Bollettino_Salesiano_202010

Bollettino_Salesiano_202010

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Salesiani
nel mondo
Timor
Est
Speciale
CASA
DON
BOSCO
Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
OTTOBRE 2020
L’invitato
Padre
Eric Meert

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LE COSE DI DON BOSCO
B.F.
Tre quaderni
«Dammi i tuoi peccati». Il ragazzo
tirò fuori il primo quadernetto. Don
Bosco lo prese, sembrò soppesarlo un
di peccati attimo, poi lo stracciò. Così finì la
mia avventura!
«Dammi gli altri».
Anche gli altri due fecero la stessa
gli alunni di quinta ginnasio, che si fine. Il ragazzo stava a guardare
preparano a entrare nel noviziato. disorientato.
In modo quasi inspiegabile, Lui-
«E adesso la confessione è fatta»
gino ottiene questo singolarissimo disse don Bosco. «Non pensare mai
privilegio. Bisogna che si prepari
più a quanto hai scritto».
seriamente.
E gli sorrise. Luigino non dimenti-
Narrò don Orione stesso: «Nell’e- cherà mai più quel sorriso. A quella
same di coscienza che feci, riempii confessione riuscì a farne seguire altre.
tre quadernetti». Cioè io e due miei Un giorno don Bosco lo guardò fisso
fratelli. Per non tralasciare niente, negli occhi: «Ricordati che noi due
aveva consultato alcuni formulari. saremo sempre amici».
Ricopiò tutto, si accusò di tutto. A Luigi Orione non dimenticò quella
E ro un piccolo quaderno
tascabile. Di quelli che un
tempo usavano soprattutto i
una sola domanda aveva risposto
negativamente: alla domanda «Hai
ammazzato?». «Questo no!» scrisse.
promessa. Quando saprà che don
Bosco è in fin di vita, offrirà a Dio
la sua in cambio. Quando diventerà
panettieri. Il mio proprietario era un Poi, con i quadernetti in tasca, una padre di una Congregazione
ragazzo di 14 anni di Pontecurone, mano sul petto, occhi bassi, si acco- con oratori e case per i ragazzi
un paesino in provincia di Alessan- dò agli altri attendendo il suo turno. poverissimi, dirà pensando a don
dria. Si chiamava Luigino Orione. Tremava per l’emozione.
Bosco: «Camminerei sui carboni
Era figlio di un povero selciatore di «Che dirà don Bosco quando leggerà ardenti per vederlo ancora una volta
strade. Si era inginocchiato anche lui tutti questi peccati?» e con la mano e dirgli grazie».
accanto a papà, ore e ore con le
tastava i quadernetti. Toccò a lui. Si Chiamerà i tre anni passati a
ginocchia nella sabbia umida, a porre inginocchiò. Don Bosco lo guardò Valdocco «la stagione felice della
i sassi uno dopo l’altro, e spingerli sorridendo.
mia vita».
nel terreno con piccoli colpi di
martello. Voleva studiare e l’avevano
accettato i salesiani di Valdocco. Era
il 1886, e don Bosco era anziano e
LA STORIA
malato. Luigino rimane affascinato,
Luigi Orione, oggi, è santo. Dopo aver pregato a lungo sulla tomba di don Bo-
incantato da lui.
sco, si convinse che il Signore non lo voleva tra i salesiani. Entrò nella diocesi
Ha un grande desiderio, Luigino
Orione: vorrebbe confessarsi da
don Bosco. Ma come fare?
Don Bosco è allo stremo di forze.
di Tortona, fu ordinato sacerdote e fondò la Congregazione religiosa maschile
degli Orionini, che si dedicano all’apostolato della carità tra i giovani (special-
mente presso parrocchie, oratori e centri giovanili), i poveri e i lavoratori al fine
di promuovere l’amore per Gesù, la Chiesa e il papa.
Confessa soltanto alcuni salesiani e
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OTTOBRE 2020

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Perché teniamo a te
e alla tua sicurezza
Con il termine Privacy si intende il diritto alla ri-
servatezza delle informazioni personali e della
propria vita privata, cioè uno strumento posto a sal-
vaguardia e a tutela della sfera privata del singolo in-
dividuo. La tutela di questo diritto è quindi la facoltà di
impedire che le informazioni riguardanti tale sfera siano
divulgate in assenza dell’autorizzazione dell’interessato.
In tal senso la tutela della privacy si configura come il
diritto di scegliere come possono essere utilizzati i
nostri dati in modo che non possano limitare la nostra
vita privata e il nostro modo di vivere futuro.
I tuoi dati personali come il nome e l’indirizzo di casa
sono preziosi e come tali li vogliamo trattare.
Desideriamo tu sappia che adottiamo ogni cura per
gestire correttamente i tuoi dati, nel rispetto della nor-
mativa vigente (GDPR 2016/679). I dati in nostro pos-
sesso a te riferibili sono necessari al recapito posta-
le delle nostre pubblicazioni, non vengono ceduti o
messi a disposizione di terzi e sono custoditi presso il
nostro archivio per il tempo necessario. Inoltre, potrem-
mo contattarti attraverso canali di comunicazione da te
espressamente forniti, quali posta, telefono, e-mail, per
tenerti informato sulle nostre attività e sulle attività del-
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Potrai segnalarci aggiornamenti o variazioni, oppure
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Il BOLLETTINO SALESIANO si stampa
nel mondo in 66 edizioni, 31 lingue
diverse e raggiunge 132 Nazioni.
Direttore Responsabile: Bruno Ferrero
Segreteria: Fabiana Di Bello
Redazione:
Il Bollettino Salesiano
Via Marsala, 42 - 00185 Roma
Tel./Fax 06.65612643
e-mail: biesse@sdb.org
web: http://biesseonline.sdb.org
La copertina: Ripartiamo con una convinzione
tutta salesiana, con le parole di Isaia:
«… e un bambino li guiderà!»
(Foto di Sonya Etchison, Shutterstock).
Hanno collaborato a questo numero:
Agenzia Ans, Giuseppe Cassaro,
Ángel Fernández Artime, Carmen Laval,
OTTOBRE 2020
ANNO CXLIV
NUMERO 09
Cesare Lo Monaco, O. Pori Mecoi,
Luigi Zonta, Fabrizio Zubani.
Diffusione e Amministrazione:
Tullio Orler (Roma)
Fondazione
DON BOSCO NEL MONDO ONLUS
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Mensile di informazione e cultura
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Salesiana di San Giovanni Bosco
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Associato alla Unione Stampa
Periodica Italiana

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IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
Don Ángel Fernández Artime
Da Valdocco
a tutto il mondo...
Abbiamo la gioia di consegnare
alla famiglia salesiana del mondo
il nuovo allestimento museale dei
luoghi delle origini, dell’avventura
educativa e spirituale di don Bosco.
T utto è iniziato più di 160 anni fa. Qualche
anno dopo che un manipolo di giovani,
entusiasti del loro educatore, don Bosco, si
era impegnato a dare vita ad una “Società”,
la “Società di San Francesco di Sales”, oggi cono-
sciuta come i Salesiani di Don Bosco.
La loro prima sede stabile era nella casetta di pro-
prietà di un tale Signor Pinardi. Non tutta la casa,
intendiamoci, solo una tettoia bassa appoggiata
al muro a Nord e un cortiletto in terra battuta. Il
mondo non ne sapeva nulla, ma là stava nascendo
un’opera oggi conosciuta in tutti i paesi del mondo.
Torino è una città nobile e ordinata, ma quel posto
era sgraziato, anche se lo sfondo delle vicine Alpi
lo ingentiliva un po’. In alto, su un rondò di raccor-
do, campeggiava la sinistra sagoma di una forca che
il reale governo teneva sempre pronta a esemplare
punizione dei malfattori e a inutile monito degli
aspiranti tali. Quel sito aveva nome Valdocco, se-
condo un’etimologia che storici e studiosi non han-
no mai potuto decisamente decifrare. Era umido e
cespuglioso. Le poche case intorno erano piuttosto
malfamate, dei mulini, un cimitero poco lontano.
I quartieri eleganti e benestanti erano più su, oltre
una salita che faceva quasi da barriera.
Proprio qui arrivò quel giovane prete che
non possedeva nulla di materiale, neanche un
abito decente. Ma che un giorno correva, gridan-
do: «Coraggio, miei figli, abbiamo un Oratorio più
stabile del passato; avremo chiesa, sacristia, camere
per le scuole, sito per la ricreazione. Domenica, do-
menica, andremo nel novello Oratorio che è colà in
casa Pinardi».
Domenica era Pasqua 12 Aprile 1846.
All’entusiasmo dei giovani, don Bosco unì la sua
normalità concreta, la sua fantastica forza realiz-
zativa, come racconta un testimone: «... nella set-
timana tutto si trasformò. Furono chiamati operai
per scavare e trasportar terreno, muratori per rom-
pere ed innalzar muraglie, falegnami per far pal-
chetti, e non bastando l’opera loro, vi posero mano
don Bosco, il Teologo Carpano, i giovani e l’antico
proprietario».
Non era bella né in buono stato quella tettoia! Ma
Dio sembra avere una predilezione per le baracche
e le stalle.
Lì iniziò questa preziosa opera, dai
più umili e semplici, seguen-
do l’esempio della vita del
Signore che è nato in
una stalla, nella più
grande povertà e
con la protezio-
ne, solo, delle
braccia amo-
revoli di sua
Madre, Maria
di Nazareth e
di Giuseppe.
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OTTOBRE 2020

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Oggi come allora
In questi giorni abbiamo dato vita a un “sogno”,
un bellissimo sogno che è molto più di un sempli-
ce rimodellamento di muri e luoghi. Un sogno ha
visto la luce. Il sogno di fare della casa del primo
Oratorio salesiano di Valdocco, il primo luogo dove
sono stati accolti gli orfani che bussavano alla porta
della cucina di Madre Margherita, la Casa Pinardi
dove è nata la Congregazione, uno spazio che parla
del carisma salesiano. Un luogo pieno di carisma e
di vita. Una casa dove centinaia di giovani e deci-
ne di salesiani hanno vissuto al fianco di don Bo-
sco, creando un’intera famiglia che è diventata una
scuola di santità. Uno spazio, un luogo, un cortile
e una casa dove tutti sono invitati a venire, a co-
noscere, a guardarsi intorno, a sentire, a lasciarsi
interpretare, perché “a Valdocco tutto parla”.
Questa casa che ora viene offerta a tutti per essere
visitata e conosciuta ha accolto centinaia di giovani
e la vita che vi si svolge ha cambiato la loro vita. Li
ha resi “onesti cittadini e buoni cristiani”.
Questa casa che oggi viene offerta a tutto il mondo
ha visto nascere, come il piccolo seme di cui parla il
Vangelo, l’albero frondoso, verde e sano che oggi è
la Famiglia di Don Bosco diffusa in tutto il mondo.
Questa casa che ora viene offerta a tutto il mondo è
stata testimone di come un giovane sacerdote pieno
di passione evangelizzatrice ed educativa abbia en-
tusiasmato un gruppo di ragazzi a continuare
il suo sogno. E questi giovani sono
stati i primi salesiani, hanno
dato continuità alla Con-
gregazione, sono suc-
ceduti a don Bosco e
hanno fatto del suo
sogno missiona-
rio una realtà in
Patagonia, poi
in gran parte
del l ’A mer ic a
e oggi in 134
nazioni.
In questa casa e in questo cortile (che era anche
l’orto di Mamma Margherita), c’erano vita e gioia,
e anche difficoltà e fame, ma si respirava il Cielo.
In questi pochi metri quadrati è vivo il ricordo di
13 persone venerabili, benedette e sante che sono
cresciute e hanno permesso allo Spirito di seminare
in loro il seme della “santità vissuta a Valdocco”. Il
nostro amato don Bosco era un maestro nell‘arte di
proporre ai suoi ragazzi bellissimi ideali.
Qui, nella minuscola Cappella Pinardi, nella Chie-
sa di San Francesco di Sales don Bosco, Mamma
Margherita, Domenico Savio, Michele Rua, Filip-
po Rinaldi, Luigi Variara, Leonardo Murialdo e
molti altri hanno percorso un cammino di santi-
tà. Su tutto vegliava l’ombra della bella Basilica di
Maria Ausiliatrice, con la protezione della Madre
del Cielo.
Questa casa che oggi presentiamo a tutto il mondo
per essere visitata, per essere conosciuta, è e sarà
molto significativa per tutti. Per i turisti che non
sanno nulla del mondo salesiano perché vedran-
no (forse senza capire molto), come qui dal nulla è
emerso qualcosa di grande.
Per le persone che conoscono il carisma salesiano,
che lo amano, che lo sentono nel cuore perché lo
toccheranno con la loro mano, e come Dio ha fatto
qualcosa di bello per i giovani del mondo.
Da questa casa, da queste chiese, da questo cortile
il profumo di don Bosco continueranno a irradiarsi
in tutto il mondo.
Da tutto il mondo verranno a Valdocco persone per
incontrare il Signore, la Madre Ausiliatrice, don
Bosco e Mamma Margherita e molti altri, perché
lo spirito di Valdocco è più vivo che mai.
Offriamo molto di più di belle pareti.
Offriamo molto più di un museo.
Offriamo molto più che opere d’arte.
Offriamo molto di più che ricordi storici.
Cerchiamo di offrire incontri di amicizia, visite
piacevoli, esperienze di vita e di cuore che tocchino
il cuore di chi le cerca.
Da Valdocco a tutto il mondo.
Foto di Jacob Iruppakkaattu
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SALESIANI NEL MONDO
O. Pori Mecoi
Traduzione di Marisa Patarino
Timor Est: la giovane nazione dei giovani
Incontro con Marçal A. Lopes
Timor Est è grande come la Calabria,
ha un milione e trecentomila abitanti,
il 60 per cento con meno di 24 anni.
Il posto ideale per i Salesiani.
La chiesa
dell’Opera
Salesiana
di Maliana
nell’Isola di
Timor.
Vuole
presentarsi?
Mi chiamo Marçal
Amaral Lopes e
sono un Salesiano
Coadiutore. Sono
nato nella cittadina
di Lospalos, nel-
lo Stato di Timor
Est, il 31 marzo
1962. Sono il secondogenito di una famiglia di
cinque figli e due figlie. In questo momento lavo-
ro in un Istituto Tecnico frequentato da ragazzi e
ragazze nella cittadina di Maliana, nel distretto di
Bobonaro, ai confini con l’Indonesia.
Perché è Salesiano?
Come è nata la sua vocazione?
Nel mese di maggio del 1977 cominciai a frequen-
tare l’Istituto Tecnico Don Bosco di Fatumaca.
Mi iscrissi là per due motivi. Il primo era che la
frequenza di quella scuola era gratuita. In secon-
do luogo, trattandosi di un Istituto Tecnico, avrei
potuto imparare una professione e poi cercare un
lavoro per aiutare la mia famiglia.
Non avevo idea di diventare Salesiano.
Alla fine del corso triennale, dopo gli esami finali,
il signor Carlo Gamba venne a parlarmi (il signor
Carlo Gamba era un missionario salesiano di Asti
che fondò quella scuola nel 1973. Era il responsa-
bile dell’Istituto Tecnico, che all’epoca proponeva
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OTTOBRE 2020

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due corsi, rispettivamente di Carpenteria e Mac-
chine utensili). Quel giorno, mentre passeggiavamo
nella scuola, mi chiese: «Hai mai pensato di diven-
tare salesiano?». Risposi di no. Il signor Gamba mi
domandò ancora: «Potresti pensarci?» Gli dissi che
avevo voluto frequentare quella scuola per impara-
re una professione e poi tornare ad aiutare la mia
famiglia.
Il signor Gamba continuò: «Perché non provi a ve-
dere se è la tua strada?». Il modo in cui lo disse mi
motivò a pensarci.
Lasciai la scuola con questo invito in mente. Pregai
e poi dissi al signor Gamba: «Sì, ci proverò».
Il signor Gamba mi aiutò a scrivere la lettera di
candidatura al rettore della casa per iniziare il mio
cammino di postulante. Fui ammesso e seguii dun-
que il percorso del noviziato, sempre a Fatumaca.
Ho emesso la prima professione l’8 dicembre 1982
e la professione perpetua il 19 marzo 1990.
Com’è la situazione nel posto
in cui lavora?
Come ho detto all’inizio di questa intervista, in
questo momento lavoro in un Istituto Tecnico fre-
quentato da ragazzi e ragazze. Il nome dell’Istituto
è Escola Secundária Técnica Vocacional Dom Bo-
sco Maumali. Si trova a Maliana, in un distretto
di Timor Est chiamato Bobonaro, ai confini con
l’Indonesia.
È una scuola statale. La sua gestione è stata affi-
data ai Salesiani di Don Bosco di Timor Est per
un periodo di cinquant’anni, secondo un protocollo
d’intesa firmato tra la Congregazione Salesiana e
il governo di Timor Est il 10 marzo 2010. I corsi
proposti dalla nostra scuola sono gratuiti.
La scuola ha iniziato le sue attività nel 2014 ed è
frequentata da 112 studenti, per il 70% ragazzi e
per il 30% ragazze. Tutti i nostri allievi risiedono
nel pensionato annesso alla scuola.
Il corso che proponiamo riguarda l’Elettricità Ge-
nerale e dura tre anni; gli studenti che completano
il percorso di studi con successo conseguono un di-
ploma rilasciato dal Ministero dell’Istruzione.
Il pensionato delle ragazze è gestito da un gruppo
di collaboratrici. Ragazzi e ragazze partecipano in-
sieme a tutte le attività inerenti la scuola, compresi i
pasti, i momenti di preghiera e le attività ricreative.
I ragazzi
preparano
il riso per
il pranzo.
Il signor
Marçal
Lopes nella
direzione
della scuola.
Come hanno reagito i suoi genitori?
Quando diedi loro la notizia, mio padre disse: «La
scelta spetta a te». Mia madre non era molto con-
vinta, ma alla fine anche lei dichiarò: «Se hai deciso
così, segui questa strada».
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SALESIANI NEL MONDO
pitolo nella società, di contribuire allo sviluppo del
loro Paese. Hanno bisogno di modelli che possano
influire sulla loro vita. Noi possiamo essere loro di
aiuto a questo proposito, stando con loro, accom-
pagnandoli e proponendo loro diverse opportunità
per la vita.
«I giovani
di Timor Est
sognano
di avere
opportunità
che
consentano
loro di vivere
meglio, di
avere voce in
capitolo nella
società, di
contribuire
allo sviluppo
del loro Paese.
Hanno bisogno
di modelli
che possano
influire sulla
loro vita».
Il pensionato è un buon ambiente caratterizzato da
un clima familiare tra Salesiani e studenti.
Per ridurre i costi di gestione della scuola, studenti
e Salesiani svolgono varie attività extrascolastiche:
piantano verdure, si prendono cura di un porcile,
di polli ecc. Questo è anche un modo per educare i
giovani ad acquisire l’idea di cercare di provvedere
a se stessi, per non dipendere dagli altri per tut-
to. L’obiettivo della scuola è aiutare gli studenti a
diventare buoni cristiani e onesti cittadini e, nello
stesso tempo, vediamo se sorgono segni di voca-
zioni.
Come sono i ragazzi e i giovani
di Timor?
Innanzitutto vorrei illustrare le percentuali sud-
divise per fasce di età della popolazione di Timor
Est, che conta complessivamente 1,3 milioni di
abitanti. 0-14 anni - 39,96%; 15-24 anni - 20,32%;
25-54 anni - 30,44%; 55-64 anni - 5,22%; 65 e ol-
tre - 4,06%. Considerando le cifre, si nota che c’è
motivo di grande speranza per il paese, se i giova-
ni ricevono la giusta attenzione da parte di tutte
le figure della società (genitori, governo, istituzioni
educative, società civile ecc.)
Probabilmente i giovani sono gli stessi in ogni par-
te del mondo. I giovani di Timor Est non fanno
eccezione. Sognano di avere opportunità che con-
sentano loro di vivere meglio, di avere voce in ca-
La situazione politica è serena?
Timor Est ha raggiunto l’indipendenza nel 2002,
dopo essere stata una colonia del Portogallo per ol-
tre quattrocento anni ed essere stata assoggettata
con la forza dall’Indonesia per ventiquattro anni.
Il nuovo assetto politico è dunque molto recente.
Considerando il limitato numero di anni trascor-
si dall’indipendenza, sì, la situazione è tranquilla,
anche se permangono alcuni problemi che occorre
affrontare.
Quali sono i risultati più importanti
raggiunti nella sua Ispettoria?
Il risultato più importante dell’Ispettoria è vedere
i nostri exallievi impegnati in diverse attività lavo-
rative, al governo (alcuni in posizioni di vertice), in
varie organizzazioni non governative, in scuole e
altre istituzioni. È motivo di gioia e soddisfazione
vedere che la fede che hanno ricevuto quando stu-
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OTTOBRE 2020

1.9 Page 9

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diavano con noi è rimasta viva in molti di loro e si
manifesta nel loro impegno al servizio dei concitta-
dini più bisognosi.
Che cosa pensa la gente dei Salesiani?
I Salesiani sono arrivati a Timor Est nel 1927. Fa-
ceva parte del loro gruppo anche il chierico san
Callisto Caravario. Dato che la situazione era mol-
to difficile, i Salesiani dovettero andarsene.
La seconda spedizione arrivò nel 1946.
Tenendo conto del tempo trascorso e delle attivi-
tà svolte dai Salesiani di Don Bosco a Timor Est
nell’ambito dell’istruzione e delle opere sociali, la
gente considera i Salesiani un’istituzione religiosa
che contribuisce allo sviluppo e al benessere della
popolazione di Timor Est a livello religioso, intel-
lettuale, umano. Il nostro carisma, in particolare
la nostra presenza con i giovani e con le persone
di ogni età, in alcune comunità la nostra opzione
preferenziale per i poveri, il sistema preventivo ci
rendono peculiari tra le altre congregazioni religio-
se che lavorano a Timor Est.
La gente ci chiede di essere coerenti con la nostra
consacrazione religiosa. Vogliono vederci come per-
sone di Dio, che sono consacrate e impegnate a se-
guire Cristo nella vita quotidiana.
Quali sono le difficoltà più notevoli?
Ce ne sono due e sono collegate tra loro.
La nostra dipendenza a livello economico. Dipen-
diamo in ampia misura dalla Congregazione e da
altri benefattori per gestire le opere della nostra
Ispettoria. Per la formazione dei Salesiani dipen-
diamo quasi completamente dalla Congregazione.
Per altre attività dell’Ispettoria riceviamo un soste-
gno da diverse parti (governo di Timor Est, Sa-
lesiani e benefattori dell’Australia, della Corea del
Sud, del Giappone, dell’Europa ecc.).
Il lavoro con la mentalità di una comunità, una
comunità locale, ispettoriale e all’interno della
Congregazione. A livello provinciale, si tratta di
lavorare come Ispettoria, dunque con il senso di
appartenenza a una comunità più ampia che va
oltre l’ambito locale. In questo contesto, la con-
divisione di opinioni, idee, risorse (finanziarie e
umane) tra tutte le comunità dell’Ispettoria deve
essere migliorata nell’attuazione del piano ispet-
toriale generale.
Come vede il futuro dei Salesiani
a Timor Est?
In questo momento a Timor Est sono presenti
complessivamente 172 Salesiani, 16 novizi compre-
si, in 13 diverse comunità.
I Salesiani avranno ancora un ruolo importante a
Timor in futuro, tenendo conto dei seguenti aspet-
ti: il numero di giovani, il sistema educativo del
Paese, che richiede ancora molti miglioramenti, il
quoziente tra il numero di giovani di età compresa
tra 0 e 15 anni e il numero di persone di età com-
presa tra 16 e 64 anni che è pari all’83,7%. Questa
situazione ci spinge a offrire ai giovani un’educa-
zione cristiana e umana adeguata, che consenta
loro di acquisire l’autonomia. Inoltre la povertà del
Paese richiede attenzione da parte nostra.
Ma il numero di vocazioni (in media quindici novi-
zi ogni anno) lascia sperare in una certa continuità
per le nostre opere. Anche come generosità: diversi
confratelli sono in missione ad gentes in varie parti
del mondo: Ecuador, Argentina, Mongolia, Porto-
gallo, Mozambico, Italia, Giappone, Belgio.
Un’aula
scolastica. Il
buon numero
di vocazioni
fa sperare
in una
continuità
per le opere
salesiane di
Timor Est.
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TEMPO DELLO SPIRITO
Carmel Laval
5 consigli per aiutarti
ad amare il tuo lavoro
Affermano le statistiche che sono
poche le persone completamente
coinvolte, impegnate ed entusiaste
del loro lavoro. Uno dei motti
preferiti da don Bosco era “Pane,
Lavoro e Paradiso”.
Un giornalista aveva deciso di fare un’in-
chiesta in uno stabilimento dell’Aerospa-
ziale dove si costruivano satelliti artificiali
e soprattutto le parti di un’astronave de-
stinata ad arrivare sul pianeta Marte. Il giornali-
sta intervistò per primo un tecnico e gli chiese che
significato aveva il suo lavoro. «Devo pagare un
mutuo salatissimo» rispose il tecnico con una
smorfia. Un ingegnere guardò il giornalista
e disse: «È un lavoro come un altro, ma i
turni non sono stressanti».
Prima di andarsene, un po’ deluso il giornalista si fer-
mò accanto all’uomo delle pulizie che stava lavando
il pavimento e, con un pizzico di ironia, gli chiese
cosa significasse il suo lavoro. L’uomo si fermò, si rad-
drizzò e fieramente rispose: «Partecipo alla conquista
dello spazio». Il giornalista lo guardò stupito e l’uomo
continuò: «Il mio capo mi ha spiegato che se faccio
bene il mio lavoro, se gli schermi dei computer sono
perfetti ogni mattina, se gli uffici hanno un buon
profumo, se tutto è perfettamente in ordine, gli inge-
gneri si sentiranno meglio, saranno più creativi e, gra-
zie a me, l’uomo andrà più velocemente su Marte. In
breve, sto partecipando alla conquista dello spazio».
Dare un senso al proprio lavoro, tutto qui! Ognu-
no di noi dovrebbe farlo. Ecco cinque consigli per
provarci.
1. Crea il tuo metodo di risveglio
È importante avere una routine di sveglia. Se,
quando la sveglia suona reagisci con una mitraglia-
ta di imprecazioni, torni a sonnecchiare a pizzichi,
ti lamenti e maledici il destino baro e ingiusto, la
probabilità di essere di buon umore è... zero.
È necessario creare un automatismo di «piacere»
al risveglio. Se ti piace fare esercizio fisico, fallo,
anche per 5 minuti, non importa. Musica, lettura,
doccia, colazione, una preghiera (perché no?), un
bacio ai tuoi cari. Trova la cosa che ti piace quan-
do ti svegli ma, soprattutto, non stare a pigrotta-
re, perché il tuo primo pensiero sarà... il lavoro e il
“dolore” che sentirai quando uscirai dal letto.
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2. Devi sapere perché ti alzi
Dare un senso al proprio lavoro è fondamentale.
Se si va al lavoro “solo” per pagare le bollette e gli
† continua a pag. 35

2 Pages 11-20

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2.1 Page 11

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NUOVO A
VALDOCCO!
È NATO CASA
DON BOSCO
Un Museo
particolare che
racconta i sogni
e la vita di don
Bosco.
Lì dove tutto
è avvenuto.
Uno scrigno che
conserva le pietre
che ha sfiorato,
il suo profumo,
l’eco delle sue
parole, le stanze
dove ha lavorato,
le chiese dove
ha pregato.
Opera diretta da
Cristian Besso,
Giampietro
Pettenon, Stefania
De Vita, Sergio
Sabbadini, Massimo
Chiappetta.

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Il nucleo antico di Valdocco.
La prima vera trasformazione
della casa Pinardi.
La fontana che ha dissetato
i ragazzi di don Bosco e
continua anche oggi, vera
sentinella dell’Oratorio.
Sotto: Il campanile di San
Francesco.
Il primo cortile
Tutto è incominciato qui
Da Piazza Maria Ausiliatrice si scende. I posti famosi di solito sono in alto. Questo è
in basso. Duecento anni fa qui c’erano solo cespugli, boscaglia, prati e qualche rara
casupola. Era pure umido, tanto che lo chiamavano Valdocco, che suona un po’ come
valle delle oche. Allora, tanti anni fa, scendeva di qui un giovane prete con un gruppo di
ragazzini scalmanati.
Il nostro itinerario comincia dove erano diretti quel prete che si chiamava don Giovanni
Bosco e i suoi ragazzi. Erano felici perché, dopo essere stati cacciati via per cinque anni da
altri posti di Torino, lui aveva trovato un angolo tutto per loro.
Tutto quello che vedrete racconta l’inizio di una storia bellissima. Che, sul calendario di Dio,
è appena incominciata.
Il cortile della casa Pinardi
Cominciamo da un angolino dietro la casa. Guardate quella piccola lapide. La prima cosa
che don Bosco ha voluto è un cortile: il più bel posto per dei ragazzi e dei bambini, per essere
allegri, correre e saltare e soprattutto essere felici.
Un ragazzo di quel tempo racconta: «Don Bosco era sempre il primo nei giochi, l’anima delle
ricreazioni. Non so come facesse, ma si trovava in ogni angolo del cortile, in mezzo a ogni
gruppo di giovani. Con la persona e con l’occhio ci seguiva tutti. Noi eravamo scarmigliati,
talvolta sudici, importuni, capricciosi. Ed egli provava gusto a stare con i più miseri. Per i più
piccoli aveva un affetto da mamma».
Ci sono altri ricordi legati a questi pochi metri quadrati.
LA FONTANA. È dei tempi di don Bosco, che scrisse: «Butta acqua abbondante, freschis-
sima e salubre». Ora butta quella dell’acquedotto torinese. Qui i ragazzi venivano a «bagnare
la pagnotta» della colazione e della merenda: l’acqua era il solo companatico.
LA SCALA DEL GRIGIO. Sotto il portico, alla sinistra di chi lo percorre da ovest a est, c’è
una scala che ai tempi di don Bosco portava alla cucina di Mamma Margherita. Sul primo
gradino, una sera dell’inverno 1854, si sdraiò un cane misterioso, che don Bosco chiamava
«’L gris». L’aveva visto qualche mese prima venirgli incontro festoso mentre attraversava il
terreno boschivo che separava Valdocco da Torino. Era chiara l’intenzione dell’animale di
volerlo difendere. Riapparve in quello stesso punto in novembre, quando due malandrini
gettarono un mantello sulla testa di don Bosco e cominciarono a malmenarlo. Don Bosco
gridò, il cane saltò fuori da un cespuglio e balzò alla gola dei malviventi. Fu don Bosco a
dover difendere i malcapitati dal cane, che poi lo accompagnò fino a casa. Il pensiero di sco-
prire la provenienza di quel cane venne più volte a don Bosco, ma non riuscì mai a trovarla.
Alla baronessa Frassati che nel 1872 gli domandò che cosa ne pensasse, rispose: «Dire che sia
un angelo, farebbe ridere. Ma neppure si può dire un cane ordinario».
GLI ABBAINI. Sul tetto si affacciano ancor oggi gli «abbaini» dove dormivano i primi,
giovanissimi salesiani. Erano stanzini gelidi d’inverno e roventi d’estate. Cagliero (che vi
abitava insieme a Francesia e Rua) ricordava che d’inverno, per lavarsi, aprivano il finestrot-
to, raccoglievano la neve con le mani, e si strofinavano energicamente il viso. Poi, ravvolti in
una verde coperta militare, studiavano.
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L’ORTO DI MAMMA MARGHERITA. Durante il Capitolo Generale è stata inaugurata
una statua di Mamma Margherita che è stata collocata nel luogo in cui la mamma di don
Bosco aveva fatto il suo orto. La scena raffigura un ragazzo nell’atto di superare la soglia
della casa di don Bosco e sua madre per chiedere ospitalità, che viene accolto dallo sguardo
amorevole e da una carezza di Mamma Margherita. Da buona massaia aveva trasformato un
rettangolo di prato in orto. Vi aveva piantato lattughe e pomodori, per arricchire la poveris-
sima mensa dei ragazzi. Difendeva quel suo orto anche con il bastone.
IL PORTICO. Il buon don Bosco aveva pensato subito di fare uno spazioso porticato davanti
alla sua nuova casa. Pensava soprattutto ai ragazzi. Avevano bisogno di uno spazio in cui
giocare e intrattenersi anche quando imperversava il maltempo e anche di un luogo tranquil-
lo di transizione prima dello studio, della preghiera in chiesa, del sonno.
Ne venne fuori un porticato basso ma elegante, nello stile dell’epoca. Nella parte interna de-
gli undici pilastri e nelle lunette don Bosco fece dipingere da Pietro Enria, in grossi caratteri,
alcune iscrizioni tratte dalla Sacra Scrittura. Una vera galleria della bontà di Dio.
Il portico della Casa Pinardi con
In capo al porticato, dalla parte della chiesa, fu collocata in una nicchia una bella statuetta il “pulpitino” della Buonanotte.
della Madonna, dinanzi alla quale, durante la buona stagione, i giovani recitavano le ora-
zioni della sera. Sotto la nicchia venivano esposti, in un quadretto, i fioretti e le giaculatorie
proposte per ogni giorno.
LA CAREZZA. «Segui il tuo cuore» gli aveva detto don Cafasso, che era un suo grande
Il monumento
a Mamma
Margherita.
amico, ma il cuore di don Giovanni Bosco soffriva perché alcuni dei suoi ragazzi, alla sera
non avevano un posto per dormire. Si raggomitolavano negli androni dei palazzi o negli
squallidi dormitori pubblici. Da tempo pensava di prenderli in casa. Aveva tentato due volte
ma il mattino successivo i ragazzi si erano volatilizzati portandosi via le coperte e perfino il
fieno e la paglia dei materassi. Ma una sera di maggio, alla luce dei lampi si stagliò al di là
dei vetri, fradicio e spaurito, l’esile volto di un ragazzo. Don Bosco si precipitò fuori.
«Sono orfano. Vengo dalla Valsesia. Faccio il muratore, ma non ho ancora trovato lavoro. Non
so dove andare». Il quindicenne giunto sulla soglia di Casa Pinardi quella piovosa sera di
maggio 1847, tutto inzuppato d’acqua e in cerca di un tozzo di pane, non ebbe solo spalancato
l’uscio, né ottenne solo ciò che cercava. Scoprì di essere amato. In
casi come questo don Bosco sentiva un brivido in tutta la persona.
Un groppo segreto lo afferrava alla gola. Sua madre, che lo cono-
sceva bene, tagliò corto. «Lo sistemerò in cucina per stanotte» disse
«e domani Dio provvederà». In tre raccolsero dei mattoni e quattro
assi calcinate, da sistemare sui mattoni. Improvvisarono un letto, ma
non c’era il materasso. Don Bosco portò il suo e Margherita rimediò
un paio di lenzuola e due coperte. Mentre il ragazzo si sistemava,
la santa donna gli parlò con amore del lavoro e della fede, come
sogliono fare le mamme cristiane, e mormorò una preghiera con lui.
Poi raccolse gli indumenti, che tra macchie, buchi e pioggia, si rac-
comandavano molto alle sue cure, e posò me, la sua più dolce carezza
sulla fronte di quel «figlio». «Buonanotte» gli disse.
Quella «buonanotte», allo stesso modo, o trasformata in «buon-
giorno», viene tuttora ripetuta ai ragazzi e a chiunque vive nelle
case di don Bosco.
IL “MONUMENTO” ALLA BUONANOTTE
Proprio qui, dove c’è il fedele modello in bronzo del
pulpitino, don Bosco tutte le sere dava la “buonanot-
te” ai suoi ragazzi, raccontando spesso i suoi sogni.
Qui, nel cortile, c’era il primo refettorio: “Nelle belle
giornate, dispersi qua e colà nel cortile, a gruppi di
tre o quattro, alcuni soli, seduti quale sopra una trave,
quale sopra un sasso o un ceppo d’albero, questi su di
una panca, quelli sulla nuda terra, davano fondo a quel
ben di Dio, che loro sommistrava la industriosa carità
di D. Bosco. Nei casi d’intemperie mangiavano presso
la stessa cucina e seduti sul pavimento di una stanza,
e alcuni sui gradini della scala e altri nel dormitorio. E
per bere?... scaturiva là presso una sorgente di acqua
freschissima, e quella, senza costo di spesa, era la loro
botte e la loro cantina” (Memorie Biografiche III, 350).
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Le tre vite della cappella Pinardi
La primitiva Casa Pinardi.
Di essa non è rimasto niente.
Pinardi è il nome di un signore che affittò a don Bosco il cortile e un pezzo di casa. Era
solo una tettoia, povera, bassa, appoggiata al lato nord della casa. Un muretto tutto
intorno la trasformava in una specie di baracca o stanzone. Misurava metri 15×6.
Don Bosco disse: «Troppo bassa, non mi serve». Ma Pinardi: «Farò abbassare il pavimento
di mezzo metro, farò il pavimento di legno, metterò porte e finestre. Ci tengo ad avere una
chiesa». Don Bosco pagò 300 lire per un anno: per lo stanzone-tettoia e la striscia di terra
intorno, dove far giocare i suoi ragazzi.
Tornò di corsa ai suoi ragazzi e gridò: «Allegri! Abbiamo trovato l’oratorio! A Pasqua ci
andremo: è là, in casa del signor Pinardi!». Il 12 aprile era domenica di Pasqua. Tutte le cam-
pane della città squillarono a festa. Alla tettoia non c’era nessuna campana, ma c’era il cuore
di don Bosco che chiamava tutti quei ragazzi, che arrivarono a centinaia.
Ora proviamo a dargli uno sguardo.
Questa che vedete ha solo le dimensioni della cappella di don Bosco. Tutto il resto, anche l’al-
tezza, è stato “aggiornato”. Quando l’Arcivescovo monsignor Fransoni vi si recava per ammi-
nistrarvi la Cresima, o per altre funzioni, salendo sulla piccola cattedra, doveva tener bassa la
testa per non urtare nel soffitto colla punta della mitra! E don Bosco nelle Memorie scrisse: «Fu
nell’occasione della prima visita dell’Arcivescovo che, nell’atto che gli si pose la mitra sul capo,
non riflettendo che non era in duomo, alzò in fretta il capo e con quella urtò nel soffitto della
cappella. La qual cosa eccitò l’ilarità in lui e in tutti gli astanti». La prima visita, a cui don Bosco
accenna, avvenne il 29 giugno del 1847, e l’Arcivescovo nel togliersi la mitra, per poter stare in
piedi, mormorò sorridendo: «Bisogna usare rispetto a questi giovani e predicar loro a capo sco-
perto!». I più grandicelli, montando su una panca, colla mano giungevano a toccare il soffitto.
Sul piccolo pulpito, che era stato collocato verso la metà della cappella contro la parete a nord, non
tutti potevano salire per la predica, perché un sacerdote alto avrebbe toccato il soffitto colla testa.
Ma il teologo Borel, basso di statura, ci stava a meraviglia, quando faceva l’istruzione ai giovani.
La lapide ricordo situata
all’interno dell’attuale
Cappella Pinardi.
La prima statua della Madonna
collocata da don Bosco nella
tettoia-cappella.
La prima statua
Il 2 settembre di quell’anno, don Bosco comprò pure, per 27 lire, una graziosa statua di
Maria SS. Consolatrice (detta popolarmente la Consolata) di cartapesta, e volle che fosse
portata in processione, nei dintorni dell’Oratorio, quando ricorrevano le feste principali della
Madonna. Questa statua fu collocata nella cappella, quasi di fronte al piccolo pulpito, contro
la parete interna verso la casa Pinardi, e rimase nella tettoia anche dopo la costruzione della
chiesa di San Francesco. Quando nel 1856 la tettoia venne abbattuta, don Francesco Giaco-
melli riuscì ad impossessarsene, trasportandola ad Avigliana nella sua casa paterna ove, da
lui e dalla sua famiglia, fu sempre venerata con preghiere, lumini e fiori. Questo preziosissi-
mo cimelio, dopo 73 anni, fu restituito all’Oratorio e si trova nel nostro museo.
Nelle feste, i ragazzi portavano la statua in processione «nei dintorni». I dintorni erano
vastissimi prati e campi, pochissime casupole, e due osterie dove gli operai della periferia si
ubriacavano regolarmente nel pomeriggio di ogni domenica. Questo fatto disturbava, spe-
cialmente d’estate quando bisognava tenere aperte le finestre della chiesetta. Durante la pre-
dica si sentivano i canti e gli urli degli ubriachi. A volte risse furibonde coprivano la voce del
predicatore. Qualche volta don Bosco perdeva la pazienza, scendeva dal pulpito, si toglieva
cotta e stola e correva all’osteria a pestare pugni sul tavolo e a gridare che adesso chiamava i
carabinieri. Otteneva un silenzio sbigottito.
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L’altare fu collocato verso levante, col quadro di San Francesco di Sales portato dal Rifugio.
Lo potrete vedere in una sala del museo.
A destra, entrando, era stata collocata in una nicchia una statuetta di san Luigi, acquistata da
don Bosco per animare i giovani a celebrare le sei domeniche dedicate al Santo. Dalla misera
tettoia-cappella partì nel 1848 la storica processione con la statua di san Luigi fiancheggiata da
un illustre personaggio, che si trova su tutti i libri di storia: il Conte Camillo Cavour.
Uscendo dalla Cappella Pinardi, si sfiora a destra la minuscola sacrestia. È il locale stret-
tissimo in cui, nel 1853, don Bosco collocò il primo laboratorio dei calzolai: due deschetti e
quattro seggioline. Non ci stava di più (don Bosco non aspettò mai di avere i «locali adatti»
per cominciare qualcosa: starebbe ancora aspettando adesso!). Don Bosco si sedette al de-
schetto e martellò una suola davanti a quattro ragazzini. Poi disse: «Adesso provate voi».
Non andò in pensione
La povera ed angusta tettoia Pinardi servì da cappella ai giovanetti dell’Oratorio per sei
Il grande dipinto della
Risurrezione che oggi orna
l’abside della cappella in
ricordo della Pasqua del 1846,
quando don Bosco inaugurò
la sua prima chiesetta e la sua
opera.
anni, dal 12 aprile del 1846 al 20 giugno del 1852, giorno della benedizione e dell’inaugu-
razione solenne della nuova chiesa di San Francesco di Sales.
Servì pure in seguito da dormitorio e da sala di studio e anche di ricreazione e fu demolita
nel 1856 insieme coll’attigua casa Pinardi, per dar luogo a quel tratto di fabbrica che dalla
scala, che è al centro del più antico edifizio dell’Oratorio, si stende sino alla chiesa di San
Francesco di Sales.
Il nuovo locale, che a pianterreno venne a tro-
varsi nel luogo dov’era la storica tettoia, fu de-
stinato ad uso refettorio dei Salesiani e in esso
don Bosco per molti anni sedette a mensa cir-
condato dai suoi figli. Alla sua modesta men-
sa accolse amici carissimi, umili collaboratori,
benefattori insigni, ospiti illustri tra cui ci è
caro ricordare monsignor Giuseppe Sarto che
fu poi papa Pio X e dichiarò don Bosco Vene-
rabile, e il giovane sacerdote professor Achille
Ratti che divenne papa Pio XI, che glorificò
don Bosco dichiarandolo Beato (1929) e Santo
(1934).
Quando adunque il 19 maggio del 1927 il
refettorio dei Superiori dell’Oratorio fu tra-
sportato nei nuovi ampi edifizi appositamente
costruiti, il Rettor Maggiore, don Filippo Ri-
naldi, fece allestire questa cappella che occupa
precisamente il posto dell’antica, quale era da
principio, prima che don Bosco l’ingrandisse
abbattendo il muro tra la cappella e la piccola
sagrestia.
La cappella è dedicata alla Risurrezione di
LA MUSICA IN CAPPELLA
Don Bosco amava tantissimo il canto e la musica. “Un Oratorio senza musica è
come un corpo senz’anima” ripeteva spesso. Il teologo Vola, che lo sapeva, gli
fece una bella sorpresa: comprò per lui al prezzo di Lire 88,50 (ch’era una bella
somma) una piccola campana di 22 chili, e gliene fece regalo. Il gradito dono
rallegrò l’animo di don Bosco, dei giovani dell’Oratorio e dei sacerdoti amici
dell’Opera: «Grande fu il tripudio dei giovani quando la videro portata in alto sul
culmine della casa e collocata bellamente nella finestrella del suo campanile; e
specialmente quando la sua voce argentina, per lunga ora, diffuse intorno le sue
onde sonore», raccontano le Memorie di don Bosco.
La campana era una bella cosa, è vero, ma la sua musica era soltanto esteriore;
dentro la cappella non vi era alcun strumento che accompagnasse i canti sacri.
Don Bosco amava la musica, e, con molta buona volontà, s’era industriato a
metter su fra quei giovani, così eterogenei, una Scuola di Canto. Anzi, da vero
autodidatta, senza maestro aveva imparato da sé a suonare il pianoforte. Non
potendo però in casa permettersi il lusso di un così costoso strumento, talora si
esercitava su quello di qualche amico sacerdote.
«Per ritenere in tono i suoi discepoli — dicono le «Memorie» — e anche per
accompagnare le lodi alla Madonna col suono, nel luglio del 1847 comprò, per
12 lire, una fisarmonica. Per la sua cappella-tettoia, il 5 novembre 1847, si pro-
curò un organetto, che gli era costato la somma favolosa di 35 lire. Si suonava
girando una manovella e i pezzi musicali del suo cilindro portavano l’Ave maris
stella, le Litanie della Madonna, il Magnificat e qualche altro inno della Chie-
sa... Ma, se poteva servire per le feste ordinarie, diveniva inutile allorché era
conveniente variare la musica. Quindi la necessità che don Bosco trovasse un
pianoforte... Il buon teologo Giovanni Vola ancora una volta provvide a quel bi-
sogno, donando un cembalo, o meglio una vecchia spinetta, che aveva in casa.
G. Cristo a ricordo della Pasqua del 1846.
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L’interno della chiesa.
Il dipinto dell’abside.
La prima Messa di don Rua.
La chiesa di San Francesco di Sales
Don Bosco riuscì a comprare tut-
ta la casa Pinardi nel febbraio
del 1851. Un mese dopo disse a
sua madre: «Ora voglio che innalziamo
una bella chiesa in onore di san Fran-
cesco di Sales».
«Ma dove prenderai i danari?» gli do-
mandò la buona Margherita. «Sai che
di nostro abbiamo più nulla, perché
tutto fu già speso per dare vitto e vesti-
to a questi poveri giovani; quindi, pri-
ma di affrontare nuove spese per una
chiesa, devi pensarci due volte e inten-
derti bene col Signore».
Il Signore era d’accordo e il 20 luglio
del 1851 veniva collocata e benedetta la
prima pietra, presenti 600 e più giovani, e il 20 giugno 1852 fu consacrata.
Per 16 anni (fino al 1868) fu cuore della Congregazione nascente.
Dal 1852 al 1856 venne negli ultimi banchi, a pregare sgranando il suo Rosario,
l’anziana e stanca Mamma Margherita.
I grandi dipinti della chiesa ricordano le meravigliose storie che qui sono avvenute.
L’8 dicembre 1854, Domenico Savio entrò in questa chiesa, si inginocchiò davanti
all’altare dell’Immacolata e si consacrò a lei con questa brevissima preghiera (che
per tanto tempo i ragazzi salesiani impararono a memoria e fecero propria): «Maria,
vi dono il mio cuore, fate che sia sempre vostro. Gesù e Maria, siate voi sempre gli
amici miei, ma per pietà, fatemi morire piuttosto che mi accada la disgrazia di com-
mettere anche un solo peccato».
Due anni dopo, Domenico Savio tornò a inginocchiarsi a questo altare, non più solo,
ma in compagnia dei migliori ragazzi dell’Oratorio. Aveva fondato la «Compagnia
dell’Immacolata». Si era chiesto: «Perché dobbiamo cercare di fare del bene agli altri
da soli? Perché non unirsi, tutti i giovani più volenterosi, in una società segreta, per
diventare un gruppo di piccoli apostoli tra gli altri?». Don Bosco approvò il progetto.
Michele Rua in questa chiesa celebrò la sua prima Messa nel 1860.
In questa stessa chiesa, dietro l’altare maggiore, Domenico Savio ebbe un’estasi da-
vanti al tabernacolo che durò più di sei ore.
Verso la fine del 1852 e nel principio del 1853 fu pure costruito il modesto cam-
panile che sorge accanto alla chiesa, e mancando esso d’una conveniente campana,
perché l’antica era troppo piccola, il Conte Cays di Giletta e Casellette, eletto per
la seconda volta priore della Compagnia di San Luigi, ne regalò una più sonora che
per molti anni continuò a chiamare coi suoi squilli i ragazzi della città all’Oratorio
festivo.
Nel 1929 le due campane furono rifuse perché squillassero, con rinnovata voce, il 2
giugno, giorno della Beatificazione di don Bosco.
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I tre crolli di casa Pinardi
Della vecchia casa Pinardi non è rimasto nulla. Non è sorprendente: don Bosco guardava
solo avanti e non si fermava.
Al principio del 1852 in casa Pinardi i ricoverati erano più d’una trentina. Mancava assoluta-
mente il posto. Pochi giorni dopo l’inaugurazione della chiesa di San Francesco di Sales, don
Bosco adunque si accinse alla costruzione d’un nuovo edificio che doveva partire dalla chiesa
e spingersi fino alla casa Filippi verso levante (dove ora c’è il negozio dei ricordi).
Non potendo distruggere subito la poverissima casa Pinardi, che era l’unica abitazione, de-
liberò di costruire solo una parte della fabbrica progettata, e precisamente il tratto che dalla
scala, che è ora al centro, va sino alle stanze di don Bosco.
La costruzione era a buon punto quando, il 20 novembre del 1852, un tratto della sommità
del braccio a levante, per la rottura di un ponte, rovinò dall’altezza del terzo piano. Tre ope-
rai rimasero gravemente feriti e grande fu la costernazione e lo spavento di tutti. Don Bosco, L’estasi di Domenico Savio.
senza sgomentarsi per il grave danno patito, ordinò che si rialzasse tosto il tratto di muro che
era caduto. Ma quando l’edifizio era ormai al tetto, anche per causa dei danni recati dalle
grandi piogge, una notte avvenne un pauroso e disastroso crollo di quasi tutta la nuova co-
struzione, che per poco non traeva nella rovina anche parte della vicina casa Pinardi, proprio
dove dormiva don Bosco.
Per visibile protezione del cielo non vi furono vittime, ma danni gravissimi. Nel trambu-
sto indescrivibile di quella notte, don Bosco si mantenne il più calmo e tranquillo di tutti.
Mamma Margherita si mostrò la più coraggiosa. Anche quel poco che era rimasto in piedi
crollò il giorno dopo. Poiché la stagione avanzata non permetteva più di riprendere i lavori,
don Bosco, sempre industrioso, ridusse l’antica cappella-tettoia a dormitorio, e trasferì le
scuole diurne e serali nella nuova chiesa di San Francesco di Sales.
Nel 1856, ogni angolo della casa di Valdocco era occupato da un letto: anzi nell’estate qual-
I tre ragazzi santi che qui hanno
pregato: Domenico Savio,
Francesco Besucco,
Michele Magone.
cuno aveva dormito perfino su un piano del campanile!
Venne abbattuta, anche coll’aiuto prestato dai
giovani durante le ricreazioni, la vecchia e pove-
ra casa Pinardi e la storica tettoia, e si cominciò
il nuovo tratto di fabbricato che veniva a com-
pletare il primo disegno concepito da don Bosco.
Ma la vecchia Pinardi non ne voleva sapere di
morire e anche questa nuova costruzione crollò.
Don Bosco, sempre calmo e fidente nella Prov-
videnza, non solo diede immediatamente ordine
che si rifacesse, ma per giovare ai molti fanciul-
li poveri del popolo, pensò anche di aprire una
scuola diurna per accogliere almeno una parte di
quelli che, in gran numero, andavano vagando
lungo il giorno per le strade. Lui era fatto così.
In più, nel tratto dalla scala alla chiesa di San
Francesco di Sales fece scavare subito i sotter-
ranei dove fu collocato il refettorio dei giovani
e la cucina.
PERÒ GLI RINCRESCEVA…
Divisandosi di sostituire con un nuovo organo l’organo stravecchio e logoro
nella chiesa di S. Francesco: «No, diceva egli; fatelo accomodare, ma non si
tolga. Accompagnò per anni e anni i canti dei nostri giovani!». Una volta,
guardando giù dalla sua loggetta e posando l’occhio sull’edifizio diagonale
che divideva in due l’odierno cortile degli studenti, disse a don Lemoyne:
«Vedi quella costruzione? Tosto o tardi sparirà, sarà demolita, e a me costò
tanti sudori innalzarla!»
«Possibile che si voglia atterrare quello che don Bosco ha costrutto?» osser-
vò il suo interlocutore.
«Eppure sarà così. O per ragione di estetica o per ordinar meglio i locali o
per dividere diversamente i cortili, quei muri quand’io non ci sarò più, spa-
riranno».
Già prima durante una sua assenza, don Savio, per edificare il coro di Maria
Ausiliatrice, parecchi anni dopo la costruzione della chiesa, aveva gettato
giù lo storico gelso, sul quale si era rifugiato il giovane Reviglio inseguito dai
genitori che non volevano che il ragazzo frequentasse l’Oratorio. Don Bosco
al ritorno, appena s’avvide che era stata abbattuta quella pianta, esclamò:
«Il non più vederla mi cagiona una pena come per la morte di un fratello».
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Le «catacombe» di Valdocco
All’entrata del Museo, sono esposti due targhe e due busti particolarmente cari alla me-
moria dei Salesiani. Erano originalmente collocati altrove.
LA LAPIDE DI MAMMA MARGHERITA. Fu inaugurata il 27 aprile del 1930. Il me-
daglione è opera dello scultore Gaetano Cellini (morto a Torino nel 1937), autore, tra
l’altro, dei due monumenti dedicati a don Bosco (collocati il primo nella piazza antistante
la Basilica, il secondo nel cortile interno).
LA LAPIDE DI DON GIOVANNI BOREL. Venne inaugurata il 7 maggio 1931. Il
medaglione bronzeo è opera di Gaetano Cellini.
IL BUSTO DI MONSIGNOR GIOVANNI CAGLIERO. Eseguito in marmo di Car-
rara venne scolpito da Arturo Tomagnini. Era collocato presso la porta laterale della chie-
sa di San Francesco di Sales.
IL BUSTO DI DON MICHELE RUA. Collocato originariamente su di un piccolo mo-
numento dinanzi al porticato, è opera bronzea di Ennio Ferrari.
La lapide ricordo di Mamma
Margherita e il busto di
don Michele Rua accolgono
i visitatori.
La dispensa della cucina.
A ndiamo alla scoperta di un’assoluta novità. I sotterranei del primo oratorio di Valdoc-
co non erano visitabili. Ora, completamente restaurati fanno parte integrante di ‘Casa
Don Bosco’. Sono stati rimessi a nuovo soprattutto quattro locali, anticamente d’uso
e di servizio: il grande refettorio dei ragazzi, sito sotto la chiesa di San Francesco di Sales,
la prima cucina, un refettorio più piccolo e la cantina. Questi ambienti sono collegati da un
corridoio dalla forma stretta ed allungata.
Anche il più piccolo spazio era prezioso per don Bosco. Questo che vedete ne è la più evi-
dente testimonianza.
La cantina
Il locale, che si trova sotto il porticato (lato orientale dell’edificio delle Camerette), fu costrui-
to nel 1860-’61, come cantina dell’Oratorio di San Francesco di Sales. L’importante soffitto
a volta è in mattoni piemontesi senza intonaco: l’ambiente non era pertanto destinato ad uso
abitativo, ma solo per la custodia del vino e degli oggetti necessari alla vinificazione. La can-
tina custodiva le botti e il torchio per la spremitura dei grappoli, che erano calati all’interno
da appositi fori aperti sulla volta.
I tombini in pietra sul pavimento erano destinati allo smaltimento dei liquidi eccedenti
e alla pulizia. Ora il locale ospita una collezione di immagini mariane, provenienti dal
precedente museo mariano e dalle varie nazioni in cui è presente la Famiglia Salesiana, a te-
stimonianza della diffusione della spiritualità mariana, legata al Santuario dell’Ausiliatrice.
Al centro della sala la statua dell’Immacolata: fu collocata da don Bosco nella nicchia che
divideva i due ambienti della prima sacrestia della Basilica. Lì rimase dal 1868 al 1935.
Il primo refettorio dei ragazzi
Non si conosce con certezza l’uso di tale locale; è assai probabile che fosse il primo refettorio
dei ragazzi, data l’immediata vicinanza alla cucina. I giovani dell’Oratorio stettero a mensa in
questo locale fino all’autunno del ’58, quando venne poi predisposto il grande refettorio sotto
la chiesa di San Francesco di Sales. La sala in cui ci troviamo era più ampia: venne successiva-
mente (1860-’61) ristretta dal corridoio, che collegava l’intero sotterraneo con la cantina.
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Di tale locale meritano attenzione le murature in laterizio, alternate a grossi ciottoli di fiu-
me, provenienti dalla Dora e dalla Stura. Il materiale di costruzione era offerto a don Bosco
da benefattori, e talvolta portato anche dai suoi giovani, i quali, durante le ricreazioni, aiuta-
vano i muratori nella costruzione, così da accelerare i lavori.
Il grande refettorio
Nove anni dopo, aumentando il numero dei giovani (circa 200), fu necessario pensare a nuovi Il forno di Mamma
locali per i pasti. Dal 1858 al 1866 il nuovo ampio refettorio servì anche da teatrino. A questo Margherita.
locale si accedeva attraverso due scale, probabilmente
costruite in tempi successivi ed ora in parte demolite.
Entrambe scendevano di fianco alla chiesa ed avevano
la loro origine in due punti distinti del cortile.
Quella di percorrenza principale, posta al centro
dell’edificio, è la scala storica della Casa, utilizzata da
don Bosco e dai Salesiani della prima ora. Essa pone
in collegamento il piano interrato con gli abbaini del
sottotetto.
La cucina dell’oratorio
La prima cucina di Mamma Margherita era nel-
la casetta Pinardi, dove don Bosco aveva affittato e
poi comprato le prime stanzette e fu completamente
demolita. Da quel primitivo focolare si passò a que-
sto ampio locale. La cucina fu realizzata forse già nel
1853 e rimase in uso fino al 1927. L’ambiente era suffi-
cientemente attrezzato affinché si potessero preparare
pasti per una comunità che nel 1858, tra giovani ed
adulti, contava 220 persone circa.
Questa prima cucina godeva di un pozzo, cui è col-
legata la fontana del cortile (dove è visibile la primiti-
va base originaria), una dispensa in muratura ed uno
spazio adibito alla preparazione delle vivande calde
(nell’intercapedine murario è ancora presente la can-
na fumaria originaria). Il pozzo, con le sue qualità re-
frigeranti, separava la dispensa dal calore della canna
fumaria, permettendo così un’ottimale conservazione
degli alimenti. Vi era un disimpegno adi-
bito a locale di servizio e
dispensa per il pane. La
carrucola e i ganci metal-
lici delle volte servivano
per sospendere principal-
mente le ceste di pane e di
grissini.
RAGAZZI ALL’ASSALTO
Un’istantanea bellissima dalle Memorie:
«Gli alunni venuti fuori del loro refettorio si accalcavano nel vestibolo
di quello di D. Bosco, aspettando che i chierici avessero finita la
preghiera del ringraziamento; e non appena udivano il Dominus del
nobis suam pacem, Amen, urtata la porta, si precipitavano entro. Qui
succedeva un grazioso scontro, si licet parva componere magnis, simi-
le a quello dell’Orinoco col flusso dell’Atlantico. I giovani volevano en-
trare, i chierici uscire, ma dopo qualche istante prevalevano i giovani,
che gareggiavano a chi primo arrivasse presso a D. Bosco seduto all’e-
stremità della sala in fondo. I chierici erano obbligati ad appoggiarsi
ai muri laterali per lasciarli passare e non essere travolti. Qui accadeva
una scena inesprimibile. I più fortunati si sono già stretti a D. Bosco
in modo che i più vicini appoggiano il loro capo sopra i suoi omeri.
Dietro a lui si vede una siepe di faccette allegre, che gli fanno larga
spalliera. Intanto è presa d’assalto la fila di tavole, che prima erano
state sparecchiate in fretta, e su quella innanzi a don Bosco, varie file
di giovani seduti colle gambe incrociate a mo’ degli orientali; dietro
a questi molti altri inginocchiati, in ultimo, sempre sulle tavole, una
turba in piedi. Chi non vi può salire, prende le panche, le accosta ai
muri e vi monta sopra; ed ecco due lunghe file di occhi vivaci, che si
fissano in D. Bosco. I più tardivi riempiono tutto lo spazio tra le panche
e le tavole. Sembra che nessuno possa più giungere ad avvicinare D.
Bosco; eppure alcuni piccolini tentano la prova. Si mettono a correre
carponi sotto le tavole ed ecco le loro testoline sporgere tra la tavola e
la persona di D. Bosco, che faceva loro una carezza.
Sovente D. Bosco essendo stato trattenuto in camera dal lavoro, aveva in-
cominciato solo allora a prendere un po’ di cibo. Eppure li accoglieva con
festa e, assordato dai loro canti e dalle grida, in quell’ambiente respirato
da tanti petti, che a stento rimaneva acceso il lume, finiva il suo povero
pasto, rivolgendo un sorriso affettuoso, uno sguardo affabile, un motto
d’incoraggiamento agli uni ed agli altri. Non si mostrava mai contraria-
to dall’insistente importunità de’ suoi figli; anzi provava rincrescimento,
quando qualche visitatore non necessario veniva a rubargli la
dolcezza di questi famigliari trattenimenti.
Talora faceva atto di voler parlare a tutti, ed all’istante
cessava quella confusione di voci, e in mezzo al più pro-
fondo silenzio narrava un breve aneddoto, proponeva una
questione, faceva un’interrogazione, finché la campana
scioglieva l’assemblea coll’invito alla scuola di canto o alla
preghiera» (MB IV, 74).
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2.10 Page 20

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Omaggio a Maria
Le icone bizantine.
Il crocifisso di puro avorio.
La tabacchiera di Pio VII.
La copertina dell’Evangeliario.
Nell’attuale ampia sala voltata, ex-refettorio dei giovani del primo oratorio, è allestita
l’esposizione mariana, il cui primo nucleo risale al 1914-18, per volere di don P. Al-
bera. La collezione si ingrandì notevolmente a partire dal 1978, grazie alla dedizione
di don Pietro Ceresa.
Lo spazio è suddiviso in quattro sezioni tematiche: Iconografia mariana, Donazioni, Devo-
zione popolare e Liturgia.
Iconografia mariana
In questa prima sezione del salone, vengono esposti dipinti e sculture che spaziano dal
al sec. e testimoniano un graduale differenziarsi dell’iconografia relativa alla Vergine
Maria, a seconda dei contesti culturali di provenienza. La collezione offre ulteriormente uno
spaccato significativo di icone, provenienti dalla tradizione pittorica della chiesa bizantina.
Il tema della ‘Madonna con Bambino’ è certamente il più frequente. Gli affreschi di scuola
benedettina di fine Trecento, provenienti dall’alta Lombardia, presentano una Maria lactans
ed una Maria assisa in trono.
Alcune sculture accentuano la ‘regalità’ della Vergine. Tale tema è evidenziato anche dai
materiali pregiati. La scultura in alabastro raffigura la Beata Vergine Immacolata, con sotto
i piedi il dragone infernale, in altri casi Maria viene raffigurata con la corona sul capo.
Sono da ricordare alcune tele di note scuole pittoriche: una tela è attribuita a Guido Reni,
una seconda a Giandomenico Tiepolo.
Le icone russe risalgono quasi tutte ai secc. - . Esse a loro volta fanno riferimento
a prototipi più antichi, in obbedienza ai canoni iconografici della plurisecolare tradizione
bizantina. Tra queste, si segnala una copia della ‘Vergine di Kazan’ ( sec.) ed una bella
immagine di ‘Maria Aghiosoritissa’ ( sec.) o Avvocata, proveniente dal monte Athos.
Donazioni
Vari oggetti del mercato antiquario, accompagnati spesso da lettere e da dichiarazioni uf-
ficiali conservate in archivio, sono stati offerti al museo mariano da alcuni benefattori nel
corso degli anni.
Opera estremamente preziosa è il crocifisso di puro avorio, che venne presentato al pubbli-
co nel 1985 all’Esposizione Internazionale di Antiquariato di Firenze.
Oggetto di curioso interesse storico è la tabacchiera di Pio VII. Il pontefice già prigioniero
a Fontainebleau, prima della sua liberazione e del suo ingresso a Roma (24 maggio 1814)
ricevette la tabacchiera in dono dal suo carceriere: il colonnello Giovanni Sala. Il Papa aveva
a sua volta offerto la propria al colonnello, il quale per ordine di Napoleone lo aveva scortato
nel viaggio di ritorno in Italia.
L’oggetto più antico è la copertina di un piccolo evangeliario in rame, di area longobarda,
forse realizzata nell’ sec. Presenta restauri successivi e venne battuta all’asta presso la
Salle des ventes Drouot di Parigi.
Devozione popolare
Vengono esposti oggetti, talvolta molto semplici (stendardi processionali, cartoline, mani-
festi, medaglie commemorative e devozionali ex-voto, ecc.) dal significato storico-simbolico,
legati a feste ed avvenimenti del Santuario. Testimoniano il crescere ed il consolidarsi della
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devozione mariana presso la Basilica di Valdocco.
Interessanti rimangono gli scritti relativi a speciali tempi ed occasioni d’indulgenza, concessi
dal papa Pio IX.
Alcuni quadri ex-voto dimostrano la fede di coloro che si sono affidati alla sicura interces-
sione della Vergine Maria, la quale accompagna con la sua protezione i momenti a volte
più drammatici della vita umana.
Notevoli, inoltre, sono gli stendardi processionali: quelli esposti sono solo una pic-
cola parte dell’abbondante collezione custodita negli archivi del museo. Essi veni-
vano elevati in occasione della grandiosa processione annuale del 24 maggio, come
elemento visibile e simbolico di un gruppo o di una nazione.
Liturgia
Nella Basilica di Maria Ausiliatrice la celebrazione liturgica ha sempre comportato un’atten-
ta scelta di oggetti. Sono qui raccolte le testimonianze più preziose, conservate nella sacrestia
del Santuario in questi primi 150 anni. Ricordiamo: l’ostensorio donato dai giovani a don
Bosco (1875), un prezioso ‘rocchetto’ in filo d’organza, ricamato con scene della vita del
Santo, ed alcuni calici, tra cui quello donato da san Giovani Paolo II nel 1988.
Sono esposti alcuni oggetti di pregio (secc. e ), appartenenti alla sacrestia della Ba-
silica ed utilizzati in origine nella celebrazione eucaristica quotidiana o in occasione di par-
ticolari eventi.
A partire dalla data di consacrazione della Basilica (1868), sono qui raccolte le testimonian-
ze più preziose di questi 150 anni. Si tratta per lo più di vasi sacri appartenuti ed utilizzati
direttamente dal Santo; in altri casi sono donazioni o manufatti strettamente collegati alla
vita della Casa Madre dei Salesiani.
È degno di nota per la storia del primo Oratorio un ostensorio, donato dai giovani a don
Bosco il giorno del suo onomastico nel 1875, anno in cui ricorreva il suo 60° compleanno.
È presente nella collezione anche un messale (edizione salesiana 1893: 50° anniversario
di episcopato di Leone XIII). Fu realizzato con carta della Cartie-
ra di Mathi (aperta dallo stesso don Bosco), venne stampato
nella Tipografia Salesiana di Valdocco; la copia esposta fu
poi rilegata nel 1906 in cuoio sbalzato (con interessanti de-
cori in stile art nouveau).
Ricordiamo anche il calice offerto a don Bosco dalla fami-
glia Tancioni nel 1868, in occasione della Consacrazione della
Chiesa di Maria Ausiliatrice (unitamente ad altri due simili del
sig. M.L. Borgognoni) e quello donato alla Basilica da san Gio-
vanni Paolo II nel 1988 (qui pellegrino nel primo centenario della
morte del Santo). Particolari oggetti di pregio, usati ancora recen-
temente in occasione di determinate festività, sono il prezioso ca-
lice Guglielminetti di Milano, cesellato con smalti e lavorato
in filigrana, già presente alla Mostra di Arte Sacra (Roma
1930), ed il rocchetto in filo d’organza, ricamato con scene
della vita del Santo, risalente agli anni ’30 del Novecento,
d’uso in occasione della festa di Maria Ausiliatrice.
Sono molti
gli oggetti che
dimostrano
la viva
devozione
mariana di
Valdocco.
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3.2 Page 22

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La sala del seme che cresce
Una serie di plastici illustra
chiaramente lo “sbocciare”
della Valdocco salesiana.
Sotto: Ritratto di don Bosco
del 1880 del famoso fotografo
di M. Schemboche.
V engono qui esposti i modellini architettonici che
interessano il quartiere di Valdocco dalle sue origini
ad oggi.
Un plastico architettonico isolato ricostruisce la Casa Pinar-
di delle origini, quando don Bosco vi arriva nell’aprile del
1846. Seguono altri quattro modellini in evoluzione.
Il primo rappresenta Casa Pinardi con il percorso di accesso
dall’antica ‘strada di campagna’, successiva via Cottolengo,
dalla ‘via della Giardiniera’. Il territorio è caratterizzato da
due edifici già preesistenti: la Casa Filippi (dove si trovava
il deposito dei carri comunali) e la Casa Bellezza (albergo a
pigione demolito nel 1922).
Nel secondo modellino, insieme alla casa originaria, abbiamo la chiesa di
San Francesco di Sales, voluta da don Bosco nel 1852, e l’evoluzione del com-
plesso del primo Oratorio con le attuali Camerette (anni: ’53, ’56 e ’61).
A metà ’800 a Valdocco non c’erano più solo sporadiche case semirustiche
cinte da muriccioli, tra prati incolti e orti; c’era ormai qualcosa di ibri-
do, foriero della fisionomia che l’urbanistica, con le sue leggi,
avrebbe imposto a opere cittadine. Chi dalla via del Cotto-
lengo s’inoltrava nella trasversale via della Giardiniera, po-
teva notare al di là di un muro di cinta la casa Pinardi con
il suo caratteristico ballatoio; e aderente ad essa a sinistra la
chiesa di san Francesco di Sales, di una certa dignità di linee;
aderente a destra, un edificio a due piani, ad angolo retto, con
un’ala parallela alla chiesa, e un porticato lungo la parte dell’edificio in linea con la casa
Pinardi. Tale sarebbe stato l’aspetto dell’Oratorio di Valdocco fino alla primavera del 1856.
Nel terzo modellino troviamo il complesso di edifici dominato dalla Basilica (’63 - ’68), con
l’annessione della Casa Filippi e, sull’asse della primitiva via della Giardiniera, la nuova co-
struzione della tipografia (’61); infine l’edificio scolastico al limite orientale della proprietà,
costruito nel 1863.
Nel quarto abbiamo lo stato attuale del complesso: i nuovi spazi dedicati all’Oratorio e alla
scuola, con i relativi cortili.
La coscienza di essere come i grandi ordini religiosi fece maturare impercettibilmente l’e-
sigenza di una casa generalizia che in qualche modo fosse riconoscibile. Valdocco si avviò a
diventare la “cittadella salesiana” con una invisibile cinta divisoria da Torino, che a sua volta
si avviava a diventare una grande città operaia.
I ritratti del Padre
Il pittore Giuseppe Rollini, exallievo dell’Oratorio, nel 1880 realizza don Bosco in preghie-
ra un quadro storico e simbolico su committenza degli exallievi. Tale opera fu dapprima pre-
sentata alla nota Esposizione d’Arte Nazionale di Torino del 1880 e quindi donata al Santo,
forse nella festa onomastica. Nel 1885 offre a don Bosco il ritratto di Mamma Margherita
e dipinge nel 1888, un noto ritratto del Santo, originariamente collocato nell’anti-sacrestia
della primitiva Basilica.
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Per la Basilica realizza negli anni 1868-1874 gli affreschi della cappella dedicata ai Sacri
Cuori (successivamente di S. F. di Sales, oggi cappella S. D. Savio) e nel 1890-91 il ‘Trionfo
di San Francesco di Sales’ sulla volta della navata centrale. Sua è la grandiosa decorazione
della cupola, di cui qui è esposto il modello ligneo (del 1889), e dei pennacchi, su probabile
suggerimento iconografico di don G.B. Lemoyne. Nel 1893 circa esegue il perduto affresco
per la volta della cappella dei Santi martiri torinesi (attualmente cappella di s. M.D. Maz-
zarello) e nel 1894 le pitture ad olio su intonaco sulle pareti laterali della cappella di San
Francesco di Sales (raffiguranti due episodi della vita del santo). Curioso rimane il piccolo
‘sottoquadro’ con il Beato Cherubino Testa e don Vittorio Alasonatti, eseguito nel 1899 per la
medesima cappella.
Sua opera è l’imponente tela dell’Immacolata, dipinta per la Chiesa di s. Giovanni Evangeli-
sta (1882), di cui viene esposto anche il bozzetto, donato a don Antonio Sala (economo gene-
rale della Congregazione salesiana dal 1880 al 1895). Il quadro testimonia la ricerca pittorica
dell’artista, legato a moduli tardo gotici, propri della temperie artistica del momento, che
coniugava una sensibilità storicista con alcuni elementi propri dell’Orientalismo. È esposto
qui l’Arcangelo Gabriele, opera attribuita alla scuola del Rollini.
Sono esposti in questa sala anche due ritratti di don Bosco, uno di Enrico Benzoni (1886)
ed uno di Paolo Gaidano (1861-1916), autore di vari ritratti per casa Savoia.
Un vecchio sacerdote già alunno a Valdocco, lasciò scritto nel 1889: “Quel che in Don Bosco
più spiccava era lo sguardo, dolce ma penetrantissimo, fino alle latebre del cuore, cui appena
si poteva resistere fissandolo”. E aggiungeva: “In genere i ritratti e i quadri non riportano
questa singolarità” (MB VI, 2-3).
Un altro exallievo, degli anni ’70, Pons Pietro, rivela nei suoi ricordi: “Don Bosco aveva due
occhi che foravano e penetravano nella mente... Egli passeggiava adagio parlando e guar-
dando tutti con due occhi che giravano da ogni parte, elettrizzando di gioia i cuori” (MB
XVII, 863).
Ritratto di don Bosco di Paolo
Gaidano.
Don Bosco in preghiera
di Giuseppe Rollini.
GIUSEPPE ROLLINI
Fu il pittore di fiducia di don Bosco e di don Rua, conosce bene le umili
origini dell’Oratorio salesiano e riesce ad imporsi nel dialogo artistico
del momento, che apprezzava molto lo studio storico del passato e una
certa pittura di effetto. Egli darà volto pittorico alle intuizioni program-
matiche della nascente Congregazione Salesiana.
Nato ad Intra (No) sul Lago Maggiore, rima-
ne presto orfano. Nel 1860 si trasferisce a
Torino ospitato da don Bosco. Frequenta
l’Accademia Albertina ed è allievo di
Andrea Gastaldi (1826-1889), pittore
neoclassico legato alla figura di Gio-
vanni Fattori. Pur essendo interessa-
to a vari temi, privilegia il ritratto (qui
è esposto l’Autoritratto) ed i soggetti
religiosi. Nel 1884 contribuisce alla
decorazione del Borgo e del Castello
Medievale del Valentino, in occasione
dell’Esposizione Generale Italiana.
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Gli amici di una vita
Era un senso di amicizia
esplosivo, quello che
i ragazzi provavano
per don Bosco. E non
solo i ragazzi. «Io ho
sempre avuto bisogno
di tutti» ripeteva don
Bosco e tutti lo hanno
sempre aiutato:
nessun altro santo ha
avuto tanti amici sinceri,
fedeli e pieni di vero
affetto come don Bosco.
In questa sala vengono esposti i profili biografici di alcuni tra i primi amici e
collaboratori di don Bosco. Essi aiutarono il ‘Santo dei giovani’ nelle origini
e nel primo consolidamento dell’Oratorio di Valdocco, specialmente sotto il
profilo pedagogico ed intellettuale.
Nello spazio espositivo si trova anche il primo tavolo del Consiglio Gene-
rale, già tavolo della biblioteca di Casa Pinardi sin dalla metà del secolo:
segno tangibile di quel paziente cammino di discernimento e di progettazione,
radicato sin dalle origini della Congregazione Salesiana.
Viene esposto anche il mobile libreria appartenente a don Michele Rua. Egli
collocò tale armadio nella camera di don Bosco:
quando andò ad abitarvi alla morte del Santo.
Qui collocato, tale arredo vuole testimoniare la
custodia fedele della memoria di don Bosco, vi-
vissima tra le prime generazioni.
Giuseppe Cafasso (1811-1860)
Senza di lui, l’opera di don Bosco non esisterebbe. Alcuni testimoni ai processi
di beatificazione e canonizzazione lo presentano come “cofondatore e primo
collaboratore” di don Bosco.
Dopo il primo incontro a Morialdo (intorno al 1830), tra il seminarista Cafasso e il giovane
Bosco si instaurò un legame che con il passare degli anni divenne più profondo. Fu una presenza
costante di consiglio, di incoraggiamento e di aiuto economico nella maturazione di don Bosco.
Fu determinante nelle sue scelte vocazionali e ministeriali. Don Lemoyne afferma che quando
lo raccomandò alla marchesa Barolo per la cappellania dell’Ospedaletto, avrebbe detto al teologo
Borel: “Pensate un po’ se vi è modo di trattenerlo con qualche impiego in questa capitale. È cosa
assolutamente necessaria. Dotato com’è di attività e di zelo, farà un gran bene alla gioventù. Egli
è destinato dalla Provvidenza a divenire l’Apostolo di Torino”. Quando poi don Bosco lasciò
l’impiego presso la marchesa e si trasferì in casa Pinardi, fu ancora il Cafasso in collaborazione col
Borel a sostenere economicamente l’Oratorio e garantire l’affitto, i prestiti e gli acquisti. Conti-
nuò il suo sostegno per i nuovi edifici costruiti al posto della casa Pinardi nel 1853 e nel 1856. Per
alcuni anni don Cafasso pagò la maggior parte dei conti per il cibo ed altri bisogni dell’Oratorio.
Poi raccomandò don Bosco a persone caritatevoli e ad istituzioni della città. Infine, lo sostenne
presso l’arcivescovo Luigi Fransoni, le autorità ecclesiastiche e civili e la famiglia reale.
Don Cafasso morì il 23 giugno 1860, all’età di 49 anni. È santo dal 1947.
Il monumento a san Giuseppe
Cafasso nel “Rondò della forca”,
lo spiazzo dove avvenivano le
esecuzioni ed è proprio davanti
alla Valdocco salesiana. Qui
il santo amico di don Bosco
ha assistito e confortato tanti
condannati a morte.
Giovanni Borel (1801-1873)
Giovanni Borel nacque a Torino il 1° luglio 1801, a sedici anni prese l’abito da chierico e,
frequentando la chiesa del Corpus Domini, conobbe san Giuseppe Benedetto Cottolengo. Il
21 maggio 1824 fu proclamato dottore in teologia, il 18 settembre, a soli 23 anni, fu ordinato
sacerdote. Di piccola statura, di belle maniere, era amato da tutti. Nel 1831 fu promosso
cappellano regio. Dieci anni dopo, però, rinunciò al prestigioso incarico. Fu amico e collabo-
ratore del Cottolengo e del beato Marcantonio Durando; conobbe il beato Federico Albert,
san Leonardo Murialdo, la beata Enrichetta Dominici ed il beato Francesco Faà di Bruno.
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Il 29 dicembre 1840 fu nominato direttore spirituale del Rifugio della Marchesa Giulia di
Barolo: una casa di accoglienza per ex-detenute e ragazze a rischio. Era una delle tante opere
nate dal cuore generoso della Marchesa, fondatrice di opere caritatevoli (come l’Ospedaletto di
S. Filomena per ragazze) e congregazione religiose (le suore di s. Anna e le suore di s. Maria
Maddalena). Ebbe una profonda amicizia con san Giuseppe Cafasso; anche don Borel infatti
svolse per lunghi anni assistenza ai carcerati. Il Cafasso lo considerava tra i migliori oratori
della città, le sue omelie erano profonde ma semplici, se necessario faceva uso del piemontese.
Una delle sue più importanti amicizie fu indubbiamente quella con don Bosco, fin dai tem-
pi del seminario di Chieri, quando Borel andò a predicarvi gli esercizi spirituali (autunno
1837). Don Bosco grazie al Cafasso e a Borel, nell’autunno 1844, fu assunto come cappella-
no per l’erigendo Ospedaletto di Santa Filomena.
Don Giovanni Borel.
Giulio Barberis (1847-1927)
Nato a Mathi Torinese, a 13 anni, nel 1861, entrò nell’Oratorio di Valdocco. La madre lo
presentò a don Bosco, che gli disse subito: «Saremo sempre amici». E aggiunse: «E tu di-
venterai mio aiutante». Ordinato sacerdote, tre anni dopo, nel 1873, conseguì la laurea di
teologia all’Università di Torino. L’anno seguente fu eletto primo maestro dei novizi della
Società Salesiana, carica che tenne per 25 anni. Contemporaneamente fino al 1879 fu inse-
gnante di storia e geografia nel ginnasio di Valdocco. Frutto di questo insegnamento furono
i testi che egli pubblicò e che furono così apprezzati da farlo nominare Socio Ordinario della
Regia Società Geografica. Le sue Nozioni di Geografia, per la loro chiarezza didattica, ave-
vano raggiunto nel 1920 la 31° edizione. Nel 1879 fu fatto direttore della casa di noviziato
a San Benigno Canavese, dove rimase fino al 1887. Dal 1892 al 1900 fu chiamato presso il
Capitolo Superiore col titolo di maestro dei novizi.
Don Giulio Barberis.
Giovan Battista Lemoyne (1839-1916)
Nato a Genova da distinta famiglia e consacrato sacerdote, sentì presto la vocazione alla vita
religiosa. Desiderando parlarne con don Bosco, fu avvertito da una ‘voce misteriosa’ di recarsi a
Lerma presso Ovada, dove lo avrebbe trovato. Recatosi, lo trovò veramente e decise di seguirlo
a Torino. Pochi giorni dopo era infatti all’Oratorio di Valdocco. Divenne uno dei più intel-
ligenti ed efficaci collaboratori di don Bosco. All’apostolato della direzione spirituale e della
predicazione don Lemoyne unì sempre quello della penna, iniziando ben presto quella serie di
pubblicazioni varie, dal genere storico al drammatico, che lo resero celebre non solo nell’ambito
della Congregazione, ma anche fuori. Don Bosco lo richiamò presso di sé come segretario del
Consiglio Superiore e redattore del Bollettino Salesiano, dandogli così l’opportunità di seguire
da vicino gli ultimi anni dell’attività del Padre, di cui fu il principale e più autorevole biografo.
Servendosi della sua diretta esperienza, nonché delle cronache e dei documenti vari elaborati
dai primi allievi di don Bosco, diede inizio alla pubblicazione delle Memorie Biografiche di
don Bosco, ampia documentazione in 19 volumi. I primi otto furono poi pubblicati diretta-
mente da lui tra il 1898 e il 1912, il nono usci postumo nel 1917 e gli altri furono curati da
don Amadei e don Ceria sul materiale da lui diligentemente preparato e cronologicamente
disposto, uscendo per le stampe tra il 1930 e il 1939. A questo lavoro poderoso parve destinato
dall’alto, poiché don Bosco, al suo giungere all’Oratorio, gli aveva detto: «Io non avrò segreti
per te, né quelli del mio cuore né quelli della Congregazione».
Le Memorie Biografiche
di don Bosco e don Lemoyne.
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Figli ed eredi
Ritratti di don Rua.
Michele Rua – Il secondo “padre” della Congregazione
La sala custodisce alcuni ritratti del Beato, significativi per la comprensione dell’evolversi
della sua iconografia. Nella vetrina sono collocati alcuni oggetti appartenuti al primo suc-
cessore di don Bosco.
Un giorno don Bosco confidò a don Costamagna: “Se Dio mi dicesse: preparati a morire;
scegli però un successore, perché non voglio che l’opera tua cessi; per lui sollecita quante
grazie, virtù, doni e carismi credi necessari, e tutto concederò: ti assicuro, caro Costamagna,
che non saprei che cosa chiedere, perché tutto vedo già in don Rua”.
Michele Rua nacque a Torino il 9 giugno 1837, nel popolare quartiere di Borgo Dora. Nel
giro di pochi anni la madre rimase sola con due figli. Michele iniziò la scuola prima all’Ar-
senale, poi presso i Fratelli delle Scuole Cristiane. Tra i banchi di scuola ci fu l’incontro con
don Bosco. Facendo un segno di taglio sulla mano, don Bosco gli disse: “Noi due faremo
tutto a metà”. Michele entrò poi come convittore a Valdocco. Intanto nacque nel suo cuore
la vocazione sacerdotale: il 3 ottobre 1852 ricevette l’abito ai Becchi di Castelnuovo. Il 26
gennaio 1854, don Bosco radunò nella sua camera quattro giovani compagni, dando vita,
quasi inconsapevolmente, alla prima forma di Congregazione. Alla riunione erano presenti
Giovanni Cagliero e Michele Rua, che fu incaricato di stendere il “verbale”. Il 25 marzo
1855, nella stanza di don Bosco, Michele fece la sua “professione” semplice: era il primo
Salesiano. Accompagnò don Bosco in numerosi viaggi (Francia e Spagna) e nel 1884 fu
nominato ‘vicario’ di don Bosco con diritto di successione. Divenuto Rettor Maggiore della
Società Salesiana, e primo successore di don Bosco, don Rua ne è il fedele interprete. Frutti
di tale animazione e di tale governo sono: l’espansione delle fondazioni salesiane (con lui la
Congregazione salesiana era passata da 773 a 4000 salesiani, da 57 a 345 Case, da 6 a 34
Province religiose in 33 paesi). Morì nella notte tra il 5 e il 6 aprile 1910, mormorando una
giaculatoria insegnatagli da don Bosco quando era un ragazzino: “Cara Madre, Vergine
Maria, fate ch’io salvi l’anima mia”. Il “secondo padre della Famiglia Salesiana” fu sepolto
a fianco del maestro a Valsalice. Paolo VI lo beatificò il 29 ottobre 1972, dicendo “Ha fatto
della sorgente, un fiume”. La sua tomba è nella cripta della Basilica.
Nella foto, il ragazzo confessato
da don Bosco è il futuro don
Paolo Albera, suo secondo
successore.
Paolo Albera – Un timido gigante
Nella sala è esposta una grande fotografia, ritoccata a colori, del secondo successore di don
Bosco, insieme ad alcuni oggetti a lui appartenuti.
Era nato a None, un piccolo borgo della campagna torinese, il 6 giugno 1845, in una famiglia
profondamente cristiana. Fu l’ultimo di sette figli, anche due fratelli e una sorella si consa-
creranno alla vita religiosa. A don Bosco venne presentato dal suo parroco e a quell’incontro,
il 1° maggio 1860, seguì l’ingresso tra i Salesiani. Nel 1881 fu nominato ispettore delle case
in Francia e si trasferì a Marsiglia. In dieci anni di permanenza, le comunità salesiane da
tre divennero tredici. Il 29 agosto 1881 fu eletto, dal Capitolo Generale, direttore spirituale
della Società Salesiana, e tornato a Torino si mise a disposizione di don Michele Rua che
lo volle visitatore delle case all’estero. Il 16 agosto 1910, fu eletto Rettor Maggiore. Resse la
Congregazione negli anni difficili della Prima Guerra Mondiale e fece accogliere nei collegi,
numerosi orfani dei caduti in guerra. Verso la fine della vita, ebbe la gioia, nel 1920, di vede-
re inaugurato a Valdocco il monumento a don Bosco. Morì il 29 ottobre 1921.
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Cardinale Giovanni Cagliero – Il coraggio di osare l’impensabile
Nacque a Castelnuovo d’Asti l’11 gennaio 1838 da Pietro e Teresa Musso. Rimasto presto
orfano di padre, il 3 novembre 1851 venne accolto a Torino nel nascente Oratorio salesiano,
divenendo uno dei più versatili e abili collaboratori di don Bosco. Le sue composizioni mu-
sicali di quel periodo (1860-70), ricche di vena melodica, furono un’importante componente
dell’ambiente oratoriano. Fu ordinato sacerdote il 14 giugno 1862; dal 1869 al 1886 ricoprì
il ruolo di ‘direttore spirituale’ della Congregazione salesiana. Si laureò in teologia all’uni-
versità di Torino il 4 dicembre 1873, e nel 1874 venne designato direttore spirituale delle
Figlie di Maria Ausiliatrice. Nel 1875 don Bosco lo inviò in America latina, alla testa della
prima spedizione missionaria salesiana. Dopo il primo impianto delle opere in Argentina e
in Uruguay, venne richiamato in Italia (’77), prima nell’intento di preparare una spedizione
di Salesiani in India, poi per l’irradiazione di istituti educativi di Salesiani e Figlie di Maria
Ausiliatrice in Francia (’78 e ’80), Sicilia (’79), Spagna e Portogallo (’81).
Fu ordinato vescovo il 7 dicembre 1884, come ‘vicario apostolico’ della Patagonia settentrio-
nale e centrale. Dopo un intermezzo in Europa (dicembre ’87 - gennaio ’89), causa la morte
di don Bosco ed il necessario assestamento dei salesiani, monsignor Cagliero tornò in Ar-
gentina, dove si preoccupò in particolare delle strutture religiose della Patagonia e delle re-
lazioni diplomatiche tra la Santa Sede e il governo argentino. Fu ancora in Europa nei primi
di maggio del 1903 e rientrò in Argentina il 3 gennaio 1904. Promosso arcivescovo titolare
di Sebaste (18 aprile 1904), venne richiamato in Italia, dove gli furono affidate visite apo-
stoliche straordinarie nelle diocesi di Bobbio, Tortona, Albenga, Savona-Noli e Ventimiglia.
La pratica pastorale e l’esperienza americana acquisite da monsignor Cagliero indussero la
Santa Sede a destinarlo come ‘delegato apostolico’ ed ‘inviato straordinario’ presso la Repub-
blica di Costarica (10 giugno ’08) e come ‘delegato apostolico’ di Honduras e Nicaragua (19
e 26 dicembre ’08).
Richiamato in Italia (nel 1915), fu creato cardinale e gli fu affidata la presidenza delle con-
gregazioni vaticane dei: Religiosi, Propaganda Fide e Riti. Il 16 dicembre 1920 divenne ve-
scovo di Frascati, fino alla morte, avvenuta a Roma il 28 febbraio 1926.
Ritratti di monsignor
Giovanni Cagliero, primo
vescovo e cardinale salesiano.
A sinistra:
Una delle grandi
sale del Museo
Casa Don Bosco.
La sala custodisce l’uni-
ca superstite delle otto
vetrate artistiche della
Basilica, risalenti al 1939
e raffiguranti figure sto-
riche e di santità illustri
della Congregazione (le
altre sette vetrate anda-
rono distrutte dai bom-
bardamenti del 1942),
oltre alcuni oggetti del
Cardinale, come la pre-
ziosa statua della vergine
in alabastro.
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Il cuore di Valdocco
Entriamo nel “sacrario”
di Valdocco. Ai tempi di
don Bosco, dopo una visita,
il direttore di una grande
scuola rilasciò un commento
sorprendente: «Voi avete
una gran fortuna in casa
vostra, che nessun altro ha
in Torino e che neppure
hanno le altre comunità
religiose. Avete una camera,
nella quale chiunque entra
pieno di afflizione, se ne
esce raggiante di gioia».
Il biografo di don Bosco
che riferisce il fatto
aggiunge: «E mille di noi
han fatto la prova».
A ncora oggi le camerette di don Bosco conservano un singolare pro-
fumo di accoglienza serena e di pacificante intimità. Caratteristica
che dovevano avere tutte le sue «case». Il suo sogno era una «casa dei
giovani», casa di preghiera e cultura, centro ricreativo, punto di incontro.
Anticamera già prima camera
di don Bosco (1853-1861)
Questa camera fu abitata da don Bosco per otto anni, dal 1853 al 1861. Per
accedervi, come agli altri vani dell’edificio, si doveva passare sul ballatoio
esterno. Essa era illuminata dalla porta a vetri e da una finestra a mezzogior-
no. Per molto tempo questa stanza servì da camera da letto, sala di ricevi-
mento ed ufficio. Qui don Bosco scrisse molte delle sue prime opere popolari.
Con l’ampliamento del 1861 ed il trasferimento dei mobili nel vano succes-
sivo, questa camera venne trasformata in sala di aspetto per i visitatori. Nel
1872, quando si verificarono i primi seri incomodi di salute per don Bosco,
fu collocato un altarino (dissimulato da una custodia simile ad un armadio)
sul quale celebrava Messa ogni volta che non poteva scendere in chiesa (le
fonti ricordano a questo altare l’estasi del dicembre ’78. Cfr. MB XIII,897):
l’altare portatile si trova ora nell’adiacente cappella nuova. A sinistra, en-
trando dal ballatoio, vi era una porta comunicante con la stanza che serviva
da biblioteca sulla quale era collocata la scritta: “Lodato sempre sia il ss. Nome
di Gesù e di Maria”.
Le successive trasformazioni
delle camere di don Bosco.
Proprio qui accadde…
Il 26 gennaio 1854 don Bosco raduna in questa stanza i giovani Rua, Cagliero, Rocchietti,
Artiglia, e dice loro: «Con l’aiuto di Dio, vi invito a formare con me una Società. Ci chia-
meremo Salesiani». Risuona qui, per la prima volta, questa parola «Salesiani». Nella teca è
esposto il taccuino originale con le pagine autografe di don Rua, relative a tale avvenimento.
29 ottobre 1854. In questa stanza, passando dalla porta che dà sul ballatoio (era l’unica porta
d’ingresso!) entra Domenico Savio con suo papà. La prima cosa che vede è quel cartello: «Da
mihi animas caetera tolle». Don Bosco l’aiuta a capire quello che è il motto della sua prima
Messa: «Dammi le anime, prenditi tutto il resto». Domenico, serio, commenta: «Ho capito.
Qui non c’è commercio di denaro, ma di anime. Spero che anche la mia anima farà parte di
questo commercio».
25 marzo 1855. Il chierico Michele Rua (ha la veste nera da tre anni) si inginocchia su
questo pavimento, e davanti a don Bosco pronuncia i voti di povertà, castità, obbedienza.
Alcune vecchie mattonelle di quel primo pavimento sono conservate nell’angolo de-
stro. Qui don Bosco ha pure scritto le prime regole dei Salesiani, e il fulmine che scese
dal camino, sbatacchiando il suo letto e rovesciando il tavolino, macchiò tutto il primo
manoscritto.
18 dicembre 1859: don Bosco fonda, con 17 collaboratori, la Congregazione Salesiana (‘Pia
Società di San Francesco di Sales’). Vediamo qui esposto l’originale del verbale di fondazione.
Nel 1858 il Santo aveva iniziato in questa camera a scrivere le prime Regole.
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Camera di don Bosco (1861-1887)
In questo luogo don Bosco abitò e lavorò per
27 anni. Quando, durante la sistemazione del-
la Casa Filippi (1861), si provvide a raddoppiare
il braccio del fabbricato, parallelo alla chiesa di
San Francesco di Sales, al secondo piano si ricavò
un’altra stanza che divenne l’ufficio e la camera
da letto di don Bosco.
Qui trascorse molte notti lavorando e studiando:
rimane la caratteristica ‘lampada all’acetilene’. È
degna di rilievo la semplice scrivania (con il re-
lativo scaffale da corrispondenza), dove il Santo
compose le Regole dei Salesiani, delle Figlie di
Maria Ausiliatrice e scrisse moltissime lettere
e testi fondamentali della spiritualità salesiana
(come il Testamento Spirituale).
Il letto, dal 1887 spostato nella camera attigua, è testimone di alcuni sogni ‘rivelatori’ del ca-
risma salesiano e degli ultimi mesi di malattia. Sono originali: il divano, le sedie a schienale,
la poltrona in tessuto e il comodino.
Appartennero a don Bosco anche: l’appendiabiti, il crocifisso, il calamaio, il leggio mobile,
che sono successivi al 1861.
Dopo la morte del Santo questa stanza servì per 22 anni (1888-1910) da ufficio e da camera
da letto di don Rua. Egli dormiva sopra il povero divano, riposò su di un letto solo nella sua
ultima malattia.
Nella sistemazione museale attuale, la stanza è stata riportata al suo aspetto originale. Sulla
base della documentazione storiche, sono stati ricollocati gli arredi e la sistemazione dei
mobili in relazione agli anni principali trascorsi qui da don Bosco (1861-1887).
L’attuale stanza risale all’ottobre del 1876, quando il locale già esistente al piano terra venne
sopraelevato. Delle due camere ottenute con l’ampliamento, la prima venne adibita a camera
di lavoro del segretario del Santo e poi a cappella; nella seconda don Bosco trascorse gli
ultimi mesi della sua vita.
La poltrona qui collocata riveste una notevole forza simbolica: su di essa venne adagiato il
corpo di don Bosco nel giorno della morte, prima nella galleria delle camerette, poi nella
chiesa di San Francesco di Sales.
Così narrano le Memorie Biografiche (XVIII, 549): ‘La chiesa di San Francesco di Sales era tutta
vestita di ampie gramaglie. Il corpo del Santo non fu adagiato sul letto funebre, come si suole, ma
assiso sul seggiolone, che un palco rilevava da terra. Ardevano intorno molti ceri. Tosto i giovani
sfilarono dinanzi rimirando con occhi lacrimosi il loro Padre, che era nella sua posa di dormiente,
con la testa leggermente inclinata dal lato sinistro, col sembiante calmo, composto e quasi sorridente,
con gli occhi semichiusi e fissi nell’immagine di Gesù crocifisso, che stringeva fra le mani giunte.
La chiesetta fu aperta al pubblico verso le otto. Il flusso e riflusso dei visitatori durò dal mattino
alla sera così numeroso che dovettero intervenire le guardie per regolarlo, disponendo che l’uscita fosse
diversa dall’entrata. Chi vide allora i viali di Valdocco, provò l’impressione che l’intera Torino si
riversasse nell’Oratorio’.
La statua “parafulmine”
sulla facciata delle camere
di don Bosco.
La poltrona dell’ultimo saluto.
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La camera dell’ad-Dio
L’ultimo
messaggio:
«Dite ai miei
giovani che
li aspetto
tutti in
Paradiso!».
Nel 1876 venne sopraelevato il laboratorio di tipografia sul lato sud delle Camerette (co-
struito nel 1862). Si aggiunsero così tre vani, uno di questi era la camera del segretario
di don Bosco. In essa venne trasferito il Santo nel periodo dell’ultima malattia (fine
’87 - 31 gennaio ’88).
La camera fu arredata con mobili donati da benefattori, come il piccolo tavolo sul quale egli
scrisse (19 dicembre ’87) consigli e invocazioni sul retro di alcune immagini di Maria Ausi-
liatrice (“In fin di vita si raccoglie il frutto delle opere buone”).
Venne qui spostato il divano della sua camera, a cui fu accostato un piccolo leggio - scrittoio
mobile, in modo che potesse scrivere più comodamente quando sedeva per riposarsi e per
dare udienze (il divano ora è stato ricollocato nella ‘camera della vita’). Una poltrona con le
ruote era di aiuto per gli spostamenti. Lungo la parete est della camera, accanto al letto, vi
erano il catino e la brocca dell’acqua per lavarsi. Una semplice scaletta di legno aiutava le
sue gambe gonfie a salire e scendere dal letto. Un campanello a muro serviva da richiamo in
caso di necessità.
Nel luogo in cui si trovava il letto della morte (ora ricollocato nella camera adiacente, in
posizione originaria) è stata allestita, come preziosa reliquia, una teca con le vesti originali
del Santo: la veste talare, il cappotto con la mantelletta ‘pellegrina’, i copricapi usati nei
numerosi viaggi, il caratteristico tricorno, alcuni bastoni, il portafoglio e l’agenda tascabile
(anno 1852).
La finestra con la vite da cui don
Bosco guardava la sua Basilica.
La galleria e le viti
L’ampliamento dell’edificio, avvenuto nell’anno 1876, previde l’innalzamento del locale al
piano terra (costruito già nel ’62 ed adibito a tipografia).
Sul fronte della casa fu ricavata la ‘galleria’: un lungo balcone coperto che si estendeva per
tutta la larghezza della costruzione, con ampie vetrate che guardano direttamente nel cor-
tile delle ricreazioni dei ragazzi. Il vano venne pensato per offrire al santo uno spazio per
il passeggio, quando l’infermità delle gambe gli procurava gravi difficoltà, nello scendere e
salire le scale.
La galleria era arredata molto sobriamente, con inginocchiatoi che servivano per il sacra-
mento della confessione dei ragazzi, quando don Bosco anziano faceva fatica a scendere in
Basilica.
La vite ha fatto compagnia a don Bosco dalla nascita alla morte. Per questo chiese che la
galleria fosse ombreggiata da viti di moscatello di Castelnuovo, già fatte piantare in prece-
denza nel terrazzo sovrastante il locale del ’62. Ogni anno, in autunno, don Bosco regalava i
grappoli maturi ai ragazzi delle scuole superiori o a qualche benefattore. Nel 1887 don Bo-
sco, molto ammalato, volle ritardare la vendemmia perché vi potesse partecipare monsignor
Cagliero, che era in viaggio dall’America giungendovi però solo il 7 dicembre.
Un mese prima della morte, all’imbrunire di una giornata passata in un penoso dor-
miveglia, don Bosco fece chiamare don Rua e monsignor Cagliero, due dei figli più cari, e
raccogliendo le poche forze che aveva disse per loro e per tutti i Salesiani: “Vogliatevi tutti
bene come fratelli; amatevi, aiutatevi e sopportatevi a vicenda come fratelli...” Più tardi,
con un filo di voce, aggiunse ancora: “Promettetemi di amarvi come fratelli”.
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L’ultimo gesto
Cominciarono i giorni tristi dell’agonia. Anche in quei momenti, la sua presenza di spirito,
la sua lucidità, il buon senso, la sua memoria stupivano quelli che gli erano vicini. Ritornava
anche il suo buon umore. Anche se soffriva molto, la sua pazienza nel dolore restava inaltera-
bile. Ritrovava il suo bel sorriso, aveva delle parole, scherzava perfino. Poi la preoccupazione
per i suoi lo riafferrava.
«All’istante della mia morte, diceva loro, io farò solo un sacrificio: quello di lasciarvi...».
Fino all’ultimo messaggio: «Dite ai miei giovani che li aspetto tutti in Paradiso!».
Chiudeva lentamente gli occhi come affascinato da un pensiero profondo, così profondo che
tratteneva il respiro.
Gridava: «Madre! Madre!» Due volte, perché erano in due, lì accanto, ad aspettarlo.
Gridava come un bambino. Un bambino che finalmente tornava a casa. Preso per mano dal
compagno di giochi di tutta la vita. A guardare bene, nella fotografia che ritrae don Bosco
appena spirato, lui sembra veramente avvolto dalle braccia di Qualcuno. Le due madri erano
venute a prenderlo.
Qualche giorno prima aveva detto a don Rua: «Quando non potrò più parlare e qualcuno
verrà per chiedere la benedizione, tu alzerai la mia mano, formerai con essa il segno della
croce e pronuncerai la formula. Io metterò l’intenzione». Alla fine, don Rua sollevò il suo
braccio e l’ultimo gesto di don Bosco fu una benedizione su tutti i suoi figli.
Il 31 gennaio 1888, alle quattro e venti del mattino, don Bosco entrò nella Luce eterna.
L’orologio sul campanile della chiesa interna di San Francesco si era fermato nel 1865 e le
lancette erano rimaste ferme per più anni sulle quattro e venti. Parecchi anni dopo le sfere si
mossero, perché i giovani, salendo sul campanile, si divertivano a far girare gli ingranaggi. Il
mattino della morte di don Bosco, dopo tanti rivolgimenti, le lancette si bloccarono di nuovo
sulle quattro e venti.
I “cari ricordi”.
Cari ricordi
LA CAPPELLA. L’attuale cappella è stata allestita nell’ambiente costruito in seguito all’am-
pliamento dell’edificio (1861) ed originariamente destinato a biblioteca.
LA STATUA DI SAN FRANCESCO DI SALES. L’attuale collocazione sottoli-
nea l’originale destinazione absidale nella chiesa di san Francesco di Sales (1852).
LA CATTEDRA DELLA ‘BUONANOTTE’. Risalente al 1860 ca., si trovava nel
porticato presso la cappella Pinardi.
IL CONFESSIONALE (GIÀ IN SAN FRANCESCO DI SALES). Il banco
confessionale (di fattura semplice ed originariamente sormontato da una croce) era
collocato a sinistra nella cappella laterale della chiesa di san Francesco (cappella
della Madonna del Rosario).
L’ALTARE-ARMADIO. Venne collocato, almeno sin dal 1872, presso l’antica-
mera del Santo (a destra dell’entrata dal ballatoio). A tale altare don Bosco celebra-
va talora l’eucaristia, soprattutto in tempo di malattia. Nel dicembre 1878, mentre
celebrava la S. Messa, ebbe un rapimento mistico di cui fu testimone don Evasio
Garrone, che allora gli faceva da ministrante: “A poco a poco i suoi piedi si staccarono
dalla predella ed egli rimase sospeso in aria per ben dieci minuti” (MB XIII, 897).
L’ALTARE DELLA CAPPELLA
Originalmente era collocato nella cap-
pella, allestita nel 1886, già ‘ufficio
dei segretari’. Fu benedetto dal car-
dinale Alimonda il 29 gennaio 1886.
Qui don Bosco celebrò l’Eucaristia gli
ultimi mesi della sua vita, e quando
non poté più, era accompagnato a
questo altare su di una poltrona con
rotelle (ora nella camera della morte)
per partecipare all’Eucaristia. La sua
ultima celebrazione su questa mensa
avvenne l’11 dicembre 1887.
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Il trionfo di don Bosco
L’urna attuale di don Bosco
si trova nella Basilica di Maria
Ausiliatrice ed è meta di
continui pellegrinaggi.
Il recente trionfale “giro del
mondo” ha dimostrato quanto
affetto circondi don Bosco.
Quella esposta nel Museo
è la prima urna.
Nell’angolo di collegamento tra l’ala delle Camerette e l’edificio
del 1853 si trovava una camerata per i ragazzi. Secondo la
tradizione, qui dormì anche san Domenico Savio. In questo luogo
si trovano oggetti e memorie che illustrano la Beatificazione e la
Canonizzazione del ‘Santo dei giovani’.
Beatificazione
Consigliato da Leone XIII, don Rua, nell’estate del 1888, presentava al card. G. Alimonda,
arcivescovo di Torino, la domanda d’introduzione della Causa, firmata da tutti i membri del
Quinto Capitolo Generale, radunato a Valsalice. I processi canonici durarono quarant’anni.
Il 16 maggio 1929 ebbe luogo l’esumazione della salma a Valsalice (Torino). Il 2 giugno 1929
a Roma don G. Bosco venne proclamato Beato. Centomila pellegrini giunsero in città da
tutte le parti d’Italia e del mondo. Quando l’urna lignea qui
esposta, da Valsalice (Dom. 9 giugno 1929, dopo aver in tre ore
attraversato la città di Torino, passando attraverso p.za Vittorio
Veneto e poi presso la Cattedrale, dove la attendevano sei car-
dinali e sessanta vescovi) entrò nella Basilica dell’Ausiliatrice,
accompagnata dal canto Giù dai colli, si trovarono ad attenderla
coi Superiori Salesiani e le personalità più celebri del periodo,
tra cui i Principi di Casa Savoia. Il corpo del Beato venne col-
locato nell’attuale cappella di S. M. D. Mazzarello.
Canonizzazione
La Causa per la Canonizzazione viene ripresa il 18 giugno 1930. Il 19 novembre 1933 Pio
XI autorizzò la lettura del decreto di approvazione dei miracoli e il 3 dicembre il decreto De
tuto (‘Si può sicuramente procedere alla solenne canonizzazione del Beato’). Il 15 gennaio
1934 viene fissata la data della Canonizzazione: 1 aprile 1934, solennità di Pasqua e chiusura
dell’Anno Santo straordinario (1900° anniversario della Redenzione).
Don Fedele Giraudi (1875-1964), economo generale della Congregazione salesiana dal 1924,
ed organizzatore delle celebrazioni sia della Beatificazione sia della Canonizzazione, scrive:
Forse mai, nella storia della Chiesa, la Canonizzazione di un Servo di Dio assurse a tanto splen-
dore e fu allietata da tanta gioia…
1. Quadro della beatificazione
Angelo Enrie nel 1928, sulla base delle fotografie storiche di M. Schemboche, esegue il
quadro ufficiale di don Bosco Beato. L’autore sceglie una rappresentazione idealizzata, nella
quale la verità storica lascia spazio alla ieraticità della persona, secondo il gusto proprio del
periodo fascista. Per sottolineare la santità per la prima volta don Bosco è coronato dall’au-
reola e da una schiera di angeli. ‘A quest’epoca si era ormai spento il ricordo diretto delle
sembianze del Santo. La rappresentazione verteva quindi più sulle caratteristiche spirituali,
che si desiderava evidenziare, che sulla realtà dell’immagine’ (G. S , Don Bosco nella
fotografia dell’800, SEI, Torino 1987).
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2. Urna lignea
L’urna in legno, che contiene la cassa di cristallo, è una pregevole opera d’arte eseguita su
disegno dell’architetto salesiano G. Valotti. Quattro putti alati, ritti ai quattro angoli, sor-
reggono un ricco festone di svariati frutti, simbolo degli effetti spirituali e sociali maturati
nei cuori dei giovani, mediante l’attuazione del ‘Sistema Preventivo’. Due stemmi, quello di
Pio XI (pontefice della beatificazione) e quello della Congregazione salesiana, vennero posti
ai lati. Quello dei Salesiani fu sostituito da quello delle Figlie di Maria Ausiliatrice, quando
l’urna venne utilizzata per ospitare il corpo di S. M. D. Mazzarello. L’urna fu eseguita dalla
Scuola Professionale Salesiana di S. Benigno Canavese.
3. Paramenti della beatificazione
Il grandioso paramentale per la beatificazione di don Bosco venne eseguito, in due anni di
lavoro, da quaranta suore Figlie di Maria Ausiliatrice, per incarico di Madre Luisa Vaschetti,
superiora generale. Il paramentale in filato d’oro su tessuto d’argento è esposto parzialmente.
Nella sua interezza era composto da sei piviali, una pianeta, quattro dalmatiche, tre stole, un
velo omerale, tre manipoli, un velo per il calice, due borse d’altare ed un conopeo. Il lavoro,
in ‘stile romano’, ha richiesto una tecnica ed un’abilità non comuni. Ogni particolare vegetale
richiede il lavoro di una giornata per persona: centinaia sono le foglie ‘a ricamo’.
4. Paliotto
Il paliotto ricamato su seta marezzata avorio, era destinato all’altare provvisorio del Santo.
Tale altare, allestito nell’aprile del 1934, era addossato all’antico altare di san Pietro nella
Basilica, ora luogo dell’urna di san G. Bosco. È probabile che il paliotto sia stato eseguito
I preziosi paramenti usati
per la Beatificazione
dalle suore Figlie di Maria Ausiliatrice successivamente ai paramenti della beatificazione. di don Bosco.
Esso non prevedeva ricami nella parte superiore,
per lasciar spazio alle tovaglie. Quella esposta (in
tessuto di qualità eccezionale -bisso-, ricamata a BROCCA DEL MIRACOLO
‘nodi Savoia’ su disegno dell’architetto G. Ricci),
fu donata dalla regina Elena in occasione della
visita del 13 aprile 1935. La cornice è successiva e
riprende le decorazioni lignee delle balco-
nate soprelevate, del presbiterio
della Basilica.
Si tratta di un dono della famiglia Clément, legato ad un caso
di bilocazione di don Bosco avvenuta il 14 ottobre 1878 nella
Drôme, a Saint-Rambert d’Albon. Il fatto viene descritto nelle
Memorie Biografiche (XIV, 681-684). Il Santo, pur essendo a
Torino, nello stesso giorno viene incontrato dalla famiglia in
Francia, la quale chiede al ‘prete sconosciuto’ la guarigione del
figlio sordo-muto e cieco.
Il sacerdote, invitato a pranzo, raccomanda di custodire la brocca
dell’acqua come segno dell’incontro. Chiamato da una voce, abbandona la
casa e si reca al capezzale del fanciullo che miracolosamente guarisce. Anni
dopo, grazie ad alcune pagine lette sul santo apostolo di Torino, la famiglia
riconosce che quel misterioso viandante era san G. Bosco.
I coniugi Clément ed i loro figli custodiranno gelosamente l’oggetto per far-
ne poi dono al museo mariano (1959).
F. GIRAUDI, L’Oratorio di Don Bosco (SEI, Torino 1935) è un testo fonda-
mentale per la custodia della memoria e per la comprensione del complesso
sviluppo architettonico ed edilizio del quartiere di Valdocco. Alle pareti sono
stati collocati dei bozzetti originali, eseguiti per la pubblicazione.
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4.4 Page 34

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Il cortile dei santi
Il ritratto di Mamma Margherita.
Il Beato Filippo Rinaldi.
San Giuseppe Allamano.
San Leonardo Murialdo.
A l centro dell’area espositiva si trova, ricostruita in tessuto, la camera di Mamma
Margherita; qui la mamma di don Bosco ha abitato dal 1853 circa, sino alla morte.
All’interno della camera alcuni oggetti significativi a lei appartenuti, tra cui la parte
superiore di un povero scrittoio, nel quale ella teneva gli oggetti personali e del cucito a
servizio dei giovani dell’Oratorio. Tale mobile fu successivamente collocato da don Bosco
nella sua camera.
Nelle teche sono esposti i profili biografici ed alcuni oggetti, appartenuti ai santi che hanno
vissuto qui a Valdocco (prima parte della sala), oppure che sono espressione del carisma
della Famiglia salesiana (seconda parte della sala).
Beato Filippo Rinaldi, sdb (1856-1931). Conobbe don Bosco nel 1867 a Mirabello, durante
le confessioni. Fondatore delle Volontarie di don Bosco e terzo successore del Santo, visse
stabilmente qui in Casa Madre dal 1922.
Beato Augusto Czartoryski, sdb (1858-1893). Discendente dell’alta aristocrazia polacca,
nel 1877 ricevette in Basilica di Maria Ausiliatrice l’abito religioso da don Bosco, conosciuto
due anni prima a Parigi.
Venerabile Andrea Beltrami, sdb (1870-1897). Don Bosco lo rivestì dell’abito chiericale
nel 1886 qui a Valdocco; visse a Valsalice dove morì prematuramente, segno luminoso di
‘offerta vittimale’.
San Luigi Versilia, sdb (1873-1930). Accolto fanciullo qui all’Oratorio nel 1885, dapprima
maestro dei novizi a Genzano (Roma), quindi fondatore della presenza salesiana in Cina
(1906), dove divenuto vescovo, morì primo martire della Congregazione.
Beato Luigi Variara, sdb (1875-1923). A 12 anni conosce qui a Valdocco don Bosco. Mis-
sionario in Colombia, fonda la congregazione femminile dei Sacri cuori di Gesù e Maria.
San Callisto Caravario, sdb (1903-1930). Allievo dell’Oratorio di Valdocco, nel 1924 partì
come missionario in Cina dove morì martire con monsignor Versilia.
San Leonardo Murialdo (1828-1900). Fu amico e collaboratore di don Bosco che nel 1857
lo incaricò della direzione dell’Oratorio di S. Luigi, presso la Stazione di Porta Nuova. Fon-
dò nel 1867 la Congregazione dei Giuseppini, per il servizio caritativo dei giovani poveri.
San Luigi Guanella (1842-1915). Prete diocesano per il desiderio di una vita religiosa più
radicale venne a Torino e divenne salesiano nel 1875. Incaricato dell’Oratorio di San Luigi
in Borgo san Salvario, l’anno seguente aprì quello di Mondovì, e nel 1877 assunse la dire-
zione dell’opera salesiana per le vocazioni adulte. Richiamato dal suo vescovo a Como fondò
due Congregazioni religiose.
San Giuseppe Allamano (1851–1926). Nipote del Cafasso studia a Valdocco nell’Oratorio
(1862- 1866) ordinato sacerdote diocesano di Torino, nel 1880 viene nominato rettore del
Santuario della Consolata e nel 1901 fonda l’Istituto Missioni Consolata.
San Luigi Orione (1872–1940). Divenuto allievo nell’Oratorio
di Valdocco nel 1886, vi rimase tre anni; successivamen-
te divenne sacerdote nella diocesi di Tortona, dove fondò
due congregazioni reli-
giose.
Il Beato Augusto Czartoryski.
San Luigi Orione.
Sono state qui collocate la balaustra lignea ori-
ginale (1854) della Chiesa di san Francesco di
Sales e la porticina originale del tabernacolo
della chiesa di san Francesco di Sales.
34
OTTOBRE 2020

4.5 Page 35

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† continua da pag. 10
hobby, sarà difficile sentirsi bene quando si inizia
la giornata.
I giapponesi hanno inventato l’ikigai. È un meto-
do che viene definito «il motivo per cui alzarsi la
mattina». Corrisponde al senso della vita, a ciò che
ci fa alzare ogni mattina con entusiasmo. Letteral-
mente, potrebbe essere tradotto come “ciò per cui
vale la pena vivere la vita”. Ciò che vi fa accoglie-
re di buon grado l’arrivo di ogni nuova giornata.
I giapponesi non hanno bisogno di grandi spinte
motivazionali per vivere, ma si affidano proprio ai
piccoli rituali della routine quotidiana.
La vita è un enorme capitale da investire, il più
grande capitale di cui disponi e va speso per una
causa grande. Il vero dramma per tante persone è
non avere niente, non avere nessuno per cui valga
la pena mettere in gioco o spendere la propria vita.
Un’anziana signora diceva con vera soddisfazio-
ne: «Ho fatto tutto quello per cui sono venuta al
mondo».
3. Ottimizza i tempi di spostamento
Nella nostra società “moderna”, corriamo nel tem-
po e spesso sentiamo di essere mangiati dalla no-
stra vita professionale. Usare il tempo di viaggio
per “staccare” è un buon modo per rilassarsi. Leg-
gere un libro, o ascoltarlo in formato audio, è un
buon modo per fuggire prima di entrare nell’arena.
Per troppe persone il tempo che precede e segue il
lavoro è motivo di nervosismo.
Piuttosto che soffrire per i nostri tempi di sposta-
mento, è meglio ottimizzarli. Questo ci permette
di prendere il controllo di una parte importante
della nostra vita.
4. Proponiti un obiettivo ogni giorno
Non c’è niente di peggio del grigio tran tran. Ave-
re uno o più obiettivi in una giornata permette di
sviluppare un senso di “completamento” e di sod-
disfazione. È deprimente una giornata che si con-
clude con la sensazione di non aver fatto altro che
sempre le stesse cose. È vero che la sensazione di un
lavoro ben fatto è piacevole. Iniziare la giornata con
un obiettivo chiaro e pensare a quello che hai rag-
giunto il giorno prima, vedrai, ti rende ottimista! Il
famoso ammiraglio Mc Raven inizia così il suo li-
bro sui consigli per i giovani: «Se volete cambiare il
mondo… cominciate col rifarvi il letto». E ricorda:
«Rifarmi correttamente il letto non era un modo
per ottenere un elogio. Era ciò che ci si aspettava
da me. Era il primo compito della giornata ed era
importante svolgerlo a dovere. Dava prova della
mia disciplina, mostrava la mia cura del dettaglio e
alla sera mi ricordava che avevo compiuto qualcosa
di buono, qualcosa di cui essere orgoglioso, indi-
pendentemente dalla grandezza del compito».
Alla fine di una giornata di lavoro, ciò che ci ren-
de felici è che siamo stati in grado di migliorare la
vita di qualcuno. Non si tratta necessariamente di
grandi cambiamenti. Aggiustare un rubinetto, con-
sigliare un buon formaggio… Tutto può essere gra-
tificante. L’industrializzazione ha reso più astratta
questa sensazione di utilità. A differenza degli ar-
tigiani di un tempo, che conoscevano i loro clienti.
5. Sorridi quando arrivi al lavoro
Se hai il broncio quando vai al lavoro e peggio
ancora, non saluti nessuno o pensi che le persone
intorno a te siano insignificanti, funzionerà come
uno specchio: le persone che incontri faranno lo
stesso e ti manderanno onde negative.
Esci di casa con un gran sorriso. Condividi il più
possibile il buonumore: saluta ogni persona che in-
croci con un cenno del capo o un buongiorno sim-
patico. Sorridi al conducente del bus, al barista, alle
persone in ascensore. Fa un complimento al porti-
naio.
Constata le onde di gioia che crei.
Qual è l’idea? Farti comprendere con l’esperienza
che sei il capo di te stesso. Che sei tu a decidere se
la tua giornata sarà allegra o cupa. E quando met-
terai in fila le giornate, si fa presto a fare un anno,
un decennio, una vita. Sei tu a scegliere. Ti basta
prendere il controllo.
OTTOBRE 2020
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4.6 Page 36

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L’INVITATO
O. Pori Mecoi
Nel nome di Mamma Margherita
Incontro con padre Eric Meert
e la sua straordinaria opera in Congo
Attraverso la croce del Buon Pastore che portiamo
ogni giorno, ricordiamo che Cristo stesso è andato
a cercare la pecora smarrita. Spetta a noi seguire
le sue orme e quelle di don Bosco. L’amore di
Dio per i bambini indigenti della repubblica
democratica del Congo passa attraverso
la rete di Opere Mamma Margherita
e la casa Bakanja-Ville.
Il sorriso di Padre Eric.
Com’è nata la sua vocazione salesiana?
Sono il quartogenito di una famiglia di nove fi-
gli. Sono cresciuto in un ambiente ricco di fede e
nell’educazione che ho ricevuto fin dall’infanzia la
religione aveva un ruolo importante. A casa pre-
gavamo il Rosario tutte le sere mentre lavavamo i
piatti. Da quando ho cominciato il corso di studi
elementare, ho sempre frequentato una scuola cat-
tolica salesiana, la Don Bosco Halle, a 5 chilometri
di distanza da casa. Questa scelta, voluta dai miei
genitori, è stata la conseguenza di un contrasto che
esisteva tra scuole cattoliche e scuole comunali:
queste ultime fino a quel momento ammettevano
solo ragazzi, ma volevano ampliare l’ambito della
loro utenza alle ragazze. Se queste ultime fossero
state indotte a lasciare le scuole femminili gestite
da religiose, le suore rischiavano di dover chiude-
re i loro istituti. Per questo motivo mio padre e
mia madre, come altri genitori del nostro paese e
dei dintorni, decisero di iscrivere i loro figli in una
scuola cattolica.
La scuola elementare, che inizialmente era colle-
gata alla parrocchia locale, fu affidata ai Salesiani
di Don Bosco perché non riusciva più a garantire
il regolare funzionamento: aveva troppi alunni ed
era insostenibile a livello finanziario. Fu rilevata
dai Salesiani e accolse molti bambini, diventando
una delle più grandi scuole della regione. I miei ge-
nitori erano molto impegnati al suo interno: mio
padre era presidente del comitato dei genitori. Per
raccogliere fondi e sostenere la gestione della scuo-
la, ogni anno veniva organizzata una fiera. Noi fi-
gli della nostra famiglia avevamo l’opportunità di
impegnarci per quell’obiettivo: sbucciavamo le pa-
tate, mescolavamo gli ingredienti per preparare il
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OTTOBRE 2020

4.7 Page 37

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gelato... Sono dunque stato all’interno del mondo
salesiano nel corso di tutto il mio itinerario scola-
stico. Mi impegnavo in parrocchia e tutte le mat-
tine della settimana partecipavo come accolito alla
Messa delle 7, mentre la domenica prendevo parte
alla funzione delle 6.
In virtù della mia fede e del mio impegno religio-
so, pensai di diventare sacerdote fin da quando ero
adolescente, ma non avevo idee molto precise sulla
Congregazione di cui avrei voluto far parte. Quan-
do avevo sedici anni, nella scuola secondaria che
frequentavo un Salesiano mi domandò se volessi
entrare nella loro Famiglia religiosa. Ero già impe-
gnato nel movimento salesiano, ma questa doman-
da mi indusse a rafforzare il mio impegno, in parti-
colare nel gruppo Domenico Savio, negli ambienti
del gioco e sui campi sportivi. Anche Luc, il mio
migliore amico, ora Salesiano, mi aiutò a prendere
la mia decisione: per diverse estati consecutive ci
condusse in un cantiere a Bordeaux, nella Francia
sudoccidentale, a prestare la nostra opera come vo-
lontari. Quando avevo diciotto anni e frequentavo
l’ultimo anno del liceo, la mia scelta non era però
ancora chiara. Per tre anni andai dunque a lavorare
in una tipografia. Dopo questa prima esperienza e
un lungo discernimento, decisi di entrare in novi-
ziato per diventare salesiano. Dio ha sempre messo
sulla mia strada persone che mi hanno aiutato a ri-
flettere e a discernere la mia vocazione. Il vicepar-
roco della parrocchia in cui lavoravo come accolito,
per esempio, offriva sempre una testimonianza im-
portante: era disponibile all’ascolto e al servizio per
tutti in ogni momento.
Dopo essere stato ordinato sacerdote, nel 1983,
partii per l’Ispettoria dell’Africa Centrale. Chiesi
al mio Ispettore di permettermi di stare in una par-
rocchia povera per vivere con i più poveri. All’epoca
però la Congregazione Salesiana non contava molte
parrocchie e i miei superiori non ne avevano. En-
trai dunque nella tipografia dell’istituto Salama di
Lubumbashi, dove ho lavorato per circa vent’anni.
Ho sempre avuto una particolare attenzione per i
poveri. A Salama, per dare ai giovani in difficoltà
l’opportunità di frequentare la scuola tecnica, la ti-
pografia rimaneva aperta durante le vacanze e nei
giorni festivi. Gli allievi avevano così la possibilità
di mettere da parte un po’ del denaro guadagnato
per pagarsi gli studi e le tasse scolastiche.
Che cosa rappresenta l’Opera Mamma
Margherita?
La Commissione Opere Mamma Margherita è
stata istituita nel 1994 con la finalità di aiutare i
giovani di strada. Partecipavo già alle riunioni della
Commissione quando adempivo il mandato di eco-
nomo ispettoriale e nel 2002 sono poi stato incari-
cato del coordinamento della Commissione Opere
Mamma Margherita. Il nostro primo compito a cui
siamo stati chiamati è stato strutturare la Commis-
sione per inquadrare meglio l’accoglienza, l’esame
della situazione individuale e la sistemazione dei
giovani con difficoltà sociali e familiari: definire la
Il “raccolto”
quotidiano
di Padre Eric.
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4.8 Page 38

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L’INVITATO
La
celebrazione
dell’Eucaristia
nella cappella
del Centro.
missione da assegnare a ogni nostro centro, in cui
accogliere nuovi giovani sconosciuti alla rete ecc.
Abbiamo dunque deciso insieme a tutti i nostri
centri di lavorare a un progetto globale di educa-
zione coerente per i giovani con problemi familiari.
Affinché la rete funzionasse, era essenziale che le
nostre case lavorassero tutte con lo stesso spirito e
per gli stessi obiettivi, per dare un futuro a tutti
questi giovani.
Prima che la rete fosse istituita, non era raro che un
giovane visitasse tutte le nostre case senza risulta-
ti. All’epoca, il Bakanja Center, il nostro centro di
“reinserimento scolastico”, apriva le sue porte ogni
domenica a tutti i giovani che lo desideravano; ne
arrivavano quasi 800, che vi si ritrovavano per fare
una doccia, giocare e riposare. Nello stesso tem-
po, già nel 1997 la casa Bakanja-Ville, ubicata nel
centro di Lubumbashi, era aperta a tutti i giovani
che volevano trovarvi rifugio. Nel 2009 abbiamo
però dovuto affrontare grandi difficoltà. I politici
dell’Alto Katanga avevano deciso di cacciare tutti i
giovani dalla strada e li mandarono tutti in un cen-
tro chiuso. Questo centro, che allora ospitava più
di 800 giovani dai quattro ai trentadue anni, esaurì
rapidamente i posti disponibili. In questo contesto
era necessario ripensare completamente il nostro
modo di accompagnare i giovani e di aiutarli a
compiere un percorso di inserimento, in particolare
a Bakanja-Ville, la porta di accesso alla rete ,
una casa che gestisco da 17 anni. Prima del 2009,
tra 200 e 250 giovani potevano ascoltare il mes-
saggio della nostra tradizionale buonanotte prima
di andare a dormire. Riuscivamo dunque ad avere
un’ampia possibilità di ascolto! Dopo l’avvenimen-
to citato del 2009, la casa fu però trasformata in
centro di prima accoglienza, con un bacino poten-
ziale di ascolto più limitato: di notte non ospitiamo
più lo stesso numero di giovani. Durante il giorno
sono però tutti benvenuti: la mattina è dedicata so-
prattutto all’accoglienza di bambini e ragazzi di età
inferiore ai quindici anni e viene proposto in parti-
colare un corso di alfabetizzazione; nel pomeriggio
l’accoglienza è sempre più ampia. Tutti i giovani che
vivono per strada sono benvenuti e possono venire
qui a riposare, parlare o fare una doccia. Anche se
riusciamo a dedicarci a un numero minore di gio-
vani, la nostra missione rimane la stessa: sensibiliz-
zare i ragazzi, visitare le famiglie e reintegrare gra-
dualmente i giovani nelle loro famiglie. Grazie al
lavoro svolto dai nostri team sociali, ogni anno tra
300 e 350 ragazzi lasciano la vita di strada, perché
riescono a reinserirsi nelle loro famiglie o sono ac-
colti nei vari centri della nostra rete. Parallelamen-
te, grazie a un progetto finanziato dal , la casa
Bakanja-Ville realizza un’opera sociale “fuori dalle
mura” con visite notturne organizzate due volte la
settimana per stabilire un contatto e mantenere un
collegamento con i bambini e i giovani di strada.
Queste uscite servono principalmente a sensibiliz-
zare questi giovani sulla mancanza di prospettive
per il futuro della vita di strada, sui comportamenti
rischiosi che si trovano a dover affrontare e sugli
effetti dannosi che la vita di strada ha sul loro svi-
luppo. È un’opportunità per aiutarli a riflettere sul
reinserimento sociale e familiare.
Con la nostra esperienza e il nostro modo di opera-
re strutturato in rete, abbiamo acquisito credibilità
da parte dello Stato e dei benefattori, ma soprattut-
to permettiamo ai giovani vulnerabili di beneficiare
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OTTOBRE 2020

4.9 Page 39

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della nostra esperienza. Disponiamo di una gamma
di scelte che ci permette di offrire a ciascuno un
percorso adatto alla sua storia passata, alla sua si-
tuazione attuale, ai suoi desideri e alla sua volontà.
Uno dei punti di forza della nostra rete è proprio
la pluralità delle figure di riferimento impegnate:
all’interno della nostra rete è rappresentata quasi
tutta la Famiglia Salesiana, con Salesiani, coope-
ratori, e laici. Collaborano con noi anche al-
tre Congregazioni di Suore e questo ci permette di
trarre beneficio dal loro punto di vista, dalla loro
esperienza e dal loro modo di operare. Potremo
offrire un servizio ancora più completo quando la
nostra rete lavorerà in collaborazione con le nostre
scuole salesiane locali, in modo che i giovani con
alte potenzialità che escono dalle Opere Mamma
Margherita possano studiare ed essere accolti gra-
tuitamente.
Quali sono le principali sfide di questa
missione salesiana al servizio di questi
bambini e ragazzi a rischio?
Le sfide sono numerose e riguardano diversi aspetti.
La prima sfida riguarda l’evoluzione della menta-
lità. Troppi giovani finiscono a vivere per strada
perché sono accusati di stregoneria, per esempio.
Una mentalità diffusa è ancora fortemente segna-
ta da credenze ataviche che possono incoraggiare
i genitori a sbarazzarsi dei figli per ragioni di ogni
sorta. C’è ancora un’immensa opera di sensibiliz-
zazione da compiere con la popolazione locale e
in particolare con le famiglie dei nostri giovani.
L’accoglienza dei giovani più adulti, e in partico-
lare la loro integrazione nel mercato del lavoro,
è una delle nostre preoccupazioni più urgenti. È
necessario avviare un sistema di autoimprendi-
torialità che consenta loro di diventare autono-
mi. Oltre all’imprenditorialità, dobbiamo anche
rafforzare la cooperazione con le imprese locali,
che rappresentano un trampolino di lancio per
la formazione e l’assunzione dei nostri giovani.
Negli ultimi mesi abbiamo dovuto affrontare
una nuova sfida: sempre più ragazze e madri
nubili finiscono a vivere per strada. Abbiamo
stabilito un contatto con alcune di loro e stiamo
cercando la formula giusta che permetta loro di
beneficiare di un aiuto e di un sostegno simili a
quelli che offriamo ai ragazzi che arrivano alla
porta di Bakanja-Ville.
Una
celebrazione
all’aperto.
«Ricordiamo
ogni giorno
che Gesù era
sempre alla
ricerca della
pecorella
smarrita»
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4.10 Page 40

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FAMIGLIA SALESIANA
ANS
Anna e Andrea
Salesiani Cooperatori e
medici sul “fronte” della vita
Anna Sansoni e Andrea Lapi
sono una coppia di sposi,
medici dell’Ospedale di Siena:
lei infettivologa, lui medico
internista, sono anche Salesiani
Cooperatori attivi nell’Oratorio
salesiano “La Magione” della città.
In questi mesi sono stati sul fronte
della battaglia contro covid-19.
Raccontano la loro esperienza
alla luce della fede e del carisma
salesiano.
Racconta Anna: Ubbidisco piano alla richie-
sta delicata di una testimonianza di questi
due mesi e mezzo in compagnia del Co-
ronavirus-19 e mentre inizio a scrivere, mi
sale il nodo alla gola e mi si appannano gli occhi.
Da infettivologa ho osservato
-19 da lontano,
ai tempi della Cina, sospesa come tutti sul futuro:
si sarebbe arrestato come e , sue cugine
di primo grado, oppure ci avrebbe travolto come
stava accadendo in Cina? Ad un certo punto della
sorveglianza, mi è stato chiaro che sarebbe arrivato
in Italia, e anche al nostro Ospedale di Siena. L’ul-
tima liturgia comunitaria a cui ho potuto parteci-
pare, la liturgia delle Ceneri, ha preceduto di poche
ore il mio distacco dalla famiglia e dall’Oratorio,
con l’intento di proteggere le persone a cui volevo
bene da un eventuale contagio che potesse dipen-
dere da me, come è stato per molti altri sanitari. È
stato uno strappo forte, una vera quaresima nella
quaresima, un digiuno dagli affetti e dalle relazioni
più feconde ed intime. L’ho accolto e consegnato al
Signore. Ho scritto al mio parroco e amico “ho con
me tutto ciò che mi serve, il Signore, la Parola, il
vostro affetto”.
Non potendomi confessare dal mio direttore spiri-
tuale, né dal mio parroco a causa del ‘lockdown’ ho
cercato il cappellano dell’Ospedale per mettermi in
Grazia di Dio. Ho portato con me poche cose a cui
proprio non potevo rinunciare: tra queste la Bibbia,
il mio rosario e alcuni libri di don Bosco che mi
avrebbero fatto compagnia. I giorni successivi ci
hanno visti travolti dagli eventi. I malati arrivavano
quasi sempre nel cuore della notte, con il buio,
quando le energie sono più fragili e le forze più
esauribili. Strappati dalle loro famiglie, non vi era
possibilità di visite, non volti amici, non contatti
diretti, non il conforto di confessione o Eucaristia
in momenti che potevano essere gli ultimi della
vita; solo la nostra mediazione, privata però di ogni
tratto umano visibile, attraverso i dispositivi di
protezione individuale, la voce artefatta, lo sguardo
dietro una visiera spesso appannata. L’impiego di
strumenti sanitari massimali, respiratori, cateteri
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OTTOBRE 2020

5 Pages 41-50

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5.1 Page 41

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tazione della Parola, dal Buongiorno con il Vangelo,
la Novena a Maria Ausiliatrice... Tutto ancora più
bello e forte, con la candela accesa della preghiera e
della speranza. Mai stato così bello e dolce. Intanto i
nostri figli, ormai giovani-adulti, tra lavoro e studio
facevano da fortezza alla nonna di 94 anni, solle-
vandoci dalla preoccupazione per le cure ai grandi
anziani di casa, portandoci cene da asporto, simbolo
della cura nella fatica. La percezione era che ognuno
stesse cercando di svolgere con docilità e amore il
proprio compito. Eravamo grati.
Ed è un fatto che quando il Signore vuole una cosa,
quella cosa si compie, attraverso mani e volti che
“ragionano come Giovanni, con l’intelligenza del
cuore”.
venosi centrali, pompe, necessari per il recupero
della salute violavano i loro corpi sofferenti. Le
lacrime degli infermieri, angeli benedetti piegati
dalla fatica e dall’oggettivo impatto emotivo, si
aggiungevano allo sgomento dignitoso dei pazienti.
Ha cominciato a farsi strada in me il pensiero, che
quello che all’inizio poteva sembrare solo un peri-
colo, un dolore, un’immensa fatica, era forse un pri-
vilegio assoluto agli occhi del Signore e ho sentito
la leggerezza di essere grata.
Dopo un mese di lavoro, i malati aumentavano ed
occorreva reclutare altri specialisti per costruire un
team di lavoro multidisciplinare. Andrea, mio ma-
rito, internista, è sceso a lavorare in
. È stato
per me il momento più difficile, avrei voluto pro-
teggerlo, difenderlo, tutelarlo. Si è allontanato an-
che lui dal resto della famiglia e mi ha raggiunto. È
iniziato un periodo di lavoro faticosissimo, ma sot-
toposto ad un ritmo coniugale sacro, calmo, stabile,
dolce e sicuro, scandito dall’Eucaristia, dalla medi-
Ai ragazzi dell’Oratorio
“Vicino o lontano io penso sempre a voi” scriveva
don Bosco. Anch’io vi ho pensato, con maternità
spirituale, sui “fondamentali della vita” chiedendo-
mi se vi avevamo passato le coordinate con fedeltà
o vi avevamo tradito, edulcorando il messaggio. Mi
sono chiesta se ci siamo fatti le domande giuste e
se abbiamo preparato bene il bagaglio a mano per
il viaggio, mettendo dentro tutto ciò che ci ser-
ve per curare le ferite e affrontare un percorso di
perdite che, prima o poi nella vita ci raggiunge e
non ci permette la fuga. L’impatto durissimo della
pandemia ci viene in aiuto per prendere coscienza
di tutto questo e proprio su questo don Bosco non
si lascia vincere in chiarezza e non lascia spazio al
“rispetto umano”. Vorrei che insieme cercassimo il
senso profondo di quello che stiamo vivendo e che,
con il Signore per compagno di viaggio, si aprissero
i nostri occhi e ricolmi di gioia tutta salesiana, fa-
cessimo ritorno verso Gerusalemme con Gesù nel
cuore.
Quest’anno credo che non sarà possibile fare il
campo in montagna a Les Combes, in Valle d’Ao-
sta, come avevamo programmato, ma ugualmente
sogno un campo in cui possiamo cantare insieme la
bellezza della vita e del Paradiso.
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IL LORO RICORDO E` BENEDIZIONE
Giuseppe Cassaro
Don Dominique Britschu
Morto a Messina, il 27 febbraio 2020, a 88 anni
Appena due giorni prima di com-
piere 88 anni il Signore lo ha
chiamato a sé per ricevere il pre-
mio riservato ai giusti. È andato
via in punta di piedi, serenamen-
te, così come era vissuto.
Gentile e delicato nelle relazioni,
era un uomo dotato di un’intel-
ligenza vivace ed una cultura
profonda; un uomo ricco di
umanità, attento alle persone
soprattutto quelle più povere ed
umili, sempre pronto a preveni-
re i bisogni di ognuno e sempre
disponibile ad offrire il suo aiuto.
Nato il 1° marzo 1932 a Stra-
sbourg, in Alsazia – Francia, da
Georges Britschu e da Marie
Schimitt, don Dominique è cre-
sciuto in una famiglia ricca di
quelle virtù cristiane che avreb-
bero caratterizzato per sempre
la sua spiritualità e la sua azio-
ne pastorale. Fin da bambino
manifestava una particolare
bontà e il desiderio di servire il
Signore. Ragazzo vivace ed in-
telligente intraprese il suo per-
corso scolastico, raccogliendo
l’apprezzamento e la stima dei
suoi formatori. A 21 anni, dopo
aver conseguito la maturità clas-
sica e la laurea in Lettere, decise
di ascoltare la voce di Dio e di
seguire don Bosco per il servi-
zio dei giovani e manifestando
il grande desiderio di essere
missionario. Lo studio della Teo-
logia lo appassionava e gli per-
mise di consolidare il dono che
custodiva profondo nel cuore. Il
1° maggio del 1965 è stato ordi-
nato presbitero a Lyon e già l’an-
no seguente è stato chiamato a
rendere il suo servizio presso la
Casa Generalizia di Torino-Val-
docco, dove manifesterà tutto il
suo cuore pastorale: pienamen-
te dedito ai confratelli, sensibile
e paterno verso i giovani in dif-
ficoltà e i poveri, appassionato
nel portare a termine con re-
sponsabilità i delicati compiti a
lui affidati. Fino al 1972 è stato
Collaboratore del Consigliere
Generale Regionale per l’Euro-
pa Centrale, in seguito, trasferi-
tasi la Casa Generalizia a Roma,
fino al 1984 ha ricoperto l’inca-
rico di Segretario Generale; un
servizio che, se apparentemen-
te lo allontanava dal contatto
diretto con i giovani, dall’altro
gli ha permesso di aprire il suo
cuore all’intera Congregazione
e ai bisogni dei giovani di tutto
il mondo. Lui, pur svolgendo
con precisione e puntualità i
suoi compiti, riusciva anche a
modulare con creatività e ge-
nerosità i suoi spazi liberi dal
lavoro di ufficio, dedicandosi,
con delicato gusto artistico, alle
sue creazioni manuali originali
e ai suoi disegni – tra l’altro era
un bravissimo vignettista –, ma
soprattutto ai suoi contatti con i
poveri e con la gente semplice.
Nessuna persona per lui era
“anonima o invisibile”, ma per
tutti diventava l’amico pronto
a dare una mano nel momento
del bisogno, ad offrire con deli-
catezza un consiglio o un soste-
gno. Dal 1984 al 1996 è stato
Consigliere Generale Regionale
per l’Africa e l’Europa Centrale.
Anni molto fecondi in cui ha
messo a servizio della Congre-
gazione le sue qualità umane
e spirituali, la sua sensibilità
missionaria, le sue competen-
ze. Instancabilmente ha visitato
le varie realtà del Continente
africano, affrontando disagi e
fatiche, e si spingeva oltre la cor-
tina di ferro tra inenarrabili dif-
ficoltà e con un genuino spirito
missionario, pur di far sentire la
vicinanza della Congregazione
a numerosi confratelli, che in
clandestinità continuavano ad
essere fedeli a don Bosco e alla
Chiesa. La Chiesa del silenzio
è diventato il luogo della sua
missione: instancabile annun-
ciatore dell’unico amore che
salva, fratello che incoraggiava
e sosteneva. La sua signorilità,
la delicatezza del tratto e la de-
dizione totale a Cristo, ai confra-
telli e ai giovani non passarono
inosservati e, malgrado il suo
essere un po’ schivo e riservato,
quanti hanno avuto la fortuna di
accostarlo e conoscerlo lo hanno
apprezzato e amato.
Finito il suo servizio è stato
inviato in Canada, a Montreal,
dove ha ricoperto vari incarichi,
svolti con lo stile di umiltà e di
generosità che lo hanno sem-
pre caratterizzato. È stato chia-
mato anche dall’Università per
collaborare nel lavoro didattico,
seguendo degli studenti. Ha
lavorato molto con i laici della
parrocchia, con l’Associazione
dell’ADMA, con le Volontarie di
don Bosco ed era molto amato
dalla gente. Uno di loro testi-
monia: “Quando P. Dominique
è arrivato in Canada, lui ha
umilmente abbracciato la no-
stra terra. È sempre stato mol-
to umile. Molte famiglie sono
riconoscenti a lui per la sua
tenerezza e la sua disponibili-
tà. Obbediva ai suoi superiori
in una maniera esemplare. Era
molto preciso nelle sue confe-
renze, sempre ben preparate.
Era un esempio di Salesiano
santo. Ci mancherà di sicuro,
ma è presente sempre nei
nostri cuori”. Vi rimase per 24
anni, fino a quando il Rettor
Maggiore lo richiamò in Italia
presso la casa di Messina “San
Tommaso”, dove ha concluso il
suo itinerario terreno, circonda-
to dall’affetto dei confratelli.
Don Dominique Britschu è stato
un vero testimone di obbe-
dienza: disponibile a ciò che gli
veniva chiesto nella vita religio-
sa, svolgeva ogni compito dan-
do sempre il meglio di se stesso,
senza mai lamentarsi. Ripeteva:
Ho obbedito tutta la vita con
gioia. Voglio farlo fino alla fine”.
Anche quando obbedire diven-
tava duro e difficile, lui lo ha
sempre fatto fino all’estremo.
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OTTOBRE 2020

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LA BUONANOTTE
B.F. Disegno di Fabrizio Zubani
Il braccialetto viola
U n professore alla fine dei
corsi aveva l’abitudine di
dare agli allievi un braccia-
letto viola sul quale si poteva leggere
impresso in lettere dorate: «Quello
che sono fa la differenza».
In quell’occasione diceva a ogni stu-
dente perché lo apprezzava e perché il
corso era stato differente grazie a lui.
Un giorno pensò di studiare l’effetto di
questo processo sulla comunità. Diede
a ogni studente due
braccialetti, uno da
dare alla persona che
loro ritenevano “fare
la differenza” e l’altro
sempre alla medesi-
ma persona chieden-
dole di fare lo stesso a
sua volta.
Il professore attese i
risultati.
Uno degli studenti
andò dal suo datore
di lavoro, dove aveva
un impiego part-
time, un uomo grin-
toso che apprezzava.
«La ammiro molto
per tutto quello che
fa; per me lei è un
vero genio creativo
e un uomo giusto.
Vorrebbe accettare
questo braccialetto
viola come testi-
monianza della mia
riconoscenza?».
L’uomo restò sorpreso e accettò. Il
ragazzo allora continuò: «Accette-
rebbe quest’altro braccialetto viola da
dare a qualcuno che fa la differenza
per lei, come io ho appena fatto? È
per una ricerca che stiamo facendo
all’università».
L’uomo accettò e, tornato a casa, sa-
lutò il figlio dì quattordici anni e gli
raccontò quello che gli era accaduto.
Gli disse che per lui esisteva una sola
persona degna del braccialetto viola
e che “faceva la differenza per lui”.
Ammise di sgridarlo molto perché la
sua camera era sempre in disordine,
perché non studiava abbastanza e
usciva troppo con i suoi amici.
Poi aggiunse: «Questa sera voglio
dirti che tu sei molto importan-
te per me; tu e tua madre siete le
persone che fanno la differenza per
me e vorrei che tu accettassi questo
braccialetto viola
come segno del mio
amore. Non te lo
dico abbastanza ma
tu sei un ragazzo
meraviglioso».
Appena finito di
parlare, il figlio si
mise a piangere di-
sperato e a singhioz-
zare. Il padre lo
strinse tra le braccia
e gli chiese se avesse
detto qualcosa che lo
avesse ferito.
Il ragazzo gli rispose
che aveva deciso di
scappare da casa il
giorno dopo perché
credeva che il padre
non lo amasse, no-
nostante tutti i suoi
sforzi per piacergli.
Ora tutto era cam-
biato.
Vorrei darti un
braccialetto viola.
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TAXE PERÇUE
tassa riscossa
PADOVA c.m.p.
In caso di mancato
recapito restituire a:
ufficio di PADOVA
cmp – Il mittente si
impegna a corrispon-
dere la prevista tariffa.
Senza di voi
non possiamo
fare nulla!
Senza la vostra carità io
avrei potuto fare poco
o nulla; con la vostra
carità abbiamo invece
cooperato con la grazia di Dio
ad asciugare molte lagrime e
salvare molte anime.
In questo numero
2 LE COSE DI DON BOSCO
Tre quaderni di peccati
4 IL MESSAGGIO
DEL RETTOR MAGGIORE
6 SALESIANI NEL MONDO
Timor Est
Incontro con
Marçal A. Lopes
10 TEMPO DELLO SPIRITO
5 consigli per aiutarti
ad amare il tuo lavoro
11-34
SPECIALE
La Casa di don Bosco
36 L’INVITATO
Padre Eric Meert
40 FAMIGLIA SALESIANA
Anna e Andrea
42 IL LORO RICORDO
È BENEDIZIONE
43 LA BUONANOTTE
PER SOSTENERE LE OPERE SALESIANE
Notifichiamo che l’Istituto Salesiano per le Missioni con sede in Torino, avente personalità
giuridica per Regio Decreto 13-01-1924 n. 22, e la Fondazione Don Bosco nel mondo
(per il sostegno in particolare delle missioni salesiane), con sede in Roma, riconosciuta
con D.M. del 06-08-2002, possono ricevere Legati ed Eredità.
Queste le formule
Se si tratta di un Legato
a)
Di beni mobili
“… Lascio all’Istituto Salesiano per le Missioni con sede in Torino (o alla Fondazione
Don Bosco nel mondo con sede in Roma) a titolo di legato la somma di € ……………..,
o titoli, ecc., per i fini istituzionali dell’Ente”.
b)
Di beni immobili
“… Lascio all’Istituto Salesiano per le Missioni con sede in Torino (o alla Fondazione
Don Bosco nel mondo con sede in Roma), a titolo di legato, l’immobile sito in… per i fini
istituzionali dell’Ente”.
Se si tratta invece di nominare erede di ogni sostanza l’uno o l’altro dei due enti
sopraindicati
“… Annullo ogni mia precedente disposizione testamentaria. Nomino mio erede universale
l’Istituto Salesiano per le Missioni con sede in Torino (o la Fondazione Don Bosco
nel mondo con sede in Roma) lasciando a esso/a quanto mi appartiene a qualsiasi titolo,
per i fini istituzionali dell’Ente”.
(Luogo e data)
(firma per esteso e leggibile)
N.B. Il testamento deve essere scritto per intero di mano propria dal testatore.
INDIRIZZI
Istituto Salesiano per le Missioni
Via Maria Ausiliatrice, 32
10152 Torino
Tel. 011.5224247-8
e-mail: istitutomissioni@salesiani-icp.net
Fondazione Don Bosco nel mondo
Via Marsala, 42
00185 Roma
Tel. 06.656121 - 06.65612663
e-mail: donbosconelmondo@sdb.org
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