di questo tuo difetto. Quando si tratta di contentare il corpo, non bisogna mai farlo con troppa avidità, che anzi è necessario moderare fin da giovanetto le naturali inclinazioni affinché non ti portino alla divagazione. Con questo non intendo già proibirti il divertimento il quale preso nella dovuta moderazione ti sarà di sollievo allo spirito che dopo potrà più facilmente applicarsi allo studio. Sono poi soddisfatto del tuo fermo proposito d’ubbidire e rispettare costantemente li tuoi superiori, e massime il Sig. D. Bosco, il quale avendoti accettato nella sua casa è bene che tu, ricevuta la presente, vada a ringraziarlo affettuosamente del beneficio che ti ha fatto protestandogli di essergliene sempre riconoscente colla buona tua condotta, coll’indefesso studio, con sempre crescente pietà e coll’esatto adempimento di tutti li tuoi doveri, pregandolo pure di tenerti d’occhio ed avvertirti all’occorrenza de’ tuoi difetti.

E questo è quanto io doveva scriverti per tua ulteriore direzione e per appagare il desiderio de’ tuoi genitori, fratelli e sorelle, i quali furono grandemente consolati nel sapere che stavi volentieri in codesto Oratorio, e godendo tutti ottima salute ti salutano caramente. Fa pure li miei rispetti al Sig. Eyzautier che spero rivedere in quest’autunno, non dimenticando il Sig. D. Rua.

Per tua norma, quando si scrive ad un Superiore d’ordinario non si deve dimandar la risposta, la quale sarà fatta quando piacerà al Superiore medesimo, e così se accadesse di non ricevere subito la risposta non si deve subito scrivere altra lettera.

Ora eccoti la mia dressa [sic]: Al Molto Reverendo Signor | Il Sig. Pepino D. Francesco Arciprete | in Cuneo per Argentera.

Finalmente ti dirò che la tua lettera scritta con soddisfacente sentimento mi diede una bella prova del profitto che hai già fatto costì: seguita e sarai contento.

Ti ho scritto questa lunga lettera per compensarti della pena che hai provato al vedere li tuoi compagni andarsene in vacanza mentre tu rimanevi nel Convitto; anzi è questo un vantaggio per te perché in questo frattempo continuerai a studiare; però notasti a proposito che tu eri più contento ancora di rimanere al tuo posto.

Termino questa lettera con raccomandarti di nuovo la frequenza ai SS. Sacramenti, una figliale tenera divozione a Maria SS. e salutandoti anche per parte de’ tuoi parenti e compagni mi raffermo

Tuo affez.mo padrino

Pepino Francesco Arciprete

P.S. Ieri la neve copriva più della metà di queste montagne ed il freddo comincia a farsi sentire perfino dai sordi.


165.6 6. Testimonianza di don Domenico Ruffino

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ASC A1010915, ms. Ruffino, s.d. [gen./feb. 1864].

Come le comete nell’ordine della natura appariscono qui e colà visibili a pochi, e talvolta inosservate dai più: così avviene degli eletti. Ottima cosa è perciò che il lavoro della divina grazia compito in tali anime quasi in occulto sortisca presto l’effetto, con farsi palese a tutti. Una di tali comete fu il giovane Besucco.

Breve fu la dimora del giovane Besucco in questo Oratorio, ed in un tempo in cui poté meno essere osservato. Riflettendo tuttavia sulla sua condotta, e raccogliendo alcuni fatti dai suoi compagni, mi risulta che su lui dominava un assai forte impegno per l’adempimento esatto dei suoi doveri scolastici e religiosi; che era animato dallo spirito di preghiera, di penitenza, di viva fede e di vera gratitudine. Fin dai primi giorni che entrò in questa casa concepii di lui ottime speranze. Difatti lo vedeva nello studio continuamente raccolto, studiare, scrivere direi quasi con una certa avidità. I suoi voti erano sempre optime tanto nella scuola quanto nello studio. Dirò di più, egli temeva sempre di trasgredire involontariamente le regole, epperciò era sovente in sul chiedere se si potesse fare or questa or quella cosa. Chiese una volta se nello studio fosse lecito lo scrivere temendo forse che quivi non fosse lecito altro che mandare a memoria; chiese un’altra volta, se facesse cosa buona aggiustando un libro, che si era scucito. Fu visto alcuna volta durante il tempo di studio farsi il segno della santa croce, alzare gli occhi verso il cielo e pregare; interrogato del perché, rispose: — Spesso trovo difficoltà nell’imparare, epperciò mi raccomando al Signore affinché mi dia aiuto. Nella scuola poi pendeva immobile dal labbro del maestro.

Aveva con alcuni altri incominciato lo studio del latino durante le vacanze autunnali. Per incoraggiarli erasi loro detto, che avrebbero potuto, usando di tutto il loro buon volere, essere ad Ognissanti ammessi alla 2 classe ginnasiale. Fu allora che Besucco si applicò più che mai. Il tempo assegnato per lo studio non gli bastava più; perciò egli ne rubava sempre una parte alla ricreazione. Si avvide di un compagno che dimostrava la stessa buona volontà che lui. Gli si strinse insieme in amicizia, con patto di aiutarsi vicendevolmente, ed ora si recitavano la lezione, ora si esercitavano nel tradurre, ora si proponevano l’esempio di quelli che vedevano più esatti nei loro doveri, e si animavano all’imitazione: insomma, in tutti i modi cercavano di conseguire quanto era loro stato promesso. E vi riuscirono; difatti al cominciar dell’anno scolastico Besucco e Bologna furono fra i pochi che in quella classe riportarono vittoria ed entrarono nella 2aa classe ginnasiale.

L’impegno di Besucco non era minore per l’adempimento dei doveri religiosi; poiché egli tendeva ad un fine sì alto, che richiede non meno l’uno che l’altro. Un giorno discorrendo con un compagno intorno ai propri studi, ed al fine per cui erano venuti nell’Oratorio, Besucco disse il suo pensiero, e soggiunse: — Insomma il mio scopo si è di farmi prete, coll’aiuto del Signore; perciò voglio fare di tutto per ottenerlo, e per prima cosa m’impegnerò sì, che i miei superiori, ed i miei genitori non abbiano mai a lagnarsi di me. Questo suo fine era che dava l’impulso a tutto [ciò] che facesse.

Una volta, disse, che se avesse avuto a scegliere tra lo stare in patria sempre, oppure sempre qui all’Oratorio, anche a costo di non mai più rivedere i suoi genitori, avrebbe scelto questo secondo partito. Soggiunse di poi: — Perché sebbene mi rincresca non poco stare lontano dai miei cari genitori, tuttavia da ciò non me ne verrebbe altro male, quando invece collo stare in in patria non potrei ottenere l’intento di farmi prete.

In una novena di Maria SS. il direttore aveva dato per fioretto, che ciascheduno si scegliesse un amico, il quale gli servisse da ammonitore segreto. Besucco si trovò subito questo amico in un suo compagno di scuola, Tropini Luca. A fine di parlargli più liberamente gli scrisse una lettera, in cui lo pregava a fare verso di lui questo buon uffizio, che sentiva sarebbe gli riuscito di grandissimo giovamento. Intanto per impegnarlo ad accettare più volentieri gli prometteva di fare altrettanto verso di lui; ed incominciava fin d’allora ad avvisarlo di qualche difetto.

Tutti i fioretti poi che si davano, egli soleva scriverli sopra un quaderno apposito: in questo modo, egli diceva, in fine dell’anno avrò una bella raccolta di buoni avvisi. Di ciò non contento ancora lungo il giorno spesso andava ripetendo ai suoi amici, ricordandoli a coloro che li avessero dimenticati. Si confessava da principio due volte per settimana, di poi una volta sola per consiglio del confessore, e si comunicava più spesso. La stessa pratica consigliava ad altri. So di una lettera che scrisse ad un suo compagno, il quale gli aveva manifestato desiderio di venire in quest’Oratorio. In essa egli lo esortava a pregare il Signore per questa grazia; epperciò facesse ogni dì la via crucis, si confessasse ogni 8 giorni, e si comunicasse più volte dentro la settimana. La Via Crucis che consigliava a questo amico era un atto di devozione, che gli stava molto a cuore: cercava sovente di farla egli, di farla fare da altri quando c’era tempo.

Tale suo spirito di preghiera era notato da molti, e non poteva essere altrimenti; poiché ogni sera, mentre i suoi compagni si mettevano a letto, egli si poneva ginocchioni sopra il baule, oppure per terra, e così colle mani giunte se ne stava pregando per buon tratto di tempo. Coricandosi poi non ometteva mai di fare ancora il segno della Santa Croce, e recitare qualche giaculatoria. Lo stesso faceva nel levarsi. Noterò per incidenza che il suo assistente di camerata non ebbe mai a chiamarlo per farlo alzare dal letto. Mentre gli altri ordinariamente dopo il suono del campanello attendevano ancora la voce dell’assistente, sia perché spesso non odono il primo, sia perché tale è l’uso. Besucco al primo tocco di campana si alzava, metteva diligentemente in sesto il letto, e poi il tempo che gli restava andava a passarlo in chiesa. Al dopo pranzo ed al tempo di merenda andava sempre a fare una visita in chiesa, ed era soventi volte attorno a preti ed a chierici, affinché radunassero alcuni giovani per condurli in chiesa a recitar preghiere: la visita a Gesù Sacramentato, le litanie di Maria SS. Addolorata e del Sacro Cuore di Gesù. Il piacere poi di leggere forte per tutti voleva sempre averlo egli. Non è quindi a stupire se era sempre dei primi a trovarsi in Chiesa per gli esercizi comuni, o se nell’uscire si vedeva fra gli ultimi; ma sarà tuttavia di non poca meraviglia il sapere, che un giovane nei 14 anni, come era Besucco, sano e robusto, lasciasse soventi la colazione per fermarsi più a lungo in chiesa. Di questo io fui non poche volte testimonio, ne meravigliava forte, e tutto attribuiva a potentissima volontà di trattenersi col Signore nella dolcezza della preghiera; ma ora debbo anche ascriverlo a grande spirito di penitenza. Non solo impiegava tempo nel pregare, ma voleva pregare bene, e per quanto poteva senza distrazioni. D. Bosco lo sa. Quando era ammalato si lagnò una volta con me dicendo, povero me! Sono 15 giorni che non ho più pregato veramente bene.

I fatti che si riferiscono allo spirito di penitenza di Besucco sono bastantemente noti a D. Bosco, aggiungerò solo una cosa. Accadde alcuna volta che venisse da qualche compagno disprezzato; ma non fu mai che si offendesse, anzi che se ne mostrasse il minimo dispiacere. Ad uno che gli diceva parole sprezzanti rispose: — Ah! Gesù Cristo ha sofferto assai di più. Mi pare degna di particolare menzione anche la fede di Besucco. Egli l’aveva sì viva nel cuore, che la mostrava in tutte le opere. Io accenno solo alcuni fatti: scoprirsi il capo interamente con ispirito sensibile di divozione ogni qual volta udiva pronunziare i SS. Nomi di Gesù e di Maria, anche quando nel canto delle sacre laudi si ripetevano ad ogni strofa; il fare il segno della santa croce con posatezza e grande penetrazione; il suo contegno in chiesa e durante le preghiere. Bello era il vederlo cantare! Con quanta espansione di cuore il faceva! Vi pigliava parte non solo in chiesa, ma anche ogni qualvolta in tempo di ricreazione si cantava qualche lode, egli vi era sempre dei primi. Peccato che non avesse troppo buon orecchio! Ciò dimostra tuttavia maggiormente il suo attaccamento al canto di queste laudi.

Mi dice un suo amico, che un giorno un compagno era stato alquanto distratto in chiesa, Besucco appena uscito cerca di quel tale, gli ricorda il suo cattivo contegno, gli mostra la gravezza di tale mancanza alla presenza di Gesù Sacramentato e gli inculca di essere in avvenire più devoto.

Durante la sua malattia godeva molto quando gli era ricordato il paradiso, Gesù Sacramentato, ed il patimento di Gesù Crocifisso. Una volta gli dissi che portasse spesse volte il suo pensiero a Gesù Sacramentato, ed egli mi rispose: — Oh sì lo so già! Un’altra volta vedendo che molto soffriva gli dissi: — Fa coraggio, che Gesù ha sofferto molto di più sulla Croce; egli fece un atto che dimostrava la distanza del paradiso, e poi disse nella stessa espressione: — Ha sofferto più di me … ne sono persuaso … Effetto della sua fede non meno che della sua grande tranquillità di coscienza credo che fosse la piena rassegnazione durante la sua malattia. Se è vero che lo spirito di vera gratitudine sia un segno di santità, come si esprime un autore, sono molto contento di registrare ancora alcuni atti di Besucco riguardanti questa virtù, perché serviranno a maggiormente confermare l’idea della vita veramente edificante di questo caro giovanetto.

Un amico gli diede ad imprestito un paio di scarpe, affinché potesse uscire per la passeggiata. Nel restituirgliele Besucco non trovava parole sufficienti per ringraziarloQuando era QqQWQQQ

; e non trovando altro modo per dargliene un compenso gli diede una scatola di lucido, unica cosa di cui potesse disporre, sebbene l’altro dimostrasse di nulla volere per sì piccolo benefizio. Era stato scelto ministro scopatore nella camerata, e non è a dire con quanta puntualità adempisse quest’incarico senza borbottare fra i denti. Non fu mai bisogno di avvisarnelo quando veniva il suo torno. Il primo giorno che fu ammalato chiese il suo assistente di camerata, e lo pregò a volerlo in grazia perdonare, se per quel dì non poteva adempiere a quel suo dovere. Un compagno si assunse l’incarico di scopare in vece sua ed egli, oh quanto ne lo ringraziò! Pareva che gli avesse fatto uno dei più grandi benefizi.

Durante la sua malattia ringraziava sempre con un particolare affetto coloro, che lo andavano a visitare, o che gli porgevano qualche cosa. Intorno a questo punto molto potrà dire l’Infermiere.

Parimenti se gli si porgeva il destro di fare qualche benefizio a qualcheduno lo faceva con molto gusto: indicare il compito ai suoi compagni, assisterli a fare il lavoro ecc. Fuvvi uno il quale o per inavvertenza, o per sbadataggine aveva macchiato con inchiostro i libri di un altro, egli visto ciò si diede subito con tutta la diligenza possibile a pulirlo come se ne fosse stato il colpevole. Con eguale gentilezza sollevava di terra i libri dei compagni quando questi li lasciavano cadere, cedeva loro molte volte la propria parte di merenda, imprestava libri, certa e penna ecc. a chi ne mancava.

Quanto è grande la bontà del nostro Signore, il quale ci manda bene spesso dei giovani esemplari di virtù, affinché impariamo anche noi quale sia la via da tenersi per giungere a salvamento. Quando noi leggiamo nella storia le azioni memorabili, ed i fatti miracolosi dei grandi servi di Dio; quando ci si descrivono i loro digiuni rigorosi, le veglie prolungate, i cilici, le austerità dei celebri penitenti della Tebaide, ci sentiamo ripieni di ammirazione; ma spesso non adiamo più in la. Quando invece vediamo di tali giovanetti la cui vita edificante non ha nulla che non si possa da noi imitare, ci sentiamo potentemente eccitati alla virtù. Occupati come loro nell’adempimento degli stessi doveri, che ci impedisce di santificarli come essi? Cogli stessi soccorsi spirituali, anzi col di più dei loro esempi, che ci potrà scusare dal non giungere allo stesso grado di santità? Noi abbiamo dei difetti, eglino non ne erano privi: essi portavano nel loro cuore il germe di tutte le passioni che noi dobbiamo combattere.

Felice tu, o caro Besucco, che abbandonasti le sozzure di questo mondo prima di esserne infetto; voltasti le spalle alle amarezze di quaggiù prima di averle assaggiate. Oh! Io invidio la tua bella sorte! Ideo rapuit te Dominus ne malitia mutaret intellectum tuum aut ne fictio deciperet animam tuam. Tu già godi le delizie della patri celeste, dopo si breve esilio, già possiedi l’immarcescibile corona dopo avere sì poco combattuto. Deh almeno volgi ancora uno sguardo sopra di noi cui tocca tanto prolungare la pena dell’esilio. Fa che almeno dopo avere anche noi vittoriosamente combattuto, non ci sia negata la stessa gloria, che tu già godi, e godrai in eterno.


Indice dei nomi


Accademia Albertina (Torino)

Agostino, santo

Alasonatti, Giovanni

Alasonatti, Teresa

Alasonatti, Vittorio Michele

Alassio (Savona)

Albera, Paolo

Alberga-Valfré, Teresa

Albino, santo

Alfonso de’ Liguori, santo, autore

Alighieri, Dante

Allais-Vaschetti, Caterina

Allora, Alessandro Giuseppe

Allora, Giuseppe

Alpes-de-Haute-Provence (Francia)

Alpi

Alpi Cozie

Alpi Marittime

Amadei, Angelo

Amedeo-Savio, Maria

Archivio di Stato (Torino)

Argentera (Cuneo)

Argentero, Giovanni

Ariccio, Francesco

Ariccio, Francesco Alberto

Armeria Reale (Torino)

Artico, Filippo

Artiglia, Giacomo

Aubry, Joseph

Avigliana (Torino)

Ballatore, Luigi

Barbaroux, via (Torino)

Barbasio, fraz. di Moncucco Torinese

Bardella, fraz. di Castelnuovo Don Bosco

Baricco, Pietro

Basse di San Sebastiano (Cuneo)

Basses-Alpes (Francia)

Bausone, fraz. di Moriondo Torinese

Beauvoir, Giuseppe

Becchi, fraz. di Castelnuovo Don Bosco

Bellia, Giacomo

Beltrandi, Antonio

Benedetto crocifisso

Bernard, Claude

Bernardo da Mentone, santo

Bersezio, fraz. di Argentera (Cuneo)

Bertino, Stefano

Besucco, Anna, sorella

Besucco, Filomena, sorella

Besucco, Francesco

Besucco, Francesco Albino

Besucco, Giovannni Giuseppe, fratello

Besucco, Maria, sorella

Besucco, Matteo, fratello

Besucco, Matteo, padre

Besucco, Valentina, sorella

Biancardi, Giuseppe

Biandrate, conte

Biblioteca Reale (Torino)

Blanch, Francesco

Blanchi

Boncompagni, Carlo

Bonetti, Giovanni

Bongioanni, Giuseppe

Bonino, Giovanni Giacomo

Bonzanino, Carlo Giuseppe

Borgarelli-Picco, Domenica

Borgo Dora, parrocchia

Bosco, Giovanni, autore, santo

Bosco, Giuseppe, fratello di don Bosco

Bosso-Lunbat, Giovanna Maria

Botto, Francesco

Boutourline-Seyssel, Elisabetta

Bra (Cuneo)

Braido, Pietro

Bressoules, Abert

Bruno di Tornaforte, palazzo (Cuneo)

Buzzetti, Giuseppe

Cafassi, medico

Cafasso, Giuseppe, santo

Cagliero, Giovanni

Camposanto generale (Torino)

Camus, Jean-Pierre

Canalis-Ariccio, Francesco

Caresio-Massaglia, Anna Maria

Carmagnola (Torino)

Casa Savoia

Casalegno-Cugliero, Margherita

Casalis, Goffredo

Casati, Gabrio

Castello, piazza (Torino)

Castelnuovo Don Bosco (Asti)

Caviglia, Alberto

Cays, Carlo

Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele

Ceria, Eugenio

Cerreto d’Asti (Asti)

Cerruti, Francesco

Ceva (Cuneo)

Cherasco (Cuneo)

Chiara-Savio, Caterina, nonna

Chiavarino, Luigi

Chieri (Torino)

Cile

Cimborazo, monte (Ecuador)

Cinzano, Antonio Pietro

Cinzano, Giovanni

Cocchis, Leone

Col de Larche (Francia)

Colle della Maddalena (Cuneo)

Collegio-Convitto S. Filippo Neri (Lanzo Torinese)

Collegio-Seminario S. Carlo (Mirabello Monferrato)

Colombero, Giacomo

Comollo, Luigi

Compagnia del SS. Sacramento

Compagnia dell’Immacolata Concezione

Compagnia delle Guardie del Corpo di Sua Maestà

Compagnia di S. Luigi

Comunione eucaristica

Concepción (Cile)

Concilio di Trento

Conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli

Confessione, sacramento

Confraternita dei Disciplinati

Congregazione Salesiana

Convitto ecclesiastico (Torino)

Cordigliera della Ande

Corpus Domini, festa

Corte-Cinzano, Maria

Cortellazzo, Manlio

Crimea (Ucraina)

Cudini, Piero

Cugliero, Antonio

Cugliero, Giuseppe Giovanni

Cuneo (Italia)

Deambrogio, Luigi

Dedieu, Jean

Della Chiesa, Agostino

Demonio

Dio Padre

Drec, pascolo

Duina, Antonio

Durando, Celestino

Ecuador

Emilia, via (Italia)

Enchastraye, monte

Entraque (Cuneo)

Ercole

Erode

Errante, Josephine

Eucaristia, sacramento

Europa

Eyzautier, Giovanni Stefano

Fascio [Fassio], Gabriele

Fassino, Gianpaolo

Ferrero-Rua, Giovanna Maria

Ferriere, fraz. di Argentera (Cuneo)

Filippo Neri, santo

Firenze

Flores Arcas, Juan Javier

Forbin-Janson (de), Charles

Francesco di Sales, santo

Francesia, Giacomo

Francesia, Giovanni Battista

Francia

Fransoni, Luigi

Fratelli delle Scuole Cristiane

Gaiato, Giuseppe, nonno di Domenico Savio

Gaiato-Savio, Brigida, madre di Domenico

Galleano, Matteo

Gastaldi, Lorenzo

Gastini, Carlo

Gavio, Carlo Giuseppe (Camillo)

Gesso, torrente

Gesù Bambino

Gesù Cristo

Gianoglio, Giovanni Battista, padrino di Domenico Savio

Giaveno (Torino)

Giobbe

Giovane provveduto

Giovelli, Sebastiano

Giraudi, Fedele

Giraudo, Aldo

Giuseppe, figlio di Giacobbe

Giuseppe, santo

Gonella, Marco

Grangie, fraz. di Argentera (Cuneo)

Grassi, Domenico

Grosso-Pepino, Anna Biagia, madrina di Francesco Besucco

Guardinfanti, via (Torino)

Immacolata Concezione di Maria, festa

Immacolata Concezione, parrocchia (Marmorito)

Inghilterra (Regno Unito)

Istituto dei ciechi (Torino)

Istituto della Carità

Italia

Juvarra, Filippo

Keble, John

Kempis (da), Tommaso

La Marmora, Alessandro

Lanzo Torinese (Torino)

Lemoyne, Giovanni Battista

Leonardo da Porto Maurizio, santo

Letture cattoliche, collana editoriale

Limone Piemonte (Cuneo)

Luigi Gonzaga, santo

Lusso-Zucca, Maria Caterina

Madona della Neve, chiesa (Marmorito)

Madonna del Rosario, festa

Magone, Giovanni, padre

Magone, Michele Giovanni

Magone, Michele, padrino di Michele

Magris, Claudio

Mamardi, Francesco

Mantellino, Giacomo

Manzini, Clemente

Marboinet, fraz. di Larche (Francia)

Marcato, Carla

Marcellino, Luigi

Marco, santo

Maria Ausiliatrice

Maria Ausiliatrice, chiesa (Torino)

Maria Immacolata

Maria Maddalena, santa

Maria Vergine

Marmorito (Asti)

Marsiglia (Francia)

Martini, Aurelio

Martino, santo

Masero-Francesia, Domenica

Massaglia, Giovanni Celestino Filippo

Massaglia, Pietro

Mato Grosso (Brasile)

Metropolitana, chiesa (Torino)

Meyronnes (Francia)

Michele, arcangelo

Milanesio, Domenico

Milano

Ministero della Guerra

Ministro di Grazia e di Giustizia

Mirabello Monferrato (Alessandria)

Moiso, Beppe

Molineris, Michele

Momo, Giuseppe

Moncucco Torinese (Asti)

Mondonio (Asti)

Moreno, Luigi

Morialdo, fraz. di Castelnuovo Don Bosco

Moriondo Torinese (Torino)

Motto, Francesco

Mussa, Luigi

Nancy (Francia)

Nevissano, fraz. di Castelnuovo Don Bosco

Newman, John Henry, beato

Notta, Giovanni Battista

Oblati di Maria Vergine

Occhiena, Margherita

Occhiena, Marianna

Olio Santo (Unzione degli infermi)

Ollagnier, Giusto

Opera pia della devozione a Maria SS.

Oratorio di S. Francesco di Sales (Torino)

Oratorio di S. Giuseppe (Torino)

Oratorio di S. Luigi (Torino)

Oratorio di S. Martino (Torino)

Oserot, monte (Cuneo)

Oxford (Regno Unito)

Palazzo del Governo (Torino)

Palazzo Madama (Torino)

Palazzo Reale (Torino)

Paraguay

Parlamento Subalpino

Passerano-Marmorito (Asti)

Pastorello (Il) delle Alpi

Patagonia (Argentina)

Pautassi [Pautasso], Carlo

Pecetto Torinese (Torino)

Pecora Sambucana [o Demontina]

Pepino, Francesco

Pepino, Giovanni

Perrenchio, Fausto

Perù

Petrarca Francesco

Pettiva, Secondo

Pia Opera della Santa Infanzia

Pia Società Salesiana (vedi: Congregazione Salesiana)

Piano, Giovanni Battista

Picco, Francesco

Picco, Matteo

Piccolo Clero

Piemonte (Italia)

Pietraporzio (Cuneo)

Pinardi, casa

Pinardi, tettoia

Pino Torinese (Torino)

Pio IX, papa, beato

Podio, fraz. di Pino Torinese

Pontebernardo, fraz. di Pietraporzio (Cuneo)

Porta Decumana (Torino)

Porta Nuova, oratorio

Porta Nuova, stazione (Torino)

Porto Maurizio (Imperia)

Préfecture du Département de la Stura (Cuneo)

Prellezo, José Manuel

Provvidenza divina

Quarant’ore

Quentin, Henri

Raeano, Giuseppe

Ramello, Giuseppe

Ranello, fraz. di Castelnuovo Don Bosco

Rattazzi, Urbano

Reviglio, Felice

Rio Colorado, fiume (Argentina)

Rio Negro, fiume (Argentina)

Riva presso Chieri (Torino)

Robert-Besucco, Rosa, madre di Francesco

Roburent, colle

Rocca dei Tre Vescovi (Rocher des Trois Évêques), monte

Rocchietti, Giuseppe

Rocco, santo

Rodinò, Amedeo

Roetto, Antonio

Roma

Romano, Giovanni

Rosario, preghiera

Rosmini, Antonio, beato

Rua, Giovanni

Rua, Luigi Tommaso

Rua, Michele, beato

Ruffino, Domenico

Ruffino, Michele

Sacro Cuore di Gesù

Sacro Cuore, chiesa (Roma)

Saluzzo (Cuneo)

Sambuco (Cuneo)

San Francesco di Sales, chiesa (Torino)

San Giorgio Canavese (Torino)

San Lorenzo, chiesa (Torino)

San Salvario, quartiere (Torino)

Sant’Agostino, parrocchia (Torino)

Sant’Agostino, via (Torino)

Santa Barbara, chiesa (Torino)

Santa Cruz (Argentina)

Santi Pietro e Paolo, parrocchia (Argentera)

Santi Pietro e Paolo, parrocchia (Carmagnola)

Santissimo Sacramento

Sassari (Italia)

Savigliano (Cuneo)

Savio, Angelo

Savio, Ascanio

Savio, Carlo Baldassarre, padre

Savio, Carlo, fratello di Domenico

Savio, Carlo, padre di Angelo

Savio, Caterina, sorella

Savio, Domenico Carlo, fratello

Savio, Domenico Giuseppe, santo

Savio, Domenico, nonno

Savio, Giovanni, fratello

Savio, Guglielmo, fratello

Savio, Luigia, madrina di Domenico Savio

Savio, Luigia, sorella

Savio, Maria, sorella

Savio, Remondina, sorella

Savio, Teresa, sorella

Savoia-Acaja, famiglia reale

Scanavino-Turchi, Giuseppina

Sebastiano, santo

Semeraro, Cosimo

Settime d’Asti (Asti)

Seyssel d’Aix, Claudio

Signora, monte

Simeone, santo

Sindoni, Angelo

Sinistrero, Vincenzo

Società Salesiana (vedi: Congregazione salesiana)

Sodi, Manlio

Sommariva del Bosco (Cuneo)

Spirito Santo

Spoon River

Stefani, Gugliemo

Stella, Paolina madrina di Michele Magone

Stella, Pietro

Stella-Magone, Giovanna Maria, madre di Michele

Storia d’Italia

Storia ecclesiastica

Stura di Demonte, fiume

Tanaro, fiume

Teatro Regio (Torino)

Terrone, Luigi

Tête de l’Enchastraye

Torino

Tortona (Alessandria)

Tosino-Gaiato, Teresa, nonna di Domenico Savio

Tosti, Mario

Toul (Francia)

Triacca, Achille Maria

Tuninetti, Giuseppe

Turchi, Domenico

Turchi, Giovanni Rocco

Università degli Studi (Torino)

Unzione degli infermi, sacramento

Usseglio-Garin, Giorgia

Vacchetta, Giuseppe

Vairo-Allora, Irene

Val d’Ubaye (Francia)

Valdocco, quartiere (Torino)

Valentini, Eugenio

Valfrè [Valfredo], Carlo

Valfré [Valfredo], Giovanni

Vallauri, Francesco

Vallauri, Pietro

Vallauri, Rosa

Valle della basse Alpi

Valle Stura (Cuneo)

Vallecrosia (Imperia)

Vallon de Larche (Francia)

Vallone di Rio Roburent (Cuneo)

Valorso, Antonio

Valorso, Giovanni Battista

Valorso, Matteo

Valorso, Stefano

Vanchiglia, oratorio

Vanchiglia, quartiere (Torino)

Vanclava, monte

Vaschetti, Francesco

Vaschetti, Paolo

Vaschetti, Pietro

Veneto (Italia)

Via Crucis

Viatico

Vibò, Michele Antonio

Villafranca Piemonte (Torino)

Vita del giovanetto Savio Domenico

Vittozzi, Ascanio

Volante, Francesco

Zattini, Agostino

Zucca, Giovanni Battista

Zucca, Giuseppe Antoni

o



Indice generale

Giovanni Bosco1

Le biografie di Domenico Savio, Michele Magone e Francesco Besucco1

Maestri e discepoli in azione3

1. Importanza3

2. Il contesto storico delle “Vite”: un periodo fecondo per l’opera di don Bosco 5

2.1. La ricerca di collaboratori fidati5

2.2. Gli sviluppi della casa annessa all’Oratorio6

2.3. La nascita di una Congregazione di educatori8

3. Per chi scrive don Bosco?9

3.1. «Giovani carissimi»9

3.2. Educatori e pastori10

4. L’indole del lavoro di don Bosco11

4.1. Il genere letterario11

4.2. L’uso delle fonti 13

4.3. Il testo e le sue parti 15

5. Chiavi interpretative 17

5.1. I percorsi di lettura suggeriti dall’Autore18

5.2. L’osservazione di don Bosco in azione20

6. Invito alla lettura22

Bibliografia23

Criteri di edizione25

Abbreviazioni27

Giovanni Bosco29

Nota introduttiva al testo30

CAPO I32

Patria - Indole di questo giovine - ­Suoi primi atti di virtù32

CAPO II34

Morale condotta tenuta in Morialdo - Bei tratti di virtù - Sua frequenza alla scuola di quella borgata34

CAPO III35

È ammesso alla prima comunione - Apparecchio - Raccoglimento e ricordi di quel giorno35

CAPO IV36

Scuola di Castelnuovo d’Asti - Episodio edificante - Savia risposta ad un cattivo consiglio36

CAPO V39

Sua condotta nella scuola di Castelnuovo d’Asti - Parole del suo maestro39

CAPO VI40

Scuola di Mondonio () - Sopporta una grave calunnia40

CAPO VII42

Prima conoscenza fatta di lui - Curiosi episodi in questa congiuntura42

CAPO VIII43

Viene all’Oratorio di S. Francesco di Sales - Suo primo tenore di vita43

CAPO IX45

Studio di latinità - Curiosi incidenti - Contegno nella scuola - Impedisce una rissa - Evita un pericolo45

CAPO X48

Sua deliberazione di farsi santo48

CAPO XI49

Suo zelo per la salute delle anime49

CAPO XII51

Episodi e belle maniere di conversare coi compagni51

CAPO XIII53

Suo spirito di preghiera - Divozione verso la Madre di Dio - Il mese di Maria53

CAPO XIV55

Sua frequenza ai santi sacramenti della confessione e comunione55

CAPO XV57

Sue penitenze57

CAPO XVI58

Mortificazioni in tutti i sensi esterni58

CAPO XVII60

La compagnia dell’Immacolata Concezione60

CAPO XVIII64

Sue amicizie particolari — Sue relazioni col giovane Gavio Camillo64

CAPO XIX66

Sue relazioni col giovane Massaglia Giovanni66

CAPO XX69

Grazie speciali e fatti particolari69

CAPO XXI71

Suoi pensieri sopra la morte, e sua preparazione a morir santamente71

CAPO XXII72

Sua sollecitudine per gli ammalati - Lascia l’Oratorio - Sue parole in tale occasione72

CAPO XXIII73

Dà l’addio ai suoi compagni73

CAPO XXIV74

Andamento di sua malattia - Ultima confessione, riceve il Viatico - Fatti edificanti74

CAPO XXV76

Suoi ultimi momenti e sua preziosa morte76

CAPO XXVI78

Annunzio di sua morte - Parole del prof. D. Picco ai suoi allievi78

CAPO XXVII81

Emulazione per la virtù del Savio - Molti si raccomandano a lui per ottenere celesti favori, e ne sono esauditi - Un ricordo per tutti81

Giovanni Bosco85

Nota introduttiva al testo86

CAPO I88

Curioso incontro88

CAPO II90

Sua vita precedente e sua venuta all'Oratorio di S. Francesco di Sales90

CAPO III92

Difficoltà e riforma morale92

CAPO IV94

Fa la sua confessione e comincia a frequentare i santi sacramenti94

CAPO V95

Una parola alla gioventù95

CAPO VI97

Sua esemplare sollecitudine per le pratiche di pietà97

CAPO VII99

Puntualità nei suoi doveri99

CAPO VIII101

Sua divozione verso la B. Vergine Maria101

CAPO IX102

Sua sollecitudine e sue pratiche per conservare la virtù della purità102

CAPO X104

Bei tratti di carità verso del prossimo104

CAPO XI106

Fatti e detti arguti di Magone106

CAPO XII108

Vacanze di Castelnuovo d’Asti — Virtù praticate in quella occasione108

CAPO XIII110

Sua preparazione alla morte110

CAPO XIV113

Sua malattia e circostanze che l’accompagnano113

CAPO XV114

Suoi ultimi momenti e sua preziosa morte114

CAPO XVI117

Sue esequie; ultime rimembranze; conclusione117

Giovanni Bosco121

Nota introduttiva al testo122

CAPO I124

Patria - Genitori - Prima educazione del giovane Besucco124

CAPO II125

Morte della madrina - Affetto alle cose di chiesa - Amore alla preghiera125

CAPO III127

Sua obbedienza - Un buon avviso - Lavora la campagna127

CAPO IV128

Episodi e condotta di scuola128

CAPO V129

Vita di famiglia - Pensiero notturno129

CAPO VI130

Besucco e il suo parroco - Detti - Pratica della confessione130

CAPO VII132

La santa messa - Suo fervore - Conduce il gregge sulle montagne132

CAPO VIII134

Conversazioni - Contegno in chiesa - Visite al SS. Sacramento134

CAPO IX136

Il benedetto crocifisso - La corona del rosario - La presenza di Dio136

CAPO X137

Fa il catechismo - Il giovane Valorso137

CAPO XI137

La santa infanzia - La Via Crucis - Fuga dei cattivi compagni137

CAPO XII139

La prima comunione - Frequenza a questo sacramento139

CAPO XIII140

Mortificazioni - Penitenze - Custodia dei sensi - Profitto nella scuola140

CAPO XIV141

Desiderio e deliberazione di recarsi all’Oratorio di S. Francesco di Sales141

CAPO XV143

Episodi e viaggio a Torino143

CAPO XVI144

Tenore di vita nell’Oratorio - Primo trattenimento144

CAPO XVII145

Allegria145

CAPO XVIII146

Studio e diligenza146

CAPO XIX148

La confessione148

CAPO XX149

La santa comunione149

CAPO XXI150

Venerazione al SS. Sacramento150

CAPO XXII151

Spirito di preghiera151

CAPO XXIII152

Sue penitenze152

CAPO XXIV154

Fatti e detti particolari154

CAPO XXV155

Sue lettere155

CAPO XXVI158

Ultima lettera - Pensieri alla madre158

CAPO XXVII160

Penitenza inopportuna e principio di sua malattia160

CAPO XXVIII161

Rassegnazione nel suo male - Detti edificanti161

CAPO XXIX163

Riceve il viatico - Altri detti edificanti - Un suo rincrescimento163

CAPO XXX164

Riceve l’Olio santo - Sue giaculatorie in questa occasione164

CAPO XXXI165

Un fatto meraviglioso - Due visite - Sua preziosa morte165

CAPO XXXII167

Suffragi e tumulazione167

CAPO XXXIII168

Commozione in Argentera e venerazione per il giovane Besucco168

CAPO XXXIV169

Conclusione169

Appendice sopra il benedetto crocifisso169

1. Breve ristretto della vita di Savio Domenico173

2. Fatti e detti del Savio Domenico 173

3. Lettera del chierico Angelo Savio175

4. Cenni sulla vita di Michele Magone qui morto il 21 Gennaio 1859176

5. Lettera del parroco di Argentera a Francesco Besucco177

6. Testimonianza di don Domenico Ruffino179



1


Vita del giovanetto Savio Domenico allievo dell’Oratorio di san Francesco di Sales, per cura del sacerdote Bosco Giovanni, Torino, Tip. G. B. Paravia e Comp., 1859, 142 p. (e altre 5 edizioni curate dall’autore: 21860; 31861; 41866; 51878; 61880); Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele allievo dell’Oratorio di S. Francesco di Sales per cura del sacerdote Bosco Giovanni Torino, Tip. G. B. Paravia e Comp., 1861, 96 p. (con altra ed. curata dall’autore: 21866); Il pastorello delle Alpi ovvero vita del giovane Besucco Francesco d’Argentera pel sacerdote Bosco Giovanni, Torino, Tip. dell’Orat. di S. Franc. di Sales, 1864, 192 p. (con altra ed. curata dall’autore: 21878).

2 Pietro Braido, Il sistema preventivo di don Bosco, 2 edizione, Zürich, Pas-Verlag, 1964, 58.

3 Alberto Caviglia, Savio Domenico e don Bosco. Studio, in Opere e scritti editi e inediti di don Bosco nuovamente pubblicati e riveduti secondo le edizioni originali e manoscritti superstiti, vol. IV, Torino, Società Editrice Internazionale, 1943, 5-590; Id., Il “Magone Michele una classica esperienza educativa. Studio, «Salesia­num» 11 (1949) 451-481, 588-614 (ripubblicato in Opere e scritti editi e inediti di don Bosco, vol. V, Torino, Società Editrice Internazionale, 1965, 131-200); Id., Un documento inesplorato. La Vita di Besucco Francesco scritta da Don Bosco e il suo contenuto spirituale, «Salesianum» 10 (1948) 103-113, 257-287, 641-672; 11 (1949) 122-145, 288-319 (ripubblicato in Opere e scritti editi e inediti di don Bosco, vol. VI, Torino, Società Editrice Internazionale, 1965, 105-262). Sulla figura e l’opera scientifica del Caviglia cf. Cosimo Semeraro, Don Alberto Caviglia (1868-1943): i documenti e i libri del primo editore di don Bosco tra erudizione storica e spiritualità pedagogica, Torino, Società Editrice Internazionale, 1994.

4

Sulle edizioni le traduzioni e l’influsso della Vita di Domenico Savio, cf. José Manuel Prellezo, La “Vita” di Domenico Savio scritta da don Bosco nella storiografia salesiana (1859-1954), in Domenico Savio raccontato da don Bosco. Riflessioni sulla “Vita”. Atti del Simposio (Università Pontificia Salesiana, Roma, 8 maggio 2004), a cura di A. Giraudo, Roma, LAS, 2004, 61-102.

5 Joseph Aubry, Domenico, Michele, Francesco: tre figure di santi adolescenti, in G. Bosco, Scritti spirituali. Introduzione, scelta dei testi e note a cura di J. Aubry, Roma, Città Nuova, 1988, 109.

6 Pietro Braido, Don Bosco prete dei giovani nel secolo delle libertà, 3 edizione corretta e ritoccata, Roma, LAS, 2009, vol. I, 556.

7 Ibid., I, 556.

8 Caviglia, La Vita di Besucco Francesco scritta da Don Bosco, in Opere e scritti editi e inediti di don Bosco, VI, 16.

9 Ibid., 17.

10 Cf. AST Grande Cancelleria m. 259/1 n. 1370: domanda di sussidio pei chierici dell’Oratorio, ms. Bosco, 1 mag. 1851.

11 Il decreto di nomina è riportato in Giovanni Bosco, Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales dal 18915 al 1855. Saggio introduttivo e note storiche a cura di A. Giraudo, Roma, LAS, 2011, 218.

12 Leggiamo in una memoria del 1854 «1853. Il corpo di casa rovinato [2 dicembre 1852] è rialzato: si compie, si stabilisce la maggior parte e nel mese di ottobre viene abitato. Il locale nuovo permette che i dormitori, il refettorio dei giovani ricoverati siano meglio regolarizzati. Il loro numero monta a 65», in Giovanni Bosco, Cenno storico dell’Oratorio di S. Francesco di Sales [1854], in Pietro Braido (ed.), Don Bosco educatore. Scritti e testimonianze, Roma, LAS, 1992, 132.

13 Col decollo delle Letture cattoliche, nel 1854 viene aperta la legatoria di libri; nel 1856 la falegnameria; nel 1862 la tipografia, il laboratorio di fonderia dei caratteri e il laboratorio dei fabbri-ferrai (Fedele Giraudi, L’Oratorio di don Bosco. Inizio e progressivo sviluppo edilizio della Casa madre dei Salesiani in Torino, Torino, SEI, 1935, 152-153).

14 In agosto, in piena epidemia di colera, don Bosco aveva scritto al sindaco della città: «Debbo fare una considerevole provvista di lenzuola, coperte, camicie a fine di conservare la debita pulizia ad ottantotto giovani, tale è il numero dei ricoverati nella casa annessa all’Oratorio maschile di Valdocco», lett. G. Bosco - G.B. Notta, 5 ago. 1853, in Giovanni Bosco, Epistolario. Introduzione, testi critici e note a cura di Francesco Motto, I: (1835-1863), Roma, LAS, 1991, 229. In base alle registrazioni conservate in archivio si può ritenere «con certezza che fino al 1856 i giovani accettati ciascun anno non superarono il centinaio; non superarono i duecento fino al 1859; oscillarono tra i 257 (1854) e i 412 (1867) nel periodo 1860-1869» (Pietro Stella, Don Bosco nella storia economica e sociale, 1815-1870, Roma, LAS, 1980, 178).

15 I versetti dipinti sui pilastri si riferivano ai dieci comandamenti; quelli inseriti nelle nove lunette degli archi costituivano quasi una catechesi sul sacramento della penitenza. Nel 1965 le scritte furono sostituite da lapidi in marmo con citazioni scritturistiche in parte diverse dalla antiche, che possono essere lette in MB 5, 542-547; cf. Fausto Perrenchio, L’utilizzazione della Bibbia da parte di don Bosco nell’educazione dei giovani alla fede, in «Bollettino di collegamento dell’Associazione Biblica Salesiana» n. 10 (1993) 159-165.

16 A seguito della riforma scolastica Boncompagni (Regio decreto del 4 ott. 1848, in Raccolta degli atti del Governo di S. M. il Re di Sardegna 1848, Torino, Stamperia Reale, vol. 16/II, 937-966) si era portato il corso elementare a 4 anni (due classi inferiori e due classi superiori) e si era modificato l’ordinamento delle scuole di latinità ordinandole in un triennio di grammatica latina e composizione italiana, un biennio di retorica latina e italiana, e un biennio di filosofia. Con la riforma Casati (Regio decreto del 13 nov. 1859, in Raccolta degli atti del Governo di S.M. il Re di Sardegna 1859, vol. 28/III, 1903-1988) la scuola secondaria classica venne divisa in due gradi, il primo di cinque anni chiamato ginnasio (aa. 194-198), il secondo di due anni chiamato liceo (aa. 199-200); si previde anche la gestione dell’istruzione da parte di privati cittadini sotto una duplice figura giuridica: il ginnasio privato (aa. 246-250) e la scuola paterna (aa. 250-253), «prosciolta da ogni vincolo d’ispezione per parte dello Stato» (aa. 251): nella mente e nella prassi di don Bosco, quella di Valdocco era, nei primi anni, più scuola paterna che ginnasio privato (cf. Braido, Don Bosco prete dei giovani, I, 56).

17 Cf. Braido, Don Bosco prete dei giovani, I, 309.

18 Cf. ibid., I, 349.

19 Giovanni Bosco, Cenni storici intorno all’Oratorio di S. Francesco di Sales [1862], in Braido (ed.), Don Bosco educatore, 147.

20 Bosco, Cenni storici intorno all’Oratorio, 150. Uno dei primi manoscritti del Regolamento elenca anche le condizioni di ammissione degli studenti: «Niuno è ammesso a studiare: 1° Se non ha una speciale attitudine allo studio, e che nelle classi percorse abbia primeggiato; 2° Abbia un certificato di eminente pietà. Le quali due condizioni dovranno essere comprovate da una buona condotta qualche tempo tenuta nella casa dell’Oratorio; 3° Niuno è ammesso a studiare il latino se non ha volontà di abbracciare lo stato ecclesiastico; lasciandosi però libero di seguire la sua vocazione compiuto il corso di latinità» (ASC D4820205: Piano di regolamento per la casa annessa all’Oratorio di S. Francesco di Sales. Appendice per gli studenti, ms. s.d., 17).

21 Don Bosco, per esempio, in quegli anni pubblicava nelle Letture cattoliche l’ultra reazionario Catechismo cattolico sulle rivoluzioni del gesuita Serafino Sordi (Torino, Tip. P. De-Agostini, 1854) e, in occasione delle leggi di soppressione, un battagliero pamphlet, I beni della Chiesa: come si rubino e quali siano le conseguenze, del Barone di Nilinse. Con breve appendice sulle vicende particolari del Piemonte (Torino, Tip. Ribotta, 1855); inoltre, ne La forza della buona educazione, descriveva le avventure di un antico allievo dell’Oratorio valoroso combattente nella guerra di Crimea (Torino, Tip. Paravia e comp., 1855). Sono opuscoli che Domenico Savio aveva letto, poiché possedeva l’intera annata 1854-55 delle Letture cattoliche, come risulta da una lista di libri autografa che ancora si conserva (cf. ASC A4920108: Nota dei libri di Savio Domenico, ms. aut. s.d. [1856]).

22 ASC A4630102: ms Rua s.d.

23 Besucco ne fa cenno in una lettera al parroco, cf. ASC A1010903: lett. F. Besucco - F. Pepino, 23 nov. 1863, f2v.

24 Paolo Albera, Lettera intorno a don Bosco proposto a modello dei salesiani nell’acquisto della perfezione religiosa, nell’educare e santificare la gioventù, nel trattare col prossimo, nel far del bene a tutti, 24 ott. 1920, in ACS 1 (1920) 65.

25 Cf. Regio decreto del 13 nov. 1859, aa. 246-250, 355-356, in Raccolta degli atti del Governo, vol. 28/III, 1958-1960, 1983.

26 La classificazione è data nel corso della testimonianza resa 20 novembre 1893 ai processi di beatificazione di don Bosco, cf. Copia publica transumpti processus ordinaria auctoritate constructi in curia ecclesiastica taurinensi super fama sanctitatis vitae, virtutum et miraculorum servi Dei Joannes Bosco sacerdotis fundatoris Piae Societatis Salesianae, vol. III, anno 1899, f1385v (il documento è conservato nell’Archivio del Postulatore, presso la Direzione Generale Opere Don Bosco, Roma).

27 Sulla personalità e l’opera di F. Cerruti cf. José Manuel Prellezo, Introduzione, in Francesco Cerruti, Lettere circolari e programmi di insegnamento (1885-1917). Introduzione, testi critici e note a cura di J.M. Prellezo, Roma, LAS, 2006, 7-42.

28 Savio, prologo. L’invito è ripreso nella perorazione conclusiva: «Ora, o amico lettore, […] vorrei che venissi meco ad una conclusione […], vorrei cioè che ci adoperassimo con animo risoluto ad imitare il giovane Savio in quelle virtù che sono compatibili col nostro stato» (ibid., c. XXVII).

29 Pietro Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica. I: Vita e opere, Roma, LAS, 1968, 235.

30 Claudio Magris, L’infinito viaggiare, Milano, Mondadori, 2005, 20-21.

31 Pietro Stella, Per una storia dell'agiografia in età contemporanea. Il “giovanetto Savio Domenico” (1859) di san Giovanni Bosco, in Vita religiosa, problemi sociali e impegno civile dei cattolici. Studi storici in onore di Alberto Monticone, a cura di Angelo Sindoni e Mario Tosti, Roma, Editrice Studium, 2009, 167.

32 Caviglia, La vita di Savio Domenico scritta da don Bosco, in Opere e scritti editi e inediti di don Bosco, IV, xxxix.

33 Savio, prologo.

34 Magone, prologo.

35 «Per il tempo che il giovane Besucco visse in patria, mi sono tenuto alla relazione trasmessami dal suo parroco, dal suo maestro di scuola, e dai suoi parenti ed amici. […] Per il tempo che visse tra noi ho procurato di raccogliere accuratamente le cose avvenute in presenza di mille testimoni oculari: cose tutte scritte e firmate da testimonii degni di fede» (Besucco, prologo).

36 Pietro Stella, Il modo di lavorare di don Bosco, in Domenico Savio raccontato da don Bosco, 2004, 22.

37 Cf. ASC A4920131: lett. A. Allora - G. Bosco, 25 ago. 1857.

38 «Avendolo io un giorno rimproverato aspramente per una mancanza di cui era stato a torto accusato, esso soffrì ogni cosa pazientemente non proferì parola e come se fosse stato realmente colpevole non si scolpò, portando in pace la correzione pel supposto fallo, quale venne poscia a cognizione mia esser stato commesso da altro suo condiscepolo», ASC A4920129: lett. G. Cugliero - G. Bosco, 19 apr. 1857, f2r-v; cf. Savio, c. VI.

39 Cf. ASC, A4920138: Memorie su Domenico Savio, ms. Rua s.d., f1r.

40 ASC A4920130: lett. G.B. Zucca - G. Bosco, 5 mag. 1857, f1r.

41 «Interrogato da me una volta, che il vedeva mesto, perché non favellasse volentieri mi rispose che si sentiva colpito da sì forti dolori di capo che sembrava avesse due coltelli fitti nelle tempie; ma che sopportava questo male con pazienza affinché questa unita ai meriti del Signore nostro Gesù Cristo gli acquistasse il Paradiso. Che Gesù assai più di lui aveva sofferto senza querelarsi» (ASC A4920134: Alcune notizie su Savio Domenico, ms. Reano s.d., f1v).

42 La notizia per noi è interessante perché ci aiuta a capire per capire il clima familiare che si viveva nella casa dell’Oratorio: «Si alzò qualche volta dal letto, ed io una volta il trovai presso al fuoco nella stanza di Magna [dialettale per zia: Marianna Occhiena] la quale gemeva e si lamentava alquanto. Egli benché di età così minore non lasciò di rimproverarla della poca pazienza nel sopportare il male» (ibid., f2r).

43 Le testimonianze coeve dei compagni Giovanni Bonetti, Angelo Savio, Paolo Vaschetti, Giusto Ollagnier, Giuseppe Reano, Antonio Duina, Celestino Durando, Antonio Roetto, Luigi Marcellino e Giovanni Battista Piano sono conservate in ASC A492.

44 Cf. Jean Bosco, Saint Dominique Savio 1842-1857. Introduction, traduction et notes de F. Desramaut, Paris, Apostolat des Editions-Ed. Paulines, 1978, 10-12.

45 «Era ella coricata in letto in compagnia delle due sue figlie nubili Valentina e Maria, abbandonata ad un sonno affannoso per l’estrema afflizione che la tormentava, quando le parve sentir cantare queste precise parole, ma con un’armonia soave oltre ogni dire: Caro figlio, re del ciel, tanto bel, grazioso giglio. Sentite queste parole ella vi ragionò sopra in questo modo: “Caro figlio, e che vuol dire questa voce, è voce di una figlia? no, se dice caro figlio, re del Ciel, è tuo figlio, è Franceschino, dunque se è re del Ciel egli è salvo. Mio Dio, se il mio figlio è salvo, e sì perché è re del Ciel, vi prego di alleviarmi il mio insopportabile mal di stomaco, altrimenti men muoio”. Detto fatto, da quell’istante cessò la pia genitrice di Francesco, Rosa Robert, il suo mal di stomaco che minacciava terribili conseguenze, riacquistò una perfetta tranquillità con cui essa e la famiglia si rassegnano alla volontà di Dio. E qui per maggior intelligenza della visione debbo notare, che la madre del nostro Francesco essendo dell’Arches cantone Marboinet non sa leggere l’italiano, e m’assicura che mai poté imparare una strofa di lode in italiano, e tanto meno la predetta, solo avendola sentita canterellare qualche volta da Francesco come lo asserirono le sorelle» (ASC A2280701: Vita del pio giovanetto Besucco Francesco, ms. F. Pepino, con annotazioni aut. di don Bosco, s.d. [gen.-feb. 1864], 21-22).

46 «Occasione favorevole finora non si presentò a D. Blanchi dell’Ospizio in Cuneo di spedirmi il depositato fardello del sempre più caro Francesco Besucco, il quale il lunedì dopo la festa dell’Ascensione chiaramente sul far dell’alba disse al suo padre: Padre mio caro, mandate a prendere il mio fardello in Cuneo, ove trovasi da tre giorni, dopo le quali parole il padre provò una contentezza inesprimibile che manifestò alla famiglia. Nel leggere a Valentina sorella di Francesco la lettera in cui D. Blanchi avvertivami del deposito ricevuto, mi venne comunicata la detta visione che esaminate le circostanze credo esatta» (ASC A1010912: lett. F. Pepino - G. Bosco, 6 giu. 1864, f1r).

47 Cf. Besucco, c. XXXIII.

48 Cf. la testimonianza dell’infermiere di Valdocco (ASC A1010913: lett. I. Mamardi - G. Bosco, s.d. [gen. 1864]), l’articolata relazione di don Domenico Ruffino (ASC A1010915: Relazione intorno a Besucco Francesco, ms Ruffino, s.d. [gen.-feb. 1864]) e la raccolta di testimonianze dei coetanei fatta attraverso il compagno Francesco Botto (ASC A1010917: lett. F. Botto - G. Bosco, 21 gen. 1864).

49 Cf. ASC, A1230106/7: relazioni s.d. di Matteo Galleano, e di altro compagno anonimo.

50 Cf. ASC, A2320101: In morte di Michele Magone di Carmagnola, ms Zattini, 23 feb. 1859.

51 Caviglia, Il “Magone Michele”, una classica esperienza educativa, in Opere e scritti editi e inediti di don Bosco, V, 132.

52 Cf. Pietro Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, vol. III: La canonizzazione (1888-1934), Roma, LAS, 1988, 211-224.

53 Ibid., 218, che sintetizza la replica di Alberto Caviglia alle obiezioni del Quentin.

54 Braido, Don Bosco prete dei giovani, I, 327.

55 Savio, prologo.

56 Ibid., c. XXVII.

57 Cf. Magone, prologo.

58 Ibid., prologo.

59 Besucco, prologo.

60 Ibid., c. XXII.

61 Savio, c. XXVI.

62 Ibid., c. XXVII; questo messaggio sarà rinforzato dalla II ed. in poi, con l’aggiunta della corposa Appendice di grazie ottenute da Dio ad intercessione di Savio Domenico.

63 Un esempio di lettura pedagogica di questo tipo è offerto da Carlo Nanni, Destinazione educativa, convinzioni pedagogiche e idea di educazione. Lettura pedagogica della “Vita”, in Domenico Savio raccontato da don Bosco, 155-176.

64 Savio, prologo.

65 Ibid., c. XXVII.

66 Ibid., c. XXVII.

67 Cf. Magone, c. V.

68 Ibid., prologo.

69 Ibid., c. XVI.

70 Ibid., c. IX.

71 Besucco, prologo.

72 Cf. Magone, c. V.

73 Don Bosco lo spiega così: «Consiste questo esercizio nel pre­pararci a fare una confessione e comunione come fosse l’ultima della vita» (Savio, c. XXI).

74 «Ma prima di lasciarti partire per il paradiso vorrei incaricarti d’una commissione […]. Quando sarai in paradiso e avrai veduta la grande Vergine Maria, falle un umile e rispettoso saluto da parte mia e da parte di quelli che sono in questa casa. Pregala che si degni di darci la sua santa benedizione; che ci accolga tutti sotto la potente sua protezione, e ci aiuti in modo che niuno di quelli che sono, o che la divina Provvidenza manderà in questa casa abbia a perdersi» (Magone, c. XV).

75 «Vorrei che facessimo insieme una conclusione, che tornasse a mio e a tuo vantaggio. È certo che o più presto o più tardi la morte verrà per ambidue e forse l’abbiamo più vicina di quel che ci possiamo immaginare. È parimente certo che se non facciamo opere buone nel corso della vita, non potremo raccoglierne il frutto in punto di morte, né aspettarci da Dio alcuna ricompensa. […] Animo, o cristiano lettore, animo a fare opere buone mentre siamo in tempo; i patimenti sono brevi, e ciò che si gode dura in eterno. […] Il Signore aiuti te, aiuti me a perseverare nell’osservanza dei suoi precetti nei giorni della vita, perché possiamo poi un giorno andare a godere in cielo quel gran bene, quel sommo bene pei secoli dei secoli. Così sia» (Besucco, conclusione).

76 «La divina Provvidenza che dà lezione all’uomo col chiamare quando vecchi cadenti, quando giovanetti imberbi, ci conceda il grande favore di poterci trovare tutti preparati in quell’ultimo momento da cui dipende la beata o la infelice eternità. La grazia di nostro Signor Gesù Cristo sia il nostro aiuto nella vita, nella morte, e tenga fermi nella via che conduce al cielo» (Magone, prologo).

77 Savio, c. XXVII.

78 Ibid., c. XVIII.

79 Cf. ibid., c. VII; Magone, c. I.

80 Cf. Magone, c. II.

81 Cf. Savio, c. VIII.

82 Cf. ibid., c. X.

83 Cf. Magone, c. III e IV.

84 Cf. Besucco, c. XVII.

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30 dicembre 1856: 29 dicembre 1855; acconcie: acconce; ale: ali; alloraché: allorché; ammessione: ammissione; angiolo/i: angelo/i; Bongiovanni: Bongioanni; bricciolo: briciolo; Caffasso: Cafasso; che che: checché; cherico: chierico; colezione: colazione; cruciati: crucciati; difatto: difatti; Dreco: Drec; Eucarestia: Eucaristia; Eysautier: Eyzautier; leggiera: leggera; lenticchioso: lentigginoso; Murialdo: Morialdo; ommettere: omettere; ommetto: ometto; ommissione: omissione; parochia: parrocchia; parochiale: parrocchiale; paroco: parroco; pel che: per la qual cosa; Pietra Porzio: Pietraporzio; Ponte Bernardo: Pontebernardo; posseda: possieda; qual è: qual è; rettorica: retorica; Roburento: Roburent; Rufino: Ruffino; sabbato: sabato; Sambucco: Sambuco; scoltura: scultura; viceparoco: viceparroco.

2 abbiateli: considerateli; accostarvisi: accostarsi a qualcosa; accostossi: si accostò; adunque: dunque; affatto: interamente; aggiugnere: aggiungere; aggradendo: gradendo; al domani: il giorno successivo; ambidue: l’uno e l’altro; amendue: entrambi; anco: ancora; apparecchio: preparazione; apparisce: appare; assaissimo: moltissimo; astanti: presenti; attestare: testimoniare; auspizi: auspici; avea: aveva; avvertirneli: avvertirli di; avvi: c’è; beverete: berrete; cagionare: causare; cagione: causa; campo: spazio; cangiamento: trasformazione; cangiare: cambiare; capo: capitolo; che ti abbisogna: di che hai bisogno; colà: in quel luogo; commendevole: lodevole; commendevolissima: raccomandabile; comparisce: compare; complessione: costituzione fisica; conchiuse: concluse; copiosi: abbondanti; corpicciuolo: piccolo corpo; cotal: tale; danari: denari; dar campo: dare spazio; datore: dispensatore; debbe: deve; decorso: corso; di leggeri: facilmente; di poi: in seguito; dicea: diceva; dicevoli: convenienti; dimanda: domanda; dimandare: domandare; dimandato: domandato; dimandavano: domandavano; dimandò: domandò; dimani: domani; dimostranze: rimproveri; dipoi: in seguito; diportato: comportato; dirottissimo: incontenibile; disfogare: sfogare; dispregio: disprezzo; dissegli: gli disse; dissemi: mi disse; divoto/a: devoto/ a; divozione: devozione; domesticamente: famigliarmente; durarla: continuare così; edifizi: edifici; egli è: è; eglino: essi; era per: stava per; eziandio: anche; fa cuore: coraggio; facciasi: si faccia; facea: faceva; facezia: scherzo; faceziando: scherzando; fallo: errore; fattogli: avendogli fatto; fe’: fece; fecemi: mi fece; fecesi: si fece; fiate: volte; figliolanza: figli; figliuol: figliolo; fo: faccio; forestiere: forestiero; genitrice: madre; ginocchioni: in ginocchio; giogaie: cime; giovine: giovane; giubbetta: giacchetta; giudicio: giudizio; gratissima: piacevole; guardaronsi: si guardarono; guisa: modo; havvi: vi è; il destro: l’occasione; il sa: lo sa; il sapesse: lo sapesse; imperciocché: poiché; imperocché: poiché/infatti; impetrami: ottienimi; impreteribilmente: immancabilmente; in luogo di: invece di; indurvelo: indurlo a; inspirano: ispirano; instando: insistendo; instruiva: istruiva; interamente: totalmente; intermissione: sosta; intieramente: interamente; invigilare: vigilare; involò: rubò; ischivar: evitare; iscuola: scuola; isgridateli: sgridateli; ispaventino: spaventino; ispecial: speciale; istanchezza: stanchezza; istantemente: con insistenza; istato: stato; istiamo: stiamo; istrascini: strascini; istrumentale: strumentale; istudiare: studiare; istudio: studio; istupore: stupore; ivi: qui; lacrimare: lacrimare; lagrime: lacrime; laonde: per cui; licenza: permesso; loquela: modo di parlare; mancamento: mancanza; maraviglia/e: meraviglia/e; maravigliare: meravigliare; maraviglioso: meraviglioso; mentovate: citate; mentovato: citato; mercé cui: con i quali; mercede: ricompensa; mi avveggo: mi accorgo; minchionare: prendere in giro; mirava: guardava; nissun: nessun; nissuno: nessuno; niun: nessuno; niuno: nessuno; non … di sorta: nessuna; notabilissimo: notevolissimo; nudrì: nutrì; nulladimeno: tuttavia; nuova: notizia; offerire: offrire; offeriva: offriva; ognor: sempre; opporsegli: opporsi a lui; ottienmi: ottienimi; palesandosi: mostrandosi; palesata rivelata; parimente/i: ugualmente; parmi: mi pare; perciocché: perché; perocché: perché; poscia che: poiché; poscia: poi; potrebbesi: si potrebbe; primeggiare: essere tra i primi; proferire: dire; provasi: si prova; purità: castità; quegli: colui; raccomandarsegli: raccomandarsi a lui; raccomandossi: si raccomandò; raggiugnere: raggiungere; rammentare: ricordare; rattenendo: trattenendo; ravviso: vedo; regaluzzo: regalino; rendette: rese; replicatamente: ripetutamente; rianderemo: ripenseremo; ricordomi: mi ricordo; rimettere: restituire; rimirare: guardare; ritiratezza: vita ritirata; sanità: salute; sarebbesi: si sarebbe; scandere: scandire; scemando: diminuendo; scemare: diminuire; scorgiam: vediamo; sebben: sebbene; seco: con sé; secolui: con lui; sembiante: aspetto; si è: è; : così; siasi: si sia; siavi: vi sia; simiglianti: simili; sogliono: sono soliti; specchiata: esemplare; talor: talora; taluno: qualcuno; tenore: contenuto; tenor: modo; testimonio: testimone; tosto: subito; trar: trarre/attirare; trastullare: giocare; trastullarsi: giocare; trastullo: giuoco; triviali: ordinarie; trovossi: si trovò; uopo: scopo/fine; veggo: vedo; vegnente: successivo; vestimenta: vestiti; viemaggiormente: sempre di più; viemmeglio: meglio; vienmi: vienimi; vo: vado.

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abbandonavali: li lasciava; accomunavasi: si metteva insieme; accostavasi: si accostava; alzavasi: si alzava; ammiravasi: si ammirava; andavasene: se ne andava; avvenivagli: gli capitava; chiamavalo: lo chiamava; chiamavasi: si chiamava; dicevagli: gli diceva; dicevami: mi diceva; dispensavasi: si esimeva; eragli: gli era; erangli: gli erano; eranmi: mi erano; erasi: si era; eravi: vi era; facevagli: gli faceva; facevalo: lo faceva; facevami: mi faceva; facevansi: si facevano; facevasi: si faceva; fermavasi: si fermava; guardavansi: si guardavano; imponevasi: si imponeva; incontravasi: si incontrava; insegnavasi: si insegnava; interrogavali: li interrogava; invitavali: li invitava; lamentavasi: si lamentava; lanciavasi: si lanciava; lasciavale: le lasciava; lasciavasi: si lasciava; mettevagli: gli metteva; mettevalo: lo metteva; mostravasi: si mostrava; offerivasi: si offriva; parevagli: gli sembrava; passavagli: gli passava; pensavasi: si immaginava; pregavali: li pregava; preparavasi: si preparava; presentavasi: si presentava; prestavasi: si prestava; privavasi: si privava; raccomandavagli: gli raccomandava; raccomandavasi: si raccomandava; recavasi: si recava; recitavale: le recitava; recitavansi: si recitavano; rendevagli: gli rendeva; ricordavasi: si ricordava; rifiutavasi: si rifiutava; rimiravansi: si ammiravano; rispondevagli: gli rispondeva; ritiravasi: si ritirava; sambravami: mi pareva; scrivevagli: gli scriveva; sembravami: mi sembrava; sentivansi: si sentivano; sentivasi: si sentiva; stavagli: gli stava; tenevansi: si tenevano; tornavagli: gli era; trattavasi: si trattava; trovavasi: si trovava.

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Gabriele Fascio (Fassio): morto all’Oratorio nel 1851 all’età di 13 anni (P. Stella, Don Bosco nella storia economica e sociale. 1815-1870, Roma, LAS, 1980, 630); sul letto di morte avrebbe profetizzato lo scoppio della polveriera di Torino avvenuto il 26 apr. 1852 (G. Bosco, Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855, Roma, LAS, 2011, 192). Luigi Tommaso Rua: nato a Torino (7 mar. 1834) da Giovanni e Giovanna Maria Ferrero, fratello di d. Michele Rua; alunno esemplare dei Fratelli delle Scuole Cristiane, poi operaio nella “Fucina delle canne”, frequentò l’Oratorio fin dall’inverno 1844; morì il 25 feb. 1851. Carlo Giuseppe Gavio (detto Camillo): nativo di Tortona (Alessandria), entrò nella casa dell’Oratorio nel nov. 1855 per seguire corsi di scultura all’Accademia Albertina; morì il 27 dic. 1855 (Stella, Don Bosco nella storia economica e sociale, 214). Giovanni Celestino Filippo Massaglia: nato a Marmorito (Asti), il 1° mag. 1838, da Pietro Giovanni e Anna Maria Caresio; venne a Valdocco nel nov. 1853; il 30 sett. 1855 don Bosco lo vestì dell’abito clericale; per una grave malattia polmonare tornò in famiglia dove morì il 20 mag. 1856 (ibid., 214; cf. AAT, 12.12.3: Registrum clericorum 1808-1847, rubr. M, 1855).

2 In questa quinta … stampato: corr. un testo ins. ed. 21860: «In questa seconda edizione poi, furono aggiunte varie importanti notizie che la renderanno interes­sante anche a coloro che hanno già letto quanto si è nella prima edizione stampato».

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Cf. Gc 2,14-26.

1 Carlo Baldassarre Savio: nato a Ranello, frazione di Castelnuovo d’Asti, l’8 nov. 1815, da Domenico e Caterina Chiara; rimasto vedovo nel 1871, venne accolto all’Oratorio, dove si rese utile come fabbro; morì a Valdocco il 16 dic. 1891. Brigida Rosa Anna Dorotea Gaiato: nata a Cerreto d’Asti il 2 feb. 1820 da Giuseppe e Teresa Tosino, di professione sarta; morì a Mondonio il 14 lug. 1871. Carlo e Brigida si sposarono il 1° mar. 1840 a Cerreto d’Asti (cf. estratto dell’atto di matrimonio in ASC A4920102); ebbero 10 figli: il primo, Domenico Carlo, visse pochi giorni (3-18 nov. 1840); il nostro Domenico fu il secondo; poi vennero Carlo (15-16 feb. 1844), Remondina (1845-1913), Maria (1847-1859), Giovanni (1850-1894), Guglielmo (1853-1865), Caterina (1856-1915?), Teresa (1859-1933), Luigia (1863-1864), cf. M. Molineris, Nuova vita di Domenico Savio: quello che le biografie di san Domenico Savio non dicono, Colle Don Bosco (At), Ist. Sal. “Bernardi Semeria”, 1974, 24.

2 «Anticamente appellavasi Castelnuovo di Rivalba, perché dipendeva dai conti Biandrate signori di que­sto paese. Circa l’anno 1300 essendo stato conquistato dagli a­stigiani, fu di poi detto Castelnuovo d’Asti. — In quel tempo era molto popolato di gente industriosa ed ap­plicatissima al commercio, che andavano ad esercitare in varie città d'Europa. Fu patria di molti uomini celebri. Il famoso Argentero Giovanni, detto il gran me­dico di quel secolo, nacque in Castelnuovo d’Asti nel 1513; scrisse molte opere di vasta erudizione. Egli era molto pio ed assai divoto della gran madre di Dio, ed eresse in di Lei onore la cappella della B. V. del po­polo nella chiesa parrocchiale di S. Agostino in Torino. Il suo corpo fu sepolto nella chiesa metropolitana con una onorevole iscrizione, che tuttora si osserva. Molti altri personaggi illustrarono questo paese. Ul­timamente fu il sacerdote Giuseppe Cafasso, uomo commendevolissimo per pietà, scienza teologica e carità verso gli ammalati, carcerati, condannati al patibolo ed infelici di ogni genere. Nacque nel 1811 e morì nel 1860 (V. Casalis, diz.)» (nota ins. ed. 41866). Questi cenni sono tratti da G. Casalis, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna, vol. IV, Torino, Cassone-Marzorati-Vercellotti, 1837, 196-200; un profilo del Cafasso è pubblicato nelle Letture cattoliche: G. Bosco, Biografia del sacerdote Giuseppe Caffasso esposta in due ragiona­menti funebri, Torino, Tip. G.B. Paravia e Comp., 1860.

3 Castelnuovo d’Asti (oggi Castelnuovo Don Bosco): comune in prov. di Asti; contava allora 3.332 abitanti (censimento 1848), distribuiti tra il capoluogo e quattro borgate, Morialdo, Bardella, Nevissano, Ranello (cf. G. Stefani, Dizionario generale geografico-statistico degli Stati Sardi desunto dalle più accreditate opere corografiche, dalle recenti statistiche officiali e da documenti inediti, Torino, Pomba, 1855, 272). Dieci miglia: 25 chilometri; il miglio piemontese corrispondeva a 2,5 chilometri (cf. G. Bosco, Il sistema metrico decimale ridotto a semplicità… ad uso degli artigiani e della gente di campagna, Torino, Gio. Battista Paravia e Comp., 1849, 45).

4 «Dicesi Riva di Chieri per distinguersi da altri paesi di questo nome. È distante quattro chilometri da Chieri. L’imperatore Federico con diploma del 1164 investì il conte Biandrate del dominio di Riva di Chieri. Di poi venne ceduto agli astigiani. Nel secolo decimo sesto passò sotto al dominio di Casa Savoia — Monsi­gnor Agostino della Chiesa, e Bonino nella biogra­fia medica parlano a lungo di molti celebri personaggi che ivi ebbero i loro natali» (nota ins. ed. 41866). Le notizie su Riva presso Chieri sono tratte, con alcune sviste, da Casalis, Dizionario geografico, vol. XVI (1847), 243-248. In quegli anni Riva contava 2.869 abitanti (cf. Stefani, Dizionario generale, 986).

5 Nacque alle nove del mattino; battezzato lo stesso giorno, «alle ore cinque di sera», gli furono imposti i nomi di Domenico Giuseppe (in onore dei nonni); padrini furono il falegname Giovanni Batt. Gianoglio e la contadina Luigia Savio (cf. APARC, Liber baptizatorum, 1842, atto n. 30; ASC A4920103: Estratto dell’Atto di nascita e battesimo).

6 Don Bosco scrive Murialdo, secondo la pronuncia dialettale. La casa dove abitavano i Savio si trovava a un centinaio di passi dalla cappella di Morialdo. La famiglia si trasferì a Morialdo nel nov. 1843 (in quel tempo contratti agricoli e traslochi avvenivano intorno all’11 nov. festa di san Martino); là, il 15 feb. 1844, nacque il terzogenito Carlo che visse un solo giorno (cf. APSAC, Liber mortuorum, 1844).

7 Avvenne … bestie: paragrafo ins. ed. 41866.

1 Nota della I ed. (1859), aggiornata ed. 41861: «Cappellano di questa Borgata era allora il sac. Zucca Giovanni di Moriondo; ora domiciliato in patria sua»; nella I ed. diceva: «ora dimorante a Buttigliera d’Asti». Giovanni Battista Zucca: nato a Moriondo Torinese (26 mar. 1818) da Giovanni Battista e Maria Caterina Lusso; come don Bosco fece la vestizione ecclesiastica nell’ott. 1835 e fu suo compagno nel seminario di Chieri; dopo l’ordinazione sacerdotale (21 mag. 1842) prestò servizio come maestro elementare e cappellano fino alla morte, avvenuta il 16 ott. 1878 nella borgata Bausone di Moriondo (cf. AAT 12.12.3: Registrum clericorum 1808-1847, rubr. Z, 1835; AAT 12.3.12: Registrum ordinationum 1836-1847; Calendarium liturgicum archidioecesis taurinensis… servandum anno MDCCCLXXIX, Augustae Taurinorum, Botta, 1878, 86; Molineris, Nuova vita di Domenico Savio, 63).

2 e vi si metteva … a pregare: espressione ins. nell’ed. 41866, in sostituzione della precedente: «e mettevasi colà per pregare».

3 La statura di Domenico al momento della morte, secondo il prof. Francesco Volante che fece la ricognizione della salma, «si può ritenere di metri 1,50 circa» (cf. ASC A4920119, lett. F. Volante - F. Giraudi, 18 feb. 1950).

4 Il racconto è basato su una memoria raccolta da Michele Rua (ASC A4920138: Memorie su Domenico Savio, ms. Rua, s.d., f1r).

5 La lettera di don Zucca, qui riprodotta con integrazioni e adattamenti, è conservata in ASC A4920130: lett. G.B. Zucca - G. Bosco, 6 mag. 1857.

1 Nel passato a Castelnuovo si ammettevano i ragazzi alla comunione «all'età di 12 anni, scorgendosi però in essi una tal quale capacità e so­dezza» (cf. Relazione dello stato della Parrocchia di S. Andrea Apostolo del luogo di Castelnuovo d’Asti [1825], in AAT 8.2.12: Relazione sullo stato delle chiese, vol. II, f471r); tuttavia, alla fine degli anni ’40, i giovani sacerdoti influenzati dalla morale alfonsiana e dalla scuola del Convitto, cominciavano, in alcuni casi, ad anticipare l’età.

2 sembianza: correzione nell’ed. 41866 del precedente: età.

3 Don Bosco attinge ad una testimonianza raccolta da Michele Rua: «Il cappellano che doveva promuoverlo stava in dubbio per cagione dell’età ancor sì tenera; ma chiesto consiglio ad altri sacerdoti che conoscevano anche il fanciullo, lo esortarono a promuoverlo, affinché un angioletto qual era s’accostasse alla mensa degli angeli», ASC A4920138: Memorie su Domenico Savio. Ms. Rua, s.d., f1r).

4 La prima comunione si faceva solitamente la domenica di Pasqua, il lunedì dell’Angelo o la domenica in Albis (nel 1849 cadevano rispettivamente l’8, il 9 e il 15 aprile).

5 ben fatta … per tutta la vita: ins. ed. 51878, per modificare il precedente: è l’elemento di tutta la vita.

1 sei miglia: 15 chilometri.

2 Cf. Mt 10,42.

3 ed erano riusciti … al corpo: ins. ed. 21860, a seguito di un’obiezione fatta da un allievo dell’Oratorio, secondo il quale Domenico avrebbe ceduto alle insistenze dei compagni. G.B. Lemoyne riferisce la reazione di don Bosco durante una “buona notte”, ricostruendone il discorso: «In questi giorni avete udite alcune osservazioni sopra certi fatti della vita di Savio Domenico, vostro compagno, e, fra le altre cose, che io era incolpato di aver detto una bugia. Si negò che Savio si fosse rifiutato di andare al bagno. Sì è vero: andò a bagnarsi!... Nel racconto però bisogna distinguere due circostanze. Egli fu invitato due volte. La prima si lasciò condurre, ma ritornato a casa e narrato alla madre quanto gli era occorso, da essa fu avvertito di non andar più. E il povero Savio pianse tanto quando conobbe di aver fatto male! Ma la seconda volta invitato si rifiutò risolutamente. Io volli solamente scrivere e pubblicare della seconda, perché nell’Oratorio vi è quel compagno che avealo condotto una volta e tentato di condurlo un’altra. […] Sappiate adunque che io per risparmiare una triste figura al compagno vivente e per nascondere ciò che doveva formare il suo eterno rimorso, il pericolo cioè al quale si era esposto di tradire un amico, ho narrato solo del secondo fatto. Egli volle scoprirsi da sé» (MB 7,148-149). Il compagno in questione potrebbe essere Giuseppe Antonio Zucca, nato a Castelnuovo il 4 mag. 1843, entrato all’Oratorio il 14 ott. 1856 (cf. APSAC: Liber baptizatorum, 1843; ASC E720: Censimento dal 1847 al 1869).

4 dove sono tanti pericoli: ins. ed. 51878.

5 Nella I ed. (1859) questa battuta era preceduta da un’altra, soppressa nelle ed. successive: «Se è male andare credo che sia anche male il vedere gli altri».

6 ci faranno … bacchetta: ins. ed. 41866.

7 se poi volete … il Signore: ins. ed. 21860.

1 Alessandro Giuseppe Allora: nato a Castelnuovo d’Asti (18 gen. 1819) dal chirurgo Giuseppe e da Irene Vairo; conobbe Giovanni Bosco a Chieri nelle scuole pubbliche e in seminario; fece la vestizione ecclesiastica il 22 ott. 1837; fu ordinato sacerdote il 1° giu. 1844 (cf. AAT 12.12.3: Registrum clericorum 1808-1847, rubr. A, 1837; AAT 12.3.12: Registrum ordinationum 1836-1847); frequentò il Convitto ecclesiastico e fu amico di don Cafasso, con cui ebbe una corrispondenza epistolare (cf. G. Colombero, Vita del servo di Dio D. Giuseppe Cafasso, con cenni sul Convitto ecclesiastico di Torino, Torino, Fratelli Canonica, 1895, 404-431); per tutta la vita fu maestro e cappellano; morì a Castelnuovo il 3 mar. 1885 (Calendarium liturgicum… anno MDCCCXXXVI, Taurini, Botta, 1885, 115).

2 Il 21 giu. Domenico, superato il prescritto esame, venne ammesso alla classe superiore; l’anno scolastico si concludeva a fine sett., ma secondo la prassi si poteva passare a classe superiore anche durante il corso dell’anno.

3 La testimonianza di don Alessandro Allora, qui riprodotta fedelmente, è conservata in ASC A4920131: lett. A. Allora - G. Bosco, 25 ago. 1857.

1 «Mondonio, o Mondomio, oppure Mondone è un piccolo paese di circa 400 abitanti; distante due miglia da Castelnuovo d’Asti, con cui ha facile relazione per mezzo di una strada che ultimamente fu praticata mediante il traforo di una collina — Vi sono memorie di questo paese che rimontano al 1034. Passò al do­minio di Casa Savoia col trattato di Cherasco del 1631 (V. Casalis, diz.)» (nota ins. ed. 41866). Le notizie sono tratte da Casalis, Dizionario geografico, vol. X (1842), 600-601. Nel 1847 gli abitanti di Mondonio erano 430 (cf. Notizie della parrocchia di Mondonio da darsi in occasione della visita pastorale di Sua Ecc. Rev.ma Mons. Filippo Artico, ms. del prevosto Domenico Grassi, 18 ago.1847, in AVA: Relazioni per visite pastorali, 1847).

2 Cf. 2 Cor 5,6-7.

3 Il trasferimento avvenne forse nell’inverno 1852-1853 (Molineris, Nuova vita di Domenico Savio, 83, lo colloca nel feb. 1853): infatti don Allora scrive che Domenico fu suo allievo solo «per pochi mesi» (ASC A4920131, lett. A. Allora - G. Bosco, 25 ago. 1857, f1v); d’altra parte il settimo figlio dei Savio, Guglielmo, nacque in Mondonio il 20 apr. 1853 (cf. APSGM: Liber baptizatorum, an. 1853). Domenico ricevette la cresima nella parrocchia di Castelnuovo (13 apr. 1853) da mons. Luigi Moreno vescovo d’Ivrea (ASC 14020104: Estratto di Atto di Cresima), ma in quell’occasione i cresimandi, che erano «più di 800», confluirono da varie parrocchie limitrofe, quindi si può pensare che i Savio abitassero già a Mondonio (cf. Molineris, Nuova vita di Domenico Savio, 87).

4 Nota ins. ed. 1859, aggiornata nell’ed. 51878: «Il Sac. Cugliero Giuseppe, dopo aver passati alcuni anni in qualità di Cappellano beneficiato a Pino di Chieri, dopo una vita esemplare riposava nel Si­gnore in quello stesso paese»; nella I ed. (1859) diceva: «Il Sac. Cugliero Giuseppe presentemente è Cappellano beneficiato a Barbasio, borgata di Moncucco». Giuseppe Giovanni Cugliero (Curriero), nato a Pino Torinese (27 giu. 1808) da Antonio e Margherita Casalegno; fece la vestizione chiericale il 27 ott. 1827 e fu ordinato sacerdote il 24 mag. 1834 (cf. AAT 12.12.3: Registrum clericorum 1808-1847, rubr. C, 1827; AAT 12.3.11: Registrum ordinationum 1834-1835); finì i suoi anni come cappellano a Pino Torinese (fraz. Podio), dove morì il 1° giu. 1880 (Calendarium liturgicum… anno MDCCCXXX, Augustae Taurinorum, Botta, 1879, 83).

5 Cf. 1Pt 2,23.

6 La testimonianza di don Cugliero (19 apr. 1857), utilizzata con grande libertà da don Bosco, che amplifica e drammatizza la scena dell’accusa da parte dei compagni (forse integrando altre relazioni), è conservata in ASC A4920129: Cenni storici sulla vita del giovine Domenico Savio nativo di Riva di Chieri frazione borgata di S. Giovanni, ms. Giuseppe Cugliero, 19 apr. 1857.

1 Da ASC E720: Censimento dal 1847 al 1869, risulta che Domenico entrò all’Oratorio il 22 ago. 1854; se prestassimo fede a questa fonte (non coeva e zeppa di imprecisioni), l’incontro tra don Bosco e Domenico sarebbe avvenuto prima di quella data. In mancanza di altri riscontri, ci atteniamo alla versione di don Bosco.

2 spero … lamentarsi: ins. ed. 31861, per correggere il precedente: l’assicuro che non avrà a lagnarsi.

1 La camera di don Bosco si trovava al secondo piano dell’edificio terminato nell’ott. 1853 e posto sul prolungamento di casa Pinardi, «nel braccio parallelo alla chiesa di San Francesco di Sales» (F. Giraudi, L’Oratorio di don Bosco. Inizio e progressivo sviluppo edilizio della Casa Madre dei salesiani in Torino, Torino, SEI, 1935, 124). Durante la permanenza di Domenico a Valdocco venne abbattuta casa Pinardi (1855) per collegare l’edificio del 1853 fino alla chiesa di san Francesco di Sales (la costruzione fu conclusa nell’ott. 1856).

2 L’espressione (tratta da Gen 14,21), non si trova negli scritti di san Francesco di Sales: è riportata da un discepolo (Lo spirito di S. Francesco di Sales vescovo e principe di Ginevra raccolto da diversi scritti di monsignor Gio. Pietro Camus vescovo di Belley…, Venezia, Remondini, 1758, 129); fu scelta da don Bosco come motto del suo sacerdozio per influsso di don Cafasso.

3 Nell’autunno 1854 entrava in vigore una versione aggiornata del regolamento dell’Oratorio (rimasta manoscritta fino al 1877), adattata soprattutto alla comunità degli interni, che da quell’anno cresceranno sempre di più; un ms allografo con correzioni aut. di don Bosco si conserva in ASC D4820201: Piano di Regolamento per la Casa annessa all’Oratorio di S. Francesco di Sales in Valdocco (se ne veda la trascrizione in MB 4, 735-755, in particolare l’Appendice per gli studenti, 745-747). Le «regole della casa» venivano lette pubblicamente all’inizio dell’anno scolastico «ed ogni domenica se ne faceva leggere un capitolo agli alunni» (MB 4, 543).

4 Secondo il regolamento citato, «superiori della casa» erano «1. Rettore; 2. Prefetto; 3. Catechista; 4. Assistente; 5. Protettore; 6. Capi di camerata; 7. Persone di servizio» (cf. MB 4, 736).

5 Per essere ammaestrato … di Domenico: paragrafo ins. ed. 41866.

6 Il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria fu promulgato da Pio IX (8 dic. 1854) con la lettera apostolica Ineffabilis Deus (cf. Pii IX Pontificis maximi Acta. Pars prima: Acta exhibens quae ad Ecclesiam universalem spectant, Romae, Ex Typographia Bonarum Artium, 1854, 597-619).

7 di Valdocco: ins. ed. 51878.

1 Seconda grammatica latina: seconda ginnasiale. Qui don Bosco utilizza in parte l’antica terminologia; con la legge Casati (1859) il curricolo di studi classici tradizionale, che prima era suddiviso in 3 classi di latinità inferiore (chiamate in ordine discendente: sesta, quinta, quarta), 3 classi di latinità superiore (terza o grammatica, umanità o prima retorica, retorica o seconda retorica) e biennio di filosofia (fisica e logica), venne articolato in due fasi: ginnasio (5 classi: prima, seconda, terza, quarta e quinta) e liceo (3 classi).

2 pio e caritatevole: ins. ed. 51878. Il prof. Carlo Giuseppe Bonzanino (m. 1888) teneva scuola privata nella sua abitazione, al terzo piano di via Guardinfanti 30 (oggi via Barbaroux 20), per 20 allievi (cf. P. Baricco, Torino descritta, Torino, G.B. Paravia e Comp., 1869, 709).

3 imperciocché … presentemente: ins. ed. 41866. Fino all’estate 1855 tutti gli studenti ospiti a Valdocco frequentavano le scuole esterne dei professori Carlo Bonzanino e don Matteo Picco. Nell’anno scolastico 1855-1856 don Bosco aprì la prima classe ginnasiale interna, affidata al chierico Giovanni Battista Francesia (1838-1930).

4 furono … ammirazione: ins. ed. 31861, per correggere il precedente: trassero l’ammirazione.

5 In ASC A4920106 sono conservati 5 biglietti di diligenza e di merito rilasciati a Domenico dal prof. Bonzanino.

6 «Quei prati ora sono tutti coperti di edifizi, ed il sito di quell’alterco cor­risponde all’area sopra cui giace la chiesa parrocchiale di S. Barbara»: nota ins. ed. 51878. La chiesa di Santa Barbara, a cui si fa riferimento, inaugurata il 18 apr. 1869, si trova all’incrocio di via Assarotti e via Bertola (cf. Baricco, Torino descritta, 191-192).

7 Cf. Lc 23,34.

a Matteo Picco: nato a Torino (25 gen. 1810) da Francesco e Domenica Borgarelli, fece la vestizione il 1° ott. 1825 e venne ordinato sacerdote 22 sett. 1832; teneva una scuola privata al primo piano di via Sant’Agostino N. 1; amico di don Bosco e dell’opera salesiana; morì nel 1880 (cf. AAT, 12.12.3: Registrum clericorum 1808-1847, rubr. P, 1825; AAT 12.3.10: Registrum ordinationum 1830-1833; Stella, Don Bosco nella storia economica e sociale, 232).

8 città: ins. ed. 51878, per correggere il precedente: capitale. La capitale del regno d’Italia, dopo il conseguimento dell’unità, era stata trasferita a Firenze (1865), poi a Roma (1870).

1 Cf. 1 Ts 4,3.

2 voglio … sempre al Signore: ins. ed. 51878.

3 mi salvi l’anima: ins. ed. 31866.

1 Cf. 1 Pt 1,18-19.

2 La cosa … Cristo: paragrafo ins. ed. 21860.

3 Passando un giorno … qualunque costo: due episodi ins. ed. 31861.

4 Sulla scia del movimento di Oxford, iniziato da John Keble (1792-1866) e John Henry Newman (1801-1890), e soprattutto dopo il passaggio al cattolicesimo di Newman (9 ottobre 1845), si verificò un flusso di conversioni che suscitò grande fervore tra i cattolici. Tra i libri di Domenico Savio c’era l’intera annata 1855 delle Letture cattoliche, che includeva un fascicolo intitolato Conversione d’una nobile e ricca signora inglese alla Chiesa cattolica al tempo che le leggi penali contro i cattolici erano ancora in vigore in Inghilterra, racconto storico tradotto dall’inglese, Torino, Tip. Paravia e Comp., 1855 (cf. ASC A4920108: Nota dei libri di Savio Domenico, ms. aut. s.d.). A Valdocco don Bosco teneva corrispondenza con Lorenzo Gastaldi, che entrato nell’Istituto della Carità del Rosmini (1851) era stato inviato in Inghilterra come missionario (1853-1863); è probabile che nei suoi due soggiorni in Italia (1856 e 1857), Gastaldi sia stato in visita a Valdocco e abbia parlato della situazione inglese (cf. G. Tuninetti, Lorenzo Gastaldi 1815-1883, Casale Monferrato, Ed. Piemme, 1983, vol. I, 110-111).

5 Ogni immagine … fare altrettanto: quattro paragrafi ins. ed. 21860.

1 Una volta … vedere: paragrafo ins. ed. 21860; trascrizione di una testimonianza raccolta da Michele Rua (cf. ASC A4920137: Memorie riguardo al giovane Savio Domenico, ms. Rua, s.d., f1r-v).

2 acque … che: ins. ed. 21860.

3 ai vostri superiori: ins. ed. 21860.

4 Cirimella: gioco di origini antiche, diffuso nel passato in varie regioni d’Italia; consisteva nel colpire con una mazza la punta della lippa (cilindro ligneo, lungo un palmo, con estremità smussate e appuntite), facendola sollevare in aria per colpirla nuovamente al volo e lanciarla il più lontano possibile.

5 Questi … Domenico: ins. ed. 21860.

1 Carlo Cays (1813-1882), conte di Giletta e Caselette, laureato in legge; confondatore e presidente delle Conferenze di san Vincenzo de’ Paoli a Torino, priore della Compagnia di S. Luigi nell’Oratorio (1854-1855), deputato del Parlamento Subalpino (1857-1860). Rimasto vedovo nel 1877 si fece salesiano e venne ordinato sacerdote (cf. L. Terrone, Il conte Cays, sacerdote salesiano. Memorie, Colle Don Bosco, Asti, Libreria Dottrina Cristiana, 1947). Compagnia di S. Luigi: si conserva il ms della Regola con l’approvazione di mons. Fransoni in data 12 apr. 1847 (ASC A230); il testo della regola è riprodotto in MB 3, 216-220; una versione ritoccata si trova nel Regolamento dell’Oratorio di S. Francesco di Sales per gli esterni, Torino, Tipografia Salesiana, 1877, 45-46 (OE XXIX 75-76).

2 Cf. Corona di Maria Addolorata, in G. Bosco, Il giovane provveduto per la pratica dei suoi doveri di cristiana pietà…, ed. 2a accresciuta, Torino, Tipografia G.B. Paravia, 1851, 114-119 (è l’ed. usata da Domenico); Litanie della B. V. Addolorata, ibid., 119-122.

3 Cf. Bosco, Il giovane provveduto, ed. 21851, 193-200.

1 «Sceglietevi un buon confessore, a lui aprite l’in­terno del vostro cuore; e per quanto vi è possibile, non cangiatelo mai» (G. Bosco, Cenni sulla vita del giovane Luigi Comollo morto nel seminario di Chieri ammirato da tutti per le sue rare virtù, Torino, Tipografia P. De-Agostini, 1854, 32); le stesse indicazioni troviamo in Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele (c. V) e nel Pastorello delle Alpi (c. XIX).

2 Cf. Lc 10,16.

3 Cf. Lc 22,19.

4 frequente: ins. ed. 51878, per correggere il precedente: quotidiana: cautela probabilmente mirata ad evitare ulteriori questioni con l’arciv. Gastaldi che era su posizioni più rigide.

5 Nota ins. ed. 21860: «Questa coroncina trovasi stampata in molti libri e fra gli altri nel Giovane Provveduto, a pag. 105». Era una pratica devota mirata a risarcire Gesù «degli oltraggi che riceve nella SS. Eucaristia dagli eretici, dagli infedeli e da’ cattivi cristiani», costituita da sette brevi orazioni seguite da un Pater (cf. Corona del Sacro Cuore di Gesù, in Bosco, Il giovane provveduto, ed. 21851, 105-107).

6 Un giorno … strada: due paragrafi ins. ed. 21860.

1 Cf. Lc 13,5.

1 L’intero capitolo XVI è stato ins. ed. 21860.

1 Il racconto si basa su testimonianze di Michele Rua e Giovanni Bonetti (cf. ASC A4920137: Memorie riguardo al giovane Savio Domenico, ms. Rua, s.d., f1v-2r; ASC A4920139: Fatti e detti del Savio Domenico, ms. Bonetti, s.d., f3r).

1 Il documento originale, trascritto da don Bosco con alcuni adattamenti, è conservato in ASC E452: Regolamento della Compagnia dell’Immacolata Concezione approvato da D. Bosco, ms. Giuseppe Bongioanni, 9 giu. 1856.

2 «Luigi Comollo nacque in Cinzano l’anno 1818 e moriva l’anno 1839 in concetto di singolar virtù nel Seminario di Chieri in età di anni 22. La vita di questo modello della gioventù fu la seconda volta stampata nell’anno I delle Letture Cattoliche» (nota presente già nella I ed.). Fino alla ed. 31861 si leggeva: «nell’anno IV delle Letture Cattoliche», errore corretto a partire dalla ed. 41866. La prima edizione della vita di Comollo era apparsa anonima nel 1844 (Cenni storici sulla vita del chierico Luigi Comollo morto nel seminario di Chieri ammirato da tutti per le sue singolari virtù, scritti da un suo collega, Torino, Speirani e Ferrero, 1844); il santo ne fece un’ed. aumentata per la collana Letture cattoliche (Cenni sulla vita del giovane Luigi Comollo morto nel seminario di Chieri ammirato da tutti per le sue rare virtù, scritti dal sac. Bosco Giovanni suo collega, Torino, P. De-Agostini, 1854); la terza ed. (1867) riprende la seconda, mentre la quarta ed. (1884), quella definitiva, sarà completamente rifatta e integrata da molte altre notizie.

3 Cf. Lc 11,28.

4 «Uno fra quelli che più efficacemente aiutarono Savio Domenico nell’isti­tuire la compagnia dell’Immacolata Concezione e compilarne il regolamento fu Bon­gioanni Giuseppe. Questi, rimasto orfano di padre e di madre, era stato raccoman­dato da una zia al direttore dell’Oratorio, che caritatevolmente lo accolse nel novembre del 1854. Trovavasi allora all’età di 17 anni, e a malincuore forzato dalle circostanze egli venne, ma ancora colla mente piena delle vanità del mondo e con vari pregiudizi in fatto di religione. Si vede però in lui chiaramente l’opera­zione della divina grazia, giacché in breve si affezionò grandemente alla casa, alle regole e ai superiori; rettificò insensibilmente le sue idee e diedesi con tutto ardore all’acquisto delle virtù ed alle pratiche di pietà. Dotato com’era d’ingegno molto perspicace e di grande facilità ad imparare venne applicato allo studio. Con mirabile rapidità compié gli studi classici, facendovi eccellente riuscita. For­nito di fervida immaginazione spiegò una grande abilità nel poetare sia nell’italiana favella, sia in dialetto; e mentre nelle famigliari conversazioni serviva di diletto agli amici coll’improvvisare su argomenti scherzevoli, scriveva al tavolino bellis­sime poesie di cui molte furono pubblicate, come quella ad onore di Maria Au­siliatrice che comincia: Salve, Salve, pietosa Regina [Maria] ecc. che trovasi nel Giovane provveduto [cf. ed. 371874, 444-446].

Avviatosi alla carriera ecclesiastica sempre si segnalò durante il chiericato per la sua pietà e fedele osservanza delle regole e zelo per il bene dei suoi com­pagni. Fatto sacerdote nel 1863, non è a dire con qual fervore siasi dato all’esercizio del sacro ministero. Sebbene poco fosse favorito nella voce, riusciva tuttavia di tanto gradimento nella predicazione per la bellezza della materia e per l’unzione nell’esposizione, che era ascoltato molto volentieri e ne riportava copiosi frutti.

Dopo aver aiutato Savio Domenico, con cui era unito in santa amicizia, ad istituire la compagnia dell’Immacolata, essendo allora solamente chierico, fondò col permesso del Superiore un’altra compagnia ad onore del SS. Sacramento che aveva per iscopo di promuoverne il culto fra la gioventù e di addestrare gli allievi più noti in virtù al servizio delle sacre funzioni, formando così un piccolo clero ad accrescerne la maestà e la grazia. Tale compagnia continuò a coltivare con mag­gior attività e con ottimi risultati quando fu sacerdote. E ben si può dire che se la congregazione di S. Francesco di Sales poté già dare alla chiesa un bel nu­mero di ministri degli altari, in gran parte si deve alle sante premure del sac. Bongioanni intorno al Piccolo Clero.

Nel 1868 avvicinandosi l’epoca della consacrazione della Chiesa eretta in Val­docco ad onore di Maria Ausiliatrice, D. Bongioanni s’adoperò con tutto l’im­pegno per disporre le cose necessarie a tale funzione e specialmente nel preparare il Piccolo Clero a fare con edificazione la parte sua nel giorno della festa e nel­l’ottava successiva, che dovevasi pur solennizzare in modo straordinario. Traspor­tato da ardente amore a Maria SS. nulla risparmiò di sollecitudini, di fatiche e sudori, particolarmente nella vigilia che fu agli 8 di giugno di tale anno. La Ver­gine Ausiliatrice aggradendo la sua fervorosa divozione ed ossequio, gliene ottenne ben presto il premio. Prima però lo volle assoggettare ad una prova che sopportata con rassegnazione riuscì certamente al buon sacerdote di gran merito. Egli che tanto erasi adoperato per la buona riuscita delle feste, al 9 giugno, giorno della consacrazione trovossi infermo, in modo da non poter alzarsi dal letto. Pei giorni seguenti la malattia continuava. Esso desideroso di poter almeno una volta cele­brare i divini misteri nella nuova chiesa, supplicò la SS. Vergine con calde istanze ad ottenergliene la grazia. Fu esaudito. Nella domenica fra l’ottava sentissi tale miglioramento ed aumento di forze, che poté colla debita preparazione accostarsi all’altare e celebrare la santa messa con immensa consolazione del suo cuore. Dopo la messa disse a qualcuno dei suoi amici che era tanto contento che ben poteva intonare il Nunc dimittis. E così fu: giacché sentendosi venir meno le forze ritornò a letto; né più si rialzò. Al mercoledì successivo, essendo finita l’ottava, si fece un servizio funebre pei benefattori defunti; e nel pomeriggio, compiuta ogni funzione e so­lennità, i giovani allievi dei vari collegi che eran venuti a prendere parte alla festa, partirono per la loro destinazione.

Un’ora dopo il sac. Bongioanni Giuseppe munito dei conforti della reli­gione, assistito dall’amato suo direttore, circondato da una corona dei suoi più cari amici e confratelli rese la sua bell’anima al Signore, andando, come fermamente si spera, a vedere come si festeggia in cielo Colei, che formava l’oggetto della sua più tenera divozione» (nota ins. ed. 51878).

1 quelli che … erano: ins. ed. 21860, in sostituzione di aveva.

2 Nel verbale di fondazione della compagnia dell’Immacolata, stilato da Giuseppe Bongioanni (ASC A230), sono elencati i soci fondatori in quest’ordine: «Bonetti Giovanni, Vaschetti Francesco, Savio Domenico, Marcellino Luigi, Durando Celestino, Momo Giuseppe, Bongioanni Giuseppe»; in altra copia del verbale troviamo, anche i nomi di Giuseppe Rocchietti, Michele Rua e Giovanni Cagliero.

3 Entrambi morirono prima della fondazione della compagnia dell’Immacolata (9 giu. 1856): Gavio si spense il 29 dic. 1855 e Massaglia il 20 mag. 1856; tuttavia è probabile che essi si radunassero con Domenico ed altri «ora in conferenze spirituali, ora per compiere esercizi di cristiana pietà», com’era usanza in Valdocco anche prima della fondazione della compagnia. La confusione si deve all’inserimento in ed. 21860 dell’inciso segnalato alla nota 84.

4 Cf. 1 Ts 4,3.

5 È bello quanto … parole: ins. ed. 31861.

6 Cf. Sal 100,2.

7 Don Bosco, errando, scrive: 30 dicembre 1856.

8 io sono … che: ins. ed. 51878.

9 Io spero … di lui: ins. ed. 21860.

1 studio e scuola: ins. ed. 21860.

2 mossi … pietà: ins. ed. 21860.

3 cadere … infernale: ins. ed. 51878, per semplificare il precedente: «cadere negli artigli di quell’uccello di rapina. La nostra gabbia è l’Oratorio; qui stiamo sicuri; se usciamo di qui temiamo di cadere negli artigli del falcone infernale».

4 Fu nel … tenore: ins. ed. 21860.

5 Caro amico … Giovanni: lettera ins. ed. 21860.

6 Domenico … lettera: ins. ed. 21860.

7 Cf. Leonardo da Porto Maurizio, Il tesoro nascosto, ovvero pregi ed eccellenze della S. Messa, con un modo pratico e divoto per ascoltarla con frutto, Torino, Giacinto Marietti, 1840; don Bosco lo pubblicherà nella collana Letture cattoliche (VIII, fasc. 12, feb. 1861).

8 Mio caro … Domenico: lettera ins. ed. 21860.

9 La malattia … vita: ins. ed. 21860.

10 direttore spi­rituale nelle vacanze: ins. ed. 31861.

11 «Il sacerdote teologo Valfrè Carlo nacque in Villafranca di Piemonte il 23 luglio 1813. Con una condotta veramente esemplare e con felice successo egli per­correva la carriera degli studi; secondando la sua vocazione abbracciò lo stato ec­clesiastico. Con zelo apostolico lavorò più anni nel sacro ministero, finché in un concorso fu giudicato degno della parrocchia di Marmorito. Era indefesso nello adempimento dei suoi doveri. L’istruzione ai poveri ra­gazzi; l’assistenza agli infermi; sollevare i poverelli erano le doti caratteristiche del suo zelo. Per bontà, carità e disinteresse poteva proporsi a modello di qua­lunque sacerdote che abbia cura di anime. Quando le cure parrocchiali il comportavano, egli andava altrove a dettare esercizi spirituali, tridui, novene e simili. Il Signore benediceva le sue fatiche, le quali erano sempre coronate da frutto copioso. Ma nel tempo che noi avevamo maggior bisogno di lui, Iddio lo trovò ma­turo per il cielo. Dopo breve malattia, colla morte del giusto, egli passava alla vita beata nella bella età d’anni 47, il 12 febbraio dell’anno 1861. Questa perdita privò la Chiesa di un degno ministro, tolse a Marmorito un pastore che a buon diritto chiamavasi il padre del popolo; ma siamo tutti non poco consolati nella speranza di aver acquistato un benefattore presso Dio in cielo» (nota ins. ed. 31861). Il teologo Carlo Valfré (Valfredo) era nato a Sangano (Torino), non a Villafranca, da Giovanni e Teresa Alberga; vestì l’abito chiericale il 26 ott. 1832, si laureò in teologia all’Università di Torino e fu ordinato sacerdote il 25 mag. 1839; nel 1851 assunse la cura pastorale della parrocchia dell’Immacolata Concezione di Marmorito, che resse fino alla morte (cf. AAT, 12.12.3:, Registrum clericorum 1808-1847, rubr. V, 1832; AAT 12.3.12: Registrum ordinationum 1836-1847; Calendarium liturgicum… anno MDCCCLII, Augustae Taurinorum, Botta, 1861, 69). Sulla parrocchia di Marmorito vedi la recensione di G. Fassino a Marmorito e la sua chiesa: Madonna della Neve, a cura di B. Moiso, Marmorito, s.e., 2009, in «Il platano rivista di cultura astigiana» 34 (2009) 533-535.

1 della parrocchia di S. Agostino: ins. ed. 51878.

2 Un giorno … astanti: due paragrafi ins. ed. 21860.

3 in mezzo … sollecitudine: ins. ed. 21860, per accentuare il testo precedente: «si occupi assai».

1 Io non so … morte: ins. ed. 21860.

2 Cf. Gv 9,4.

3 Pratica devota di origine settecentesca, adattata da don Bosco. «L’esercizio mensile della buona morte per i giovani […] è una variante del ritiro mensile» (P. Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, vol. II: Mentalità religiosa e spiritualità, Roma, LAS 1981, 340); cf. Preghiera di Benedetto papa XIII per impetrare da Dio la grazia di non morire di morte improvvisa e Preghiera per la buona morte, in Bosco, Il giovane provveduto, ed. 21851, 138-142.

4 Di fatto … per fare: tre paragrafi ins. ed. 21860.

5 Il dott. Francesco Vallauri (m. 13 lug. 1856), la moglie Rosa e il figlio sacerdote don Pietro (1829-1909) erano amici e benefattori di don Bosco; in particolare avevano sovvenzionato l’altare maggiore della chiesa di san Francesco di Sales (cf. MB 4, 429).

1 Cf. 1 Pt 1,18-19.

1 Due soldi: 10 centesimi.

2 Eravamo giunti … disse: ins. ed. 51878.

3 Cf. 1 Ts 4,17

4 Cf. Sap 4,10-14.

1 Il salasso è un «intervento col quale si sottrae all’organismo una quantità più o meno grande di sangue», incidendo una vena; si usava in «quegli stati morbosi nei quali occorra una rapida azione anticongestizia»; in particolare lo si riteneva utile «per diminuire la congestione arteriosa molto alta, per diminuire la congestione venosa polmonare, per attenuare uno stato di pletora, per sottrarre veleni o tossine all’organismo» (cf. Enciclopedia medica italiana, Milano, Sansoni Edizioni Scientifiche, 1956, vol. VIII, 1164-1165).

2 a voltare … faccia: ins. ed. 21860.

3 Il racconto è basato su una memoria raccolta da Michele Rua (ASC A4920138: Memorie su Domenico Savio. Ms. Rua, s.d., f1r).

4 Prevosto di Mondonio: Domenico Grassi, nato a Settime d’Asti (23 lug. 1804), ordinato sacerdote (5 giu. 1830), fu parroco di Mondonio dal 1834 alla morte, avvenuta improvvisamente a Passerano il 6 ago. 1860 (cf. Notizie della parrocchia di Mondonio da darsi in occasione della visita pastorale di Sua Ecc. Rev.ma Mons. Filippo Artico, ms. del prevosto Domenico Grassi, 18 ago.1847, in AVA: Relazioni per visite pastorali, 1847; APSPP: Liber defunctorum, 1860).

5 Cf. Gv 16,33.

6 Cf. Lc 23,46.

1 Gal 6,7.

2 disse il prevosto: ins. ed. 31861.

3 «Con questo nome indicava un libro totalmente diretto alla gioventù che ha per titolo: il Giovane Provveduto per la pratica dei suoi doveri, degli esercizi di cristiana pietà, per la recita dell’uffizio della B. Vergine, dei vespri di tutto l’anno e dell’uffizio dei morti, ecc.» (nota ins. ed. 1859).

4 Il racconto si basa su una testimonianza raccolta da Michele Rua: «La sera prima di morire non potendo più esso, fecesi leggere dal padre le preghiere per la buona morte che trovansi nel Giovane provveduto, ed esso le accompagnava» (ASC A4920138: Memorie su Domenico Savio, ms. Rua, s.d., f1r).

5 Bosco, Il giovane provveduto, ed. 21851, 142.

6 La morte avvenne alle ore 22 di lunedì 9 mar. 1857; la sepoltura si fece il mercoledì 11 (cf. ASC A4920159: Estratto dell’atto di morte, rilasciato l’8 nov. 1864 dal parroco di Mondonio Luigi Mussa). Il racconto della morte fatto da don Bosco modifica la testimonianza raccolta da Michele Rua: «Un’ora e mezzo prima di morire dopo aver ricevuto tutti i sacramenti, vedendo che il parroco usciva, lo dimandò, e gli chiese un qualche ricordo. Il parroco gli rispose: e che mai vuoi che ti lasci per ricordo? Per me non saprei più che dirti che ti ricordi della passione del Signore, non saprei dirti altro per ora. Uscito il parroco, s’addormentò, e di lì a poco svegliatosi rideva e andava dicendo: oh il parroco voleva dirmi, voleva dirmi... eh! Questa è bella: non posso più ricordarmi di ciò che voleva dirmi, e così dicendo e ridendo con aria di Paradiso spirò colle mani composte in forma di croce innanzi al petto senza fare il menomo movimento» (ASC A4920138: Memorie su Domenico Savio. Ms. Rua, s.d., f1v).

7 Mt 25,21.

1 Carlo Savio scriveva il 10 marzo: «Signor molto reverendo. Con lacrime agli occhi mi presento con questo viglietto a V. S. molto reverenda ad annunziarle una più che trista novella la quale si è che il mio caro figliuolino Domenico di lei discepolo, qual candido giglio, qual Luigi Gonzaga rese l’anima al Signore la sera delli 9 andante marzo, ben inteso però dopo d’aver ricevuti li SS. Sacramenti una cum la benedizione papale. La sua malattia fu in questo cioè si coricò il mercoledì 4 marzo e sotto la cura del sig. dottor Cafassi gli fecero dieci salassi e nel mentre che stavamo per intendere qual fosse la malattia onde scrivere a V. S. ci mancò come sopra dissi avendo pure la tosse alquanto profonda. D’altro non m’occorre che profondamente riverire vostra Sig.ria molto reverenda augurandole ogni prosperità e sono di Ella ubb.mo servo Carlo Savio» (ASC A4920112: lett. C. Savio - G. Bosco, 10 mar. 1857).

2 «Leone Cocchis studente di 2a Retorica, giovanetto di belle speranze, morto il 25 mar. 1855 in età di 15 anni» (nota ins. ed. 1859).

3 Il testo originale di don Picco non è stato conservato.

1 «Tale venerazione e confidenza nel giovine Savio crebbe grandemente da che fu ivi fatto un curioso racconto dal genitore di Domenico, che è pronto a confermare la sua asserzione in qualunque luogo e in presenza di qualunque per­sona. Egli espose la cosa così: “La perdita di quel mio figliuolo, egli dice, mi fu causa di profondissima afflizione, che si andava fomentando dal desiderio di sapere che si fosse avvenuto di lui nell’altra vita. Dio mi ha voluto consolare. Circa un mese dopo la sua morte, una notte, dopo essere stato lungo tempo senza poter prender sonno, mi parve di vedere spalancarsi il soffitto della camera in cui dormiva, ed ecco in mezzo ad una grande luce comparirmi Domenico con volto ridente e giulivo, ma con aspetto maestoso e imponente. A quel sorprendente spettacolo io son rimasto fuori di me. — O Domenico! mi posi ad esclamare: Domenico mio! come va? Dove sei? Sei già in paradiso? Sì, padre, rispose, io sono veramente in paradiso! Deh! io replicai, se Iddio ti ha fatto tanto favore di poter andare a godere la felicità del cielo, prega pei tuoi fratelli e sorelle affinché possano un giorno venir con te. — Sì, sì, padre, rispose, pregherò Dio per loro affinché possano un giorno venire con me a godere l’immensa felicità del cielo. — Prega anche per me, re­plicai, prega per tua madre, affinché possiamo tutti salvarci e trovarci un giorno in­sieme in Paradiso. — Sì, sì pregherò. Ciò detto disparve, e la camera tornò nell’oscu­rità come prima”. Il padre assicura, che depone semplicemente la verità e dice che né prima né dopo, né vegliando né dormendo, ebbe ad essere consolato da somigliante apparizione» (nota ins. ed. 1859). Qui don Bosco rielabora la testimonianza raccolta da Michele Rua (cf. ASC A4920138: Memorie su Domenico Savio, ms. Rua, s.d., f1v).

2 Trascrizione, con arrangiamenti, di una testimonianza di Francesco Vaschetti (ASC A4920141: lett. F. Vaschetti - G. Bosco [dic. 1857]). Nato ad Avigliana (16 ott. 1839), da Pietro e Maria Caterina Allais, entrato all’Oratorio nel 1855, Vaschetti fu tra i fondatori della compagnia dell’Immacolata; fece la vestizione chiericale (8 sett. 1857) per mano del prefetto dell’Oratorio don Vittorio Alasonatti; aderì alla Società Salesiana nel 1859, ma non emise i voti; ordinato sacerdote (19 sett. 1863), fu viceparroco poi, dall’ago.1870, prevosto e vicario foraneo di Volpiano, dove morì il 13 gen. 1916 (cf. AAT, 12.12.3:, Registrum clericorum 1808-1847, rubr. V, 1857; AAT 12.3.14: Registrum ordinationum 1848-1871; Calendarium liturgicum archidioecesis taurinensis… anno 1917, Taurini, s.i., 1916, 111).

3 Nell’ed. 21860 venne introdotta un’appendice (Grazie ottenute da Dio ad intercessione di Savio Domenico, pp. 152-172), con sette relazioni, che nell’ed. 31861 salirono a dieci, e tali rimasero nelle edizioni successive.

4 una doppia: ins. ed. 51878 per correggere il precedente: non dubbia.

1


Vita del giovanetto Savio Domenico allievo dell’Oratorio di San Francesco di Sales, per cura del sacerdote Bosco Giovanni, Torino, Tip. G.B. Paravia e Comp., 1859 (riproduzione anastatica in OE XI, 150-292); fu inserita nella collana Letture cattoliche, a. IV, fasc. 11 (gen. 1859).

2 Cf. Mc 2,13-14.

3 Prima edizione: Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele allievo dell’Oratorio di S. Francesco di Sales, per cura del sacerdote Bosco Giovanni, Torino, Tip. G.B. Paravia e Comp., 1861 (riproduzione anastatica in OE XIII, 155-250); apparve nella collana Letture cattoliche, a. IX, fasc. 7 (set. 1861).

4 In questa seconda … ai medesimi: ins. ed. 21866.

1

Una sera di autunno: siamo nella prima quindicina di ott. 1857.

2 Som­mariva del Bosco: borgo agricolo sulla strada per Bra, a 40 km da Torino, raccolto attorno all’antico e imponente castello dei marchesi Seyssel d’Aix e Sommariva, situato in una zona molto fertile; nel 1862 contava 5.488 abitanti (cf. Dizionario dei comuni del regno d’Italia..., Torino, Stamperia Reale, 1863, 181). La moglie del marchese Claudio Seyssel (1799-1862), Elisabetta Boutourline, di origine russa, aveva abbracciato la fede cattolica grazie all’azione di don Bosco ed era un’attiva divulgatrice delle Letture cattoliche (cf. G. Bosco, Epistolario. Introduzione, testi critici e note a cura di F. Motto, vol. I: 1835-1863, Roma LAS, 1991, 467; MB 6, 1045).

3 Carmagnola: città sulla linea ferroviaria tra Torino e Savigliano, a 30 km dalla capitale; in quegli anni contava 12.894 abitanti (Dizionario dei comuni del regno d’Italia, 37). La ferrovia Torino-Carmagnola-Savigliano era stata inaugurata il 13 marzo 1853 (cf. L. Ballatore, Storia delle ferrovie in Piemonte, Torino, Il Punto-Piemonte in Bancarella 2002, 40). Don Bosco aveva viaggiato da Sommariva del Bosco a Carmagnola con una vettura pubblica o un mezzo privato, non essendo in quel tempo ancora costruita la linea ferroviaria Carmagnola-Bra-Ceva (inaugurata il 7 apr. 1884, cf. ibid., 115-116).

4 Dall’atto di battesimo apprendiamo che il nome completo era Michele Giovanni Magone, figlio del fu Giovanni e di Giovanna Maria Stella, di professione sarta, nato il 19 settembre 1845, alle ore 1 del mattino e battezzato lo stesso giorno alle ore 19; padrini furono Michele Magone di professione sarto e Paolina Stella di professione benestante. Secondo l’atto di battesimo il padre morì prima della nascita del figlio (cf. APSPPC: Registro degli Atti di Battesimo, atto n. 95 del 1845). Generale: l’uso del termine si spiega per il fervore patriottico che le guerre di indipendenza suscitavano in tutti gli strati della popolazione piemontese.

5 Ho fatto la terza elementare: il sistema scolastico piemontese era regolato dalla legge n. 759 dell’ottobre 1848, detta Legge Boncompagni; essa prevedeva un controllo governativo delle scuole di ogni ordine e grado, sia statali sia libere, attraverso il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, al quale competeva l’ordinamento degli studi, i piani didattici, l’approvazione dei programmi, dei libri e dei trattati adottati. La legge divideva il sistema scolastico in 3 gradi: scuola elementare (2 classi inferiori e 2 superiori); scuola secondaria (3 classi di grammatica; 2 classi di retorica e lingue antiche; 2 classi di filosofia); università e scuole tecniche superiori specializzate. Nel caso di Magone, la terza elementare corrispondeva al primo anno di elementare superiore; cf. V. Sinistrero, La legge Boncompagni del 4 ottobre 1848 e la libertà della scuola, in «Salesianum» 10 (1948), 369-391; sulla scuola elementare di Carmagnola, dove fin dal 1819 si applicava il metodo lancasteriano, cf. G. Mantellino, La scuola primaria e secondaria in Piemonte e particolarmente in Carmagnola dal secolo XIV alla fine del secolo XIX, Carmagnola, presso l’Autore, 1909, 152-183.

6 Francesco Alberto Ariccio: nato a Carmagnola (31 ott. 1819) da Francesco e Lucrezia Canalis; fece la vestizione chiericale il 12 nov. 1838 e venne ordinato sacerdote il 4 giu. 1844, era viceparroco della parrocchia dei Santi Pietro e Paolo di Carmagnola; più tardi venne nominato canonico di quella collegiata, morì il 17 ott. 1884 (cf. AAT, Registrum clericorum 1808-1847, rubr. A, 1838; AAT 12.3.12: Registrum ordinationum 1836-1847; Calendarium liturgicum… anno MDCCCXXXV, Taurini, Botta, 1884, 91).

1 Michele Magone arrivò all’Oratorio di Valdocco il 17 ott. 1857 (cf. ASC E720: Censimento dal 1847 al 1869, 10).

2 Per il passato … ed io…: ins. ed. 21866.

3 Sta’ di buon animo; dimmi soltanto se: ins. ed. 21866.

4 Studiare o intraprendere un mestiere: in quell’anno scolastico (1857-1858) nell’Oratorio furono accolti 199 alunni, di cui 121 studenti e 78 artigiani (cf. F. Giraudi, L’oratorio di don Bosco. Inizio e progressivo sviluppo edilizio della Casa madre dei Salesiani in Torino, Torino, Società Editrice Internazionale, 1935, 130). Al momento dell’entrata di Magone le classi di latinità interne all’Oratorio erano tre: la prima affidata a Giovanni Battista Francesia (1838-1930), la seconda al chierico Giovanni Turchi (1838-1909), la terza a un certo don Ramello (cf. MB 5, 753-754). Il ciclo completo delle classi ginnasiali in Valdocco sarà attivo con l’anno scolastico 1859-1860. Dal gennaio 1857 nell’Oratorio esisteva anche una scuola elementare diurna per i ragazzini più poveri della zona (cf. F. Giraudi, L’oratorio di don Bosco, 129). Gli artigiani frequentavano laboratori interni di calzoleria e sartoria (aperti alla fine del 1853), di legatoria (aperto nel 1854), e di falegnameria (aperto nel 1856). Nel 1862 si inaugureranno anche i laboratori dei compositori, degli stampatori e dei fabbri-ferrai (A. Giraudo - G. Biancardi, Qui è vissuto don Bosco, 245-254). Sul rapporto numerico tra studenti e artigiani negli anni di permanenza di Michele Magone all’Oratorio cf. Stella, Don Bosco nella storia economica e sociale, 180-181.

5 È consuetudine … altri compagni: ins. ed. 21866. La prassi è documentata già nella Vita di Domenico Savio: «Era così rassodato nella virtù che fu consigliato di trattenersi anche con alcuni giovani al­quanto discoli per far prova di guadagnarli al Signore. Ed egli approfittava della ricre­azione, dei trastulli, dei discorsi anche in­differenti per tirarne vantaggio spirituale»; nelle conferenze della compagnia dell’Immacolata, tra le altre cose, i giovani membri «si assegnavano a vicenda quei giovani che avevano maggior bisogno di assistenza mo­rale e ciascuno lo faceva suo cliente, ovvero protetto, ed adoperavano tutti i mezzi che suggerisce la carità cristiana per avviarlo alla virtù» (Savio, c. XVIII). Sulla valorizzazione da parte di don Bosco dei giovani migliori nell’educazione dei compagni cf. P. Braido, Prevenire non reprimere. Il sistema educativo di don Bosco, Roma, LAS, 2000, 271.

6 Barrarotta (barra rotta): «I giuocatori devono essere in numero pari, se ve n’è uno dispari lo si riserva per ultimo onde tirarlo a sorte da solo o, come si dice, al volo. Si devono accoppiare a due a due che siano presso a poco della stessa velocità nel correre. Si stabiliscono due capi, che tirano a pari e dispari. Il capo che vince ha diritto di scegliere uno dei due compagni presentati. Terminata la divisione, le due parti si mettono di fronte ad una determinata distanza, per lo più ai due lati opposti del cortile, se questo non è troppo spazioso; diversamente segnano a metà del cortile una barra riservando l’altra contro il muro, al lato opposto. Quindi s’incomincia il gioco. Uno va sino ad un passo dalla parte avversaria, chiama un compagno [avversario] per nome, che lo deve inseguire. Appena quegli che insegue si è alquanto avanzato, uno dalla parte opposta gli va incontro per prenderlo prigioniero (al che basta che lo tocchi); e un altro dall’altra parte viene incontro a questo, succedendosi così l’uno coll’altro, fintantoché qualcuno venga preso. Allora tutti si fermano e ritornano a barra; la parte del vittorioso conta un punto, ed egli s’avanza alla barra avversaria a chiamare, come si è fatto al principio della partita, e così di seguito. Si noti bene che appena uno ha fatto il suo avanzamento, deve ritornare a barra, vuoi per togliersi dal pericolo di farsi prendere dagli avversari partiti dopo, che avrebbero tutto il potere sopra di lui, vuoi per ripigliare il diritto a ripartire contro gli avversari in campo. Vincerà la partita quella parte che per la prima giungerà al numero prefisso di punti, per es.: 12, ossia che ha preso più avversari. Chi è preso durante il giuoco continua a giuocare senz’altro. Se quasi contemporaneamente fossero presi due, non si conta che quello che fu preso prima. Se poi fosse dubbio, allora non si conta né per l’una né per l’altra parte, e si riprende il giuoco dai punti cui si era arrivati. Se qualcheduno s’avanza fino a raggiungere la parte opposta senza farsi prendere, allora conta un punto, tutti ritornano a barra, ed egli si ferma a chiamare» (L. Chiavarino, Il piccolo galateo per uso specialmente degli istituti di educazione e delle famiglie con l’aggiunta di molti giuochi, 5 edizione riveduta, Torino, Libreria Salesiana S. Giovanni Evangelista, 1899, 132-134).

1 Le pratiche di pietà erano considerate da don Bosco un elemento fondamentale della pedagogia dell’Oratorio. Sul ruolo e lo svolgimento delle pratiche di pietà a Valdocco cf. P. Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, vol. II: Mentalità religiosa e spiritualità, Roma, LAS, 1981, 303-309; Braido, Prevenire non reprimere, 258-268.

2 Dal 1853 al 1860 la sacrestia della chiesa di S. Francesco di Sales era situata in una stanza dell’edificio costruito sul luogo della prima cappella dell’Oratorio, dove oggi si trova la cosiddetta “Cappella Pinardi”; l’attuale sacrestia di S. Francesco fu costruita solo nel 1860 (Giraudi, L’oratorio di don Bosco, 80, 116-117).

3 Ciò detto, crollando il capo … in un pasticcio: ins. ed. 21866.

4 Come mai potrò … Non affannarti: ins. ed. 21866.

5 Buona confessione: cf. le indicazioni offerte da don Bosco: Maniera pratica per accostarsi degnamente al sacramento della confessione, in Bosco, Il giovane provveduto, ed. 21851, 93-98.

1 È lecito supporre che il confessore fosse lo stesso don Bosco; secondo la prassi dell’Oratorio, il direttore era anche confessore ordinario dei giovani (Stella, Don Bosco nella storia della religiosità, II, 310-311).

2 Sono immagini comuni nella predicazione del tempo, che Michele Magone poteva anche trovare nella descrizione dell’inferno fatta dal libro di pietà in uso all’Oratorio: «Fuoco negli occhi, fuoco nella bocca, fuoco in ogni parte. Ogni senso patisce la propria pena. Gli occhi sono accecati dal fuoco e dalle tenebre, atterriti dalla vista dei demoni e degli altri dannati. Le orecchie giorno e notte odono continui urli, pianti e bestemmie […] » (Bosco, Il giovane provveduto, ed. 21851, 43-44).

3 È un riflesso della lettura del Giovane provveduto e dei consueti discorsi di don Bosco: «Dovete altresì eccitarvi ad un vero dolore riflettendo seriamente che il peccato è un gran male. Il peccato vi apre l’inferno sotto i piedi. Che gran male, oh spavento!… Vi chiude il paradiso; che grave perdita!... Vi fa nemici d’Iddio e schiavi dei demoni» (Bosco, Il giovane provveduto, ed. 21851, 95).

4 «Questo dispiacere vi deve condurre al proponimento, ossia a fare una promessa di non voler mai più offendere Iddio per l’avvenire […]. Bisogna che facciate una promessa al Signore che non volete più commettere tali peccati anche a costo di patire qualunque male» (Bosco, Il giovane provveduto, ed. 21851, 95-96). Il discorso di Magone rispecchia verosimilmente lo stato d’animo del giovane, ma è rielaborato dall’autore per trasmettere un messaggio pedagogico, come fa notare A. Caviglia, Il “Magone Michele”. Un classica esperienza educativa, in «Salesianum» 11 (1949) 461; cf. P. Stella, Valori spirituali nel «Giovane provveduto» di san Giovanni Bosco, Roma, Scuola Grafica Borgo Ragazzi Don Bosco, 1960, 89-90.

1 «Sapete che cosa dir voglia cadere in peccato mortale? Vuol dire rinunziare all’essere figliuoli di Dio, per farci figli di satanasso. Vuol dire perdere quella bellezza che ci rende belli come angeli agli occhi d’Iddio e diventare deformi al suo cospetto come i demoni. Vuol dire perdere tutti i meriti già acquistati per la vita eterna; vuol dire restare sospesi per un filo sottilissimo sopra la bocca dell’inferno; vuol dire ingiuriare enormemente una bontà infinita, che è il male più grande che si possa immaginare» (Bosco, Il giovane provveduto, ed. 21851, 51-52).

2 Fare quanto potete … in confessione: nella I ed. si leggeva: «confessare sempre qualunque peccato, senza lasciarvi indurre dal demonio a tacerne alcuno».

3 Don Bosco riprende e sviluppa le ragioni espresse nel Giovane provveduto: «Perciò non abbiate timore alcuno da parte del confessore, egli si rallegra sentendo che voi gli confidate quello che faceste. Altronde siate certi che il sacerdote non può dire a veruno le cose da voi confessate, e non se ne può servire quand’anche si trattasse di evitar la morte. Coraggio dunque, [per] primo confessate quel peccato che vi fa più pena» (Bosco, Il giovane provveduto, ed. 21851, 96).

4 Tacendo per vergogna: uno degli aspetti del sacramento sul quale don Bosco insiste maggiormente: «Vi debbo avvertire di non tacer mai alcun peccato in confessione. Prima che si pecchi il demonio vi dice che non vi è gran male in quell’azione; dopo fa quanto può per farvene vergognare, onde la tacciate, e facciate una confessione sacrilega» (Bosco, Il giovane provveduto, ed. 21851, 96). Sono raccomandazioni messe sul labbro dei genitori intenti a preparare i figli alla prima comunione: «Abbi cura soprattutto di non tacere alcun peccato in confessione; bisogna confessarli tutti, pentirsi di tutti e prendere la risoluzione di condurre una vita migliore colla grazia di Dio» (G. Bosco, La forza della buona educazione: curioso episodio contemporaneo, Torino, Tip. Paravia e Comp., 1855, 20-21, in OE VI, 294-295).

5 Sulla frequenza al sacramento nell’ambiente di Valdocco cf. Regolamento per le case della Società di S. Francesco di Sales, Torino, Tipografia Salesiana, 1877, 63: «Eleggettevi un confessore stabile, a lui aprite ogni segretezza del vostro cuore ogni otto o quindici giorni od almeno una volta al mese, siccome dice il Catechismo romano» (cf. anche Regolamento dell’Oratorio di S. Francesco di Sales per gli esterni, Torino, Tipografia Salesiana, 1877, 38-39, in OE XXIX, 38-39).

6 Che se mai questo scritto fosse letto: questo paragrafo sarà ripreso, con modifiche, nel capo XIX della Vita di Francesco Besucco.

7 I consigli che seguono si ispirano, in parte, agli Avvertimenti a’ confessori di sant’Alfonso (cf. Alfonso Maria de Liguori, Il confessore diretto per le confessioni della gente di campagna, in Opere di S. Alfonso Maria de Liguori, vol. IX: Operette morali italiane, Torino, Pier Giacinto Marietti, 1880, 780).

1 Don Bosco suggeriva ai giovani l’esame di confessione come strumento indispensabile per accostarsi al sacramento colle debite disposizioni: «La prima di esse consiste nel fare l’esame di coscienza, vale a dire richiamarvi a memoria le vostre azioni per iscoprire quali siano state buone e quali peccaminose. Cominciate col pregare il Signore che v’illumini […]. Esaminatevi se parlaste male delle cose di religione; se bestemmiaste, nominaste il nome d’Iddio in vano; se ascoltaste la santa Messa nei giorni festivi con esservi occupato in opere di pietà, o piuttosto vi occupaste in lavori proibiti. Esaminatevi se disobbediste ai vostri parenti, superiori o maestri, o deste loro qualche risposta insolente; se foste di scandalo in Chiesa o fuori di Chiesa, specialmente con discorsi osceni o con cattivi consigli; se rubaste qualche cosa in casa o fuori di casa. Notate che si può anche rubare non occupando il tempo in quelle cose che vi sono comandate. Se diceste, ascoltaste, faceste, permetteste, o anche solo pensaste alcuna cosa contro l’onestà» (Bosco, Il giovane provveduto, ed. 21851, 93-94).

2 Fu talvolta vedutotestimonio oculare: ins. ed. 21866.

3 Sulle preghiere di ringraziamento dopo la confessione e la comunione cf. Bosco, Il giovane provveduto, ed. 21851, 97-98, 101-103; sulle speciali preghiere al santissimo Sacramento e a Maria Vergine cf. ibid., 103-105, 108-124.

1 A distanza di anni, don Bosco ricorderà con nostalgia le ricreazioni dell’Oratorio: «Mi pareva di essere nell’antico Oratorio nell’ora della ricreazione. Era una scena tutta vita, tutta moto, tutta allegria. Chi correva, chi saltava, chi faceva saltare. Qui si giuocava alla rana, là a bararotta ed al pallone. In un luogo era radunato un crocchio di giovani che pendeva dal labbro di un prete il quale narrava una storiella. In un altro luogo un chierico che in mezzo ad altri giovanetti giuocava all’asino vola ed ai mestieri. Si cantava, si rideva da tutte parti e dovunque chierici e preti e intorno ad essi i giovani che schiamazzavano allegramente» (G. Bosco, Lettera ai giovani dell’Oratorio di Torino-Valdocco, in P. Braido (ed.), Don Bosco educatore. Scritti e testimonianze, Roma, LAS, 1992, 373). La ricreazione era considerata uno degli elementi educativi più caratteristici del sistema preventivo: «Si dia ampia facoltà di saltare, correre, schiamazzare a piacimento» (G. Bosco, Il sistema preventivo nella educazione della gioventù, ibid., 251).

2 Giovanni Battista Francesia: nato a San Giorgio Canavese (3 ott. 1838) da Giacomo e Domenica Masero, entrato all’Oratorio nel giu. 1852 (cf. ASC E720, Censimento dal 1847 al 1869, 1), fece la vestizione per mano di don Bosco (4 ott. 1855), fu il primo professore di latino nelle scuole dell’oratorio (dal 1855 in poi); tra i soci fondatori della Società Salesiana (18 dic. 1859), emise i primi voti il 14 mag. 1862; ordinato sacerdotale (14 giu. 1862), venne nominato direttore spirituale della Società Salesiana nel 1865, nel 1869 direttore della scuola di Cherasco (Cuneo); tra 1878-1895 fu ispettore del Piemonte e tra 1896-1902 ispettore del Veneto (cf. AAT, 12.12.3: Registrum clericorum 1808-1847, rubr. F, 1855; AAT 12.3.14: Registrum ordinationum 1848-1871; E. Valentini - A. Rodinò, Dizionario biografico dei salesiani, Ufficio Stampa Salesiano, Torino 1969, 128-139; E. Valentini, Giovanni Battista Francesia scrittore, in «Salesianum» 38 (1976) 127-168).

3 Dovrebbe dire: Petrarca (1304-1374); infatti è un verso del sonetto 213 del Canzoniere: «Grazie ch’a pochi il ciel largo destina: | rara vertú, non già d’umana gente, | sotto biondi capei canuta mente, | e ‘n humil donna alta beltà divina» (F. Petrarca, Canzoniere. Introduzione e note di P. Cudini, Milano, Garzanti, 1974, 283).

4 Distico: coppia di versi greci o latini che vanno declamati secondo precise regole ritmiche di sillabe lunghe e brevi. Era in uso nelle scuole del tempo una lettura metrica che produceva l’effetto di una cantilena.

5 Troviamo la stessa affermazione nella vita di Besucco, dove ne viene data la spiegazione: «In ogni momento di tempo noi possiamo acquistarci qualche cognizione scientifica o religiosa, possiamo praticare qualche virtù, fare un atto di amor di Dio, le quali cose avanti al Signore sono altrettanti tesori, che ci gioveranno per il tempo e per l’eternità» (Besucco, c. XVIII).

6 Il servizio ai compagni era un elemento portante del modello educativo di don Bosco: «Il pulire le scarpe, spazzolare abiti ai compagni, prestare agli infermi i più bassi uffizi, scopare e fare altri simili lavori era per lui un gradito passatempo» (Savio, c. XVI).

1 Pr 9,4: «Chi è piccolo venga da me». Il versetto si riferisce alla Sapienza divina; don Bosco, seguendo la tradizione cattolica, lo mette sulle labbra di Maria: «Un sostegno grande per voi, miei figliuoli, è la divozione a Maria Santissima. Ascoltate come ella v’invita: Si quis est parvulus veniat ad me. Chi è fanciullo venga a me. Ella vi assicura, che se sarete suoi divoti oltre a colmarvi di benedizioni in questo mondo, avrete il paradiso nell’altra vita» (Bosco, Il giovane provveduto, ed. 21851, 51).

2 Sal 34,12.

3 Fioretti: pratica devota, liberamente suggerita da don Bosco, che tendeva a orientare la devozione in funzione della crescita nell’impegno virtuoso quotidiano: «Scrisse egli nove fioretti, ovvero nove atti di virtù da praticarsi, estraendone a sorte uno per giorno» (Savio, c. VIII). Per capire in che cosa consistessero questi fioretti si veda la lista inserita nel volumetto sul modo di celebrare il mese di maggio: «Fioretti da cavarsi a sorte e da praticarsene uno in ciascun giorno del mese» (G. Bosco, Il mese di maggio consacrato a Maria SS. Immacolata ad uso del popolo, Torino, Tip. G.B. Paravia e Comp., 1858, 9-11, in OE X, 303-305).

4 Qui si fa riferimento ad un passo delle Sei domeniche in onore di S. Luigi Gonzaga (S. Luigi esemplare nella virtù della purità) che Michele Magone poteva leggere sul Giovane provveduto: «Aveva solo dieci anni, quando conosciuto il gran pregio di questa virtù, la offerì con voto alla regina dei vergini Maria Santissima, la quale gradì per modo tal voto, che S. Luigi non provò mai tentazione contro questa virtù, ed ebbe la gloria di portar nell’altra vita senza macchia la stola dell’innocenza battesimale» (Bosco, Il giovane provveduto, ed. 21851, 60). Analogo passo si trova in Bosco, Il mese di maggio, 153-154 (in OE X, 447-448): «S. Luigi può servire di modello a tutti quelli che desiderano di conservare la virtù di cui parliamo […]. All’età di soli dieci anni egli fece voto di perpetua castità mettendosi tutto sotto alla potente protezione di Maria, pregandola di aiutarlo a conservare tale virtù fino alla morte».

1 Nel «Giorno vigesimosesto» del Mese di maggio, Magone poteva aver letto la meditazione su La virtù della purità (cf. Bosco, Il mese di maggio, 150-153, in OE X, 444-447).

2 I suggerimenti che seguono sono in parte tratti dall’istruzione sul Modo di portarsi nelle tentazioni, inserita nel Giovane provveduto: «Gioverà moltissimo a preservarvi dalle tentazioni il rimanervi lontani dalle occasioni, dalle conversazioni scandalose, dai pubblici spettacoli, dove non c’è niente di bene, e per lo più s’impara sempre qualche cosa di cattivo. Procurate di star sempre occupati, e quando non sapete che fare, adornate altarini, aggiustate immagini o quadrettini, o almeno andate a passare qualche tempo in onesto divertimento, ben inteso con licenza dei genitori. Quando poi siete tentati non fermatevi aspettando che il demonio prenda possesso del vostro cuore, ma fate subito qualche cosa per liberarvene, o per mezzo del lavoro, o per mezzo della preghiera. Se poi la tentazione continua fate il segno della santa croce, baciate qualche cosa benedetta, dicendo: Luigi santo, fate ch’io non offenda il mio Dio» (Bosco, Il giovane provveduto, ed. 21851, 26-27).

3 «Rallegrati, o Sposa dello Spirito Santo, per quel contento che ora godete in paradiso, perché per la vostra purità e verginità siete esaltata sopra tutti gli Angeli e sublimata sopra tutti i Santi» (ibid., 122).

4 Cf. Corona di Maria Addolorata (ibid., 114-119), pratica devota consistente nella meditazione «degli acerbissimi dolori, che la B.V. Maria patì nella vita e nella morte del suo amato figlio» (ibid., 114). I Sette Dolori di Maria corrispondono ad altrettanti episodi narrati nel Vangelo: 1) La profezia di Simeone: «Questo Figlio sarà una spada che trapasserà l’anima tua»; 2) La fuga in Egitto: «per la persecuzione di Erode, che empiamente cercava di uccidere il suo amato Figlio»; 3) Gesù smarrito nel Tempio: «e per tre giorni continui ne sospirò la perdita»; 4) Incontro di Gesù «che portava una pesante croce sulle delicate spalle sopra il monte Calvario»; 5) Crocifissione di Gesù: «quando vide il suo Figlio alzato sopra il duro tronco della croce, che da ogni parte del suo sacratissimo corpo versava sangue»; 6) Deposizione di Gesù dalla croce: «così spietatamente ucciso, venne posto tra le sue santissime braccia»; 7) Sepoltura di Gesù (ibid. 115-117).

1 Sta’ allegro … purché non trascuri i tuoi doveri: «Sappi che noi qui facciamo consistere la santità nello star molto allegri. Noi procureremo soltanto di evitar il peccato, come un gran nemico che ci ruba la grazia di Dio e la pace del cuore, procureremo di adempiere esattamente i nostri doveri, e frequentare le cose di pietà» (Savio, c. XVIII).

1 Piazza Castello: una delle principali di Torino; progettata nel 1584 da Ascanio Vitozzi è quasi completamente circondata da portici. Su di essa si affacciano la chiesa di San Lorenzo, il Palazzo Reale, la Biblioteca e l’Armeria Reale, il Palazzo del Governo (oggi sede della Prefettura), l’Archivio di Stato, il Teatro Regio e, al centro, l’antica dimora dei Savoia-Acaja (Palazzo Madama), una casaforte costruita sull’antica Porta Decumana, mascherata nel 1721 da una sontuosa facciata barocca di Filippo Juvarra, cf. Casalis, Dizionario, vol. XXI (1851), 412-414; G. Romano (cur.), Palazzo Madama a Torino. Da castello medioevale a museo della città, Torino, Fondazione CRT, 2006.

1 Nel corso di quelle vacanze, la prima domenica di ottobre, si celebrò solennemente la festa della Madonna del Rosario; l’evento è ricordato da un giornale cattolico di Torino: «Festa del SS. Rosario. Il 3 del corrente una sessantina di giovani dell’Oratorio di S. Francesco di Sales, condotti dall’ottimo loro direttore D. Bosco, si recavano a Castelnuovo d’Asti a celebrare la festa del SS. Rosario nel luogo detto i Becchi. La solennità fu oltremodo cosa edificante nel vedere quella divota gioventù accostarsi alla sacra mensa insieme con molte altre persone venute da quei dintorni. La musica della messa grande e della benedizione del SS. Sacramento, eseguita dai giovani stessi, riuscì non meno divota che splendida» (L’Armonia, 8 ottobre 1858, 4). Sulle passeggiate fatte durante le vacanze ai Becchi cf. G.B. Francesia, Don Bosco e le sue passeggiate autunnali nel Monferrato, Torino, Libreria Salesiana S. Giovanni Evangelista, 1897; L. Deambrogio, Le passeggiate autunnali di D. Bosco per i colli monferrini, Castelnuovo Don Bosco (AT), Istituto Salesiano “Bernardi Semeria”, 1975.

2 Chieri: città manifatturiera situata a 16 km ad est di Torino, sul margine meridionale delle colline del Po. Nel 1858 la città contava 15.033 abitanti (cf. Calendario generale del Regno pel 1859 compilato d’ordine del Re per cura del Ministero dell’Interno…. Anno XXXVI, Torino, Stamperia degli Artisti Tipografi, 1858).

3 Marco Gonella: (1822-1886), banchiere e benefattore dell’Oratorio, aiutò don Bosco in diversi modi; ad esempio, nel 1851 diede un sostanzioso contributo per la costruzione della chiesa di San Francesco di Sales e nel 1857 fu direttore della commissione di una lotteria organizzata da don Bosco a vantaggio della sua opera (cf. Stella, Don Bosco nella storia economica e sociale, 98, 102, 418).

4 Dirò soltanto che … e le vostre fatiche: ins. ed. 21866.

5 Era Antonio Pietro Michele Cinzano: nato a Pecetto Torinese (16 nov. 1804) da Giovanni e Maria Corte; fece la vestizione chiericale nel 1820, si laureò in teologia e venne ordinato sacerdote il 31 mar. 1828; fu parroco di Castelnuovo dal 1834 alla morte (6 mar. 1870). Ogni anno accoglieva i ragazzi di don Bosco durante le vacanze, il lunedì dopo la festa del Rosario, e offriva loro polenta e companatico (cf. AAT, 12.12.3: Registrum clericorum 1808-1847, rubr. C, 1820; AAT 12.3.9: Registrum ordinationum 1826-1830; Deambrogio, Le passeggiate autunnali di D. Bosco, 112-113; 121-123).

6 Al piano terra della casa di Giuseppe Bosco, fratello del santo, c’è una cappella dedicata alla Madonna del Rosario, inaugurata l’8 ottobre 1848. «Il santo, fino al 1869, vi celebrava ogni anno la festa della Madonna del Rosario, solennizzandola con la presenza della banda musicale e del coro dei ragazzi di Valdocco. Il locale è il primo centro di culto mariano voluto da don Bosco e testimone privilegiato degli inizi della Congregazione Salesiana: qui infatti, il 3 ottobre 1852, Michele Rua e Giuseppe Rocchietti ricevettero l’abito chiericale» (Giraudo - Biancardi, Qui è vissuto don Bosco, 30-31).

1 De profundis: incipit del salmo 129 nella versione della Vulgata. Il salmo è usato nella liturgia dei defunti.

2 Cagionava certamente … loro proponeva: ins. ed. 21866.

3 Il chierico Giovanni Bonetti (1838-1891) annotò quel discorsetto serale sulla sua cronaca del 31 dic. 1858: don Bosco aveva lasciato agli ascoltatori alcuni ricordi: «Ai chierici esemplarità, ricordandosi sempre che sono lumen Christi. Agli studenti frequenza tanto che possono alla SS. Eucaristia. Agli operai […] frequenza ai santi sacramenti nei giorni festivi. A tutti in generale poi, buone confessioni: aprire apertamente il vostro cuore al confessore, poiché se il demonio fa tanto che possa indurre uno a tacere in confessione costui giace in uno stato il più infelice. Dunque in tutte le vostre confessioni vi sia col dolore, il proponimento fermo. Ma una cosa che abbiamo tra noi, che non la conosciamo quanto sia efficace ella si è il ricorso a M. V. Recitate e fatevi famigliare quella bella parola che le disse l’angelo: Ave Maria» (ASC A004061, G. Bonetti, Cronaca 1858…, 35). Gli appunti di Bonetti sono rielaborati da G.B. Lemoyne in MB 6, 114-116, coll’aggiunta di quanto don Bosco scrive qui nella vita di Magone.

4 Nella I ed. era scritto: fortuito incidente.

5 Fondata a Valdocco sul finire del 1857 dal chierico Giuseppe Bongioanni (1836-1868) per promuovere la devozione all’Eucaristia e per il servizio all’altare (cf. Valentini - Rodinò, Dizionario biografico dei salesiani, 47-48; Stella, Don Bosco nella storia della religiosità, II, 350-351; MB 5, 759-761). Si veda il profilo biografico di Giuseppe Bongioanni in Savio, c. XVII.

6 «Ecco i principali articoli del regolamento di questa Compagnia: 1. Lo scopo principale di questa compagnia si è di promuovere l’adorazione verso alla santa Eucaristia, e risarcire Gesù Cristo degli oltraggi che dagli infedeli e dagli eretici e dai cattivi cristiani riceve in questo augustissimo sacramento. 2. A questo fine i confratelli procureranno di ripartire le loro comunioni in modo, che vi possa essere ogni giorno qualche comunione. Ciascun confratello col permesso del confessore avrà cura di comunicarsi nei giorni festivi ed una volta lungo la settimana. 3. Si presterà con prontezza speciale a tutte le funzioni dirette al culto della santa Eucaristia, come sarebbe servire la santa Messa, assistere alla benedizione del Venerabile, accompagnare il Viatico quando è portato agli infermi, visitare il santissimo Sacramento quando è nascosto nel Santo Tabernacolo, ma specialmente quando sta esposto nelle Quarant’ore. 4. Ognuno procuri d’imparare a servire bene la santa Messa facendo con esattezza tutte le cerimonie, e proferendo divotamente e distintamente le parole che occorrono in questo sublime ministero. 5. Si terrà una conferenza spirituale per settimana, cui ognuno si darà premura d’intervenire, e d’invitare gli altri a venirvi pure con puntualità. 6. Nelle conferenze si tratteranno cose che riguardino il culto verso il santissimo Sacramento come sarebbe incoraggiare a comunicarsi col massimo raccoglimento, istruire ed assistere quelli che fanno la loro prima comunione, aiutare a far la preparazione ed il ringraziamento quelli che ne avessero bisogno, diffondere libri, immagini, foglietti che tendano a questo scopo. 7. Dopo la conferenza si tirerà un fioretto spirituale da mettere in pratica nel corso della settimana» (nota ins. in I ed. 1861).

7 Cf. Mc 13,33-37.

1 Madre di Michele era Giovanna Maria Stella vedova Magone, di professione sarta; qualche tempo dopo la morte del figlio andrà a stabilirsi all’Oratorio; scrive Angelo Amadei: «Nel 1872, e precisamente il 20 gennaio, cessava di vivere nell'Oratorio Giovanna Maria Magone, della quale don Rua nel suo quaderno dei “Defunti” scriveva quest’elogio: – Fortunata di essere madre dell’ottimo giovanetto Magone Michele, si diede all’occasione della morte di lui di tutto cuore al Signore. Ottenne di venir a finire i suoi giorni nella casa dove erasi santificato suo figlio, e riconoscente per il favore lavorava indefessa e al mattino la prima messa che celebravasi nell’Oratorio era sempre da lei udita. Pregava volentieri e temeva il peccato come un serpente. Dopo sette giorni di malattia, morì con tutti i conforti della religione, pienamente rassegnata ed invocando Gesù, Maria, Giuseppe ed il suo Michele, a cui domandava che la prendesse con lui in paradiso» (MB 10, 299).

2 I vescicanti sono sostanze irritanti «che agiscono localmente sui tessuti cutanei e mucosi provocando un aumento della circolazione sulle zone interessate per vasodilatazione localizzata» (Dizionario della medicina, Milano, Fratelli Fabbri editori, 1981, vol. VI, 2735).

1 Agostino Zattini: sacerdote di Brescia, professore di filosofia e oratore, perseguitato politico in patria era stato accolto da don Bosco nell’Oratorio alla fine del 1857. Di lui scrive Lemoyne: «Dalle sue labbra non sfuggì mai nell’Oratorio parola di politica e volentieri accettò di fare scuola del leggere e scrivere ai rozzi giovanetti esterni. Egli era modello di umiltà e di pietà» (MB 4, 421). Don Bosco gli aveva affidato le scuole elementari diurne dell’Oratorio: «Questi, benché professore di filosofia, con mirabile pazienza ed umiltà si assoggettò per circa due anni alla pesante occupazione d’insegnare l’alfabeto e qualche elemento di grammatica italiana ad una numerosa scolaresca ineducata e talora schernitrice. Essendo egli ignaro del dialetto piemontese, succedevano equivoci» (MB 6, 159). Nell’anno 1858-59 aveva anche l’incarico della conferenza settimanale agli studenti dell’Oratorio, «e talora il mercoledì e talora la domenica mattina dopo la seconda messa, spiegava il salmo e tutte le altre preghiere e risposte dei servienti al santo sacrificio, acciocché s’intendesse bene ciò che si recitava» (MB 6, 209).

2 «Questo virtuoso sacerdote dopo una vita consumata in modo il più esemplare nel sacro ministero ed in opere varie di carità, dopo lunga malattia moriva in Lanzo il giorno 8 ottobre 1865. Ora si sta compilando una biografia delle sue azioni che speriamo tornerà di gradimento ai suoi amici e a quanti si compiaceranno di leggerla» (nota ins. ed. 21866). Vittorio Michele Alasonatti, nato ad Avigliana (15 nov. 1812) da Giovanni e Teresa, fece la vestizione chiericale il 21 ott. 1826; ordinato sacerdote (9 giu. 1835), fu per vari anni maestro comunale e cappellano ad Avigliana; il 14 ago. 1854, seguendo l’invito di don Bosco che intendeva ampliare l’accoglienza di ragazzi interni a Valdocco, abbandonò tutto e si stabilì all’Oratorio in qualità di prefetto; nella seduta di fondazione della Società Salesiana (18 dic. 1859) fu eletto prefetto generale della Congregazione; dopo la morte di D. Domenico Ruffino, nel lug. 1865, inviato a Lanzo, stroncato dalle fatiche morì il 7 ott. 1865 (cf. AAT, 12.12.3: Registrum clericorum 1808-1847, rubr. A, 1826; AAT 12.3.11: Registrum ordinationum 1834-1835; G.B. Francesia, D. Vittorio Alasonatti, primo prefetto della Pia Società Salesiana. Cenni biografici, S. Benigno Canavese, Tipografia e Libreria Salesiana, 1893).

3 Il sacramento dell’Estrema unzione (oggi chiamato Unzione degli infermi) consiste nel fare, col pollice intinto nell’olio degli infermi, una croce sulle palpebre, sul lobo degli orecchi, sul naso, sulla bocca, sulle mani e sui piedi, accompagnando il gesto con l’orazione: «Per istam sanctam unctionem, et suam piissimam misericordiam, indulgeat tibi Dominus quidquid per visum [auditum / odoratum / gustum et locutionem / tactum / gressum] deliquisti. Amen» (cf. Rituale Romanum, editio princeps 1614. Edizione anastatica, introduzione e appendice a cura di M. Sodi e J.J. Flores Arcas; presentazione di A.M. Triacca, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2004, 59-63).

4 Incipit della Commendatio animae, la preghiera recitata dal sacerdote nel momento del “transito dell’anima” da questo mondo all’eternità, per affidarla alla misericordia di Dio; faceva parte dell’Ordo commendationis animae (cf. Rituale Romanum. Editio princeps, 86-108).

1 Cf. Sal 116,15.

2 Nella I ed. (1861) era specificato il nome del collega: «D. Turchi»; Giovanni Rocco Turchi, nato a Castelnuovo d’Asti (22 mar. 1838) da Domenico e Giuseppina Scanavino, accolto a Valdocco nel 1851 come studente ginnasiale, fece la vestizione chiericale per mano di don Bosco (4 nov. 1854) e venne ordinato sacerdote nel maggio 1861. Era uno dei chierici ospitati a Valdocco in seguito al sequestro del seminario diocesano da parte del governo piemontese. Laureato in lettere, fino all’ordinazione collaborò come insegnante nel ginnasio dell’Oratorio, poi insegnò in varie istituzioni private e pubbliche; terminò la sua carriera in qualità di direttore dell’Istituto dei ciechi di Torino, dove morì l’11 gen. 1909.

3 Cf. Sal 72,16.

4 Cf. Sap. 3,1.

5 Il testo originale è conservato in ASC A2320101: In morte di Michele Magone di Carmagnola, ms. Zattini (il brano citato si trova alle pp. 12-13).

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Le notizie biografiche dei primi 14 capitoli sono tratte da un documentato memoriale del parroco (ASC A2280701: Vita del pio giovanetto Besucco Francesco, ms. F. Pepino, con annotazioni aut. di don Bosco, s.d. [gen. 1864], 22 pp.); scrisse il parroco inviando il documento: «Solamente questa mattina ho potuto terminare di scrivere quanto ho potuto raccorre sulla vita del mio carissimo figlioccio, a cui imprestai il mio nome nel battesimo. Io non so come troverà questi cenni; però a dir la verità era questa comunque opera affatto superiore alle mie forze, e se non fosse d’un aiuto straordinario avuto, sarei stato costretto a rifiutare l’onorevole incarico. Da quel giorno in cui ho ricevuto la notizia della morte del nostro Francesco, mi parve sempre d’averlo ai panni, di notte restava insonne la maggior parte e con una tranquillità insolita, e mi sembrava di sentir Francesco che mi mettesse in mente di scrivere queste ed altre notizie a lui relative, delle quali mi ricordava poi dopo una seria meditazione: io lo vedeva in chiesa a servir la messa, a far la Via Crucis, il catechismo, a recitar rosarii etc. E con questa evidente cooperazione, che desidero continua per l’emendazione della mia vita e per poter fare in tutto sempre l’unica volontà di Dio per cui tanto m’era già raccomandato alle fervorose preghiere di Francesco ancor vivo, spero d’aver secondato il pio desiderio di Lei, che onoro come il mio principale benefattore perché ne fece l’ufficio con Francesco il quale le sarà sempre ai cenni. Sì io sono tanto persuaso che Ella possa ottenere da Gesù e Maria per le preghiere di Francesco tutti i favori spirituali che desidera, che io oso pregarla affinché interceda per me le grazie surriferite» (ASC A1010909: lett. F. Pepino - G. Bosco, 1 feb. 1864, f1r.-1v.).

2 Cf. ASC A1010914: Relazione del maestro di scuola, ms. di A. Valorso, s.d. [gen.-feb. 1864].

3 ho procurato … accuratamente: corr. ed. 1864 «non ho dovuto far altro, che raccogliere».

4 dei fatti, i quali: corr. ed. 1864 «delle cose le quali certamente».

5 ancora vi prego: corr. ed. 1864 «poi dovete».

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Colle della Maddalena, in francese Col de Larche: situato a 1.996 m sul livello del mare, separa le Alpi Marittime dalle Alpi Cozie e segna il confine tra Italia (Valle Stura) e Francia (Val d’Ubaye). Fu luogo di transito fin dall’antichità; vi passava la via Emilia (80 a.C.), della quale restano alcune vestigia. Il colle non è «la cresta più elevata delle Alpi»: ai suoi lati, verso l’Italia, si eleva a destra una catena che culmina nel monte Enchastraye (Tête de l’Enchastraye, 2.955 m) e a sinistra il monte della Signora (2.776 m) e il Vanclava (2.874 m).

2 Stura: fiume che nasce sul versante italiano del Colle della Maddalena e dà il nome alla profonda valle che percorre (Valle Stura); dopo 111 km confluisce nel fiume Tanaro; viene chiamato Stura di Demonte, dal nome del centro abitato più importante della valle.

3 È il Vallon de Larche, sul versante francese, ramificazione della Vallée de l’Ubaye, nel dipartimento delle Alpes-de-Haute-Provence (che fino al 1970 era chiamato dipartimento delle Basses-Alpes).

4 Cuneo: città vescovile, capoluogo di mandamento e di provincia, posta a 544 metri sul livello del mare, sulla confluenza del fiume Stura e del torrente Gesso; nel censimento 1862 aveva 23.012 abitanti; distante 92 km da Torino. Saluzzo: città vescovile, già capitale del marchesato omonimo, a 287 metri sul livello del mare; nel 1862 aveva 16.208 abitanti; dista 33 km da Cuneo (cf. Dizionario dei comuni del regno d’Italia, 64 e 157; Stefani, Dizionario generale, 405 e 1052).

5 La distanza tra Argentera e il confine francese (sul Colle della Maddalena) è di circa 6 km. Don Bosco interpreta erroneamente informazioni sommarie fornitegli dal parroco: «L’Argentera è posta sulla sommità delle Alpi in modo che appena vi saranno dalla villa ai confini dell’Italia metri 80 di ascesa [= di dislivello] e chilometri 5 di distanza, al termine dei quali si discende per la valle delle Basse Alpi in Francia il cui primo paese chiamasi Meyronnes, attraversando il Colle della Maddalena che divide l’Italia dalla Francia. Sul colle vicino al lago detto anche della Maddalena esiste una cappelletta da me fatta costrurre l’anno 1850, sotto la quale esce una fonte quasi perenne che stilla acqua, detta perciò la lagrima della Maddalena, per la costante tradizione di questi popolani i quali credono che S. Maria Maddalena penitente da Marsiglia siasi rifugiata per qualche tempo nel medesimo colle che ne porta il nome» (ASC A1010912: lett. F. Pepino - G. Bosco, 6 giu. 1864).

6 Argentera: (1684 m) è il nome di una frazione dell’omonimo comune della provincia di Cuneo, da cui dista 62 km. Il suo nome deriva dalle miniere d’argento che vi si trovavano nell’antichità. Il territorio del comune si estende per 76 kmq ed è suddiviso nelle frazioni di Argentera, Grangie, Bersezio e Ferriere; è coltivato a ortaggi e prati vicino alle case, coperto di boschi di conifere sui versanti che formano la valle, da pascoli ai piedi delle rocce e da alte cime, tra le quali l’Oserot (m 2860), l’Enchestraye (m 2995) e la Rocca dei Tre Vescovi (m 2867). La chiesa parrocchiale della frazione Argentera, costruita nel 1580, è dedicata ai santi Pietro e Paolo. Da una lettera del parroco sappiamo che nel 1860 la popolazione della parrocchia era di 299 persone, «molto scarsa di beni di fortuna […]. Nell’inverno gli uomini e i giovani emigrano cercando altrove quel lavoro, che in detto tempo manca nel paese, ed in grazia di questa loro sollecitudine per il lavoro non esiste più alcun accattone» (AST, Gran Cancelleria, m. 447/1, n. 207: lett. F. Pepino - Ministro di Grazia e Giustizia, 14 ago. 1860).

7 La madre, Rosa Robert, era nativa della frazione Marboinet di Larche, paese sul versante francese, a 12,5 km da Argentera. Francesco era l’ultimo nato di sette figli: tre maschi (Giovanni Giuseppe, Matteo e Francesco) e quattro femmine (Anna, Valentina, Maria e Filomena). La sorella Filomena era morta nel 1849 «all’età d’anni otto lasciando in grave afflizione quella famiglia» (ASC A2280701: Vita del pio giovanetto Besucco Francesco, ms. F. Pepino, s.d. [gen. 1864], f1r).

8 Francesco Pepino (1817-1899), fu parroco di Argentera dal 1848 al 1876, quando si ritirò a Limone Piemonte (Cuneo) come cappellano della chiesa annessa all’ex Convento dei Cappuccini (cf. A. Martini, Argentera: Francesco Besucco e Benedetto crocifisso, Borgo S. Dalmazzo, Tipolitografia Martini, 2008, 51; Sanctae cuneensis ecclesiae calendarium liturgicum… anno universalis jubilaei 1900, Cunei, ex Typographia Subalpina, 1900, 63).

9 Anna Biagia Grosso († 1853), di Entraque (Cuneo), vedova di Giovanni Pepino.

1 Cf. Lc 2,52.

2 «La casa del Besucco trovasi nel centro della villa dalla parte di ponente distante dalla chiesa parrocchiale non più di 30 metri» (ASC A1010912: lett. F. Pepino - G. Bosco, 6 giu. 1864).

3 Traduzione italiana di una formula di preghiera dialettale occitana, ritmata e in rima (simile a quelle riportate più avanti nei cap. VII e XXIV), appartenente ad un patrimonio popolare molto antico, oggi quasi scomparso, che aveva funzione cultuale e istruttivo-sapienziale. Argentera e la valle Stura di Demonte appartengono all’area dialettale occitana, insieme ad altre valli del Piemonte sud-occidentale (Vermenagna, Gesso, Grana, Varaita, Po, Chisone e alta Val Susa), cf. I dialetti italiani, vol. 2: Storia, struttura, uso, a cura di M. Cortellazzo e N. De Blasi, Torino, UTET, 2002, 152.

1 Scuola: era una scuola rurale unica, dove un solo maestro insegnava contemporaneamente ad allievi di due o tre classi raccolti nella stessa aula; prevista dalla legislazione per favorire l’istruzione elementare nei villaggi più remoti e poveri. La legge Casati sul riordinamento della scuola pubblica (13 nov. 1859, Atti del Governo, N. 3725), affidava l’istruzione elementare ai municipi locali e la divideva in due gradi: «il corso inferiore e superiore [che] si compiono ciascuno in due anni, ognuno di essi si divide in due classi distinte» (ibid., art. 316). Le scuole elementari superiori erano obbligatorie soltanto nei comuni che avessero «oltre a quattromila abitanti di popolazione agglomerata, non contando le frazioni e le borgate» (ibid., art. 321). Nel comune di Argentera si univano in una classe unica allievi delle elementari inferiori e qualcuno delle superiori.

2 «Il maestro elementare Valorso Antonio è borghese ed ammogliato» (ASC A1010912: lett. F. Pepino - G. Bosco, 6 giu. 1864).

3 L’istruzione del grado inferiore, come stabiliva la legge, comprendeva: «l’insegnamento religioso, la lettura, la scrittura, l’aritmetica elementare, la lingua italiana, nozioni elementari sul sistema metrico»; quella di grado superiore prevedeva, «oltre lo svolgimento delle materie del grado inferiore: le regole della composizione, la calligrafia, la tenuta dei libri, la geografia elementare, l’esposizione dei fatti più notevoli della storia nazionale, le cognizioni di scienze fisiche e naturali applicabili principalmente agli usi ordinarii della vita. Alle materie sovraccennate saranno aggiunti, nelle scuole maschili superiori, i primi elementi della geometria ed il disegno lineare; nelle scuole femminili i lavori donneschi» (Atti del Governo 1859, N. 3725, art. 315).

4 La valorizzazione degli allievi più esercitati nell’istruzione dei compagni era comune nelle pluriclassi del Piemonte antico, secondo modalità che si avvicinavano al metodo del mutuo insegnamento lancasteriano.

5 Cf. ASC A1010914: Relazione del maestro di scuola Antonio Valorso, s.d. [feb. 1864].

6 Nei villaggi alpini la maggior parte dei fanciulli frequentava le lezioni solo nei mesi invernali; per completare il programma scolastico, dunque, si impiegavano più anni.

1 Il parroco di Argentera era abbonato alle Letture cattoliche.

1 prepararlo alla: corr. ed. 1864 «lo preparò per far la sua».

2 Testimonia il parroco: «Se posso portar giudicio interno alle confessioni di Francesco, essendosi sempre confessato da me dalla prima all’ultima confessione che fece in Argentera e quantunque invitato non volle mai andar da altro confessore, perché mi diceva, essi non conoscono li miei difetti. Dico dunque, che dalle sue confessioni e dalla perfetta conoscenza che io aveva dell’intiera sua condotta posso accertare di non averlo mai trovato reo di colpa mortale, e di più mi sembra poter pure asserire che non sia stato colpevole di colpa veniale deliberata» (ASC A1010909: lett. F. Pepino - G. Bosco, 1 feb. 1864, f1v.).

3 Cf. 2 Cor 5,10.

1 Nella valle Stura esiste una varietà di pecora autoctona, la pecora Sambucana (o Demontina), di taglia medio-grande (peso 70-75 kg e 78 cm di altezza al garrese). «La sua grande agilità le permette di percorrere ripidi canaloni, scoscesi pendii, attraversare pareti rocciose seguendo intelligentemente les draios, i sentieri scavati nella roccia per raggiungere le vette e brucare gli ultimi ciuffi d’erba particolarmente saporita». Nei mesi invernali le pecore vengono tenute nelle stalle, in attesa della tosatura e della nascita degli agnelli; dalla primavera al tardo autunno si portano sugli alpeggi di alta quota, cf. J. Errante, Le razze ovine autoctone a rischio del Piemonte. Scheda informativa, Reggio Emilia, Associazione RARE, 2006, 3-4; Mai gridare al lupo, la convivenza possibile, Supplemento a «Piemonte parchi» 13 (1998) 3, 24.

2 Cf. Lc 18,1.

3 «Era infatti consuetudine, a quei tempi, affidare le pecore e le capre delle varie famiglie ad uno o più incaricati per condurle ai pascoli comunali, prevalentemente nelle zone più elevate e disagiate. Erano numerose anche le famiglie che potevano disporre di poche pecore […]; di comune accordo, veniva quindi affidato l’incarico a qualche famiglia di fiducia che, con tenue compenso, al mattino provvedeva alla raccolta dei vari greggi per poi riportarli alla sera, dopo il pascolo, ai rispettivi ovili» (A. Martini, Vita del giovane Francesco Besucco, pastorello di Argentera, allievo di don Bosco, Cuneo, Tipografia Subalpina 1977, 34).

4 Don Bosco scrive: «del Roburento e del Dreco», italianizzando le informazioni fornite dall’arciprete di Argentera («Roburent ed il Drec chiamasi la montagna ove il nostro innocente Franceschino conduceva le bestie al pascolo», ASC A1010912: lett. F. Pepino - G. Bosco, 6 giu. 1864).

5 Roburent: i pascoli comunali si trovavano a nord-est di Argentera, nel Vallone di Rio Roburent, affluente dello Stura che scaturisce da una sorgente posta a 2178 m di altezza, in uno splendido scenario caratterizzato da tre laghetti alpini posti sotto il Colle Roburent (2496 m), e sovrastato dall’imponente castello roccioso del monte Oronaye (3100 m). Drec: altro pascolo comunale sul lato sud delle pendici del monte Roburent (il nome deriva dal termine dialettale drech o dreit, che indica il versante della montagna solatio, “diritto” verso il sole).

1 Il corpo dei bersaglieri, fondato nel 1836 da Alessandro La Marmora come specialità dell’arma di fanteria, era composto di uomini accuratamente selezionati per agilità e resistenza fisica, addestrati al tiro e destinati ad azioni veloci di disturbo.

2 Ricordatevi, o piissima Vergine Maria: traduzione dell’orazione latina Memorare, attribuita erroneamente a san Bernardo, usata da san Francesco di Sales e popolarizzata da Claude Bernard (1588-1641): «Ricordatevi, o piissima Vergine Maria, che non si è mai udito al mondo che sia stato abbandonato chi a Voi è ricorso, chi ha implorato il vostro aiuto, chiesto il vostro soccorso. Io, animato da tale fiducia, o Vergine delle Vergini, a Voi ricorro, a Voi vengo, innanzi a Voi, peccatore contrito, mi prostro; non vogliate, o madre del Verbo, sdegnare le mie preghiere, ma ascoltatemi propizia ed esauditemi», cf. J. Dedieu, Bernard (Claude), in Dictionnaire d’histoire et de géographie écclesiastique, Paris, Letouzey et Ané, 1935, vol. 8, 771-772.

3 Nel ms. di don Pepino si legge: «Sancta Maria refugium peccatorum ora pro nobis» (ASC A2280701, p. 11). Quando Besucco entrò all’Oratorio, don Bosco aveva dato inizio agli scavi per la costruzione del santuario dell’Ausiliatrice; così egli preferì porre sul labbro del ragazzo l’invocazione che intendeva divulgare attraverso i fascicoli delle Letture Cattoliche.

1 «Vedi in fine del libro in forma di Appendice la storia del benedetto crocifisso»: nota ins. ed. 21878.

1 Opera della santa Infanzia: fondata nel 1843 da mons. Charles de Forbin-Janson (1785-1844), vescovo di Nancy e Toul, per coinvolgere anche i bambini nella sensibilità missionaria («I bambini aiutano i bambini»), ebbe vasta diffusione nelle parrocchie e nelle istituzioni religiose del Piemonte, cf. A. Bressoules, Forbin-Janson (Charles de), in Dictionnaire d’histoire et de géographie écclesiastique, Paris, Letouzey et Ané, 1971, vol. 17, 1001-1004.

2 Soldo: così era chiamata in Piemonte la moneta di 5 centesimi. In quei tempi la paga giornaliera di un manovale era di 30 soldi (1,50 lire).

3 Cf. Gen 39,7-20.

4 Cf. Ap 19,9.

1 1 Sam 3,9.

1 Residuato di esercizi penitenziali antichi. Sant’Alfonso suggeriva lo «strascino della lingua» sul pavimento della chiesa al termine delle missioni popolari, come rito collettivo di penitenza riservato ai soli uomini: «Riesce molto utile per coloro che sono mal abituati nelle bestemmie e nelle parole disoneste». I predicatori ne davano l’esempio, accompagnando il gesto con esortazioni: «Alza gli occhi fratello mio, vedi l’immagine di questo uomo appeso su questa croce, dopo essere stato flagellato, coronato di spine e tutto impiagato da capo a piedi […]. Or via, questa sera l’avete da addolcire […], prima col piangere i disgusti che avete dati a questo buon Dio morto per voi; e poi con castigare e strascinare un poco per terra quella lingua che ha posto tanto fiele alla bocca di Gesù Cristo» (Alfonso Maria de’ Liguori, Selva di materie predicabili ed istruttive, in Opere di S. Alfonso Maria de Liguori, vol. III: Opere ascetiche, Torino, Giacinto Marietti 1880, p. 197). Il rito nell’Ottocento era caduto in disuso, anzi sconsigliato dai moralisti; ma c’erano ancora maestri di scuola che imponevano ai ragazzi di fare una croce colla lingua sul pavimento in penitenza di turpiloqui, bestemmie o risposte impertinenti.

2 «La parola Oratorio si prende in vari sensi. Se si considera come adunanza festiva s’intende un luogo destinato a ricreare con piacevoli trastulli i giovanetti, dopo che essi hanno soddisfatto ai loro doveri di religione. Di questo genere sono in Torino l’Oratorio di S. Francesco di Sales in Valdocco; di S. Giuseppe a S. Salvario; di S. Luigi presso al viale dei platani; del S. Angelo Custode in Vanchiglia; di S. Martino presso ai molini municipali. Diconsi anche oratorii feriali le scuole diurne e serali che nei locali mentovati si fanno lungo la settimana per quei giovanetti che, per mancanza di mezzi, o perché male in arnese, non possono frequentare le scuole della città. Presa poi la parola Oratorio in senso più esteso s’intende la casa di Valdocco in Torino nota sotto al nome di S. Francesco di Sales. I giovanetti possono essere ricevuti in questa casa o come artigiani o come studenti. Gli artigiani devono aver compiuto gli anni 12 e non oltrepassare i diciotto; essere orfani di padre e di madre; totalmente poveri ed abbandonati. Gli studenti poi non possono essere accolti se non hanno compiuto lodevolmente almeno la 3a elementare e siano in modo eccezionale commendevoli per ingegno e per moralità. L’istruzione morale e scientifica, l’ammissione alle scuole ed ai trastulli, l’accettazione degli artigiani è gratuita. Si accettano anche gratuitamente gli studenti per il corso ginnasiale, purché, come si disse, siano in modo eccezionale commendevoli per moralità e per attitudine allo studio, e facciano constare che non possono pagar né tutta né in parte la regolare pensione che sarebbe di fr. 24 mensili» (nota ins. ed. 1864).

3 ginnasiale: corr. ed. 1864 «di latinità».

4 ginnasiale: corr. ed. 1864 «latina».

1 Giovanni Stefano Eyzautier, originario di Bersezio, frazione del comune di Argentera, amico di don Pepino, medaglia d’argento al valor militare, era luogotenente (guardia di 1a classe) della Compagnia delle Guardie del Corpo di Sua Maestà (cf. Annuario ufficiale dell’Esercito italiano 1864, pubblicato per cura del Ministero della Guerra, Torino, Fodratti e Vercellino, 1863, 24-25).

2 giovane: corr. ed. 1864 «figlio».

3 Cf. Mt 20,1-16.

1 Il parroco gli consegnò un attestato di buona condotta per i superiori dell’Oratorio, accompagnato da una lettera a don Bosco: «Affido alla caritatevole direzione di V. S. molto Rev.da il mio raccomandato parrocchiano Besucco Francesco, accettato in codesto provvidenziale Istituto con lettera 29 maggio scorso sottoscritta Sac. Rua Michele, e spero che il medesimo giovane ben lungi dal retrocedere dall’intrapreso retto sentiero, raddoppierà anzi la sua diligenza per la pietà e per lo studio. Questa mia speranza è fondata nella condotta finora veramente lodevole del predetto giovane, del quale mi giova credere sarò per ricevere consolanti notizie da chi consacrossi interamente alla gloria di Dio ed al ben essere delle giovani menti» (ASC A1010906: lett. F. Pepino - G. Bosco, 1 ago. 1863).

2 Il 2 agosto 1863 era domenica.

3 Bella casa: palazzo Bruno di Tornaforte, costruito tra 1749 e 1751; in periodo napoleonico era stato sede della Préfecture du Département de la Stura (1808-1814); con la costituzione della diocesi di Cuneo (1817) divenne sede vescovile. Vescovo di Cuneo dal 1844 era il carmelitano mons. Clemente Manzini (1803-1865).

4 Viaggiarono con la ferrovia Cuneo-Torino (in funzione dal 5 ago. 1855); partirono dalla stazione di Cuneo, che si trovava ancora alle Basse di San Sebastiano, e giunsero alla stazione di Torino Porta Nuova (cf. L. Ballatore, Storia delle ferrovie in Piemonte, Torino, Il Punto-Piemonte in Bancarella 2002, 41).

1 Cf. ASC A1010915: Relazione intorno a Besucco Francesco, ms. Ruffino, s.d. Domenico Ruffino, nato a Giaveno (17 set. 1840) da Michele e Giorgia Usseglio-Garin, fece la vestizione chiericale il 27 ott. 1857; ordinato sacerdote il 30 mag. 1863, in autunno venne fatto direttore spirituale dell’Oratorio al posto di don Michele Rua (trasferito a Mirabello Monferrato, primo collegio salesiano fuori Torino); nell’ottobre 1864 inviato direttore nel nuovo collegio di Lanzo Torinese, morirà poco dopo, il 16 lug. 1865 (cf. AAT, 12.12.3: Registrum clericorum 1808-1847, rubr. R. 1856; AAT 12.3.14: Registrum ordinationum 1848-1871; E. Ceria, Profili dei capitolari salesiani morti dall’anno 1865 al 1950, con sintesi storica della Società Salesiana e cenni storici delle Regole, Colle D. Bosco (Asti), Libreria Dottrina Cristiana, 1951, 69-73).

2 Egli … nell’Oratorio: corr. ed. 1864 «Eravamo ai primi giorni d’agosto 1863».

3 Don Bosco scrive: letticchioso.

1 Cf. Magone, c. VII.

2 In realtà all’inizio Francesco fece un po’ fatica ad abituarsi all’ambiente di Valdocco, così diverso dalle sue montagne. Leggiamo in una lettera del parroco al ragazzo: «Ho scritto ai tuoi superiori per sapere nuove sicure di tua condotta, dello studio e se intendevano ritenerti nell’Oratorio. Sabato scorso, cioè li 26 settembre scorso ne ho ricevuto la risposta, da cui ho conosciuto che la tua condotta fu buona, lo studio solamente mediocre e che in questi due mesi sei stato un poco divagato, [ma] che eri stato accettato in codesto Oratorio, in cui seguiterai li tuoi studii» (ASC A1010907: lett. F. Pepino - F. Besucco, 3 ott. 1863).

3 suo maggior: corr. ed. 1864 «grande suo».

4 Cf. Magone, c. VIII.

5 eziandio: corr. ed. 1864 «talvolta».

6 Grammatica: qui si usa l’antica dicitura. Dopo la riforma Casati (1859), quelle che un tempo venivano chiamate scuole di latinità o di grammatica vennero dette scuole ginnasiali. Besucco arrivato a Valdocco ai primi di agosto, seguì i corsi preparatori alla fine dei quali fu ammesso alla seconda ginnasiale. Da una lettera al padrino sappiamo che si era scelto un compagno «più forte di me nello studio e virtuoso»; col suo aiuto era riuscito a migliorare e alla fine di ottobre vennero «passati tutti due in seconda con due o tre altri; [così] che di venticinque che eravamo in prima adesso in seconda siamo soltanto cinque» (ASC A1010903: lett. F. Besucco - F. Pepino, 23 nov. 1863).

7 Don Bosco scrive: bricciolo.

8 nel dormitorio: corr. ed. 1864 «nella camerata».

1 Cf. Savio, c. XIV; Magone, c. V.

1 Mt 11,28.

2 Gv 6,53.

3 At 2,42.

4 «Optaret quidem sacrosancta Synodus ut in singulis missis fideles adstantes non solum spirituali affectu sed sacramentali etiam Eucharistiae perceptione communicarent quo ad eos sanctissimi huius sacrificii fructus uberior proveniret» (Concilium Tridentinum: diariorum, actorum, epistularum, tractatuum nova collectio, edidit Societas Goerresiana, t. VIII: Actorum pars quinta, Freiburg im Breisgau, Herder, 1964, 961).

1 Don Bosco suggeriva di recitare questa giaculatoria soprattutto all’elevazione dell’ostia durante la messa e nel corso delle visite al santissimo sacramento (cf. G. Bosco, Il giovane provveduto per la pratica dei suoi doveri di cristiana pietà…, nuova edizione accresciuta, Torino, Tip. dell’Orat. di S. Franc. di Sales, 1863, 111 e 138).

1 Cf. Lc 18,1.

1 Cf. Savio, c. XV: «Ciò che dovresti soffrire per necessità offrilo a Dio, e diventa virtù e merito per l’anima tua».

2 Cf. ibid., c. XVI: «Il pulire le scarpe, spazzolare abiti ai compagni, prestare agli in­fermi i più bassi uffizi, scopare e fare altri simili lavori era per lui un gradito passatempo».

3 Cf. 1 Sam 15,22; Mt 9,13; Gv 8,29.

1 ci stia volentieri: ins. ed. 21878.

2 che avesse udito: ins. ed. 21878.

1 «Nella sollecitudine d’inviare alla S.V. molto Rev.da le richieste notizie intorno alla vita del pio giovanetto Besucco Francesco Albino, mi dimenticai di unirvi le cinque lettere dal medesimo scritte mentre trovavasi in codesto Oratorio, le quali a mio giudizio aiuteranno il biografo al nosce Franciscum. L’ultima lettera manca della signatura di Francesco omessa o per dimenticanza, o forse perché già male in salute» (ASC A1010910: lett. F. Pepino - G. Bosco, 5 feb. 1864).

2 vi … gradite: corr. ed. 1864 «vi torneranno gradite».

3 La lettera originale, alquanto sgrammaticata, è stata sistemata da don Bosco (cf. l’originale in ASC A1010902: lett. F. Besucco - F. Pepino, 27 sett. 1863).

4 La lettera originale non si è conservata.

mo Cf. il documento originale in ASC A1010903: lett. F. Besucco - F. Pepino, 23 nov. 1863.

5 ricreazione: corr. ed. 1864 «divertimento».

6 Cf. 2 Tm 4,8.

7 Cf. Mt 26,39.

ma Cf. il documento originale in ASC A1010904: lett. F. Besucco - A. Beltrandi, 23 nov. 1863.

1 Cf. il documento originale in ASC A1010905: lett. F. Besucco - F. Pepino, 28 dic. 1863.

2 Cf. Mt 26,39.

3 La lettera originale non si è conservata.

mo Cf. Fil 1,23.

4 Cf. Sap 4,10-11.

1 La notizia della malattia venne immediatamente comunicata alla famiglia; il parroco rispose: «L’infausta notizia della grave malattia del giovane Besucco Francesco mi addolorò molto, nonché le sorelle del medesimo (essendo assente il padre ed il fratello), le quali per risparmiare per ora sì grave disgusto alla loro buona madre tosto mi recarono la pregiatissima sua lettera nel mentre appunto io leggeva l’inviatami dal mio amico sig. Eyzautier, la quale essendo delli 4 dava già notizie del notabile miglioramento del nostro caro infermo. Lette le due lettere procurai di consolare le sempre buone e pie sorelle di Francesco col rappresentar loro che il medesimo trovavasi in un santo ricovero fra persone più amorose e caritatevoli di quanto potesser essere esse medesime, e che per altro se Iddio nella sua misericordia lo richiamava a sé, era per farne un cittadino del cielo. Che fecero allora quelle tre sorelle? Corsero tantosto all’altar di Maria santissima, e là diedero sfogo al loro affetto verso il fratello raccomandandolo alla comune nostra madre, come appunto loro aveva ordinato Francesco coll’ultima sua inviatami li 29 scorso dicembre, nella quale compiacevasi notificarmi le continue dimostrazioni d’amore che riceveva dai suoi superiori» (ASC A1010908: lett. F. Pepino - V. Alasonatti, 9 gen. 1864).

1 Cf. la testimonianza dell’infermiere Francesco Mamardi: «Accorgendosi il giovane Besucco, che si rallentavano le sue forze, e cresceva il male che gli causava una forte febbre e gran dolori al capo ed assai si aggravava lo stomaco a cagione del pesantissimo respiro, si mise a dirmi: “Caro Infermiere, se il Signore mi volesse prendere con Lui in paradiso, io sarò contentissimo di obbedire alla chiamata, ma temo assai di non essere preparato… ma pensando alla sua infinita misericordia, e raccomandandomi di cuore a Maria santissima, a S. Luigi Gonzaga, e a Savio Domenico, colla protezion loro spero di far una buona morte”. Prendeva volentieri le prescrittegli medicine, e posso sinceramente deporre, che ogni qualvolta gli prestavo qualche mio doveroso servizio, come sarebbe da bere, aggiustargli il letto, il capezzale o cose consimili, mi faceva chinar col viso vicino al suo, e baciandomi affezionatamente mi diceva: “O Infermiere: io la ringrazio di quanto fa per me; voglia il Signore compensarlo di tutto”. Ed io gli soggiungevo: “Caro Besucco, avresti più a cuore di guarire, od andare in paradiso?”. Egli mi rispose: “In questo caso sia fatto il santo voler di Dio”» (ASC A1010913: lett. F. Mamardi - G. Bosco, s.d. [gen. 1864], f1v-2r).

2 Cf. Fil 1,22-23.

1 Era don Angelo Savio, nato a Castelnuovo d’Asti (20 nov. 1835) da Carlo e Maria Amedeo; vestì l’abito chiericale per mano di don Bosco (9 dic. 1854) e fu uno dei fondatori della Società Salesiana, eletto economo generale nella riunione di fondazione (18 dic. 1859); ordinato sacerdote (2 giu. 1860), lavorò all’Oratorio fino al 1875, poi seguì le costruzioni di varie opere salesiane (Alassio, Vallecrosia, Marsiglia) e della chiesa del Sacro Cuore in Roma; nel 1885 accompagnò mons. Giovanni Cagliero in Patagonia; collaborò a Santa Cruz con D. Giuseppe Beauvoir; visitò le tribù indigene della Patagonia centrale e meridionale; accompagnò D. Domenico Milanesio nei viaggi missionari tra Rio Negro e Rio Colorado, fino alla Cordigliera; fondò la casa di Concepción in Cile e altre opere in Perù e Paraguay, spingendosi fino al Mato Grosso (Brasile); morì il 17 gen. 1893 durante un viaggio di esplorazione in Ecuador, stroncato da una polmonite in una capanna alle falde del Cimborazo (cf. AAT, 12.12.3: Registrum clericorum 1808-1847, rubr. S. 1854; AAT 12.3.14: Registrum ordinationum 1848-1871; Ceria, Profili dei capitolari salesiani, 89-97).

2 Il padre e il fratello Matteo durante l’inverno percorrevano la riviera ligure per motivi di lavoro; per questo motivo il parroco poté informarli della morte di Francesco molto tardi: «Finora non ho ancora potuto ricevere notizie del padre di Francesco, e fratello, i quali trovansi nei contorni di Porto Maurizio in qualità di arrotini, appena avrò ricevuto le notizie che m’invierà intorno al suo figlio, mi farò premura di trasmettergliele» (ASC A1010909: lett. F. Pepino - G. Bosco, 1 feb. 1864, f1v.).

3 Cf. 1 Gv 3,2.

1 Cf. Rituale Romanum, editio princeps, 59-63.

1 Cf. la testimonianza dell’infermiere: «Spesse volte ammirai il Besucco pendente la sua breve malattia e specialmente negli ultimi due giorni, alzare fissi gli occhi al cielo, ed alzando il braccio destro con segnare col dito indice il cielo!... il paradiso!... In tale guisa spirò il Besucco» (ASC A1010913: lett. F. Mamardi - G. Bosco, s.d. [gen. 1864], f2r).

2 che fece … oscure tenebre: corr. ed. 1864 «che appariva oscurato il lume stesso della lucerna».

3 non solo … lo sguardo: corr. ed. 1864 «stupefatti».

4 Prima strofa di una lode intitolata Affetti a Maria (da taluni erroneamente attribuita a san’Alfonso a causa del titolo) inserita nel Giovane provveduto, che divenne molto popolare nelle case salesiane (cf. Bosco, Il giovane, ed. 1863, 405-406).

5 che di fatto … stendendo: ins. ed. 21878.

6 La canzoncina, collocata nel Giovane Provveduto a conclusione della Corona del Sacro Cuore di Gesù, dopo l’Orazione al sacratissimo Cuor di Maria, si concludeva con questi versi: «Sacro cuore di Maria | fa’ ch’io salvi l’anima mia. || Sacro cuor del mio Gesù | fa’ ch’io t’ami sempre più» (cf. Bosco, Il giovane provveduto, ed. 1863, 142); con leggere varianti è ancor oggi usata in alcuni luoghi come atto di contrizione a conclusione della confessione sacramentale.

7 Strofa iniziale di una lode intitolata Atto di sincero proponimento (cf. Bosco, Il giovane provveduto, ed. 1863, 409).

8 Il sac. Alasonatti, … con Dio: corr. ed. 1864 «Eravamo tutt’ora attoniti per la meraviglia quando il Besucco …».

9 Cessò la luce … di vita: ins. ed. 21878.

10 Riecheggia una preghiera suggerita da don Bosco a conclusione della giornata: «Appena coricato direte: Gesù, Giuseppe e Maria vi dono il cuore e l’anima mia. Gesù Giuseppe e Maria assistetemi nell’ultima agonia. Gesù, Giuseppe e Maria spiri in pace con voi l’anima mia» (Bosco, Il giovane provveduto, ed. 1863, 101-102); è inserita anche nel ringraziamento dopo la comunione (cf. ibid., 135).

11 Cf. Magone, c. XV; Rituale Romanum, editio princeps, 86-108.

1 in suffragio: corr. ed. 1864 «pel riposo».

2 Cf. ASC A1010916: Attestato di sepoltura: «Città di Torino – Camposanto Generale: il defunto Besucco Francesco fu sepolto il 12 gen. 1864, quadrato di ponente fila 34 fossa 147. Pautassi cappellano».

1 ovunque … cristiana: corr. ed. 1864 «presentato dalla maggior parte dei genitori a modello delle loro rispettive famiglie».

1 1 Cor 3,19.

2 Cf. 2 Cor 4,17.

1 I dati contenuti in questa appendice sono forniti dal parroco di Argentera, insieme ad altre notizie su Francesco Besucco: «Solamente quest’oggi posso inviare alla S.V. stimatissima i richiesti schiarimenti intorno al benedetto crocefisso ed al pio nostro Francesco. Mercoledì scorso per affari urgenti essendomi recato in Cuneo comunicai all’amatissimo nostro vescovo gli schiarimenti finora preparati, il quale si dimostrò ben soddisfatto della sua progettata biografia […]. Unitamente alle predette informazioni le invio pure la raccolta di giurati testimoniali comprovanti il sudor di sangue veduto in questo benedetto crocefisso, con preghiera di ritornarmela a tempo opportuno per conservarla negli archivi parrocchiali» (ASC A1010911: lett. F. Pepino - G. Bosco, 24 apr. 1864).

2 facevano sovente … visitare il: corr. ed. 1864 «fecero sovente voto di fare processionalmente e tutte e tre unite insieme una visita al».

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