Bollettino_Salesiano_201802

Bollettino_Salesiano_201802

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IL
FEBBRAIO
2018
Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
Salesiani
nel mondo
Siria
I nostri
eroi
Siberia
L’invitato
Don Francesco Bontà
Le case
di don Bosco
Il carnevale di San Cataldo

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LE COSE DI DON BOSCO
JOSÉ J. GÓMEZ PALACIOS
Don Bosco
pan e vino
Sono un vecchio fiasco “spagliato”, co-
perto di polvere, dimenticato in questa
decrepita cantina dell’ex seminario di
Chieri. Lo ricordo bene quel Giovanni
Bosco! Un gran bel ragazzo, terribil-
mente in gamba. Lo chiamavano ’l cieric
di risolin, il chierico dei riccioli, per quella sua
testa che sembrava la chioma di un castagno.
Abitavo nella cucina di sua madre, nella cascina
Sussambrino. Una gran signora, la sua mam-
ma Margherita. Dovevate vedere com’era felice
quando il figlio Giovanni veniva qui a passare i
periodi di vacanza. Quell’anno, Giovanni passò
tutta l’estate a dare ripetizioni di latino a tanti
ragazzi di Castelnuovo.
Ma non era più il ragazzone di un tempo. Sem-
brava indebolito e sofferente. Sapevamo tutti che
trascorreva testardamente gran parte della notte
a leggere e studiare. In seminario era sempre lui.
Sentii raccontare che una sera, in cortile, circon-
dato come sempre da un bel
gruppo di compagni, dopo
aver raccontato, come era
sua abitudine, qual-
che storia avvincente,
cominciò a descrivere
i giochi di destrezza
che aveva imparato fin
da piccolo e la celebre
sfida al saltimbanco.
Molti degli ascoltatori
non avevano studiato a
Chieri e non riuscivano
a credergli. «Non mi
(Traduzione di Deborah Contratto)
La storia
Giovanni Bosco si ammalò gravemente all’inizio del 1839
nel seminario di Chieri. Le cause non sono chiare. Guarì
dopo la visita della madre che gli lasciò sul tavolino un
pane di miglio e un fiasco di buon vino. Mamma, pane e
vino, insieme alla ritrovata forza interiore fecero il mira-
colo. (Memorie biografiche I, pp. 384-385)
credete, eh!» sbottò Giovanni. Notò un pesante
seggiolone, si chinò, lo prese per una gamba con
un braccio solo, lo sollevò e se lo pose sul mento
in equilibrio, lo fece saltare sulla fronte e comin-
ciò a danzare. Gli spettatori scoppiarono in un
fragoroso applauso.
Cercava di resistere, ma la sua salute era seria-
mente minata. Per un anno intero, passò più tem-
po a letto che in piedi. Gli ripugnava ogni sorta
di cibo, era travagliato da un’ostinata insonnia,
e i medici, con poco tatto, sentenziarono che era
spacciato e che era ora dell’Estrema Unzione.
Ma come sempre, ci pensò Margherita. Mi
riempì del miglior Barbera invecchiato della
cantina e mise in forno una pagnottona di pane
di miglio. Arrivammo a Chieri. Giovanni era
pallido, debilitato, sorrise appena. «Non ce la
faccio a mangiare, mamma. Riportali a casa».
Mamma Margherita lasciò tutto sul tavolino.
Rimasto solo, Giovanni fu preso dalla smania
di mangiar quel pane e di bere il vino. Incomin-
ciò a prendere un boccone di pane, che masticò
ben bene e che gli parve gustosissimo. Allora
ne tagliò una fetta, poi una seconda, e via via
lo mangiò tutto, innaffiandolo con il mio vino
forte e generoso. Dopo di che si addormentò
d’un sonno così profondo, che durò due giorni e
una notte interi.
I superiori del seminario lo ritennero un assopi-
mento che annunciava la morte e cominciarono i
preparativi per il funerale. Invece, allo svegliarsi,
Giovanni si sentì guarito.
Ero così felice che non mi offesi se mi misero
in un angolo della cantina, invece di conferir-
mi, come meritavo, una laurea ad honorem in
medicina.
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Febbraio 2018

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IL
FEBBRAIO 2018
ANNO CXLII
Numero 2
IL
Mensile di
informazione e
FEBBRAIO
Rivista fondata da
2018
S. Giovanni Bosco
nel 1877
cultura religiosa
edito dalla
Salesiani
nel mondo
Siria
Congregazione
Salesiana di San
Giovanni Bosco
I nostri
eroi
Siberia
L’invitato
Don Francesco Bontà
Le case
di don Bosco
Il carnevale di San Cataldo
In copertina: L’allegria e la gioia sono
una delle componenti dello spirito salesiano
(Foto Sunny studio/Shutterstock).
2 LE COSE DI DON BOSCO
4 IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
6 CHE COSA PENSANO I GIOVANI
8 SALESIANI NEL MONDO
Siria
12 LE CASE DI DON BOSCO
San Cataldo
15 ANNIVERSARI
16 FINO AI CONFINI DEL MONDO
18 L’INVITATO
Don Francesco Bontà
22 GLI INVISIBILI
Le bambine rohingya
24 A TU PER TU
Don Raju
27 LA RICETTA
28 FMA
30 I NOSTRI EROI
Siberia
34 COME DON BOSCO
36 LA LINEA D’OMBRA
38 LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
40 I NOSTRI SANTI
41 IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
42 RELAX
43 LA BUONANOTTE
8
18
24
Il BOLLETTINO SALESIANO
si stampa nel mondo in 57
edizioni, 29 lingue diverse e
raggiunge 131 Nazioni.
Direttore Responsabile:
Bruno Ferrero
Segreteria: Fabiana Di Bello
Redazione:
Il Bollettino Salesiano
Via Marsala, 42 - 00185 Roma
Tel./Fax 06.65612643
e-mail: biesse@sdb.org
web: http://biesseonline.sdb.org
Hanno collaborato a questo
numero: Agenzia Ans, Pierluigi
Cameroni, Valerio Cammarata,
Deborah Contratto, Roberto
Desiderati, Emilia Di Massimo,
Ángel Fernández Artime, Roberto
Gontero, Claudia Gualtieri, Cesare
Lo Monaco, Peter Kubinyi,
Alessandra Mastrodonato,
Francesco Motto, José J. Gómez
Palacios, Pino Pellegrino, Linda
Perino, Giampietro Pettenon, O. Pori
Mecoi, Luigi Zonta, Fabrizio Zubani.
Diffusione e Amministrazione:
Tullio Orler (Roma)
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DON BOSCO NEL MONDO ONLUS
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Stampa: Mediagraf s.p.a. - Padova
Registrazione: Tribunale di Torino
n. 403 del 16.2.1949
Associato alla Unione Stampa
Periodica Italiana

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IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
DON ÁNGEL FERNÁNDEZ ARTIME
Gesù in braccio ai piccoli
e ai poveri
Una graziosa leggenda natalizia raccon-
ta che i pastori di Betlemme, dopo aver
udito l’annuncio degli angeli, infilarono
nelle loro bisacce i prodotti migliori del
loro lavoro, profumati formaggi, miele,
latte e dolci, e si misero in cammino per
portarli come dono al neonato Re dei Re.
Un bambino curioso e vivace, svegliato dal tram-
busto, partì con i pastori. Dopo un po’ il
ragazzino si accorse di essere l’uni-
co a mani vuote, anche perché
non possedeva nient’altro che
il suo povero vestito. Non
aveva neanche le scarpe.
Si sentì molto a disagio e
marciava mogio mogio
in coda al gruppo di
pastori.
Quando arrivarono nel
luogo indicato dagli an-
geli, si affollarono intor-
no a Giuseppe e a Maria,
che cullava il bam-
bino.
Gesù continua a salvare l’umanità
attraverso il nostro lavoro, la
nostra dedizione, la nostra buona
volontà. Lui continua a segnarci
la strada perché non perdiamo il
senso e la direzione del cammino,
e sosteniamo sempre quelli che
fanno più fatica, i più piccoli, i più
poveri, gli ultimi.
Il pastorello si infilò tra le gambe dei pastori, ar-
rivò vicino vicino a Maria e rimase lì a guardare
la scena con gli occhi sgranati e la bocca aperta.
I pastori si accalcavano per consegnare a Maria i
loro doni e Maria, che aveva il neonato in braccio,
era in difficoltà a prendere in mano i generosi fa-
gotti, in segno di gradimento e di ringraziamento.
Allora, sorridendo, affidò il Bambino Gesù al pa-
storello che le stava accanto. Il ragazzino spalancò
le braccia e accolse con tutta la felicità del mondo
il piccolo fagotto che gorgogliava tranquillo.
Così il piccolo pastore che credeva di non aver
niente da dare, donò a Gesù il calore e il soste-
gno delle sue braccia. In quella notte santa, in cui
l’impossibile diventava possibile le sue braccia di-
vennero il trono dell’Altissimo. Lui che non aveva
niente, neanche le scarpe, portò il dono di Dio
all’umanità.
La leggenda interpreta bene il messaggio del
Natale. Ci comunica che Dio si è schierato dalla
parte dei poveri, degli umili, dei più bisognosi,
degli emarginati e dei trascurati di questo mondo.
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Portiamo a termine
quello che Gesù ha iniziato
Proprio di questo vorrei parlarvi.
Nei miei diversi viaggi, nei cinque continenti, vi-
sitando le presenze salesiane nel mondo mi sono
trovato in tante situazioni in cui il mio cuore e i
miei pensieri mi hanno portato a sentire e pen-
sare che le persone che incontravo, adulti, giova-
ni, ragazzi e ragazze, quasi sempre poveri tra i
più poveri, erano indubbiamente i preferiti dallo
sguardo e dal cuore di Dio.
Lo siamo tutti, certamente. Siamo tutti suoi figli e
figlie, ma gli ultimi sono i più vicini al cuore di Dio.
Come una mamma che ha molti figli, e ama tutti
con un Amore incondizionato e pieno, ha un’atten-
zione speciale e unica per il figlio più debole e bi-
sognoso di cura, senza per questo togliere neanche
un briciolo d’amore a tutti gli altri. Penso, mentre
scrivo queste righe, ai rifugiati del campo di Ka-
kuma nel Kenya settentrionale, dove la comunità
salesiana condivide la vita con loro da molti anni.
Penso al campo profughi in Uganda, dove, dopo
la festa di don Bosco, alla fine di gennaio, una
nuova comunità salesiana, con membri di varie
nazionalità, entra nella storia di quelle persone
e dei tanti giovani che ci arrivano in fuga dalla
guerra, dalla fame, dai pericoli che minacciano
quotidianamente la loro vita.
Penso a Yakutia in Siberia, il luogo più freddo del
mondo, distante diverse migliaia di chilometri a
nord est di Mosca, dove una piccola comunità sa-
lesiana partecipa alla vita di minuscoli gruppi di
persone (che forse sono come il piccolo pastore
della leggenda), che li avevano accolti con queste
parole: «Ringraziamo Dio perché voi siete qui,
cominciavamo a pensare che Dio ci avesse di-
menticati». Parole come queste riempiono il cuore
di soddisfazione unica.
Penso ai ragazzi di strada che ho incontrato in
molte parti del mondo e che sono gli autentici
“scaricati”, come dice papa Francesco, perché non
Papa Francesco ha chiesto
che si distribuisse questa im-
magine con questo testo:
“... il frutto della guerra. Un ra-
gazzo aspetta il suo turno nel
crematorio con il fratello mor-
to sulle spalle. È la foto scatta-
ta da un fotografo americano,
Joseph Roger O’Donnell, dopo
l’attacco atomico a Nagasaki.
La tristezza del bambino si
esprime solo nelle sue labbra
morsicate e nel sangue che
trasudano.
Francesco”
hanno avuto nella loro vita la minima possibilità
per crescere nella dignità umana, e mi sono detto
che alla stalla di Betlemme avrebbero certamente
tenuto tra le braccia il divino Bambino.
Anche quando sentiamo il Presidente delle Nazio-
ni Unite dire che la condizione dell’umanità è peg-
giorata e si corrono molti più rischi, non possiamo
perdere la Fede e la Speranza. Siamo intimamen-
te certi che Gesù Cristo è venuto per redimere e
salvare proprio questa Umanità condividendo la
nostra storia. E continua a salvarla attraverso il
nostro lavoro, la nostra dedizione, la nostra buona
volontà. Lui continua a segnarci la strada perché
non perdiamo il senso e la direzione del cammino,
e sosteniamo sempre quelli che fanno più fatica, i
più piccoli, i più poveri, gli ultimi.
Questo è il nostro grande compito umano: porta-
re a termine quello che Gesù ha iniziato.
Anche tutti voi, voi che leggete questa pagina,
siete invitati a continuare la costruzione di una
nuova Umanità e di un Mondo Migliore.
Perché, come nella leggenda, le nostre braccia
meritino davvero di proteggere e custodire il Fi-
glio di Dio, che Maria affida a coloro che null’al-
tro hanno da offrire se non il loro cuore. Con la
più affettuosa benedizione per questo 2018,
il vostro Rettor Maggiore
Ángel Fernández Artime
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CHE COSA PENSANO I GIOVANI
CLAUDIA GUALTIERI
Vicini o lontani?
Quando l’immigrazione
è percepita come minaccia
Claudia, 23 anni:
Penso che la presenza
di immigrati entrati
irregolarmente in Italia
e in Europa rappresenti
un problema.
Mi trovo pienamente d’accordo con
l’affermazione di Indro Montanelli. È
vero, noi italiani riusciamo a essere so-
lidali e benevoli nei confronti delle al-
tre popolazioni solo fin quando queste
non minacciano di entrare a far parte
della nostra comunità e quotidianità;
non so che cosa esattamente ci spa-
venta del diverso da noi, se la diversa
cultura e quindi il modo di pensare, se
tutto questo terrorismo abbia di molto
abbassato la soglia di tolleranza ver-
so gli immigrati oppure se è solo una
questione di “ognuno a casa propria
e siamo tutti più felici”. Secondo me,
purtroppo, i periodi di grande tensione
come quelli vissuti in Europa in que-
sti due anni, hanno portato le persone
a fare di tutta l’erba un fascio, perciò
immigrato = potenziale terrorista, un
po’ come successe agli italiani sbarcati
in America dove la similitudine più ri-
corrente era italiano = mafioso. Penso
che la presenza di immigrati entrati ir-
regolarmente in Italia ed Europa rap-
presenti un problema poiché appunto
non si ha la percezione di quanti e di
chi in quel momento è presente sul
nostro territorio. È difficile dettare
dei parametri di inclusione/esclusione
quando si tratta di offrire un posto nel
mondo in cui stare. Alle volte, quan-
do sento al telegiornale dell’ennesimo
attacco terroristico in qualche capitale
Siamo tolleranti
e civili, noi italiani,
nei confronti
di tutti i diversi.
Neri, rossi, gialli.
Specie quando
si trovano lontano,
a distanza telescopica
da noi
(Indro Montanelli)
europea, pervasa dalla rabbia, penso
che forse tutta l’accoglienza fatta in
questi anni abbia portato a metter-
ci in “casa” una quantità indefinita di
criminali, di gente che odia il nostro
popolo e la nostra cultura, che è venuta
qui solo per distruggerla, li vorrei via
tutti; poi però mi fermo un secondo e
penso. Penso alle madri, ai bambini o
ai ragazzi della mia età che sognano
veramente il futuro migliore, l’oasi di
pace, un briciolo di tranquillità, quindi
mi ridimensiono e mi rendo conto di
essere totalmente impotente e incapace
di decidere in questi casi che cosa sia
giusto o sbagliato.
Salvatore, 26 anni:
Il fenomeno è una vera
e propria sfida che porterà
a dei cambiamenti macroscopici
di un intero paese.
Sono convinto che questo fenomeno
ci permetta di incontrare tanta gente
che potrebbe essere una vera e propria
risorsa sociale ed economica per l’in-
tero Paese. Bisogna tuttavia trovare
un giusto equilibrio e per fare questo
basta saper vedere e discernere e pos-
sibilmente anticipare ciò che potrebbe
comportare un arrivo di massa e senza
meta di “materiale” umano alla deri-
va che abbandona nel proprio Stato il
letale, l’abominevole. La minaccia se-
condo me viene invece da dentro e non
da fuori. A volte a noi italiani fa como-
do quando per esempio facciamo lavo-
rare un migrante al posto di un italia-
no che si ribella a quel tipo di lavoro, a
quel totale di ore, a quel misero salario.
E allora, mi viene da dire che forse il
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male tutto sommato siamo noi e non
loro, perché dove iniziano il nostro
egoismo e il nostro ego è proprio lì che
parte l’azione di un migrante pronto
a mettersi in gioco in un altro modo,
con altre abitudini e risorse. Il nostro
Stato si trova impreparato e spesse
volte distratto, nonostante il legisla-
tore imponga diversi provvedimenti
e leggi che offrono garanzie a questo
status in sé e per sé. Forse, tutta questa
accoglienza, è garantita non tanto per
l’immigrato ma per un proprio torna-
conto personale. Il mio auspicio sareb-
be un’accoglienza adeguata che crei
sviluppo per il Paese, ma soprattutto
un vivere civile basato su integrazione
e non su speculazione. L’accoglienza
potrebbe essere un grande mezzo per
veicolare la civiltà del multipluralismo
senza però trovare delle giustificazioni
ed esasperare ogni volta il problema.
Nero, giallo, rosso per me sei anche tu
un fratello ma come in ogni famiglia
un fratello in quanto tale prima deve
rispettare per poi pretendere rispetto; e
questo non dipende dallo status di un
soggetto ma da come lo stesso riesce a
viverlo!
Valeria, 31 anni:
Sono tanti gli italiani che si
trovano in condizioni disagiate
e sono dimenticati sotto tutti
i punti di vista.
Non credo che la presenza di immi-
grati nel nostro Paese possa costituire
una minaccia: siamo anche noi italiani
degli immigrati negli altri paesi, spinti
dal bisogno di trovare una sistemazio-
ne sociale ed economica degna degli
sforzi compiuti; di certo se si abbando-
na la terra madre lo si fa con uno scopo
di riscatto personale sotto tutti i punti
di vista e non per creare subbugli e se-
minare terrore in terra straniera. “Vo-
lere è potere”, si dice comunemente, e
ritengo che tale concetto non possa es-
sere più corretto. Conosco diverse per-
sone provenienti dai paesi dell’Est o
dall’America Latina che sono diventa-
te nel nostro Paese persone di gran ri-
spetto per il posto che ricoprono, quin-
di è giusto che ci sia un certo riscatto
sociale, soprattutto per quegli indivi-
dui volenterosi che vanno via dalla loro
terra d’origine a causa di guerre in atto
o situazioni sociali sfavorevoli alla pro-
pria esistenza. È anche vero però che
abbiamo parecchia presenza di tribù
nomadi come zingari e simili che a
mio parere non dovrebbero mettere
assolutamente piede sul nostro territo-
rio; non ho mai sentito parlare di loro
come popolo voglioso di fare (se non
elemosina) né tantomeno ne conosco
esempi. Credo che l’immigrato che
richiede una sistemazione ferma e co-
stante in qualsiasi stato può essere ben
accettato ma, se questo emigra per ag-
giungersi ai tanti parassiti della socie-
tà nella quale si stanzia, allora non va
bene. Lo stato italiano prima di dare
asilo a un qualsiasi individuo dovreb-
be accertarsi che questo andrà a con-
tribuire anche in minima parte al lato
economico del paese, poiché sono tanti
gli italiani che si trovano in condizioni
disagiate e sono dimenticati sotto tutti
i punti di vista. Sono troppi, attual-
mente, i privilegi che l’Italia riserva
agli stranieri. Non trovo sia corretto
trattare l’individuo “di passaggio” o
comunque ospitare a tempo determi-
nato come un comune italiano di na-
scita che potrebbe aver più bisogno di
aiuto ma che invece viene abbandonato
a se stesso perché non rientra in deter-
minati requisiti. Quindi sono d’accor-
do ad offrire accoglienza ma entro un
determinato arco temporale.
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SALESIANI NEL MONDO
GIAMPIETRO PETTENON - info@missionidonbosco.org - www.missionidonbosco.org
Siria I Salesiani sono rimasti in Siria, in mezzo ai colpi
di mortaio, ai cecchini e ai bombardamenti.
E per tantissima gente, sono stati delle rocce
sicure su cui mettere i piedi per continuare
a camminare ogni giorno.
Per arrivare in Siria siamo costretti ad un
valico via terra, lo spazio aereo è interdet-
to. Quindi arriviamo a Beirut, in Libano,
dove ci vengono a prelevare i salesiani di
Damasco e ci portano a casa loro.
Appena usciti dall’aeroporto di
Beirut vedo ragazzini che vendono bot-
tigliette d’acqua agli incroci, sono poveri
e sporchi, mi sembrano zingarelli. Don
Munir, il direttore di Damasco che guida
il pulmino, mi dice che sono siriani, figli di gente
fuggita dalla guerra e riparata in Libano. Lo dice
con sofferenza, e subito anch’io mi sento a disagio,
perché percepisco la condizione di povertà forzata
e profonda miseria nella quale si trovano a vivere,
chissà per quanto tempo.
Ora sono alcuni mesi che c’è una relativa calma e
la vita torna a scorrere in una parvenza di norma-
lità. I posti di blocco, check point, dell’esercito sono
ovunque. Ogni pochi chilometri ne troviamo uno.
Arrivati a casa, dopo una cena di benvenuto, ce
ne andiamo a dormire. Sentiamo dei botti. Sono
colpi di fucile o di mortaio. Li sento anche all’al-
ba, appena mi sveglio per la luce che entra dal-
la finestra. Mio Dio, sono in un paese in cui c’è
gente che spara, e gente che muore. Orrendo.
Dove hanno trovato la forza?
La comunità salesiana di Damasco è composta
da quattro sacerdoti di provenienza diversa: due
sono siriani originari di Aleppo, uno è italiano (il
più anziano) e il quarto è un missionario fresco
di incarico, arrivato dalla Spagna. Sono felicis-
simi di accoglierci e fanno di tutto per metter-
ci a nostro agio. Siamo fra i rarissimi ospiti che
ormai fanno visita al loro paese. Per incontrare
gente nuova sono loro che devono uscire dalla Si-
ria, non altri che vadano a trovarli. Gestiscono un
bellissimo oratorio frequentato da 1300 bambini,
ragazzi e giovani. Tutti cristiani, di diverse con-
fessioni e riti. Lo spazio del cortile e delle sale
dove riunirli è piccolo e non ci stanno tutti. La
soluzione è quella dell’oratorio aperto a giorni al-
terni per fasce di età. Il venerdì pomeriggio tocca
ai giovani delle scuole superiori e agli universita-
ri, il sabato mattina ai piccoli delle elementari e
al pomeriggio a quelli delle medie. La cosa più
curiosa è che l’oratorio noleggia sei o sette auto-
bus che, girando per la città, nei punti prestabiliti
prelevano i ragazzi in attesa e li portano all’ora-
torio e così poi per il ritorno a casa. È un modo
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sicuro per venire all’oratorio in una città in cui i
mezzi pubblici praticamente non funzionano più
e il rischio per le strade è davvero alto, nonostante
la presenza massiccia dell’esercito.
Anche noi siamo saliti sul pulmino che, giran-
do per la città, ne raccoglie alcuni. Salgono per
primi dei giovanotti di sedici/diciassette anni.
Sono tirati a lucido. Una zaffata di dopobarba da
pochi soldi invade l’abitacolo. Capiamo perché
sono così curati alla fermata successiva. Salgono
questa volta alcune ragazze della medesima età.
Sembrano andare ad una selezione di “Miss Ita-
lia”. Curatissime, truccate al punto giusto, ben
vestite. Davvero carine. Nel cortile dell’oratorio
incontriamo i giovani più grandi. Si parla in in-
glese. Sono curiosi e desiderosi di salutare, parla-
re, comunicare con noi. Sono belli e ben vestiti.
D’altro canto come non potrebbe essere così, vi-
sto che si trovano insieme il venerdì pomeriggio
per scambiare quattro chiacchiere in tranquillità,
condividere un pezzetto di vita e il loro cammino
di fede, e poi perché sono giovani e si guardano,
si conoscono, si corteggiano.
Che bello vedere i giovani che nonostante il
dramma del proprio paese, guardano al futuro
Questi uomini di Dio e figli di don Bosco
hanno saputo assorbire il dolore, la morte
e la paura e trasformarli in speranza, amore,
allegria e voglia di vivere.
e sognano. È giusto. Come potrebbe essere al-
trimenti? È il loro tempo e se lo devono pren-
dere, nessuno glielo può strappare, nemmeno
una guerra sporca e complicata come quella che
altri, in altre parti del mondo, hanno interesse
a mantenere chissà ancora per quanto tempo.
Abbiamo ascoltato la storia di Juliana, che a di-
ciassette anni è diventata la donna di casa, visto
che la madre e il fratello hanno trovato rifugio
in Germania, mentre lei ed il papà sono ancora
in Siria in attesa di ottenere il visto per il ricon-
giungimento familiare. Quando, raccontando le
sue giornate, ci ha detto che deve far da man-
giare al papà perché la mamma non c’è, è scop-
piata a piangere. Lacrime di nostalgia. Ha solo
diciassette anni e la mamma le manca tanto.
L’ha consolata Nour, una bella giovane di ven-
tiquattro anni, neo cooperatrice salesiana, che
due anni fa ha perso il fratello, vittima di una
scheggia di bomba caduta sul negozio nel quale
era andato a comprarsi il vestito da sposo, per-
ché al suo matrimonio mancavano solo poche
settimane. Anche Nour non ha saputo trattene-
I salesiani della
Siria sono rimasti
con i ragazzi
e le loro famiglie
come portatori
di speranza.
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SALESIANI NEL MONDO
portano la loro croce con fede e speranza, dando
una testimonianza formidabile di ciò che sono i
cristiani veri.
Sotto le bombe,
nonostante la
paura, l’oratorio
salesiano di
Aleppo ha sempre
accolto i suoi
ragazzi.
re le lacrime al ricordo di questa morte assurda.
Quanto dolore si sta accumulando in tutte queste
persone, quanto! Appena scavi un pochino e toc-
chi i legami familiari, lacrime abbondanti riem-
piono gli occhi di queste donne e uomini inno-
centi, che si sono visti portar via un familiare, la
casa, il lavoro, tutto.
Anche don Munir ci racconta che il nonno è sta-
to ucciso dai ribelli. Stava andando in macchina
con la nonna, quando hanno cominciato a spa-
rare all’auto. Erano vicino ad un posto di blocco
dell’esercito regolare ed hanno cercato di rag-
giungerlo di corsa. La nonna ce l’ha fatta. Ma al
nonno sono arrivate due pallottole nella schiena
ed è stramazzato al suolo. Morto. Lo strazio è
stato di non poterlo prendere subito dopo, perché
i cecchini dell’ per giorni hanno impedito di
avvicinarsi al defunto.
Dove trovano la forza per andare avanti, tutte
queste persone? La risposta semplice e disarman-
te, per noi abituati a tante riflessioni e raziona-
lizzazioni, viene dalla bocca sia dei salesiani sia
dei giovani che intervistiamo. La fede li aiuta ad
andare avanti e a sperare in un futuro di pace.
Quando si salutano e quando commentano un
fatto, sulla loro bocca esce con frequenza una
esclamazione di riconoscenza e di fede: grazie a
Dio siamo vivi, grazie a Dio ora non sparano più
molto, grazie a Dio il viaggio è andato bene.
Grazie a Dio, dico io, ci sono queste persone che
Gli straordinari abitanti di Aleppo
Andiamo avanti finché non arriviamo alle por-
te di Aleppo e la situazione comincia a cambia-
re perché vediamo edifici distrutti, ma anche
contadini che lavorano la campagna. Ritornano
le bancarelle di frutta e i venditori ai lati della
strada. Tiriamo un respiro di sollievo che però si
spegne in gola quando vediamo i quartieri ad est
della città. Sono palazzi, anzi erano palazzi, per-
ché quel che resta è solo la testimonianza di una
brutalità e disumanità che non si può spiegare.
La casa salesiana si trova al centro di Aleppo, ma
sulla parte ovest della città. L’oratorio salesiano si
trova in un grande edificio in cui convivono insie-
me i salesiani, una scuola superiore dello stato, una
tipografia privata, la parrocchia greco cattolica ed
una scuola, anch’essa greco cattolica. Siamo pra-
ticamente in un “condominio” di attività diverse.
I salesiani della comunità sono quattro. Due
sono appena arrivati ad Aleppo, mentre gli altri
due ci hanno vissuto tutti gli anni della guerra.
Può sembrare strano, ed effettivamente lo è, ma
la nostra opera educativa non ha mai smesso di
essere un normale oratorio aperto tutti i giorni
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Febbraio 2018

2 Pages 11-20

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2.1 Page 11

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ai ragazzi cristiani della città, anche in tempo di
guerra. E la straordinarietà sta proprio in questa
ordinarietà.
L’oratorio come punto
di riferimento
I bambini, ragazzi e giovani che frequentano l’o-
ratorio sono circa 900 a cui si aggiunge poi un bel
gruppo di circa 60 giovani universitari. Si trova-
no insieme per il catechismo, lo sport (calcio e
basket). Quest’ultimo è molto amato dai siriani e
dal nostro oratorio di Aleppo sono usciti giovani
che hanno giocato in serie A e anche nella nazio-
nale; poi ci sono il doposcuola, l’Estate Ragazzi.
Il doposcuola è un’attività aperta durante la guerra
e risponde ad un bisogno molto serio dei ragazzi.
Immaginate che cosa possa significare abitare in
un appartamento, dentro un palazzo senza luce o
che funziona solo alcune ore al giorno, senza una
regola fissa. Immaginate poi che in sottofondo si
sentano scoppi di granate, bombe, spari a raffica.
Riusciremmo a studiare in una situazione del ge-
nere? Come si può concentrarsi per fare i compiti
per casa? Ecco allora che i salesiani ogni pomerig-
gio aprono le sale dell’oratorio e, aiutati da alcuni
studenti universitari, creano le condizioni perché
il ragazzino possa dedicare del tempo tranquilla-
mente allo studio. Le sale dell’oratorio sono nel
piano seminterrato. Potrebbe apparire una situa-
zione poco confortevole, invece è proprio questo
“effetto bunker” che dà tranquillità. I muri spessi
e la collocazione logistica non permetterebbero a
nessun razzo di fare del male ad alcuno. Questa è
la base per stare in serenità. Poi in oratorio c’è un
buon generatore di corrente elettrica che garanti-
sce la luce per studiare. Un adulto accanto infi-
ne, che è pronto a dare il sostegno quando serve,
completa questa attività educativa fondamentale
in un paese in guerra.
L’oratorio e i salesiani che lo animano sono un
punto di riferimento anche per tante famiglie
cristiane della zona. Papà e mamme che a causa
della guerra hanno perso il lavoro, o sono stati fe-
riti da schegge di bomba, o hanno perso un figlio
arruolato nell’esercito e morto negli scontri con i
terroristi. Ne abbiamo sentito molti raccontare la
loro storia di dolore, ma in nessuna testimonianza
abbiamo colto la disperazione.
Una mamma ci ha confidato che insieme al marito
hanno deciso di stare ad Aleppo allo scoppio della
guerra e di non scappare all’estero. Ma la loro più
grande preoccupazione era per i due figli maschi
di 9 e 12 anni. Avevano il terrore che la guerra
potesse farli morire e così la mamma pregava ogni
mattina la Madonna quando uscivano di casa per
andare a scuola: “Maria sii tu adesso la madre dei
miei due figli, custodiscili, proteggili dai pericoli e
restituiscimeli sani e salvi questa sera”.
Una cosa è certa:
conoscendo
gli aleppini, tutto
sarà ricostruito.
Febbraio 2018
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2.2 Page 12

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LE CASE DI DON BOSCO
VALERIO CAMMARATA
San Cataldo
«Un teatro scuola di moralità
e di buon vivere sociale»
L’esperienza dell’oratorio
salesiano del centro nisseno
è una tradizione che coinvolge
giovani e famiglie intere.
L’oratorio
salesiano
di San Cataldo,
in provincia
di Caltanissetta,
nel cuore
della Sicilia.
Sorge in via Don Bosco, nell’omonimo
quartiere e da sempre rappresenta un “la-
boratorio” di cultura, arte ed aggregazio-
ne per i giovani e non solo. È l’Oratorio
Salesiano “San Luigi” di San Cataldo,
punto di riferimento nella divulgazione
dell’arte teatrale, intesa come strumento culturale
e mezzo di educazione sociale.
Qui si segue alla lettera l’insegnamento del
fondatore dei Salesiani, don Bosco: “Il teatro è
scuola di moralità e di buon vivere sociale e ta-
lora di Santità”. E difatti il cine-teatro dell’Ora-
torio vanta decenni di attività teatrale dedicata
ai giovani appartenenti a scuole, parrocchie e a
gruppi spontanei, che negli anni si sono succe-
duti nella realizzazione di commedie e spetta-
coli. Grazie anche alla Rassegna Teatrale per
i Giovani, che nel 2017 ha compiuto 30 anni,
dedicata al compianto Eugenio Cammarata, che
ne è stato l’ideatore e l’organizzatore. Tanti anni
di attività e di continuità da parte dei Salesia-
ni che hanno reso tale manifestazione una delle
più longeve, in ambito teatrale, di tutta la Sicilia
e d’Italia.
Per don Bosco non esisteva un “teatro per il teatro”:
o era educativo o “non era”! I riflettori erano pun-
tati sui giovani o giovanissimi attori; insomma non
si recitava tanto “per il pubblico” quanto piuttosto
per gli stessi attori, per la loro formazione.
Don Bosco ebbe l’ardire di mettere sul palco
spazzacamini, manovali, muratori, insomma i
suoi “ragazzi di strada” e dar loro la possibilità di
esprimersi.
Ogni anno sul palco dell’Oratorio di San Cataldo
più di 250 giovani e meno giovani si impegnano
perché si ripeta la stessa magia che realizzava don
Bosco più di un secolo e mezzo fa.
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Febbraio 2018

2.3 Page 13

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Infatti, per trent’anni, gruppi teatrali nati da
diverse realtà locali hanno condiviso all’interno
dell’Oratorio la passione per il teatro, rappresen-
tando decine di commedie brillanti, dialettali e
non, musical e operette.
Magari si comincia per gioco, quasi per scommes-
sa dando spazio alla fantasia e all’arte. Tanto impe-
gno, tanta fatica, infiniti sacrifici, notti insonni per
arrivare al debutto. Un’emozione unica per tutti.
Ma tutte le Compagnie vengono considerate allo
stesso modo, non vi sono vincitori all’interno della
Rassegna, ideata unicamente con lo scopo di dare
voce ai giovani ed al loro animo artistico.
Oggi, anche grazie agli insegnamenti di un Padre,
Maestro ed Amico, in una città come San Cataldo,
nonostante i tempi siano sempre più bui, nonostan-
te tanta disperazione e perdita di valori, i giovani
trovano in Oratorio un’opportunità per continuare
a sorridere, ritrovarsi a fare gruppo e a rappresen-
tare su un palco i propri sogni: in poche parole, si
continua a fare teatro nello stile Salesiano.
Comincia tutto da un sogno
Proprio i Salesiani di San Cataldo, ancora una
volta grazie all’organizzazione di Eugenio Cam-
marata e alla collaborazione delle Istituzioni
Locali, hanno realizzato una scuola di teatro nei
primi anni 2000, condotta da insegnanti della
Scuola d’Arte dramma-
tica “Umberto Spadaro”
dello Stabile di Catania.
E sono diversi i giovani
usciti da questa scuo-
la che oggi calcano il
“proscenio” dei migliori
teatri d’Italia trovando
un’importante opportu-
nità professionale.
I progetti Teatrali realiz-
zati all’interno dell’O-
ratorio Salesiano di San
Cataldo, negli anni han-
no dimostrato una lunga ed articolata esperienza
da diversi punti di vista. Da quello morale, garan-
tendo un’attenzione a tematiche e logiche attuali
interpellando i protagonisti della società futura: i
giovani. Da un punto di vista artistico e cultura-
le, offrendo un’opportunità di espressione che si è
tramutata per la maggior parte delle volte in uno
strumento educativo offerto ai nuovi animatori o
addirittura in opportunità di lavoro. Da un punto
di vista organizzativo, garantendo la funzionalità
del progetto stesso per una fruizione sempre più
ampia al pubblico. Ma anche un’organizzazione
che garantisca la sostenibilità economica del pro-
getto offrendo un fattivo aiuto alla Casa Salesia-
na che l’ha messo in atto.
Per l’anno 2016, l’attuale direzione artistica cura-
ta da Valerio Cammarata ha realizzato un nuovo
progetto, alzando il tiro del livello culturale, in-
vitando attori professionisti, inseriti nel circuito
teatrale nazionale, con specifiche caratteristiche
artistiche ed attitudini di genere diverse. Così è
nata la Rassegna Artistica e Teatrale “Ad Maio-
ra… Comincia tutto da un sogno”.
Una rassegna, nata come progetto teatrale, ma
che abbraccia anche altre forme artistiche figu-
rative, quali la pittura e la fotografia, con piccole
installazioni all’interno del cine-teatro realizza-
te da artisti locali che, sentitisi coinvolti, hanno
Da alcuni anni
i due consigli
ispettoriali di FMA
e quello di SDB
hanno pensato
di realizzare a
San Cataldo un
progetto unitario
tra le due comunità
presenti
nella città.
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2.4 Page 14

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LE CASE DI DON BOSCO
Il direttore don
Luigi Calapaj:
«L’intero paese ha
una forte tradizione
salesiana maturata
nel corso
di questi 92 anni
di presenza.
Uno degli aspetti
più significativi
è che c’è
una parrocchia
(diocesana)
dedicata a
Domenico Savio
e che dà il nome
al quartiere
in cui si trova».
contribuito a rendere più piacevole ed accogliente
il contesto di sala.
L’iniziativa, che ha come partner promotore la
Banca di Credito Cooperativo “G. Toniolo” di
San Cataldo, sempre presente in tutte le iniziative
dei Salesiani, è rivolta ad un pubblico eterogeneo,
di diverse fasce di età e quindi con diverse esigen-
ze di genere.
“Oltre al fine ludico-ricreativo, ogni spettacolo
è rimasto fedele alla linea educativa che propo-
ne il progetto Salesiano: il metodo preventivo
di don Bosco, dedicando particolare attenzione
ai giovani con spunti di riflessione importan-
ti” – spiega il direttore artistico Valerio Cam-
marata parlando del fermento teatrale che ani-
ma le attività dell’Oratorio “San Luigi”. – “La
Rassegna Ad Maiora è stata fortemente voluta
dai membri della nuova comunità salesiana, che
hanno dimostrato grande apertura e disponibi-
lità. Ma è stata realizzata soprattutto grazie alla
collaborazione di tutte le forze ed i gruppi che
compongono il nostro Oratorio, che in maniera
sinergica hanno creato le condizioni necessarie
affinché questo progetto “folle” potesse attec-
chire. Bisogna anche ricordare come nel corso
degli ultimi anni il cine-teatro dell’Oratorio sia
stato interessato da lavori di ammodernamento
dei propri impianti.
L’adesione di molti artisti di livello nazionale, il
gradimento del nostro pubblico e la partecipazio-
ne delle scuole di tutta la città che hanno porta-
to circa 1500 ragazzi ci incoraggiano a lavorare
sempre meglio, protési sempre di più verso le loro
esigenze per offrire un livello artistico sempre al-
tissimo.
“CARNEVALE DEI BAMBINI”,
42 anni di allegria a San Cataldo
Il “Carnevale dei bambini” viene realizzato dai
Salesiani a San Cataldo. Nel 2017 è giunto alla
42a edizione. In tutti questi anni il progetto è
stato rivolto a tutta la città, come è stato rico-
nosciuto dalle amministrazioni comunali succe-
dutesi, che hanno visto in questa iniziativa l’u-
nico evento, legato al carnevale, che nel tempo
sia stato in grado di garantire partecipazione e
coinvolgimento della cittadinanza, con atten-
zione particolare ai più piccoli ed ai giovani,
come lo stesso metodo educativo di don Bosco
insegna.
Ci racconta la responsabile del Gruppo Mamma
Margherita che assieme al gruppo Scout colla-
bora all’organizzazione del progetto in Oratorio:
«Il Sistema Preventivo che abbiamo ereditato dal
Santo, padre e maestro della gioventù, guarda al
giovane nella sua interezza. Quindi, sono per noi
importanti i momenti di gioco e di svago, favo-
rendo il protagonismo giovanile attraverso il tea-
tro, la musica, l’animazione...
Proprio cercando un aspetto ludico più salubre
nasce, ormai parecchi anni fa e si ripropone tra-
dizionalmente, questa iniziativa: per far vivere ai
ragazzi della città, non dimenticando di coinvol-
gere anche gli adulti, alcuni momenti di spensie-
ratezza e di allegria che oggi appaiono sempre più
rari tra i cittadini. “Ampia libertà di saltare, correre,
schiamazzare a piacimento sono mezzi efficacissimi
per ottenere la disciplina, giovare alla moralità e alla
santità” (don Bosco).
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2.5 Page 15

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ANNIVERSARI
ROBERTO GONTERO
50 anni di Operazione
Mato Grosso Tutto cominciò «come un fiammifero
gettato nella benzina».
Pensata e fondata nel 1967 da don Ugo De
Censi, l’Operazione Mato Grosso com-
pie cinquant’anni di attività. Avventura è
stata la parola chiave sin dall’inizio come
ricorda un altro cofondatore don Luigi
Melesi, salesiano di Arese, dove tutto co-
minciò “come un fiammifero gettato nella benzi-
na”, il quale fece prendere fuoco ai primi giovani
che – l’anno successivo – partirono in nave per la
prima spedizione a Poxoreu in pieno Mato Grosso.
Li aspettava a Poxoreu padre Pedro Melesi, che
fu il provocatore dell’idea iniziale con il grido
disperato: «Venite ad aiutarmi, da solo non ce la
posso fare”.
Negli anni questo movimento non più solo gio-
vanile ha coinvolto e coinvolge tuttora migliaia e
migliaia di persone in Italia ed in America Lati-
na. L’ è presente in Perù con 60 comunità, in
Ecuador con 17, in Brasile con 12, in Bolivia con 11.
Nel grande continente ricco di vita e di contrad-
dizioni ci sono oggi numerose spedizioni, dove i
volontari (giovani, coppie, sacerdoti e suore) rea-
lizzano attività in campo educativo, religioso, sa-
nitario e sociale. Offrono il loro lavoro in modo
completamente gratuito, sostenuti da chi lavora
qui in Italia e comunque pronti a rimetterci anche
di tasca propria come chiede il Vangelo.
Spirito di avventura, passione e servizio ai poveri
quindi, con i giovani. Con lo stile di don Bosco, e
aiutato dai suoi giovani, don Ugo ha creato colle-
gi, oratori, scuole per elettricisti, falegnami, labo-
ratori di intaglio del legno e di cucito, agronomi,
idraulici; ha fondato cooperative agricole, ospe-
dali, fabbriche di mattoni, addirittura costruito
centrali idroelettriche ed una Università a Chim-
bote (Lima).
Nel 1969 sono nate le spedizioni in Bolivia ed in
Ecuador ed infine dal 1975 quelle in Perù. Con
l’arrivo di padre Ugo nel 1976, nominato parroco
a Chacas (4000 metri di altezza), è cambiata in
modo radicale la modalità di lavoro con la gente
ed i poveri.
Questi i primi punti di riferimento ideali del pro-
gramma : meno parole e più fatti; guadagna-
re i soldi con il lavoro e la fatica; donarli intera-
mente ai poveri; le braccia per lavorare, il cuore
per convincersi, le mani per regalare e donarsi.
In successive formulazioni, sono diventati quelli
che ancora oggi sono i sette punti dell’Operazio-
ne Mato Grosso: lavorare, insieme, per i poveri,
con spirito Missionario, essendo buoni, pagando
di persona, fino alla morte.
Una riunione
tra i “fondatori”.
Il primo a sinistra è
don Ugo De Censi.
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MONDO
A CURA DELL’ANS – WWW.INFOANS.ORG
3
2
NEPAL 1
FINO AI CO
Gli aiuti iniziano
a dare i loro frutti
Il Nepal è un paese che dopo
il doppio terremoto del 2015 sta subendo un’altra cata-
strofe: l’oblio. Se questo è vero per molti, i salesiani non
hanno dimenticato nessuno, anzi, continuano a sostenere
chi è in difficoltà, continuano a costruire per educare le
generazioni che renderanno possibile un nuovo paese.
I salesiani sono presenti in Nepal dal 1992.
Gli aiuti salesiani in Nepal hanno raggiunto oltre 1500
bambini e giovani che torneranno a scuola nei prossimi
mesi. Ad oggi, sono state costruite e attrezzate dieci
scuole in piccoli villaggi nella valle di Kathmandu. Le
comunità salesiane in Nepal hanno dato la priorità al
lavoro nelle quattro scuole, nelle due scuole tecniche, nei
quattro convitti e nei programmi di borse di studio. Il sa-
lesiano don Augusty afferma: “Questo aiuto che ci stan-
no dando servirà a mostrare a tutti che la nostra presenza
è importante per il paese e per le persone, ma soprattutto
per i bambini e i giovani più bisognosi”.
REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO 2
Storia di Mamma Teresa
Alla porta del
Centro Don Bosco
di Bukavu vanno a
bussare tutti i tipi di
persone bisognose.
Si è sparsa la voce
che “là aiutano”. Non
sempre i salesiani
possono soddisfare
le richieste e tenden-
zialmente provano a
coinvolgere la comu-
nità cristiana o parrocchiale di provenienza. Ma ci sono
situazioni in cui una persona sembra avere bisogno di un
aiuto urgente e tutto sommato della misura giusta per
le possibilità salesiane. Si verifica allora che la necessità
sia reale e si fa di tutto per aiutare. Così è stato fatto con
“Mamma Teresa”.
“Quando Mamma Teresa, una rifugiata ruandese, è
venuta a presentare il suo problema, ho chiesto a Lydie,
la Salesiana Cooperatrice che si occupa dei bambini del
villaggio di Miti, di andare a verificare, dato che vive
nello stesso quartiere di Mamma Teresa. Lydie è anda-
ta, ha visto, e mi ha fatto un resoconto della situazione”
racconta don Piero Gavioli, da 33 anni missionario in
Repubblica Democratica del Congo.
Teresa, che non è mai stata a scuola, è nata in Burundi
da padre congolese e madre ruandese. A 6 anni perde il
padre e incomincia a lavorare in campagna. A 14 anni
viene convinta da una signora ruandese a fare un viag-
gio a Bukavu, ufficialmente per una visita. Ma lì viene
consegnata ad un uomo congolese che la costringe con la
forza ad essere sua moglie.
Sua suocera ha pietà di lei e l’aiuta a resistere nella sua casa,
perché il marito è un uomo violento. Hanno avuto 9 figli,
di cui 3 morti in tenera età. Nel 2007, inoltre, il marito
l’abbandona, lasciandola con 6 figli. Per sopravvivere,
Mamma Teresa si è dovuta arrangiare e incominciare una
piccola attività commerciale. In seguito ad una malattia, il
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Febbraio 2018

2.7 Page 17

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suo piccolo capitale è andato perso, e come altre donne ha
iniziato a portare sacchi di sabbia sulla schiena per la co-
struzione di case (a Bukavu, moltissime case sono costruite
su pendii ripidi, per accedervi non ci sono strade carrozza-
bili, ma solo sentieri stretti e se si vuole costruire qualcosa
è necessario portare cemento, sabbia e persino l’acqua a
dorso d’uomo, o piuttosto di donna).
Mamma Teresa ha fatto questo lavoro per qualche anno,
poi si è ammalata e quindi non è stata più in grado di la-
vorare, di pagare l’affitto di casa e le tasse scolastiche per
i suoi figli. I tre ragazzi più grandi sono partiti in cerca
del padre. Mamma Teresa è rimasta con due ragazze,
Marcelline di 12 anni e Jeanne di 10, e con un bambino
disabile di 8 anni, ammalato pure lui.
“Quando è venuta a chiedere aiuto perché non aveva più
la forza di trasportare la sabbia, passava la notte in una
piccola baracca aperta, vicino al porto, dove durante il
giorno delle donne commercianti vendevano l’alcol indi-
geno – racconta don Gavioli –. Le sue due figlie, che ave-
vano appena finito le elementari, erano diventate Maji-
Muhogo (acqua-manioca): bambine che raccolgono
bottiglie di plastica e le riempiono con acqua di rubinetto,
le portano alle donne che vendono al mercato e ricevono
in cambio alcuni pezzi di manioca arrostita o 50 o 100
franchi congolesi, meno di 10 centesimi di euro, che per
loro è sempre meglio di niente”.
Non potendo accogliere la famiglia presso il centro
salesiano, a causa della mancanza di spazio, don Gavioli
si è mosso per aiutare Mamma Teresa a riprendere in
mano la sua vita e quella dei suoi figli. Ciò ha significato
aiutarli ad affittare una camera, mettervi due materassi,
far curare la mamma e il figlio disabile, darle una piccola
somma perché potesse iniziare a vendere fagioli e cercare
una scuola per le due ragazze.
La direttrice del “Centro Nyota” ha accettato di iscriver-
le al primo anno di taglio e cucito, nonostante il corso
fosse iniziato già da due mesi e la differenza d’età. Le
due ragazze – le più piccole della loro classe – sono state
promosse agli esami del 1° semestre, e Marcelline si è
dimostrata una delle migliori.
Un altro futuro è ancora possibile per Mamma Teresa e
la sua famiglia.
1
ECUADOR 3
Il grande lavoro dei Salesiani
nell’Amazzonia ecuadoriana
con gli indigeni achuar
Da 40 anni la comunità salesiana “Ceferino Namun-
curá”, situata nella provincia ecuadoriana di Morona-
Santiago, svolge un lavoro fondamentale per l’educazione
e il rispetto dei Diritti Umani della popolazione indi-
gena achuar, che abita nell’Amazzonia ecuadoriana, in
un’area cui si può arrivare solo per via aerea.
È nel mezzo della giungla, senza accessi per vie terrestri.
È stata costruita ponendo alcune case attorno a un
campo. Non c’è nulla da comprare e non ci sono servizi.
Il cibo è quasi lo stesso ogni giorno e si basa sulla
cacciagione e le coltivazioni di yucca, banana e riso. Il
clima è molto umido e caldo, ma non ci sono servizi
igienici o fognature e presso la missione si adopera
l’acqua piovana.
I salesiani animano una scuola secondaria bilingue e un
centro di istruzione superiore bilingue, in spagnolo e
achuar. Nel loro lavoro i salesiani cercano di mantenere
vive le tradizioni della cultura achuar, attraverso l’arti-
gianato, la musica, i canti e le danze.
Adesso anche gli indigeni conoscono lo spagnolo, pos-
sono visitare altre comunità e relazionarsi con persone
esterne senza temere di essere ingannati.
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2.8 Page 18

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L’INVITATO
LINDA PERINO
I cuori non vanno
in prigione IncontrocondonFrancescoBontà
cappellano del Carcere Minorile
di Catania “Bicocca”.
Come è nata
la tua vocazione?
Penso che la mia vocazione nasca e
maturi piano piano; ricordo con pia-
cere che durante il periodo estivo dei
miei anni alla Scuola Superiore vivevo
delle esperienze fuori dal mio paese a
Camporeale. In questo paese del Pa-
lermitano vi era una casa famiglia ge-
stita proprio dai figli di don Bosco che
vivevano con i giovani affidati loro dal
tribunale penale. Vivendo e lavorando
con loro, li osservavo nella loro vita
fraterna in comunità. I salesiani erano
proprio dei padri per questi poveri
ragazzi. Passando del tempo con i più
piccoli e più poveri mi raccontavano
le loro storie, le loro esperienze, mi
narravano delle loro famiglie, del loro
disagio e dello stato di abbandono in
cui si trovavano. Pregando e rifletten-
do su queste storie iniziava a nascere
in me il desiderio di stare tutta la vita
L’Urna di don Bosco è passata
nel Carcere Minorile, qualche anno fa.
Lui ha deciso di rimanerci, inviando
un suo figlio, piccolo sì, ma che cerca
di aprire i cuori come ha fatto lui
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con don Bosco per spendere il mio
tempo con i giovani che nella vita era-
no stati meno fortunati.
Come la tua famiglia vive
questa scelta?
La scelta della vita consacrata e del
mio desiderio di iniziare un percorso
di discernimento l’ho condivisa subito
e non solo con i miei genitori. Anche
a mio fratello Gaetano e mia sorella
Martina ho consegnato questo dono
che ho ricevuto dal Buon Dio. I miei
fratelli sono più piccoli di qualche
anno ma mi hanno sempre accom-
pagnato con la loro presenza discreta
e al contempo vicina durante la mia
prima formazione e durante i percor-
si di studio affrontati verso il Sacer-
dozio ministeriale. Fortunatamente
il paese da cui provengo – Riesi – è
una cittadina che era ed è totalmente
immersa nello spirito salesiano. Infat-
ti tutti i giovani riesini conoscono o
la scuola o l’oratorio in stile salesia-
no a motivo della presenza delle Fi-
glie di Maria Ausiliatrice (alle quali
devo tanto) e ai figli di don Bosco.
Ancora oggi so che posso contare sui
miei genitori, su mio fratello e su mia

2.9 Page 19

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Don Francesco con alcuni animatori e volontari
del suo oratorio.
sorella che da lontano mi sono vicini
nel momento di prendere decisioni
importanti. Hanno accettato di buon
cuore questa missione ricevuta poiché
anche per loro la casa di don Bosco fa
parte del loro cuore: si trovano bene
in quegli spazi, costruendo relazioni
giorno dopo giorno.
Perché proprio salesiano?
Come vi dicevo, vengo da un paese in
provincia di Caltanissetta, nel cuore
della Sicilia: Riesi. Il paese conta – ad
oggi – tre parrocchie salesiane su quat-
tro e fino a qualche anno fa (2002) pre-
senti sul territorio riesino c’erano an-
che le Figlie di Maria Ausiliatrice. Dal
mio canto sono stato sempre a contatto
con i Padri Salesiani che gestivano le
attività ordinarie oltre a quelle estive.
In particolar modo ricordo con affet-
to e gratitudine i periodi estivi in cui
si organizzavano i GrEst e dopodiché
inviavano me ed altri miei compagni
a vivere esperienze forti di volontaria-
to e di formazione sul campo in altre
comunità salesiane in Sicilia. Al “Don
Bosco”, così chiamavamo i locali del
centro giovanile parrocchiale, passavo
il mio tempo; dopo lo studio iniziavo a
respirare aria pulita: aria salesiana che
dava ossigeno ai miei polmoni fino a
far riempire il mio cuore di don Bosco.
Quali sono state
le tue esperienze
in Congregazione?
Le esperienze più significative negli
anni di formazione e dopo il sacer-
dozio sono state: quella di lavorare
nei quartieri a rischio, in quelli disa-
giati; in particolar modo ho vissuto
in periferia della città di Messina nel
quartiere “Giostra”. Dov’è presen-
te ancora oggi un grande Oratorio.
Anni dopo ho vissuto nella perife-
ria palermitana nell’opera del “Gesù
Adolescente” dove mi applicavo sia
nella Scuola Professionale sia in
Oratorio. Ho avuto modo di cono-
scere anche l’ambiente della provin-
cia di Messina: a Barcellona Pozzo
di Gotto infatti ho percepito anco-
ra più forte la chiamata del Signo-
re con i giovani a rischio vivendo il
mio apostolato insegnando nella
Scuola Media del paese e vivendo in
Oratorio nei pomeriggi. In questo
ultimo periodo, ma anche in tempi
passati, sono stato inviato dai miei
superiori nella bella Catania; oggi mi
trovo infatti a contatto con i minori
immigrati nell’opera della Colonia
“don Bosco”, sono parroco nel quar-
tiere San Cristoforo nella Parrocchia
“Maria SS. della Salette” e cappella-
no del Carcere Minorile di Catania
“Bicocca”.
Perché sei finito
in carcere?
Tutto ha inizio una sera del mese di
aprile 2015: passeggiavo nel cortile
dell’Oratorio del Cibali (sede dell’I-
spettoria della Sicilia e Tunisia), ad
un tratto incontro l’ispettore don Pip-
po Ruta che fra un argomento ed un
altro mi propone questa esperienza
forte dicendomi: «Ti va di andare in
carcere?» a bruciapelo risposi: «Ed io
cosa ho fatto di male per finire in car-
cere?». Don Pippo comprende la bat-
tuta, sorride ed inizia a spiegare che
il Vescovo dell’Arcidiocesi di Catania
ha richiesto la presenza dei figli di
don Bosco all’interno dell’istituzio-
ne carceraria per i minori. Don Ruta
voleva scommettere su questa nuova
frontiera di lavoro a contatto con i
ragazzi reclusi proprio come ha fatto
il nostro Fondatore. Dopo un po’ di
preghiera e discernimento ho accetta-
to questa proposta sul serio. Lavorare
all’Istituto per Minori di Bicocca mi
avrebbe dato vita in due maniere: sa-
rei stato cappellano non solo dei dete-
nuti ma anche padre degli educatori,
degli agenti di polizia con i quali mi
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2.10 Page 20

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L’INVITATO
sarei relazionato e di tutti coloro che
lavorano all’interno di questo istitu-
to. Ed inoltre ho detto il mio sì, in
maniera decisa, per accogliere l’in-
vito di papa Francesco che nei suoi
interventi parla spesso di uscire dalle
sagrestie e andare nelle periferie: per
vivere in mezzo al gregge ed avere lo
stesso odore delle pecorelle, andarle
a cercare quando si perdono e far fe-
sta dopo averle trovate. Altresì vedo
questa obbedienza come un regalo di
don Bosco per il Bicentenario della
sua nascita; infatti con il passaggio
dell’Urna di don Bosco nel Carcere
Minorile – qualche anno fa – ha de-
ciso di rimanerci, inviando un suo fi-
glio, piccolo sì, ma che cerca di aprire
il cuore come ha fatto lui. Ringrazio
i miei confratelli, tutti i giovani e le
persone che pregano per me perché
mi sostengono ogni giorno e mi fan-
no sentire l’affetto della grande Fami-
glia Salesiana. Molti i volontari che
con me hanno possibilità di entrare
dietro le sbarre per servire chi non
ha da contraccambiare, per me sono
fonte di aiuto, di sostegno facendo ciò
che si può fare: questo ci rende feli-
Volti prima tristi si trasfigurano
in volti luminosi di gioia e di voglia
di riscatto rispetto a quella società
che li ha incastrati con le brutte
compagnie
ci. In carcere ogni sabato viviamo la
Celebrazione Eucaristica e durante la
settimana personalmente li ascolto e
li accompagno.
Come sono i giovani
che conosci?
Stare con i giovani che sono ospiti del
Penitenziario è un’esperienza di forte
crescita personale, un’esperienza che
apre il cuore e che ti insegna a non
giudicare chi ha sbagliato o chi ha
commesso un errore, ci aiuta infatti
ad amare l’umanità così com’è nel-
la sua vulnerabilità. Finora mi sono
passati davanti gli occhi tanti volti
che apparentemente sono felici, a vol-
te sicuri di ciò che han fatto, alcuni li
trovo ottimisti ma scopro conoscendo
quelle anime che dietro il loro volto
si nascondono rabbia e dolore, stan-
chezza e sfiducia. Il loro volto espri-
me bisogno di affetto, necessità di
qualcuno che gli possa stare accanto
e che li ascolti, di qualcuno che non
abbia paura di confrontarsi con loro
e di persone capaci di accompagnarli
nel percorso difficile ma quanto mai
educante. Credo che siano ragazzi
che hanno bisogno di amore perché
non l’hanno conosciuto prima, non
l’hanno sperimentato nel loro nucleo
familiare. Quando nelle mattinate
entro all’interno della struttura carce-
raria vedo che riescono ad accoglier-
mi come se mi conoscessero da tanto
tempo. Ho riscoperto sulla mia pelle
che solo passando del tempo con loro
potranno fidarsi di te. E sono giova-
ni che quando scoprono le loro ferite
mostrano tutto: debolezze e paure;
alcuni anche il loro pentimento, i loro
sbagli. Mi è capitato che dopo un bel
po’ di tempo ci si rincontra per strada
e si legge nei loro volti un cambia-
20
Febbraio 2018
«Nel nostro oratorio i ragazzi
si sentono a casa».

3 Pages 21-30

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3.1 Page 21

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mento. Quella Resurrezione che nella
loro vita è fantastica: volti prima tri-
sti si trasfigurano in volti luminosi di
gioia e di voglia di riscatto rispetto a
quella società che li ha incastrati con
le brutte compagnie. Non per tutti è
così semplice il miglioramento, qual-
che fallimento educativo l’ho vissuto
anche e sulla mia pelle! Io però conti-
nuo a lavorare affinché un futuro mi-
gliore possa essere costruito da quelle
mani che una volta in manette desi-
derano cambiare vita.
È ancora possibile parlare
di Dio e di Chiesa?
All’interno del Carcere i giovani mi-
norenni reclusi vengono da città e da
contesti diversi. Qualcuno ha frequen-
tato il catechismo quando era piccolo
nelle parrocchie di residenza ma poi,
come succede a tanti, dopo la comu-
nione non ha più continuato il cam-
mino mistagogico di Catechesi non
vivendo così con profondità la propria
fede. Altri non hanno mai frequenta-
to gli ambienti di chiesa, non hanno
mai vissuto gli incontri di Catechesi
e non si sono mai comunicati e non
hanno ricevuto il Sacramento della
Cresima. In pochi però non sono mai
entrati in chiesa; i più però non san-
no a quale parrocchia fare riferimento
una volta usciti da quell’istituto. E
come nella Torino dell’800, cerco di
essere un punto di riferimento alla
don Bosco. È possibile parlare di Dio
e soprattutto lo sforzo è quello di far
loro capire che Dio è Padre. Padre che
è Buono, che è Misericordia. Diffici-
le è comunicare l’idea della paternità
a coloro che con il padre non hanno
un buon rapporto o che non l’hanno
mai conosciuto o dal quale sono stati
abbandonati. Ripeto spesso alle loro
orecchie: “Dio non abbandona i suoi
figli!”.
Come vedi il futuro della
congregazione salesiana?
Sono contento di appartenere alla
congregazione salesiana, di essere
un figlio di don Bosco. Nutro spe-
ranza positiva per il futuro della
nostra congregazione, nella casa di
don Bosco c’è posto per tutti: casa
per molti e madre per tutti come la
Chiesa. Vivo in una casa che cresce
Don Francesco con il Papa e con i suoi bravissimi
animatori.
anno dopo anno accogliendo i giova-
ni in discernimento vocazionale che
hanno accanto giovani confratelli ti-
rocinanti e vedo che ci sono confra-
telli motivati. I giovani che entrano
nella nostra Comunità ci osservano
e si mettono in gioco, il nostro stile
diventa la loro vita, i nostri ambienti
educativi diventano la loro casa. Mi
basta guardare come i confratelli che
il Signore mi ha donato spendano il
loro tempo e le loro energie nei set-
tori dove ci sono ragazzi poveri e
abbandonati e questo mi riempie il
cuore. I salesiani hanno davvero po-
sto ovunque, lo Spirito Salesiano si
declina in ambienti diversi e dispara-
ti: dalle scuole alle parrocchie, dagli
oratori ai centri sociali, dalle comu-
nità di minori non accompagnati alle
carceri, dai centri sociali alle missio-
ni ad gentes. Dice bene quel brano:
Dio gli ha donato un cuore grande
come le sabbie del mare, vuole do-
narlo anche a noi oggi.
Febbraio 2018
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3.2 Page 22

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GLI INVISIBILI
UN MEDICO SENZA FRONTIERE
Le bambine
strappate
alla morte
In soli tre mesi, 500 000 persone
sono fuggite dal Myanmar per
cercare rifugio in Bangladesh.
Sono i rifugiati rohingya in fuga
dalla persecuzione e dalla violenza
a cui sono sottoposti nelle loro
terre. Un medico di MSF (Medici
Senza Frontiere) racconta le
scintille di speranza che brillano in
questa tetra notte dell’umanità.
Laila: l’abbraccio
del padre
Quando vidi per la prima volta Lai-
la, dieci anni, giaceva sul letto in una
stanza buia nella nostra clinica. Aveva
attraversato il confine con la sua fami-
glia undici giorni prima, scappando
come tutti gli altri dalla violenza nello
stato di Rakine, in Birmania. Era en-
trata nella clinica con spasmi di dolo-
re ai muscoli spinali, che le facevano
tenere inarcata la schiena, la mascella
paralizzata e le membra irrigidite.
Soffriva di tetano, una malattia che è
stata quasi sradicata in tutto il mondo
grazie ai vaccini, ma non nel nord-
ovest della Birmania, patria di questa
bambina e della sua famiglia. Aveva-
mo tenuto la stanza buia e silenzio-
sa per minimizzare la stimolazione
sensoriale perché, altrimenti, avrebbe
potuto innescare un altro doloroso
episodio di spasmi.
Il tono muscolare delle sue braccia
stava migliorando, ma le sue gambe
erano immobili e rigide e le dita dei
piedi erano bloccate. Aveva provato a
mangiare qualcosa, ma la sua bocca
non si era aperta abbastanza. Guarda-
va suo padre, che era seduto accanto
a lei con le gambe incrociate sul ma-
terasso, e le lacrime cominciarono a
cadere sulle sue guance.
Mentre continuava a guardare suo
padre, disse qualcosa a denti stretti.
«Che cosa ha detto?» chiesi all’assi-
stente medico, la mia partner bangla-
diana Sharma Shila. «Vuole che suo
padre la abbracci» rispose. Il padre
sembrò a disagio. Non voleva causare
a sua figlia un altro spasmo. Posai con
attenzione la bambina sulle sue ginoc-
chia e gli dissi di non preoccuparsi, che
se voleva potevo darle un abbraccio.
Mi voltai discretamente per non in-
terrompere quel momento di intimità
e per vedere l’altro paziente che ave-
vamo nella stanza: un bambino di
un mese con il tetano neonatale. Mi
faceva così arrabbiare pensare che un
semplice vaccino durante la gravi-
danza avrebbe prevenuto la malattia.
Purtroppo, nelle aree dei rohingya
dall’altra parte del confine non ci
sono state cure mediche per mesi. Ho
passato un po’ di tempo a cercare di
insegnare al bambino come succhia-
re il latte materno usando il mignolo.
Se potevo convincerlo a farlo, forse
22
Febbraio 2018

3.3 Page 23

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poteva attaccarsi ai capezzoli di sua
madre per nutrirsi. Dopo appena die-
ci secondi cominciò a capire e presto
iniziò a succhiare con forza e ritmo.
Dopo aver dovuto nutrire suo figlio
attraverso un sondino nasogastrico
per tre settimane, la donna era felice.
Quando stavo per andarmene, guar-
dai di nuovo la bambina, che era an-
cora tra le braccia di suo padre. Ero
sbalordito: gli spasmi muscolari era-
no stati ridotti abbastanza da farle
piegare le ginocchia di 60 gradi. La
sua mascella non era più stretta e la
ragazza stava sorridendo a suo padre.
Ho quasi pianto.
Oggi, tre settimane dopo il suo rico-
vero in ospedale, la bambina è com-
pletamente guarita. In un primo mo-
mento, le sue condizioni erano così
critiche che nessuno avrebbe messo la
mano sul fuoco per la sua sopravvi-
venza, ma quando si passa attraverso
esperienze incredibili come questa, si
finisce per rendersi conto che l’amore
di un genitore può rivelarsi molto più
potente che tutti i farmaci che i me-
dici possono dare.
Azara: l’incredibile
fortuna di sopravvivere
Il proiettile aveva attraversato la pic-
cola testa di Azara, sopra l’orecchio
destro, ed era passato attraverso il
bulbo oculare, uscendo dal lato si-
nistro del naso. Ovviamente, il suo
occhio era completamente distrutto.
I chirurghi aveva riparato un buco
largo circa tre centimetri tra la cavità
oculare e il cervello. La sua capacità
di visione non era stata influenzata
e, anche se gravemente ferita, aveva
avuto l’incredibile fortuna di soprav-
vivere. Mi sto ancora chiedendo come
è potuto accadere.
Azara è qui e sorride come un uccel-
lino. Che cosa sarebbe successo a lei
se un giovane non l’avesse presa in
braccio e trascinata fin qui? Quante
bambine come Azara sono rimaste ad
agonizzare sulle strade dove i soldati
sparavano raffiche contro la gente in
fuga come se sparassero in un muc-
chio di stracci?
Ho sentito storie terribili di donne che
hanno perso i loro mariti durante il
viaggio. Passano giorni e giorni a cam-
minare con bambini piccoli, in mezzo
a veicoli impazziti che circolano in en-
trambe le direzioni. Alcuni dei piccoli
sono morti dopo essere stati investiti
dalle auto. Così, in un istante, il futuro
migliore che stai cercando per la tua
famiglia scompare. Ogni persona por-
ta la propria tragedia. Solo se moltipli-
chi una di queste storie per 500 000,
inizierai a capire quanto sia straziante
quello che sta succedendo qui.
Abbiamo un bambino con noi che è
così disidratato e malnutrito che non
possiamo sapere con certezza quanti
anni ha. È stato portato da una donna
che l’ha trovato dietro uno dei posti
di confine. Ci stiamo occupando di
lui e fortunatamente si sta riprenden-
do; ma non sappiamo nulla della sua
famiglia. Che cosa ne sarà di lui?
Ci hanno anche raccontato storie di
persone che hanno sofferto molte
violenze lungo la strada, così estre-
me che in alcuni casi sono finite con
complessi problemi psicologici.
Molti dei pazienti non vogliono an-
darsene quando li scarichiamo. Questo
ospedale straripato offre condizioni di
vita molto migliori di quelle là fuori.
Queste persone sanno che cosa devono
fare, ma non hanno alcuna possibilità.
Non possono andare a lavarsi le mani
perché non c’è acqua pulita.
Non ci sono quasi latrine, quindi i ri-
fugiati scelgono di sollevare quattro
pali di bambù e unirli con teloni di
plastica. Ma anche allora non c’è dove
buttare i rifiuti, tranne il flusso che
scorre un po’ più in basso. Lo stesso
dove, a dieci metri di distanza, altri
raccolgono l’acqua da bere. Alcune
persone legano alcuni vestiti ad altri
per ripararsi dal vento e dalla piog-
gia. Ma, dopo due giorni di tempeste
tropicali, tutto è già inzuppato. La
situazione è terribile, la devastazione
totale. Sicuramente, questo non è un
posto dove si può vivere.
Sono fuggiti da un inferno per finire
in un altro.
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3.4 Page 24

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A TU PER TU
O. PORI MECOI
Don Bosco in India
Un amore a prima vista
magnificamente e splendidamente
ricambiato
Intervista con
don Chakkanattu Raju,
Segretario del Comitato
per le Vocazioni della
Conferenza Episcopale
del Kerala
Carissimo Raju,
puoi autopresentarti?
Sono un salesiano indiano, vengo dal
Kerala. Sono entrato in contatto con i
salesiani quando avevo 12 anni. Sono
diventato allievo del centro culturale
in Kochi dove ho studiato oltre sette
strumenti musicali tra cui il violino,
il pianoforte, la chitarra e un paio di
strumenti a percussione indiani di
tipo tabla, mrudangam e la batteria.
Ho studiato il canto vocale classico
indiano e la danza classica indiana
che si chiama Bharatanatyam. Tutto
questo mentre frequentavo la scuola
normale. Dopo la scuola superiore ho
deciso di diventare prete.
Ho fatto il tirocinio in Italia e poi
ho fatto il baccalaureato in Comu-
nicazione Sociale e in teologia all’U-
niversità Salesiana di Roma. Sono
rientrato nella mia ispettoria, India
Bangalore e sono stato ordinato sa-
cerdote a Vaikom, la mia città.
Ho proseguito gli studi in comuni-
cazione sociale, letteratura inglese
e teologia. Ho publicato già sedici
libri, in inglese e in malayalam, la
mia lingua. Ho diretto film e tele-
film e da sette anni sono il Segretario
del Comitato per le Vocazioni della
Conferenza Episcopale del Kerala e
Direttore della Conferenza dei Di-
rettori Vocazionali in Kerala. Come
salesiano faccio l’economo e il vice-
preside del Don Bosco College af-
filiato all’Università di Calicut, in
Mannuthy, Thrissur, Kerala.
Com’era la tua famiglia?
Vengo da una famiglia tradizional-
mente cattolica. Sono l’ultimo di cin-
que figli e sono l’unico che ha scelto
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Febbraio 2018

3.5 Page 25

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la vita religiosa. Papà non c’è più, la
mamma è a casa. Faceva l’insegnan-
te di scuola media. Avevamo la terra
da coltivare e mio papà si occupava
di quello. I miei fratelli e la sorella si
sono sposati. Un fratello è in Nuova
Zelanda, l’altro è in Australia. Mia
sorella fa l’insegnante e si è sposata
proprio nel nostro paese. Un mio fra-
tello e la sua famiglia abitano con la
mia mamma.
Perché hai scelto
di essere salesiano?
Essere salesiano mi permette di co-
municare ai giovani il Vangelo con
la musica, la danza e il teatro. Voglio
usare questi mezzi per la proclama-
zione del Regno. Diventare santi
per me è essere felici come dice don
Bosco e fare il massimo del bene alle
persone.
La tua è un’ispettoria
grandissima: quali sono
le realtà più belle?
Abbiamo molti tipi di opere. Prima
di tutto abbiamo le scuole e i colle-
ge ossia i centri universitari. Poi le
parrocchie, gli oratori, molti centri
per i giovani di periferia e di strada.
Abbiamo scuole tecniche, case di for-
mazione, case per i salesiani anziani
e ammalati, centri di produzio-
ne mediatica e centri culturali
dove si insegna musica, dan-
za, cinema e teatro.
«Essere prete cattolico
vuol dire vivere
da testimoni credibili».
Che cosa significa essere
prete cattolico in India?
Oggi come oggi, diventare prete è già
una cosa molto bella ed impegnativa.
La strada è lunga e le cose che cer-
cano di distoglierci dalla vocazione
abbondano. Essere un prete cattolico
vuol dire vivere con gioia la chiama-
ta ricevuta dal Signore e donare i sa-
cramenti al popolo di Dio. Vuol dire,
inoltre, vivere da testimoni credibili
in un mondo ove il fondamentalismo
religioso diventa moda del giorno e le
ideologie ostacolano ogni tentativo di
essere autentici paladini del Regno.
Essere sacerdote oggi vuol dire vive-
re come Cristo, accettato da pochi,
guardato da molti, aiutando tutti. È
la testimonianza di una vita confor-
mata su Gesù, oltre ogni piccolezza
e debolezza umana. Oggi in India ci
sono persone che metodicamente cer-
cano di eliminare i cattolici. E quindi
vivere qui in India da prete vuol dire
tanto. Inoltre diventare prete sale-
siano in India vuol dire donarsi alla
gente, ovunque e
sempre. Come ha
fatto don Tom
Uzhunnalil.
Quali sono le prospettive
future della Chiesa
e della Congregazione
nel tuo stato?
In Kerala, c’è un ambiente abba-
stanza sereno per quanto riguarda la
convivenza multi religiosa. Ogni re-
ligione sta vivendo momenti di rivi-
talizzazione.
Finché ci sono giovani, come Con-
gregazione avremo lavoro da fare.
L’animazione giovanile non è più
una cosa solo salesiana: ci sono al-
tre congregazioni e laici che lavora-
no forse di più in questo campo. Io
credo che ci vogliano più creatività
e novità nell’animazio-
ne giovanile. Io credo
che la Congregazione
e la chiesa in Kerala
devono vedere i segni
dei tempi e lavorare di
più per le periferie, proprio come ci
chiede il Santo Padre. Anche la ri-
flessione teologica e filosofica devo-
no avere più visibilità.
Febbraio 2018
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3.6 Page 26

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A TU PER TU
Quali sono le esperienze
più belle che hai fatto?
Sono molte. Le tengo in memoria
per ricaricarmi. Una delle più bel-
le è quando ho fatto i voti perpetui
nel campo di calcio dell’oratorio di
Firenze, con una Santa Messa del
tutto speciale. Anche se non avevo
nessuno dei miei parenti. Lì attorno
c’erano i miei ragazzi e gli animato-
ri che mi hanno fatto sentire quan-
to sia stupendo donare tutta la vita
al Signore. Ricordo quando facevo
parte dell’ufficio stampa della a
Torvergata (Roma), per la Giornata
Mondiale della Gioventù. Era me-
raviglioso lavorare con quei giovani
di varie parti del mondo. Un’altra era
la prima volta che ho visto uno dei
miei libri uscire alla luce. Quello era
l’inizio di una serie di volumi sulla
vita spirituale e animazione vocazio-
nale. E poi l’inaugurazione dell’Ac-
cademia di musica e danza a Kochi.
E anche l’esperienza che sto viven-
do ora, quella di essere il Segretario
del Comitato per le Vocazioni della
Conferenza Episcopale del Kerala
che comprende 31 diocesi.
Chi sono i tuoi “clienti”
quotidiani?
I miei “clienti” sono di due tipi. Pri-
ma di tutto, i ragazzi e le ragazze del
college con cui lavoro. Faccio l’eco-
nomo e il vice-preside. E poi sono i
religiosi che appartengono a varie
congregazioni che devono rettificare
o mantenere i certificati per il recluta-
mento dei candidati per le vocazioni,
un organismo che abbiamo avviato
per evitare che ci siano falsi promoto-
ri vocazionali che catturano i ragazzi
per altri motivi.
Trovi delle difficoltà?
Ogni tanto è difficile convincere i ve-
scovi e i religiosi del dovere di lavo-
rare insieme per un progetto comune.
Per quanto riguarda il college... ogni
giorno porta con sé novità da “supe-
rare”.
Qual è il tuo sogno
per il futuro?
Sogno? Grazie alla mia fantasia ab-
bondante, ho molti sogni. Quello più
forte è quando ci saranno dei giorni
nei quali potrò insegnare a ragazzi di
vari paesi come lavorare assieme oltre
le differenze politiche, religiose, cul-
turali. Mi sono arricchito molto con
le mie esperienze in Italia e altrove. Il
mio sogno è di essere sempre aperto
alle novità che il Signore mi mande-
rà. E far fiorire il bene in abbondanza
ovunque la vita mi porterà.
«Essere salesiano mi permette di comunicare
ai giovani il Vangelo con la musica, la danza
e il teatro. Voglio usare questi mezzi per la
proclamazione del Regno. Diventare santi
per me è essere felici come dice don Bosco
e fare il massimo del bene alle persone».
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3.7 Page 27

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LA RICETTA SALESIANA
B.F.
I 6 ingredienti fondamentali
per formare un “uomo”
Tutti si propongono di “fare qualcosa per la famiglia e per l’educazione”, pochi
indicano obiettivi concreti per i genitori e gli educatori. Ci proviamo con questa
umile rubrica che proporrà sei obiettivi essenziali (uno per puntata: La saggezza,
Il coraggio, L’amore, La giustizia, La temperanza, La trascendenza), a loro volta
suddivisi in altre ventiquattro “potenzialità”, da educare.
1 La Saggezza
L a Saggezza è scoprire il senso
di tutto, riconoscere la real-
tà che siamo e quella che ci
circonda. È guardarsi in uno
specchio assolutamente since-
ro: «Io sono così, questa è la
mia famiglia, questo è il mio quartie-
re, questi sono i miei amici. E questo
è il mio punto di partenza».
Di tutte le opinioni che ognuno pos-
siede, la più importante è quella che
abbiamo di noi stessi. Gli educatori
devono prestare un’attenzione parti-
colare a ciò che i ragazzi pensano di
sé. Il giudizio che elaboriamo su noi
stessi è decisivo per avere nella vita
felicità e successo.
La strategia dei tre cappelli
Walt Disney diceva: «Se puoi so-
gnarlo, puoi farlo». Il padre dei car-
toon ha fondato un impero econo-
mico sulla strategia dei tre cappelli.
Sapeva indossare quello del sognatore
per trovare ispirazione, passava poi a
quello del realista per ragionare con
i piedi ben poggiati a terra e infine
metteva il cappello del critico per tro-
vare ogni possibile obiezione ai suoi
progetti. E davanti a ogni ostacolo
che incontrava, ricominciava a so-
gnare per trovare una possibilità al-
ternativa.
Il secondo e il terzo cappello sono
possibili quasi solo con l’accompa-
gnamento leale e affettuoso di un
adulto.
Gli educatori devono quindi poten-
ziare alcune qualità già presenti nei
ragazzi come la creatività e la curio-
sità: la voglia di sperimentare, inven-
tare, scoprire, avere molti interessi e
tendere a fare nuove esperienze. L’a-
dulto però sa aggiungere il “tocco”
dell’apertura mentale, la capacità di
saper cambiare idea quando ci si ac-
corge di stare sbagliando.
È naturale che i bambini molto piccoli
siano sempre affidati alla responsabili-
tà di un adulto, ma appena comincia-
no a crescere, vanno abituati a rico-
noscere le situazioni di vero pericolo,
perché non si possono controllare in
ogni momento, e per tutta la vita.
Un’assennata integrazione di pruden-
za e d’incoraggiamento a confidare
nel proprio istinto quando intuiscono
un’emergenza, insieme all’esortazione
a sperimentare il nuovo, aiuteranno i
figli a crescere “saggi”. In caso con-
trario, diventeranno ragazzi pavidi,
incapaci di valutare da soli che cosa è
pericoloso e che cosa non lo è.
Vitale è potenziare l’amore per l’ap-
prendimento. È il piacere di studiare
e imparare cose nuove. Si impara solo
per la via del piacere e con la magni-
fica qualità della lungimiranza. È la
capacità della “visione”: riuscire a ve-
dere la meta, il traguardo a cui si vuo-
le arrivare.
Uno dei più geniali pensatori e filo-
sofi di tutti i tempi, Goethe, ha dato
un ottimo consiglio agli educato-
ri: «Tratta gli uomini per quello che
sono, rimarranno tali e quali. Trattali
come se fossero quello che potrebbero
essere e li aiuterai a sviluppare tutte le
loro potenzialità».
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3.8 Page 28

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FMA
EMILIA DI MASSIMO
Storie dell’altro mondo
I Mapuche o Araucani
sono gli ultimi discendenti
di un grande popolo.
A loro don Bosco
aveva mandato i primi
missionari. Sono confinati
in zone aspre e difficili,
isolati, con poche
possibilità di progredire.
Una comunità di Figlie di
Maria Ausiliatrice
ha scelto di vivere
in mezzo a loro.
Figli della terra
«La madre terra deve essere difesa dai
suoi figli, noi Mapuche siamo i figli
della terra, questo l’hanno compreso
i nostri antenati perché tutto è fatto
della stessa materia: le montagne, i
fiumi, le stelle, le persone, le pietre e
il grande spirito».
Tale affermazione può essere il punto
di riferimento per comprendere chi
sono i Mapuche, letteralmente fi-
gli della terra, popolo originario che
occupa il centro-sud dell’Argenti-
na e del Cile. La comunità “Rangui
Huenu Ñuke” (“La Madre del cielo è
tra noi”) è una delle tante comunità
“mapuche” della Patagonia argentina,
si trova a Ruca Choroy, in provincia
del Neuquén. Suor Julia Bracamonte,
direttrice della comunità, ci racconta
brani di vita e di missione.
«In comunità siamo in tre: una suora
argentina e due missionarie, una spa-
gnola e una polacca; all’inizio ci sia-
mo conosciute tra noi e ci siamo fatte
conoscere dalla gente appartenente
alla comunità mapuche: un’esperienza
comunitaria e missionaria di grande
novità per ciascuna di noi! La co-
munità locale di Ruca è costituita da
1500 persone, tutti mapuche, solo noi
e i guardaboschi siamo gli “estranei”
(o “huincas”: nel linguaggio mapuche
significa “bianchi”). La popolazione
è costituita perlopiù da nuove e gio-
vanissime famiglie. I giovani presenti
rientrano in città dopo aver fatto espe-
rienza di lavoro o studio in altri cen-
tri urbani e desiderano formarsi una
famiglia, lavorare in campagna, vivere
la vita sociale. La nostra missione edu-
cativa pone una particolare attenzione
alle famiglie, cerca di accompagnarle
nel loro percorso e, quando ci sono
problemi economici, cerchiamo di aiu-
tare con microcrediti e microfinanze,
ma è difficile sia per la mancanza di
benefattori sia perché non c’è la pos-
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Febbraio 2018

3.9 Page 29

▲back to top
sibilità di proporre progetti, inoltre ci
vorrebbero più persone disposte ad ac-
compagnare le famiglie.
Sale in missione
Una volta al mese, Aluminé, missiona-
rio polacco, partecipa all’incontro “sale
in missione” per amministrare i sacra-
menti e celebrare l’Eucaristia. Questi
incontri, gradatamente, hanno fatto sì
che si sia formata una rete costituita
dai rappresentanti di vari settori, tra
cui la massima autorità della comuni-
tà mapuche locale e delle diverse isti-
tuzioni che lavorano nella comunità
di Ruca Choroy. L’idea di formare la
rete è nata dalla necessità di affrontare
insieme le diverse problematiche pre-
senti sul territorio, di contribuire alla
formazione dei giovani, dei bambini e
degli adulti. Pertanto si preparano in-
contri, piccoli laboratori di riflessione
sulla violenza di genere, l’alcolismo (un
grave problema), la prevenzione, l’edu-
cazione all’affettività. Ogni anno, d’e-
state, viene ad incontrare la comunità
mapuche un gruppo di giovani missio-
nari; dal 2016 si è aperta la possibilità,
per un gruppo di giovani della scuola
secondaria di secondo grado di Junín
de los Andes, di vivere un’esperienza
di servizio e di visita alle famiglie, e
la stessa opportunità è stata data ai
volontari del
(Volontariato In-
ternazionale Donna Educazione Svi-
luppo) dell’Argentina.
Tutti in onda
Mediante un progetto internazionale,
la missione da qualche anno ha una
radio, portata avanti dalle Figlie di
Maria Ausiliatrice, ma i programmi
vengono pensati anche con i giovani
ed i laici. I gruppi missionari hanno la
possibilità di mettersi in contatto con
le famiglie attraverso la radio, che di-
venta un bellissimo strumento non sol-
tanto per informare ma anche per for-
mare, promuovere la propria cultura,
evangelizzare. La radio trasmette ogni
giorno ed è diventata, lungo gli anni,
una radio molto popolare. Il palinse-
sto è così organizzato: di mattina si
offrono informazioni d’interesse
generale; la domenica mattina
una delle suore presenta un
programma dedicato alla con-
divisione della Parola di Dio.
Segue un programma condot-
to da tre giovani che mandano
in onda musica, trattano temi
sociali e cultura mapuche. Di
sera, un programma ecume-
nico al quale si partecipa con
i diversi pastori della Chiesa
evangelica della zona e con altri
loro appartenenti. Il mercoledì, il
giovedì ed il venerdì, si trasmet-
tono notizie utili. Per esempio, un
programma fatto dalla Commissione
Direttiva della comunità, che informa
su tutto quello che si riferisce alla vita
comunitaria e che comprende anche
un tempo di dialogo e un programma
riguardante la salute, con due operatori
sanitari che offrono informazioni ge-
nerali e specifiche, con gli ascoltatori
che hanno la possibilità di mettersi in
dialogo. Tale programma mira anche
a fare prevenzione contro l’alcolismo.
Due giovani presentano un program-
ma d’intrattenimento e trasmettono la
musica che la gente chiede e desidera;
gli ascoltatori possono inviare messag-
gi e dedicare canzoni.
La nostra vita in missione, conclude
sorridendo suor Julia, è portata avan-
ti da una piccola comunità, ma nella
quale c’è sempre spazio per tutti, per
la comunità mapuche come per i mis-
sionari e per i volontari che desidera-
no regalare un po’ di tempo della loro
vita».
Una piccola mapuche.
«La comunità locale di
Ruca è costituita
da 1500 persone,
tutti mapuches, solo
noi e i guardaboschi
siamo gli “estranei”»
dice suor Julia.
Febbraio 2018
29

3.10 Page 30

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I NOSTRI EROI
PETER KUBINYI
Traduzione di Marisa Patarino
Un sorriso
nell’impero del ghiaccio
«Avevo un fratello maggiore che morì a sette mesi,
due anni prima che io nascessi. I miei genitori
pensarono che, se avessero avuto un altro figlio,
sarebbe diventato sacerdote. Lo seppi solo sei mesi
dopo la mia ordinazione sacerdotale. All’epoca
avevo già 35 anni» racconta don Jozef Toth,
missionario salesiano in uno dei più remoti
e inospitali angoli del mondo.
Siberia, al centro della Re-
pubblica di Sacha, nella zona
corrispondente all’ex Yakutia.
Mosca dista 7000 chilome-
tri, Magadan circa 1000. Al
di là di questa terra si trova il
mare di Ochotsk. Ad alcune migliaia
di chilometri di distanza c’è l’Atlanti-
co settentrionale. Nel mezzo si trova
solo la taiga, che procedendo verso il
nord sfuma nella tundra. La città di
Aldan è immersa in questo paesag-
gio. Di notte il cielo è disseminato di
stelle, la neve crepita sotto le scarpe.
Intorno c’è un silenzio sconfinato.
Qui vive don Jozef Toth. Vive per
gli altri, per aiutare gli altri. Non si
aspetta un compenso, un riconosci-
mento. Vive così perché crede che sia
giusto.
Con il suo cappello di pelliccia tipi-
camente russo e la giacca a vento, e
con il particolare senso dell’umorismo
che lo contraddistingue, somiglia più
a una varietà siberiana delle suore dei
film con Louis de Funès che a un ex
tecnico della sicurezza ferroviaria di
Bratislava. Nel 1976 Jozef si è laurea-
to presso l’Università dei Trasporti di
Zilina, in Slovacchia, e ha comincia-
to a svolgere il suo primo lavoro. Nel
1979 decise di diventare sacerdote
salesiano, ma ufficialmente questo
non era possibile. Nel 1981 fu inca-
ricato di svolgere un incarico tecnico-
ispettivo presso l’azienda Elektrovod
di Senec, una città della Slovacchia e
vide in questo avvenimento un pro-
getto di Dio. In questa città si trovava
infatti una struttura che, in segreto,
curava la formazione di alcuni can-
didati al sacerdozio. Cinque o sei
altri aspiranti sacerdoti seguirono il
suo stesso percorso. Sostenevano gli
esami seduti su una panchina in un
parco. Neppure sua madre sapeva che
Jozef sarebbe diventato sacerdote.
Nel 1988 Jozef Toth fu ordinato sa-
cerdote in segreto. «Un sogno di mia
madre diventava realtà», ricorda don
Jozef. «Avevo un fratello maggiore che
morì a sette mesi, due anni prima che
io nascessi. I miei genitori pensarono
che, se avessero avuto un altro figlio,
30
Febbraio 2018

4 Pages 31-40

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sarebbe diventato sacerdote. Non
hanno però deciso per me; mi hanno
permesso di scegliere liberamente e
solo sei mesi dopo la mia ordinazione
sacerdotale sono venuto a conoscenza
di quel loro desiderio espresso prima
ancora che io nascessi. All’epoca avevo
già 35 anni». Don Jozef lavorò ancora
per un anno nel settore dell’energia,
poi i regimi dell’Est europeo crollaro-
no e la Russia aprì le porte alle missio-
ni cristiane. Nel 1991 don Jozef arrivò
ad Aldan per la prima volta. Un anno
dopo si impegnò a svolgere qui la sua
opera missionaria per un periodo in-
determinato. Vi rimase per sette anni.
«Come mai sei missionario?» gli
chiediamo. «Già nella formazione
iniziale come Salesiano, grazie a don
Sutka, un missionario slovacco in
Ecuador, sentii una forte attrazione
per la proclamazione del Vangelo ad
altre nazioni. Questa vocazione si è
rinforzata attraverso i film missionari
e le lettere dall’Africa da parte di don
Pravda. È stato un desiderio crescente
di condividere la fede con altri popoli
e culture».
«E perché in Siberia?». «Nel 1991 don
Pravda fece una visita di esplorazio-
ne missionaria in Yakutia; io ne ero
entusiasta e l’Ispettore di allora, don
Kaiser, mi chiese di accompagnarlo
in tale viaggio in Russia, da settem-
bre a novembre. Mentre eravamo a
Novosibirsk, ci fu detto che ad Aldan
c’era bisogno di insegnare religione
nelle scuole pubbliche e nei villaggi.
A quel tempo non c’erano nemmeno
i missionari ortodossi. Aldan è una
piccola città di 16 000 abitanti, ma
tutti furono aperti e disponibili con
noi. Dopo tutte le opportune valuta-
zioni, il Rettor Maggiore, don Egidio
Viganò diede l’assenso».
«I momenti più belli vissuti in Yaku-
tia?». «Dopo la messa organizziamo
un momento di dialogo amichevole
con i nostri parrocchiani e parliamo
liberamente del nostro lavoro mis-
sionario. Negli anni ’90 l’effetto fu
incredibile. Due donne cattoliche ci
dissero una volta: “Senza la fede, la
fede cattolica, la nostra vita sareb-
be diversa. Abbiamo un senso della
vita, una visione diversa della vita,
un rapporto familiare con i nostri
vicini. Il vostro ‘stare insieme a noi’
nella nostra stessa vita, dura, con le
condizioni meteorologiche della Si-
beria, è un segno importante”. Ap-
prezzavano il significato della nostra
vita missionaria».
«E i momenti più duri?». «Ne abbiamo
fronteggiati molti, come quando nel
1998 un’animatrice di 13 anni morì
all’oratorio a causa di un interven-
to medico tardivo. Nella nostra vita
quotidiana, invece, non sperimento
grosse difficoltà, accetto l’ambiente
così com’è. Certo, anche il confronto
pastorale tra i primi dieci anni (1992-
2001) e una certa stagnazione nel pe-
riodo successivo al 2002, è arduo. Ma
dal 2011 la situazione sta migliorando
e ora siamo sulla buona strada».
Come marionette
Forse il suo lavoro principale non era
quello di tecnico. Gli è stato affidato
un incarico più ampio da svolgere sulla
terra: essere un “uomo buono”. E don
Jozef lo adempie in tanti ambienti.
Nel dispensario psico-neurologico del
villaggio di Lebedenyj c’erano 120 po-
sti letto, ora ridotti a 45: 20 per alcolisti,
gli altri per tossicodipendenti. Il trat-
tamento dura 20 giorni; i pazienti non
possono essere ricoverati per tempi più
A pagina precedente e accanto: Don Toth con i
suoi piccoli amici. Dice la gente: «Il vostro “stare
insieme a noi”, condividendo la nostra stessa
vita, dura, con le condizioni meteorologiche
della Siberia, è un segno importante».
Febbraio 2018
31

4.2 Page 32

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I NOSTRI EROI
cristianesimo? Prima del regime co-
munista, la Chiesa numericamente più
presente era quella ortodossa. Dopo 70
anni di regime, che vietava la profes-
sione di qualunque religione, tanti si
sono posti domande di questo tenore:
«Il comunismo non esiste più, io non
credo in Dio, perché sono qui?».
I cattolici sono pochi e isolati. I missionari
sono molto amati anche dagli anziani.
lunghi. Ovviamente, questo intervallo
di tempo è troppo breve e per la regio-
ne in cui si trova Aldan la struttura è
insufficiente. Negli ultimi cinque anni
il numero di abitanti si è notevolmente
ridotto, ma da tre anni a questa parte
l’alcolismo qui costituisce un proble-
ma più grave rispetto a quanto accada
nel resto della Federazione Russa. La
situazione è problematica soprattutto
d’inverno. Le giornate sono in gran
parte buie e deprimenti. Tanti stanno
a casa e bevono. Nei mesi estivi i bam-
bini provenienti da famiglie a rischio
vengono accolti in un ambiente diver-
so. Questo aspetto richiede grande at-
tenzione. È importante che i bambini
comprendano che esiste uno stile di
vita differente rispetto a quello che
vedono a casa. Gli abitanti di questa
regione corrono ancora più rischi rela-
tivamente al problema dell’alcolismo.
Bevono come i russi, ma il loro patri-
monio genetico è diverso. Nei corridoi
di questa struttura ospedaliera sembra
dunque di vedere marionette che va-
gano reggendosi a malapena. Qual-
cuno li disprezza. E don Jozef? Più
di una volta è stato visto accanto a un
uomo che era tornato a casa ubriaco,
magari dopo essere caduto nella neve
e lasciando temere di aver subito un
principio di congelamento alle mani.
Chissà se potrà di nuovo muovere le
dita? Don Jozef massaggia le mani e
ascolta in silenzio. Non esprime rim-
proveri, non chiede all’uomo perché
beva. Sa che ogni alcolista riesce a
trovare mille scuse. L’uomo che ha di
fronte crede in lui. È evidente. Forse
è insolito addirittura il semplice fat-
to che qualcuno lo ascolti. Qualcuno
sempre pronto a prestare ascolto alla
sofferenza umana. Don Jozef ha rice-
vuto il dono di riuscirci e lo condivide
con generosità. Diventare missionario
solo seguendo la ragione sarebbe dif-
ficile.
Qual è l’atteggiamento degli abitan-
ti di questa regione nei confronti del
Bambini e anziani
Subito dopo la fine del regime, ol-
tre cento denominazioni religiose,
compresa la Chiesa cattolica, hanno
chiesto di essere registrate. In epoca
zarista a Vladivostok c’era un episco-
pato cattolico e Irkutsk ospitava una
grande chiesa cattolica, oggi utiliz-
zata come sala da concerto. A Bla-
goveshchensk una chiesa cattolica è
stata utilizzata dai fedeli ortodossi.
Nella parte più orientale dell’allora
Unione Sovietica e in Siberia erano
arrivati milioni di prigionieri e nella
sola zona di Aldan vivono persone di
116 nazionalità diverse, tra cui vari
Slovacchi. I Salesiani della missione
locale cercano di proporre una scelta
ai cattolici.
Peter Bicak, uno dei Salesiani di don
Bosco che vivono ad Aldan, è in Rus-
sia dal 2000. Ha illustrato alcune si-
tuazioni con cui la Comunità deve
confrontarsi. «Quando sono arrivato,
pensavo di avere una buona conoscen-
za di questo paese, ma ho scoperto
che non era così. Persino il russo che
ho imparato a scuola sembrava diverso
dalla lingua che si parla qui. Ho anche
cambiato l’opinione che avevo sull’aiu-
to umanitario. Se ci limitiamo a offrire
qualcosa a qualcuno non lo aiutiamo:
eliminiamo soltanto un problema. Un
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Febbraio 2018

4.3 Page 33

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esempio? Vari nonni avevano in custo-
dia i nipoti, ma bevevano. Li abbiamo
aiutati offrendo loro generi alimentari
e abiti. Più li sostenevamo in questo
modo, più denaro avevano a disposi-
zione per gli alcolici. È meglio pagare i
pasti dei bambini alla mensa scolastica.
È anche utile aiutare chi è disponibile
a impegnarsi per migliorare la propria
situazione, com’è accaduto nel caso di
alcune persone diversamente abili del
piccolo villaggio di Chatystyr. Voleva-
no aprire un laboratorio per comincia-
re a realizzare abiti. Avevano bisogno
di denaro per avviare questa attività.
Abbiamo acquistato tessuti per loro e
ci hanno promesso che ci restituiran-
no il denaro che abbiamo speso. I russi
hanno sofferto molto al tempo del re-
gime comunista, che li ha segnati, ma
hanno buon cuore».
Nella missione di Aldan, i Salesia-
ni accolgono i bambini che dopo la
scuola non avrebbero un posto in cui
incontrarsi. Si riuniscono nell’orato-
rio, un grande ambiente in cui i Sale-
siani prestano la loro opera educativa.
Qui i bambini possono giocare a ten-
nis da tavolo e, insieme ai sacerdoti
e ai volontari Viktor Baltes e Anton
Hronec, cantano, parlano...
«Sono utili i volontari?» «I nostri volon-
tari sono apprezzati per il loro impegno
pratico e soprattutto come animatori
d’oratorio. Spendono molto tempo con
bambini e giovani e sono molto effica-
ci nella nostra missione, attraverso la
musica, l’aiuto quotidiano, i lavori nei
gruppi e la catechesi in russo».
I missionari sono amati anche dagli
anziani. Danuta Voronina dopo quasi
60 anni è tornata alla Chiesa Cattoli-
ca. Le sue gambe però non presentano
la stessa efficienza di allora. È troppo
debole per andare a Messa ogni gior-
no, come vorrebbe. Don Jozef si reca a
casa sua. Porta in una piccola borsa di
plastica un calice e i paramenti sacri.
Dopo la comunione, Danuta dispone
sul tavolo, che era appena servito da
altare, tè caldo, biscotti e marmellata
di frutti siberiani. I suoi parenti vivono
in Lituania, a migliaia di chilometri
di distanza. Ha solo don Jozef. Gli ha
parlato molto della sua vita, probabil-
mente più di quanto avesse fatto con
sua madre. Gli confida le difficoltà
della solitudine, dei suoi sogni infran-
ti, della sofferenza umana.
E don Jozef la aiuta a portare la sua
croce.
Il missionario è qualcuno sempre pronto
a prestare ascolto alla sofferenza umana.
Don Jozef ha ricevuto il dono di riuscirci
e lo condivide con generosità.
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33

4.4 Page 34

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COME DON BOSCO
PINO PELLEGRINO
IL SALVATAGGIO
Siamo una società al capolinea; una società che si sta suicidando? Non vogliamo
crederlo: l’uomo è programmato per togliersi d’impaccio. Resta, comunque, il fatto
che la barca del mondo naviga in acque agitate come mai. Ha bisogno di sostegno
per evitare il naufragio. A offrire tale sostegno mira la nostra proposta mensile.
2
Salviamo il contatto visivo
Amarsi con gli occhi
Uno dei segni della fretta
che condiziona le persone
del nostro tempo è
l’incapacità crescente di
comunicare con gli occhi.
I contatti tra le persone si
sono moltiplicati: internet,
e-mail, telefonino...
E ci stiamo dimenticando
del contatto più semplice:
il contatto visivo.
In famiglia, scompaiono le occa-
sioni che consentivano alle per-
sone di “guardarsi”. Una statistica
afferma che il tempo medio che
un genitore trascorre con un figlio
adolescente è attualmente stima-
bile in 12 minuti al giorno. Anche il
pasto della sera non è più consumato
insieme, per le troppe attività in cui
ciascuno è impegnato e i diversi gusti
televisivi. Dei 12 minuti, almeno 10
vengono impiegati per dare istruzio-
ni o verificare l’esecuzione di quelle
impartite il giorno precedente, gli al-
tri minuti si esauriscono in questioni
poco significative.
«Signore, fammi diventare
uno smartphone»
È così che diventa realmente possibile
la preghiera ormai classica: «Signore,
fammi diventare uno smartphone,
così la mia mamma e il mio papà mi
guarderanno un po’ di più».
La comunicazione digitale, vale a dire
la connessione tramite il cellulare, il
tablet, lo smartphone, è uno dei più
grandi successi della mente umana.
Su questo non vi possono essere dub-
bi. I vantaggi del ‘digitale’ sono sotto
gli occhi di tutti. La comunicazione
digitale permette d’essere connessi
con il mondo intero in tempo reale,
offre conoscenze pressoché infinite,
rende più facile la vita.
Però va subito aggiunto che il mondo
del web nasconde insidie molto peri-
colose. Una di queste è l’indebolimen-
to del contatto visivo. I ‘connessi’ non
sentono la vibrazione dello stare vicini,
del guardarsi negli occhi. Si è scoperto
che i ragazzi che usano costantemente
il cellulare non arrossiscono più e han-
no difficoltà a fissarsi negli occhi.
La cosa è molto seria. Il contatto visi-
vo, infatti è una della più potenti vie
di comunicazione.
Le persone hanno bisogno di essere
guardate. A che cosa servono le tante
cure al vestito, al look, al corpo se non
per attirare l’attenzione e lo sguardo
degli altri? Anche il piercing, i ta-
tuaggi e le spesso sconcertanti origi-
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4.5 Page 35

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nalità degli adolescenti sono l’inquie-
tante invocazione: «Guardatemi!».
Don Bosco ha sintetizzato uno dei
cardini del suo sistema educativo con
le parole «Sentano sempre su sé lo
sguardo dei superiori». Non intende
certo una sorveglianza di tipo poli-
ziesco, ma il modo di guardare che
comunica: «Tu mi interessi davvero.
Meriti tutta la mia attenzione».
Il contatto visivo
è essenziale
Il bambino utilizza il contatto visi-
vo con i genitori per nutrirsi emoti-
vamente. Con gli occhi si comunica
amore. Lo sanno bene gli innamorati.
Tutti sentono la profonda emotività
della frase «Mangiarsi con gli occhi».
Anche l’evangelista Marco nell’episo-
dio dell’incontro tra Gesù e il giova-
ne ricco, afferma: «Gesù, fissatolo, lo
amò…».
Lo sguardo comunica attenzione,
interesse, intimità, approvazione, tri-
stezza, rimprovero.
Ormai è provato: lo sguardo caldo e
incoraggiante dell’insegnante aumen-
ta l’impegno dell’alunno, lo aiuta a
capire meglio ciò che gli viene detto.
Così pure è certo che i bambini me-
morizzano meglio le fiabe se vengono
raccontate guardandoli negli occhi.
Occhi buoni, occhi cattivi
Non è detto, però, che ogni contatto
visivo sia automaticamente utile.
Vi sono occhi pedagogicamente sba-
gliati e occhi buoni.
Occhio sbagliato è, ad esempio, l’oc-
chio poliziesco dei genitori che con-
trollano ogni mossa del figlio, lo
asfissiano tutto il giorno, gli soffiano
continuamente sul collo, gli raziona-
no i metri di libertà. L’occhio polizie-
sco può fare un figlio disciplinato, ma
non un figlio educato!
Resta valido il proverbio: “Mai la ca-
tena ha fatto buon cane”.
Un secondo tipo di occhio sbagliato
è l’occhio minaccioso, fulminante.
“Guardami negli occhi!”, urlano al-
cuni genitori che si dimenticano che
la paura non ha mai educato nessuno!
Terzo tipo di occhio sbagliato (il peg-
giore tra tutti) è l’occhio indifferente.
L’indifferenza è sempre insopportabi-
le al figlio: gli gela l’anima, gli fa per-
dere la voglia d’essere al mondo.
Passiamo agli occhi buoni.
È buono l’occhio generoso che vede
nel figlio ciò che nessuno vede.
Buono è l’occhio incoraggiante.
Buono è l’occhio caldo, accogliente
che ti avvolge come un manto ripieno
d’amore e di empatia.
Un contatto visivo con tali caratteri
ha più valenza pedagogica di tutti i
milioni di contatti digitali del mondo
messi insieme.
Non sentire mai uno sguardo di au-
tentica amorosa attenzione da parte
della mamma e soprattutto del papà è
per un ragazzo una ferita mortifican-
te e una spinta alla ribellione.
È un’abitudine di esito dubbio an-
che quella di evitare il contatto visi-
vo come forma di punizione. Per un
bambino è più difficile da sopportare
che una punizione fisica. Significa
“abbandono” e disinteresse in un cru-
dele senso affettivo. Lo sguardo serve
soprattutto a veicolare amore.
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4.6 Page 36

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LA LINEA D’OMBRA
ALESSANDRA MASTRODONATO
Oltre la crisi
Al di là delle tante implicazioni
negative che siamo abituati ad associare
alla “crisi”, il significato originario
della parola “Krísis” reca in sé
anche una sfumatura positiva: quella
di un momento decisivo di scelta, di svolta
in un percorso che è giunto ad un bivio.
L a “generazione della crisi”. È così che, alle
soglie del terzo millennio, vengono spesso
definiti i giovani adulti, prigionieri di una
precarietà – lavorativa, affettiva, esisten-
ziale – che, a volte, non sembra lasciare
alcuna via di scampo. Una crisi che, con-
Ti riconosco dai capelli, crespi come cipressi,
da come cammini, come ti vesti,
dagli occhi spalancati come i libri di fumetti che leggi,
da come pensi che hai più difetti che pregi...
Le spalle curve per il peso delle aspettative,
come le portassi nelle buste della spesa all’Iper...
E ti ripari dall’imbarazzo che sta piovendo addosso,
con un sorriso che allarghi come un ombrello rotto...
Sguardo basso, cerchi il motivo per un altro passo,
ma dietro c’è l’uncino e davanti lo squalo bianco.
E ti fai solitario quando tutti fanno branco,
ti senti libero, ma intanto ti stai ancorando...
La vita è un cinema tanto che taci,
le tue bottiglie non hanno messaggi.
Chi dice che il mondo è meraviglioso
non ha visto quello che ti stai creando per restarci.
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4.7 Page 37

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traddicendo la sua stessa natura di momento acuto
ma contingente di perturbazione dell’ordinario, è
ormai divenuta una cifra strutturale del presente,
un elemento costitutivo del loro orizzonte di sen-
so, fino a farsi ferita profonda e incancrenita nella
loro stessa identità. Una crisi che, lungi dal poter
essere circoscritta al sistema economico, sociale o
valoriale, diviene parte integrante del loro essere
nel mondo, condizione esistenziale che paralizza
e ammutolisce, risucchiando in un grande buco
nero ogni progetto o speranza e persino il senso
del futuro.
Succede così che, come in una profezia che si
autoavvera, molti giovani finiscono per rileggere
la propria intera biografia alla luce del paradig-
ma deprimente della crisi, lasciando che sia esso
ad orientare le loro scelte, a deviare i loro piani,
a rimodulare le loro aspettative e la loro stessa
percezione delle proprie risorse e capacità. So-
prattutto, la crisi diviene un potente deterrente
rispetto alla possibilità di investire su se stessi e
sui propri sogni, alimentando il virus corrosivo
della rassegnazione e generando la strisciante
sensazione di non essere all’altezza, di non avere
gli strumenti per orientarsi consapevolmente nel
tortuoso labirinto della vita, al punto da spin-
gerli a preferire la comoda via della rinuncia al
sentiero in salita della perseveranza. Una rinun-
cia che, non di rado, si traduce anche in chiu-
sura, autoreferenzialità, incapacità di uscire dal
proprio isolamento e condividere con gli altri le
proprie paure e fragilità.
Quale, dunque, l’antidoto per spezzare questo
circolo vizioso di frustrazione, scoraggiamento
e solitudine? Forse sarebbe sufficiente ricordarsi
che, al di là delle tante implicazioni negative
che siamo abituati ad associare alla “crisi”, il
significato originario della parola “Krísis” reca
in sé anche una sfumatura positiva: quella di
un momento decisivo di scelta, di svolta in un
percorso che è giunto ad un bivio, di profondo
mutamento come esito di un processo di rifles-
Rimani zitto, niente pareri.
Il tuo soffitto: stelle e pianeti.
A capofitto nel tuo limbo, in preda ai pensieri,
procedi nel tuo labirinto senza pareti...
Noi siamo tali e quali,
facciamo viaggi astrali con i crani tra le mani,
abbiamo planetari tra le ossa parietali,
siamo la stessa cosa, mica siamo imparentati.
Tallone sinistro verso l’interno,
Caronte diritto verso l’inferno.
Lunghe corse, unghie morse, lune storte,
qualche notte svanita in un sonno incerto,
poi l’incendio...
Sono sopravvissuto al bosco ed ho battuto l’orco,
lasciami stare, fa’ uno sforzo e prenditi il cosmo.
E non aver paura che...
No! Non è vero
che non sei capace, che non c’è una chiave!
No! Non è vero
che non sei capace, che non c’è una chiave!
Una chiave! Una chiave!
(Caparezza, Una chiave, 2017)
sione e discernimento che può trasformarsi nel
presupposto necessario per un miglioramento,
per una rinascita, per un prossimo rifiorire. La
crisi, dunque, come generatrice di cambiamen-
to, come occasione di revisione radicale delle
proprie certezze, come stimolo a mettersi in
discussione e a cercare strade nuove e percorsi
alternativi.
Probabilmente quel che serve ai giovani adul-
ti per invertire il senso di marcia della crisi è,
allora, trovare una “chiave” per leggere se stessi
e il mondo sotto un’altra prospettiva. Una chia-
ve di volta su cui costruire un’identità più solida
e consapevole, ma anche una chiave di accesso al
proprio cuore e alla propria interiorità che per-
metta loro di riscoprire in sé la bellezza e i ta-
lenti di cui ognuno è portatore. Una chiave che
spesso già conoscono e che ha solo bisogno di
essere “decodificata”.
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4.8 Page 38

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LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
FRANCESCO MOTTO
Un interessante Una lettera al pretore
della città di Torino del
18 aprile 1865 apre un
caso giudiziario interessante ed inedito
spiraglio sulla vita quotidiana
della Valdocco dell’epoca.
a Valdocco
Siamo forse abituati a pen-
sare che a Valdocco, con la
presenza di don Bosco, le
cose andassero sempre bene,
soprattutto negli anni cin-
quanta e primi anni sessanta
quando l’opera salesiana non si era
ancora diffusa e don Bosco viveva a
contatto diretto e costante con i ra-
gazzi. Invece successivamente, con
una grande massa eterogenea di gio-
vani, educatori, apprendisti artigiani,
giovani studenti, novizi, studenti di
filosofia e di teologia, allievi delle
scuole serali, lavoratori “esterni”, sa-
rebbero potute sorgere delle difficoltà
nella gestione disciplinare della co-
munità di Valdocco.
Un fatto piuttosto grave
Una lettera al pretore della città di
Torino del 18 aprile 1865 apre un in-
teressante ed inedito spiraglio sulla
vita quotidiana della Valdocco dell’e-
poca. La riproduciamo e poi la com-
mentiamo.
Al Signor Pretore Urbano
della città di Torino
Viste le citatorie da intimarsi al chierico
Mazzarello assistente nel laboratorio dei
legatori della casa detta Oratorio di San
Francesco di Sales; viste parimenti quel-
le da intimarsi ai giovani Parodi Federico,
Castelli Giovanni, Guglielmi Giuseppe e
consideratone attentamente il tenore il
sac. Bosco Gioanni direttore di questo
stabilimento nel desiderio di sciogliere la
questione con minori disturbi delle autorità
della pretura urbana crede di poter interve-
nire a nome di tutti nella causa relativa al
giovane Boglietti Carlo, pronto a dare a chi
che sia le più ampie soddisfazioni.
Prima di accennare il fatto in questione sembra opportuno di notare che l’articolo 650 del
codice penale sembra interamente estraneo all’oggetto di cui si tratta, imperciocché inter-
pretato nel senso preteso la pretura urbana si verrebbe ad introdurre nel regime domestico
delle famiglie, i genitori e chi ne fa le veci non potrebbero più correggere la propria figliuolan-
za neppure impedire un’insolenza ed un’insubordinazione, [cose] che tornerebbero a grave
danno della moralità pubblica e privata.
Inoltre per tenere in freno certi giovanetti per lo più inviati dall’autorità governativa, si ebbe
facoltà di usare tutti quei mezzi che si fossero giudicati opportuni, e in casi estremi di man-
dare il braccio della pubblica sicurezza siccome si è fatto più volte.
Venendo ora al fatto del Boglietti Carlo si deve con rincrescimento ma francamente asserire,
che egli fu più volte paternamente inutilmente avvisato; che egli si dimostrò non solo incor-
reggibile, ma insultò, minacciò ed imprecò il suo assistente, chierico Mazzarello in faccia
ai suoi compagni. Quell’assistente d’indole mitissima, e mansuetissima ne rimase talmente
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Febbraio 2018

4.9 Page 39

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spaventato, che d’allora in poi fu sempre ammalato senza aver mai più potuto ripigliare i suoi
doveri e vive tuttora da ammalato.
Dopo quel fatto il Boglietti fuggì dalla casa senza nulla dire ai suoi superiori a cui era indiriz-
zato e fece solamente palese la sua fuga per mezzo della sorella, quando seppe che si voleva
consegnare nelle mani della questura. La qual cosa non si fece per conservargli la propria
onoratezza.
Intanto si fa istanza affinché siano riparati i danni che l’assistente ha sofferto nell’onore e
nella persona almeno finché possa ripigliare le sue ordinarie occupazioni.
Che le spese di questa causa siano a conto di lui. Che né esso Boglietti Carlo, né il sig.
Caneparo Stefano suo parente o consigliere non vengano più nel mentovato stabilimento
a rinnovare gli atti d’insubordinazione e gli
scandali già altre volte cagionati.
[Sac. Gio Bosco]
difficili, problematici, con alle spalle
esperienze decisamente negative.
Ai giovanissimi educatori salesiani di
Valdocco era affidato l’arduo compito
di ri-educarli, autorizzati anche a far
ricorso a “tutti quei mezzi che si fos-
sero giudicati opportuni”. Quali? Di
certo il Sistema Preventivo di don Bo-
sco, di cui l’esperienza in atto da due
decenni a Valdocco dimostrava la va-
lidità. Ma alla prova dei fatti, “in casi
estremi”, per i giovani più incorreggi-
bili, si dovette ricorrere a quella stessa
forza pubblica che ve li aveva portati.
Che dire? Anzitutto che la lettera do-
cumenta come fra i giovani accolti a
Valdocco negli anni sessanta, quando
ormai erano stati aperti quasi tutti i la-
boratori per artigiani, spesso orfani, ve
ne erano alcuni inviati dalla pubblica
sicurezza. Dunque l’Oratorio non ac-
coglieva solo ragazzi come Domenico
Savio o Francesco Besucco o anche
Michele Magone, vale a dire degli
ottimi, dei buoni e dei giovani vivaci
ma di buon cuore, ma anche giovani
Nel caso in questione
Don Bosco, di fronte alla citazione in
giudizio di un suo giovane chierico
e di alcuni ragazzi dell’Oratorio, si
sente in dovere di intervenire diretta-
mente presso l’autorità costituita per
la difesa del suo giovane educatore,
per la salvaguardia dell’immagine po-
sitiva del suo Oratorio e per la tutela
della propria autorevolezza educativa.
Con estrema chiarezza indica al pre-
tore le possibili conseguenze negative,
per sé, per le famiglie e per la società
in genere, della rigida, ed a suo giudi-
zio ingiustificata, applicazione di un
articolo del codice penale.
Da ottimo avvocato, con una speri-
colata arringa giuridico-educativa,
don Bosco trasforma in tal modo la
sua difesa in accusa e l’accusatore in
imputato, al punto da fare immediata
istanza di indennizzo dei danni fisici
e morali causati al giovane assistente
Mazzarello, ammalatosi e costretto al
riposo forzato.
L’esito della vertenza
Non è dato conoscerlo, probabilmente
si concluse con un nulla di fatto. Ma
tutta la vicenda ci rivela una serie di
atteggiamenti e comportamenti non
solo poco conosciuti di don Bosco,
ma in qualche modo sempre attua-
li. Veniamo così a conoscere che pur
sotto gli occhi vigili di don Bosco il
Sistema Preventivo poté talora an-
dare incontro a degli insuccessi. Il
primo interesse da salvaguardare do-
veva sempre essere quello del singo-
lo giovane, ovviamente a condizione
che non entrasse in conflitto con il
superiore interesse di altri compagni.
Inoltre l’immagine positiva dell’o-
pera salesiana andava difesa anche
nelle opportune sedi giudiziali. Nel
qual caso saggiamente andavano però
messe in conto le possibili conseguen-
ze, onde non trovarsi di fronte a spia-
cevoli sorprese.
Fra i giovani accolti a Valdocco negli anni
sessanta, quando ormai erano stati aperti quasi
tutti i laboratori per artigiani, spesso orfani,
ve ne erano alcuni inviati dalla pubblica sicurezza.
Dunque l’Oratorio non accoglieva solo ragazzi
buoni e dei giovani vivaci ma di buon cuore,
ma anche giovani difficili, problematici,
con alle spalle esperienze decisamente negative.
Febbraio 2018
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4.10 Page 40

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I NOSTRI SANTI
CAECSUARRAE DBISPSIEORLLIUIGI CAMERONI postulatore generale - postulazione@sdb.org
Ringraziano
Nel mese di aprile 2016 mia so-
rella ha iniziato a soffrire di una
“piastrinopenia”, di cui non era
chiara la causa, che nel giro di
poco tempo l’ha portata ad una
conta piastrinica così bassa
da definire la sua vita in serio
pericolo. Il prelievo di midollo
osseo dalla cresta iliaca prima
e la biopsia dello stesso in una
seconda occasione esclusero
la presenza di cancro, ma non
chiarirono le cause del calo con-
tinuo delle piastrine anche dopo
giornaliere trasfusioni di sacche
di piastrine, fatte nell’ospedale
della mia città, che non porta-
vano a nessun miglioramento. Io
intanto avevo iniziato a pregare
Maria Ausiliatrice con la no-
vena e avevo posto in Lei ogni
fiducia per la sua guarigione.
Da settembre le piastrine han-
no raggiunto la quasi normalità,
anche se con alti e bassi, ad un
controllo erano 200 mila e io
all’inizio del mio pregare avevo
sognato che noi sorelle erava-
mo di nuovo serene con la conta
piastrinica salita proprio a que-
sto numero. È vero, mia sorella
ha intrapreso una nuova cura ma
io sono sicura che la sua stabi-
lizzazione è dovuta all’intervento
di Mamma Margherita e Maria
Ausiliatrice. Anche i medici, che
l’avevano considerata “refratta-
ria” alle cure sono ora contenti
e sollevati. Continuo a pregare
e aspetto il miracolo della sua
completa guarigione: “nulla sarà
lasciato a metà”.
P.D. - Chioggia
Per la pubblicazione non
si tiene conto delle lettere
non firmate e senza
recapito. Su richiesta
si potrà omettere
l’indicazione del nome.
Mio figlio all’età di 45 anni
si è trovato disoccupato. Per
due anni ha cercato un posto
di lavoro facendo conoscere il
suo curriculum, ma senza ave-
re nessuna risposta. Presentò
la sua richiesta di assunzione
ad una Cooperativa, ma con
scarsa fiducia di ottenere ri-
sposta positiva. Io allora, ben
conoscendo la beata Eusebia
Palomino, di cui mia cugina
suor Domenica Grassiano ha
scritto la biografia, mi sono ri-
volto con fede all’intercessione
di questa Beata, per ottenere a
mio figlio la grazia di essere as-
sunto al lavoro. Al sesto giorno
della novena mio figlio ha ri-
cevuto una comunicazione che
lo invitava ad un colloquio, in
vista dell’assunzione al lavoro.
L’incontro ha poi avuto un esi-
to soddisfacente. Con grande
gioia esprimo la mia gratitudine
a suor Eusebia Palomino
Peris Mario - Sciolze (TO)
Nel luglio del 2015 ho scoper-
to di essere incinta del mio se-
condo bambino. La gravidanza
procedeva bene ma nell’ottobre
dello stesso anno il ginecologo
si è accorto che il bambino po-
teva avere una grave malforma-
zione che gli avrebbe impedito
di nascere. Io e mio marito non
volevamo perdere nostro figlio
così ho richiesto l’abitino di san
Domenico Savio e ho recitato
tutti i giorni la novena. Dopo al-
cuni giorni abbiamo fatto di nuo-
vo un controllo approfondito dal
quale si è visto che il bambino
era sanissimo. Ho continuato a
recitare la novena e ad indossa-
re l’abitino durante tutta la gravi-
danza e il parto. Per questo io e
mio marito vogliamo ringraziare
con tutto il cuore san Domenico
Savio per la nascita del piccolo
Domenico che è un bambino vi-
spo e sano e che ci riempie di
gioia.
Stefania Maselli - Campobasso
Sono un’artista colombiana nata
a Cùcuta (Colombia), la città
dove visse e morì il beato Lui-
gi Variara. Anche per questo
nutro una grande stima e devo-
zione verso di lui. Dopo la mia
venuta in Italia dalla Colombia,
ho potuto conoscere la sua vita,
tramite le Figlie dei SS. Cuori di
Gesù e Maria, suore fondate da
questo beato e abitanti presso
la parrocchia “Santa Maria della
Speranza” in Roma, dove abito
attualmente. Con grande fidu-
cia per molti giorni gli chiesi la
grazia di ottenere il permesso
di soggiorno in Italia. Finalmen-
te l’11 novembre 2016 ottenni
dall’ufficio delle migrazioni la ri-
sposta positiva tanto sospirata; e
fu veramente soddisfacente, poi-
ché ottenni il massimo di quanto
potevano concedere. Subito ho
pensato al beato Luigi Variara,
che a me aveva concesso una
grande grazia.
Valencia Judith A. - Roma
Un anno fa è stato diagnosticato a
mio figlio un melanoma di quarto
grado. Come succede in questi
casi, non si sa che cosa fare, ol-
tre ad informarsi di cosa si tratta
e come si deve procedere con le
cure, dietro consiglio di un sacer-
dote amico, abbiamo iniziato a
pregare invocando l’intercessio-
ne del venerabile Francesco
Convertini, missionario Sale-
siano, a favore di mio figlio. Dopo
aver subito vari interventi, oggi
sta bene.
Soheila
Ci eravamo rivolti con fiducia alla
protezione di san Domenico
Savio già quando eravamo in at-
tesa della nascita di nostra figlia
Natascia, e le nostre preghiere
erano state esaudite. Abbiamo
continuato a farlo ora che no-
stra figlia attendeva di diventare
mamma. Esprimiamo quindi
nuovamente la nostra gratitudine
al Santo per la felice nascita di
nostro nipote Noah il 23 febbraio
2017, e lo preghiamo di continua-
re ad essere nostro Protettore e a
vegliare sulla nostra famiglia.
Coniugi Pane Renato
e D’Ignazio Maria - Torino
Alcuni dottori sospettavano una
grave malattia per mia figlia di 10
anni. Gettati nella disperazione
più cupa, mi sono immediata-
mente rivolta con fiduciose pre-
ghiere a Maria Ausiliatrice,
san Giovanni Bosco e san
Domenico Savio. Questo si è
rivelato un tris vincente perché
poi, tutti gli esami sono risultati
negativi. Ora, stiamo curando Re-
becca per un’infezione. Ringrazio
con tutto il cuore e fede perché
riteniamo di avere ricevuto una
grazia!
Cecilia Mazzadi
Fiorenzuola d’Arda (PC)
Desidero segnalare la grazia di
un intervento favorevole nella
malattia improvvisa e grave di
mio nipote Moreno per interces-
sione di san Giovanni Bosco
a cui nella nostra famiglia siamo
particolarmente devoti.
Fernando Granato
Piazza Armerina (EN)
Ringrazio pubblicamente san
Domenico Savio per la nascita
del mio nipotino Pietro. Mia so-
rella Cinzia dopo quattro anni di
matrimonio non riusciva a restare
incinta. Io le ho mandato l’abitino
di san Domenico e l’ho pregato
tanto. È nato Pietro e siamo tutti
felici per questo miracolo.
Continuiamo a pregare per tutte
le mamme che desiderano avere
figli.
Caterina Sorbara - Gioia Tauro (RC)
Desideriamo ringraziare con
amore san Domenico Savio
per la nascita della nostra bam-
bina ANGELICA, avvenuta il 23
aprile 2017.
I genitori: Manuela ed Ezio di Terni
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Febbraio 2018

5 Pages 41-50

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5.1 Page 41

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IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
CESARE BISSOLI
DON GAETANO NICOSIA
Morto a Hong Kong il 6 novembre 2017, a 102 anni
Negli anni Sessanta a Macao, in
una zona della remota isola di
Coloane, esisteva un lebbrosa-
rio abbandonato a se stesso. La
disperazione era tale che molti
si uccidevano, lanciandosi da un
dirupo.
Nell’agosto del 1963, il catanese
Gaetano Nicosia, missionario sa-
lesiano – che lo scorso 3 aprile
ha festeggiato i 101 anni – si of-
frì di trasferirsi in quel luogo. In
poco tempo avvenne una trasfor-
mazione prodigiosa: le casette
coloniali vennero ristrutturate e
si costruì un bacino idrico per
l’acqua potabile; fu installata una
dinamo per produrre energia, che
servì anche un villaggio vicino; si
asfaltò la strada principale; furo-
no costruiti un pollaio e un por-
cile; e venne acquistato un pezzo
di terreno per farne un orto. Nel
frattempo, venne costituito un
Consiglio di villaggio per pren-
dere le decisioni insieme e sulla
bacheca veniva esposto mensil-
mente il resoconto delle entrate
e delle uscite. Le persone idonee
al lavoro si rendevano utili nelle
coltivazioni o nell’allevamento,
fabbricando mattoni e facendo
la manutenzione a case, strade
e giardini. Alcuni hanno impara-
to a fare i meccanici, altri i mu-
ratori, falegnami, sarti, cuochi,
infermieri o autisti. Tutti venivano
retribuiti e anche chi era inabile
al lavoro percepiva qualcosa in
caso di bisogno. Nel villaggio
circolava una moneta che valeva
solo al suo interno. Molti lebbro-
si, grazie alle cure assidue, sono
guariti completamente e dimessi.
In pochi anni, il missionario sale-
siano, che ha vissuto con e come
loro, senza lasciarsi condiziona-
re dalla paura del contagio, ha
dato dignità, benessere e salute
agli sventurati abitanti di questo
angolo di mondo abbandonato.
E anche la fede cristiana. «Era
un inferno – disse una volta un
lebbroso – ora è un paradiso».
Un paradiso dove padre Gaetano
è diventato per tutti l’“angelo dei
lebbrosi”.
Gaetano Nicosia era nato a San
Giovanni La Punta, in provincia
di Catania. Aveva solo tre anni
quando, nel febbraio 1918, il
padre fu ucciso in guerra. «Mia
mamma – ricordava – aveva 27
anni: non si è mai più risposata,
ha sempre lavorato per crescere
noi due figli. Andava a Messa
tutte le mattine e mi ha sempre
sostenuto». A San Giovanni La
Punta è nato anche Gabriele
Maria Allegra, il famoso france-
scano, ora beato, che ha tradotto
la Bibbia in cinese. Gaetano e
Gabriele Maria erano compa-
gni d’infanzia. Si sono ritrovati
poi missionari a Hong Kong e a
Macao. Amici fraterni per tutta
la vita. Nel collegio salesiano
di Caltagirone, Gaetano ricorda
che c’erano delle riviste missio-
narie. «Una riportava la foto di
un lebbroso. Istintivamente non
riuscivo a guardarla, ma poi ho
pensato: ma è una persona come
me! Gesù perdonami!».
A 16 anni Gaetano decise di farsi
lui stesso salesiano ed entrò nel
collegio di Gaeta. Era il 1932:
«Mia mamma era dispiaciuta.
Era contenta che mi facessi sa-
lesiano, ma non voleva che an-
dassi così lontano». Non sapeva
ancora che, pochi anni dopo, la
sua prima destinazione sarebbe
stata addirittura Hong Kong! Vi
giunse il 12 novembre 1935 e ini-
ziò il noviziato, con 13 compagni
da vari Paesi del mondo. Alcuni
di loro, durante la persecuzione
comunista in Cina, moriranno in
carcere per la fede. La costituzio-
ne fisica di Gaetano era gracile
e il maestro dei novizi lo voleva
rimpatriare. Ma venne trattenuto
dall’allora superiore, il valtelli-
nese Carlo Braga, il “don Bosco
della Cina”, un vero padre per
generazioni di salesiani, di cui è
iniziata la causa di beatificazio-
ne. «Mi recai da don Braga, e in
lacrime gli chiesi di darmi un’al-
tra possibilità», ricordava padre
Gaetano. Tra la sorpresa di tutti,
Braga gli disse: «Domani mattina
farai la professione semplice. Mi
raccomando ora, non farmi per-
dere la faccia!».
Nel 1939, Nicosia fu a Macao ad
assistere i ragazzi dell’orfano-
trofio salesiano. Erano gli anni
della guerra e Macao era piena
di rifugiati dalla Cina e da Hong
Kong. La gente moriva per strada
di fame e di freddo: «Nella nostra
scuola avevamo 800 studenti
– racconta il salesiano –: come
abbiamo fatto a sfamarli? Ce
l’abbiamo fatta, in qualche modo.
Dalla Thailandia, ogni venerdì,
arrivava una nave carica di riso.
Grazie al governatore, i salesiani
furono autorizzati a provvedere ai
loro ragazzi».
Arrivò un’inaspettata richiesta: il
vescovo di Macao Paulo José Ta-
vares chiese ai salesiani di pren-
dersi cura del lebbrosario di Ka
Ho, nell’isola di Coloane. C’erano
un centinaio di lebbrosi, in stato
di abbandono. Nessuno, neppure
i medici assegnati dal governo,
osava recarsi nell’isolato villag-
gio, raggiungibile solo con una
barca.
Vi andò, entusiasta, Gaetano
Nicosia, vivendovi per ben 48
ininterrotti anni, dal 1963 fino al
2011.
Don Nicosia aiutò anche moltis-
simi di questi malati a vincere lo
stigma che li colpiva e a reinserir-
si nella società. Tra le numerose
opere benefiche compiute si ri-
cordano anche la costruzione di
una scuola e di un ospedale per
disabili, sempre a Macao.
Qualche anno fa ha potuto incon-
trare papa Francesco. Ad accom-
pagnarlo sulla carrozzella era sta-
to il suo confratello, il cardinale
Joseph Zen.
Febbraio 2018
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5.2 Page 42

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IL CRUCIVERBA
ROBERTO DESIDERATI
Scoprendo don Bosco
Scopriamo i luoghi
e gli avvenimenti
legati alla vita
del grande Santo.
La soluzione nel prossimo numero.
MISERICORDIOSI TESTIMONI DELL’ASSISTENZA
Nell’Ottocento, in Italia, una fetta numerosa di popolazione viveva in condi-
zioni di povertà e, in particolare a Torino, sopravviveva grazie all’assistenza
pubblica ed alla beneficenza. L’educazione e l’assistenza che un gruppo di
laici e religiosi piemontesi, i cosiddetti XXX, fornirono ai più disagiati ed
emarginati fu importante anche per l’esempio di disinteressata generosità
che mise in moto innumerevoli opere caritative. Anche se furono molti ad
essere ispirati dalle loro opere, la cerchia di questo gruppo di uomini è esi-
gua, a parte un paio di generosi predecessori vissuti un secolo prima, come
il beato Sebastiano Valfrè o don Giovanni Cocchi: san Giuseppe Benedetto
Cottolengo, fondatore della Piccola casa della Divina Provvidenza per dare
asilo agli ammalati indigenti; san Giuseppe Cafasso (1811-1860) si dedicò
all’assistenza ai condannati a morte; san Giovanni Bosco (1815-1888) fondatore dei Salesiani dedi-
cati all’educazione della gioventù; san Leonardo Murialdo (1828-1900) si dedicò ai giovani e al loro
insegnamento alle attività artigianali; san Giuseppe Marello (1844-1895) fondatore degli Oblati di san
Giuseppe; beato Giuseppe Allamano (1851-1926) fondatore dei Missionari della Consolata a favore dei
più sfortunati nel mondo; beato Pier Giorgio Frassati (1901-
1925) che si adoperò per i poveri torinesi. Ad ognuno di que-
sti uomini (ad eccezione, per il momento, di san Marello) la
città di Torino ha dedicato un corso o una via. Oltre a loro
vanno ricordati san Luigi Orione, che, ispirato da don Bo-
sco e Cottolengo ad aiutare i ragazzi, fondò la Piccola Opera
della Divina Provvidenza; e il beato Francesco Faà di Bru-
no, che diede asilo alle ragazze provenienti dalla campagna.
Quindi, Torino con questi suoi illuminati figli contrastò come
nessun’altra città seppe fare, la povertà e l’emarginazione.
Definizioni
ORIZZONTALI. 1. Il monumen-
to di Roma detto anche Mausoleo di
Adriano - 15. Faceva coppia con
Johnson in una serie a fumetti creata da
Sclavi e Cavazzano - 16. Avvengono
ogni primavera nei giardini - 18. Ani-
male che si nutre solo di foglie d’euca-
lipto - 19. Le ha dispari la strega - 20.
Prefisso iterativo - 21. Un figlio di Noè
- 24. Le indossano i magistrati - 26.
XXX - 30. Medicina per i nervi - 31.
La Repubblica di Salò (sigla) - 32. Un
minerale ricercatissimo - 34. Adesso
in breve - 35. Arezzo (sigla) - 36. Il
mare quando è più che molto mosso
- 39. Articolo romanesco - 40. Un
gas per insegne luminose - 42. L’Italia
nei prefissi - 43. Capitolazione - 44.
Quote da pagare - 46. Vi si immersero
Anita Ekberg e Mastroianni in una cele-
bre scena della La dolce vita di Fellini.
VERTICALI. 1. La torta a New York
- 2. In mezzo al dialogo - 3. Diva ad
Hollywood - 4. Oggetto che protegge...
i superstiziosi - 5. Precedeva l’Alalà -
6. Mandata via di casa - 7. Antichi pre-
cettori - 8. Il bloc per prendere appunti
- 9. Il Robbins attore (iniz.) - 10. Lo
spiazzo davanti la casa colonica - 11.
Nuovo Testamento - 12. Un buon...
che ne capisce di sapori - 13. Il nome
di Flynn, interprete di tanti film d’av-
ventura - 14. Vi si appoggiano libri o
spartiti - 17. Scuote il corpo durante
la febbre alta - 21. Importante fiume
dell’Europa centrale - 22. Federazio-
ne delle case editrici (sigla) - 23. Fine
del pasto - 25. Lo è il Tirreno - 27.
Attraversa Berna - 28. La fusione della
vocale finale e iniziale di due parole -
29. L’ente pubblico che si occupa dei
censimenti - 30. Un solido geometrico
a punta - 33. Le gettano in mare i pe-
scatori - 37. Collera - 38. Un Kennedy
senatore - 41. Iniziali della Fallaci -
42. Gita in centro - 44. Siede al fianco
della regina - 45. Avellino (sigla).
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Febbraio 2018

5.3 Page 43

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LA BUONANOTTE
B.F.
Un marito
Disegno di Fabrizio Zubani
A lla moglie, qualunque fosse
il motivo, ripeteva: «Tu non
capisci proprio niente!». Ef-
fettivamente lei non aveva
studiato oltre la quinta ele-
mentare, non si interessava
di politica, non leggeva giornali; si
occupava soltanto dei figli, della casa,
del bucato, della cucina, del pollaio,
del lavoro al calzaturificio.
Quando si accendeva una discussione
in famiglia, il marito, rifiutando per
principio ogni dialogo assennato,
pregiudizialmente concludeva: «Tu
non capisci proprio niente!».
Il suo disinteresse per i bambini era
costante. A lui, un marcantonio ner-
boruto che pure lavorava sodo come
muratore, bastava seguire il calcio in
televisione, i film gialli e le veline.
Quando Pina tentava di coinvol-
gerlo in qualche problema serio per
valutare l’opportunità di una spesa
o la scelta del luogo di villeggiatura
o i risultati scolastici dei ragazzi o il
bilancio familiare... la sua risposta
era sempre la stessa; pronta, secca,
definitiva: «Tu non capisci proprio
niente!».
Una sera, in casa, mentre la tra-
smetteva una partita della nazionale,
venne a mancare improvvisamente la
corrente elettrica. Succedeva spesso,
in quella zona di campagna, soprat-
tutto in occasione di qualche tempo-
ralaccio estivo.
Il marito, brontolando con
l’abituale presuntuosa sicume-
ra, si avviò a scendere nel buio
dello scantinato per controlla-
re e sostituire la valvola fusibi-
le nel quadro di distribuzione.
«Accendi una candela!», gli
suggerì la moglie. Al solito il
marito ribatté: «Tu non capisci
proprio niente! Conosco il
posto a memoria!». Ma quella
sera, evidentemente, qualcosa
non funzionò a dovere. Per-
ché il pover’uomo scivolò su
un gradino, dopo aver lancia-
to un urlo disumano, picchiò
una testata tremenda e finì al
suolo tramortito, sanguinante
e con rotture varie.
Chiamata d’urgenza un’au-
toambulanza la moglie,
accasciata, accompagnò il
marito al Pronto Soccorso in
ospedale. Il caso era molto
grave ma i medici , dopo giorni e
giorni di cure intensive, riuscirono
a salvare la vita al poveretto.
Quando infine l’infortunato si risve-
gliò, dopo quattro giorni, vide Pina
accanto al letto, china su di lui con
gli occhi pieni di lacrime, amorosa
e trepidante. La povera donna non
l’aveva abbandonato un solo istante:
giorno e notte, sempre vicina a lui,
con mille attenzioni e con infinite
preghiere e lacrime.
Dopo due settimane di degenza,
quando finalmente l’uomo poté mor-
morare le prime parole, farfugliando
penosamente sussurrò a Pina, mentre
due grosse lacrime gli brillavano ne-
gli occhi: «Sono proprio un animale.
Non avrei mai creduto che tu mi
volessi tanto bene!».
E Pina, con il suo sorriso di sempre,
amabile e luminoso, gli bisbigliò
sottovoce: «Tu non capisci proprio
niente!».
Febbraio 2018
43

5.4 Page 44

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TAXE PERÇUE
tassa riscossa
PADOVA c.m.p.
In caso di mancato
recapito restituire a:
ufficio di PADOVA
cmp – Il mittente si
impegna a corrispon-
dere la prevista tariffa.
Nel prossimo numero
Il messaggio
del Rettor Maggiore
In prima linea
Bambini in vendita
La casa dei ragazzi
di Sunyani
A tu per tu
Monsignor
Cristobal Lopez sdb
Nuovo arcivescovo
di Rabat
La ricetta salesiana 2
Il coraggio
La forza per
raggiungere la meta
I nostri eroi
Rodolfo Komorek
“O Padre Santo”
Le case di don Bosco
Bari
L’Istituto SS.Redentore
Senza di voi
non possiamo
fare nulla!
PER SOSTENERE LE OPERE SALESIANE
Notifichiamo che l’Istituto Salesiano per le Missioni con sede in Torino, avente persona-
lità giuridica per Regio Decreto 13-01-1924 n. 22, e la Fondazione Don Bosco nel mondo
(per il sostegno in particolare delle missioni salesiane), con sede in Roma, riconosciuta con
D.M. del 06-08-2002, possono ricevere Legati ed Eredità.
Queste le formule
Se si tratta di un Legato
a)
Di beni mobili
“… Lascio all’Istituto Salesiano per le Missioni con sede in Torino (o alla Fondazione
Don Bosco nel mondo con sede in Roma) a titolo di legato la somma di ……………..,
o titoli, ecc., per i fini istituzionali dell’Ente”.
b)
Di beni immobili
“… Lascio all’Istituto Salesiano per le Missioni con sede in Torino (o alla Fondazione
Don Bosco nel mondo con sede in Roma), a titolo di legato, l’immobile sito in… per i fini
istituzionali dell’Ente”.
Se si tratta invece di nominare erede di ogni sostanza l’uno o l’altro dei due enti
sopraindicati
“… Annullo ogni mia precedente disposizione testamentaria. Nomino mio erede universale
l’Istituto Salesiano per le Missioni con sede in Torino (o la Fondazione Don Bosco
nel mondo con sede in Roma) lasciando a esso/a quanto mi appartiene a qualsiasi titolo,
per i fini istituzionali dell’Ente”.
(Luogo e data)
(firma per esteso e leggibile)
N.B. Il testamento deve essere scritto per intero di mano propria dal testatore.
INDIRIZZI
Istituto Salesiano per le Missioni
Via Maria Ausiliatrice, 32
10152 Torino
Tel. 011.5224247-8 - Fax 011.5224760
e-mail: istitutomissioni@salesiani-icp.net
Fondazione Don Bosco nel mondo
Via Marsala, 42
00185 Roma
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