Cimatti|Ricaldone Pietro /1943-7-…

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a Don Pietro Ricaldone, Rettor Maggiore dei salesiani



IL PROBLEMA DELLE VOCAZIONI INDIGENE NELL’ANTICO GIAPPONE1


Luglio 1943

Rev.mo ed amatissimo Sig. Don Ricaldone,


Nell’attesa della pubblicazione di un bel lavoro di cui incaricai direttamente il nostro Don Tassinari2, mentre ha le mani in pasta, collo studio della storia della Chiesa in Giappone (di cui uscì già un primo volume: “La nave di Pietro”) saranno graditi alcuni cenni sull’argomento che riassumo da quanto mi ha inviato. Come missionari è certo un problema vitale, che esige tutta la nostra attività ed attenzione, per dare alla Chiesa in Giappone santi elementi fin dagli inizi della sua costituzione anche nella nostra missione. Come salesiani, ci sprona l’esempio di Don Bosco e le reiterate, insistenti, accorate raccomandazioni e direttive dei nostri superiori.

I missionari succeduti al Saverio nell’evangelizzazione e prima formazione della Chiesa in Giappone riscontrarono nei primi neofiti una fede viva e operante, una pietà sincera, grande zelo e spirito di penitenza. Il rapido formarsi delle cristianità, la penuria del personale missionario che poteva essere annualmente inviato dall’Europa, era meno che proporzionato al bisogno. Dopo quasi trent’anni di lavoro, i Gesuiti aprirono ad Usuki (1578), situato nella nostra missione, un piccolo collegio, che ben presto doveva diventare il fiorente noviziato della Compagnia.

I missionari d’allora riscontravano nel carattere giapponese, coi caratteri sopraindicati, difetti, che non davano certo grande affidamento di riuscita vocazionale ecclesiastica e religiosa, se non venivano totalmente fiaccati, quali l’orgoglio, l’amore della libertà, l’incostanza, la dissimulazione e forte inclinazione alla sensualità, che si sperava vincere con una proporzionata preparazione scientifica e morale dei candidati. È interessante seguire lo sviluppo storico dei piccoli seminari ri-iniziatisi qua e là – la loro riuscita e come istituti di educazione e come seminari per le vocazioni. Dopo un periodo preparatorio, svolgimento di un programma di studi sacri e profani all’europea – forte educazione morale sulla base della soggezione ed umiltà – non ammissione agli ordini di elementi non vissuti fin dai primi anni in ambiente di pietà e purezza personale ed altre virtù, furono le basi di questa formazione, che nel 1582 contava due seminari, noviziato a Usuki, scolasticato a Oita.

Succede il periodo delle persecuzioni, periodo di sconvolgimento generale – periodo di torbidi locali, dipendenti dall’arbitrio dei singoli signorotti (daimyo) non sempre ligi al cristianesimo. Le opere emigrano qua e là. Ma il catalogo del 1588 registra 70 allievi, su cui i missionari tenevano riposte le loro speranze.

È interessante il programma di studio intonato da indirizzo classico, catechistico con abbondanti esercitazioni pratiche. Nel periodo preparatorio: lettura, scrittura del giapponese e del latino – aritmetica, musica, galateo. Nel corso triennale seguente: giapponese, latino, religione, buddismo, storia, galateo, musica vocale e strumentale. Per i più provetti, esercitazioni di dogmatica, apologetica e predicazione. Non dimentichiamo che siamo nell’ultimo ventennio del secolo XVI quando in Europa si vengono organizzando opere simili… Non parlo delle rilevanti spese sostenute in massima parte dai sacrifici e dalle economie dei missionari.

Venti anni dopo la fondazione dei Seminari, si hanno i due primi preti giapponesi (Sebastiano Kimura, martire e Luigi Mihabara) e anche dopo la proporzione dei giunti alla meta non è quale poteva aspettarsi dato il numero degli aspiranti.

Erano i candidati che non continuavano o i superiori che non si azzardavano a mandarli avanti? Forse l’uno e l’altro. Cause precipue: sconvolgimenti politici, che eccitano testa e cuore – debolezza di salute – penuria di personale e di mezzi per sostenere e sviluppare le opere vocazionali – preferenza della vita di apostolato e della predicazione che agli studi [nel 1592 una settantina di ex-allievi del Seminario aiutavano i missionari in una trentina di residenze (fratelli predicatori e catechisti)], precauzione nello spingere avanti, provando a lungo la costanza e virtù dei candidati. Alla vigilia della grande persecuzione, dopo 14 anni dalla prima ordinazione i preti giapponesi sono 14 in tutto.

Allo scoppio della persecuzione i seminaristi riuniti a Nagasaki sono dispersi, e alla partenza dei missionari, i più fedeli seguono nell’esilio i padri missionari, 28 a Macao e 12 a Manila. Quelli che fra loro riuscirono a realizzare la loro vocazione lavorarono a Macao, Manila, Annam, Laos, Tonchino, Cambogia per i loro fratelli esiliati. Alcuni audaci (Saito, Pinedo, Kassui, ecc.) rientrati coraggiosamente coronarono la loro vocazione col martirio. Gloria, onore e riconoscenza imperitura a questi primi formatori delle vocazioni indigene in Giappone. Grazie dei preziosi insegnamenti che ci hanno dato. Il problema si affaccia identico oggi: necessità del Clero indigeno – difficoltà nella sua formazione – quanto hanno fatto i missionari dall’epoca della ristorazione – quanto si propongono di fare oggi.

Spero di intrattenerla prossimamente sull’interessante argomento.


Suo aff.mo figlio

Don V. Cimatti, sales.



1 R. M. 2020: manosc; fotoc.

2 Si accenna ad uno studio di Don Tassinari di prossima pubblicazione: c’è solo un articolo su Padre Valigano e le

vocazioni indigene. Non uscì il secondo volume della storia della Chiesa, rimasta al primo volume.