Bollettino_Salesiano_201702

Bollettino_Salesiano_201702

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IL
FEBBRAIO
2017
Le case di don Bosco
L'Istituto
Pio XI
L’invitato
Suor
Alessandra
Smerilli
mBDOOiSsNsCiOone
ALLEGR IA
Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
A tu per tu
Don Johann
Kiessling

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LE COSE DI DON BOSCO
JOSÉ J. GÓMEZ PALACIOS
Il sottoscala
(Traduzione di Deborah Contratto)
La storia
Durante l’anno scolastico 1833-1834 Giovanni Bosco,
diciottenne, lavora come cameriere presso il Caffè Pian-
ta, per pagarsi gli studi e il vitto. Come Harry Potter, dor-
mirà, infatti, a lungo nel sottoscala della caffetteria in cui
lavora e che è tutt’oggi meta di pellegrinaggio di molti
turisti che vanno a Chieri (Memorie dell’Oratorio, prima
decade, n. 9).
Quando inaugurarono l’edificio che avreb-
be ospitato il Caffè Pianta nella città di
Chieri, il mio cuore si riempì di speran-
za. Ma piano piano capii quale sarebbe
stato il mio destino: nient’altro che un
vuoto sottoscala.
Ero situato tra una sala e l’altra. Un giorno mi
venne a trovare il proprietario dello stabile.
Non era solo: con lui c’era un giovane, un tale
Giovanni Bosco, giovane studente che avrebbe
lavorato lì come cameriere. Mi osservarono, mi
misurarono e poi una stretta di mano: si erano
accordati. Il miracolo si era finalmente com-
piuto. Sarei diventato utile per qualcuno. Im-
maginavo già quel giovane al lavoro, impegnato
a riempire ogni centimetro del mio corpo con
sacchi di caffè, farina e zucchero.
Arrivò la notte e finalmente il rumore delle palle
che sfrecciano sui tavoli da biliardo cessò. Ed ecco
che arrivò Giovanni. Non potei fare a meno di
notare il sorriso del ragazzo: a metà tra la spe-
ranza e la rassegnazione. Con sé portava alcuni
oggetti e un pagliericcio, che subito depositò sul
pavimento. Mise una candela su di un piccolo
candeliere d’ottone, collocò alcuni libri che gli
erano stati prestati e la poca biancheria personale
che possedeva. Se ne andò e la mia sensazione fu
questa: anche se aveva portato con sé poche cose,
non importava. Era bastato quel poco a riempire il
vuoto che provavo e a realizzare il mio desiderio.
Ero ancora tutto immerso in questo tipo di pen-
sieri, quando tornò Giovanni. «Porterà il resto
della sua roba» pensai. Mi sbagliavo, nelle mani
aveva solo un piccolo fiammifero, con cui accese
la candela. Si sedette sopra il pagliericcio, aprì
un libro e iniziò a leggere.
Capii che sarebbe stato lui, con le sue poche e
povere cose a riempire la solitudine in cui ero
vissuto fino a quel momento.
Fu così che diventai la casa, il focolare di Gio-
vanni Bosco. Il mio cuore imparò a battere allo
stesso ritmo del suo, condividendo le sue spe-
ranze. Viaggiavo in posti lontani, perché i suoi
sogni arrivavano in qualsiasi parte della terra in
cui ci potesse essere un giovane in cerca di aiuto
e fiducioso in un futuro migliore.
Dopo alcuni mesi se ne andò e, nonostante il si-
lenzio in cui tornai a vivere, non ho mai dimen-
ticato quei bei momenti trascorsi insieme.
Sono passati quasi duecento anni ormai. Riesco
ancora, nonostante l’età, a reggermi in piedi, per
testimoniare così a tutte le persone che vengo-
no in visita la calda e vibrante presenza di quel
giovane, che fu capace di riempire di speranza la
mia vita.
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IL
FEBBRAIO 2017
ANNO CXLI
Numero 2
IL
FEBBRAIO
2017
Le case di don Bosco
L'Istituto
Pio XI
L’invitato
Suor
Alessandra
Smerilli
mABDLOOiLSsNEsCGiORoInA e
Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
A tu per tu
Don Johann
Kiessling
Mensile di
informazione e
cultura religiosa
edito dalla
Congregazione
Salesiana di San
Giovanni Bosco
In copertina: La gioia è il distintivo dello stile
salesiano (foto Shutterstock).
2 LE COSE DI DON BOSCO
4 IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
6 CHE COSA PENSANO I GIOVANI
L’amore che dura
8 SALESIANI NEL MONDO
Madagascar
12 L’INVITATO
Suor Alessandra Smerilli
16 FINO AI CONFINI DEL MONDO
18 A TU PER TU
Don Johann Kiessling
22 POSTER
24 LE CASE DI DON BOSCO
Il Pio XI
28 VOLONTARI
«Faccio parte della famiglia»
30 VALE LA PENA
Varie vocazioni
34 COME DON BOSCO
36 LA LINEA D’OMBRA
38 LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
40 I NOSTRI SANTI
41 IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
42 RELAX
43 LA BUONANOTTE
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Il BOLLETTINO SALESIANO
si stampa nel mondo in 57
edizioni, 29 lingue diverse e
raggiunge 131 Nazioni.
Direttore Responsabile:
Bruno Ferrero
Segreteria: Fabiana Di Bello
Redazione:
Il Bollettino Salesiano
Via della Pisana, 1111 - 00163 Roma
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web: http://biesseonline.sdb.org
Hanno collaborato a questo
numero: Agenzia Ans, Gino Berto,
Pierluigi Cameroni, Roberto
Desiderati, Emilia Di Massimo,
Don Bosco Magazin, Ángel
Fernández Artime, Claudia Gualtieri,
Claudia Klinger, Cesare Lo Monaco,
Alessandra Mastrodonato,
Francesco Motto, Pino Pellegrino,
Giampietro Pettenon, Luigi Zonta,
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Diffusione e Amministrazione:
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- Torino
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Registrazione: Tribunale di Torino
n. 403 del 16.2.1949
Associato alla Unione Stampa
Periodica Italiana

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IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
DON ÁNGEL FERNÁNDEZ ARTIME
La famiglia
non passa
Abbiamo tutti, in questo campo,
un’efficace “bussola del cuore”:
la nostra esperienza personale.
La famiglia è stato il nido in cui ci
siamo sentiti amati, accuditi, protetti
e sostenuti finché non siamo stati in
grado di volare con le nostre ali.
mai di moda
Miei cari lettori del Bollettino Salesia-
no, amici e amiche di don Bosco e
delle sue opere in tutto il mondo e
carissima Famiglia Salesiana, fedele
alla tradizione di don Bosco, come
sempre vi offro una preziosa strenna
come guida per tutto quest’anno appena inco-
minciato. È proposta prima di tutto alle Figlie di
Maria Ausiliatrice e con loro a tutta la Famiglia
Salesiana del mondo.
Quest’anno, in sintonia con l’Esortazione Aposto-
lica Amoris Laetitia di papa Francesco, l’argomento
è la famiglia, tutte le famiglie del mondo, con il
titolo: «Siamo Famiglia! Ogni casa è scuola di Vita
e di Amore». Proprio questo
titolo e tutto quello che
ho scritto come
commento
alla strenna mi consentono di salutarvi con questa
riflessione in cui, in totale sincerità, ribadisco che
le famiglie non passano mai di moda: sono sem-
pre attuali, sempre vitali ed essenziali per la vita
delle persone. Mutano tempi e culture, ma come
evidenziano tutti gli studi e le ricerche, questa ve-
rità resta incontestabile.
Abbiamo tutti, in questo campo, un’efficace “bus-
sola del cuore”: la nostra esperienza personale. Cia-
scuno di noi deve riconoscere che, al di là dei limiti
e dei possibili difetti, la nostra famiglia di “carne e
ossa”, nonostante le immancabili imperfezioni, è la
realtà più bella e importante della nostra vita. La vo-
cazione laicale di molti di voi è nata dal calore e dal-
la soddisfazione della propria esperienza familiare.
È stata la vera culla della vita, il nido in cui ci
siamo sentiti amati, accuditi, protetti e sostenuti
finché non siamo stati in grado di volare con le
nostre ali.
Nella nostra famiglia abbiamo imparato l’alfabeto
dell’amore, la forza prodigiosa dei legami e degli
affetti. È questa l’oasi in cui possiamo ritrovare
serenità, appagamento e armonia personale.
Scrivendo la lettera alla Famiglia Salesiana del
mondo ho provato una gioia emozionante nel
meditare che anche il Figlio di Dio, Gesù di Na-
zaret, ha avuto una madre scelta da Dio e una
famiglia che l’ha amato e accudito, una famiglia
nella quale è vissuto facendo esperienza, proprio
com’è accaduto a noi. Nei trent’anni di Nazaret,
Gesù ha imparato ad essere un uomo.
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E ho pensato a don Bosco. Egli stesso ci ha rac-
contato che cosa significa perdere il papà a due
anni e vivere orfani di padre, ma che grande dono
può essere avere una famiglia con una madre ec-
cezionale, come Mamma Margherita.
Ho pensato a Maria Domenica Mazzarello
(Main), felice bambina e adolescente in un con-
testo religioso e contadino così simile a quello di
don Bosco, ma con la gioia di crescere serena-
mente sempre nel suo villaggio natale, Mornese,
e all’interno di una famiglia numerosa e con la
protezione preziosa di un padre e di una madre.
E quante altre storie di vita e di famiglie potrei
raccontarvi.
I viaggi in giro per il mondo mi hanno aiutato
a capire quanto siano importanti le famiglie, pur
nella loro differenza culturale ed etnica, ma sem-
pre indispensabile fondamento di ogni società,
come prima e normale scuola di umanità.
Con tutto questo, vi invito, amici lettori, come ha
fatto papa Francesco, a prendere sul serio il valore
e il contatto con le famiglie, che sono focolare,
rifugio e nido per tutti i bambini e i ragazzi del
mondo. È nel cuore della famiglia, nel trantran
quotidiano, tra accordi e disaccordi, perdoni e ri-
conciliazioni com’è tipico di ogni esistenza, che
possono apprendere l’arte del dialogo, della co-
municazione, della comprensione, del perdono.
In famiglia, si possono sperimentare i limiti, ma
anche i valori più preziosi ed essenziali come l’a-
more, la fede, la libertà, il rispetto, la giustizia, il
lavoro, l’onestà, che mettono così radici nella vita
di ogni persona.
Altri ingredienti, che non sono più di moda oggi,
trovano un senso nella famiglia: l’educazione alla
sobrietà e all’autocontrollo, alla fedeltà, all’impe-
gno per la dignità delle persone. E soprattutto la
trasmissione della fede.
Quale risposta allora possiamo dare al forte ap-
pello del Papa? Che cosa possiamo fare per le fa-
miglie che incontriamo ogni giorno soprattutto
nelle nostre Presenze Educative?
Mi vengono in mente alcune “ricette”:
Accompagnare per quanto è possibile le fami-
glie che conosciamo, con cordialità ed empatia.
Aiutare i genitori ad educare con cuore “sale-
siano”.
Dichiararci “casa aperta”, sempre pronti ad ac-
cogliere gli amici e le famiglie dei figli.
Favorire i progetti dei giovani che sognano una
vita matrimoniale.
Non aver paura a proporre valori umani, morali
e spirituali ai nostri giovani e alle loro famiglie,
come certamente essi stessi desiderano (anche
se non osano esprimerlo).
Incoraggiare le famiglie dei nostri destinatari a
vivere la “letizia” dell’amore.
Estirpare ogni forma di discriminazione con-
tro le ragazze e le donne.
Mantenere sempre un atteggiamento di com-
prensione e simpatia, per essere in grado di
capire le situazioni, spesso difficili, che vivono
molte famiglie a noi prossime.
Realizzare con tutte le nostre forze quell’auten-
tica atmosfera familiare tanto amata da don Bosco
a Valdocco.
Magari potessimo realizzare alcune di queste
pratiche. Ci doni forza e protezione la Santa Fa-
miglia di Nazaret, come prega papa Francesco:
«Santa Famiglia di Nazaret,
fa’ che tutti ci rendiamo consapevoli
del carattere sacro e inviolabile della famiglia,
della sua bellezza nel progetto di Dio».
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CHE COSA PENSANO I GIOVANI
CLAUDIA GUALTIERI
Una famosa frase,
entrata ormai nel nostro
quotidiano, appartenente
Esiste l’amore alloscrittoreepoeta
francese Henri de Régnier,
recita così: l’amore
che dura? èeternofinchédura.
Esiste o no, dunque,
Angelo (21 anni):
non tutti riescono a trovare l’amore
l’amore che dura?
«Solo quando una
persona riesce
a stare bene dentro»
che dura. Bisogna trovare la persona
che riesce a dare una svolta alla propria
vita, a far provare emozioni incredibili.
Purtroppo non tutti riescono a stare
alla sua autenticità; quando manca,
ce ne accorgiamo e lo facciamo tutti
allo stesso modo, è inspiegabile ma
Quando penso all’amore, penso a insieme per sempre, perché magari universale la delusione che proviamo.
lei, alla mia ragazza. Ora sono vera- ci si ferma per errori anche stupidi. Credo che l’amore autentico sia quel-
mente felice, perché lei ha cambiato Il consiglio che mi sento di dare è di lo che dura per sempre.
la mia vita. Io prima di incontrare lei imparare a conoscere bene una ragaz- Per questo credo che l’amore che dura
ero davvero una brutta persona. Ho za, vedere le caratteristiche che ha, esiste... dura quando è vero.
cambiato atteggiamento, modi di fare; cos’è disposta a fare quella ragazza per Quando passano gli anni ed è sempre
sono cambiato molto e penso di essere te, ma soprattutto cosa sei disposto amore. Magari cambia, si trasforma,
migliorato grazie a lei, perché mi ha a fare tu per lei. Poi bisogna sentirle matura; non senza sentire dolore
dato veramente tanto. Inizialmente io dentro certe cose. Solo quando una ma resta. L’amore si trasforma e
ho preso alla leggera la nostra storia, persona riesce a stare bene dentro, si matura quando ti chiede di fare
ma poi ho iniziato ad affezionarmi a può parlare di amore che dura.
un passo in più. Per esempio
lei. Con il passare del tempo, mi trova-
vo sempre meglio con lei e ho iniziato Carolina (29 anni):
quando la persona che ami
affronta qualcosa che per
a vedere le cose da un altro punto di «Esiste e dura
vista. Ora mi rendo conto che la amo
veramente e vorrei averla per sempre
quando è vero»
te è troppo o è diffici-
le. Per questo è dif-
ficile perché devi
al mio fianco, perché lei c’è quando Quando parliamo dell’amore, pensia-
sto male, quando piango e fa di tutto mo a tante cose: ad una persona, ad
per me. E naturalmente c’è anche nei una storia o comunque a qualcosa che
bei momenti e ora i miei bei momenti ha a che fare con il cuore; il nostro o di
sono soprattutto quando sono con lei. qualcun altro. In ogni caso ognuno ha
Sento che posso continuare ad amarla un’immagine dell’amore nella sua te-
così per sempre. Per questo, secondo sta che è solo sua. Ma per non cadere
me, un amore può durare per sempre. nel relativismo puro, credo che esista
Tutti possono trovare il vero amore ma un’oggettività dell’amore e si riferisce
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essere disposto a questo. E così il
“per sempre” non è una cosa che va
avanti da sola, sei tu che lo costrui-
sci ogni giorno. L’amore che resta
è un’espressione a me tanto cara.
Quando ci sono difficoltà e anche
forti conflitti se l’amore resta allora
vince gli ostacoli e va avanti. L’amore
che dura è fatto di pazienza, di perse-
veranza e anche di sacrificio.
L’esempio più grande che posso por-
tare nella mia vita è l’amore di Cri-
sto. Lui resta. In ogni circostanza
della vita; anche nei momenti bui, in
quelli che ti senti sola, Lui resta. E
non importa quanto tu gli abbia fat-
to male, Lui resta. L’amore che dura
è fatto di perdono, del saper andare
oltre “perché ti amo”, “perché la vita
senza il nostro amore non ha più sen-
so.” Credo che oggi sia tanto difficile
scegliere l’amore che dura, ma non
è impossibile. Ho conosciuto tanti
giovani come me che vivono la radi-
calità dell’amore. Radicale nel senso
che prende tutto di te, ti coinvolge
in ogni ambito della tua vita e per
questo puoi dire che è vero, perché fa
parte di te. Non è una cosa in più ma
attraversa la tua vita, tutta. Un amore
è vero quando è radicale. Non è un
gioco da ragazzi, è impegnativo certo,
è una scelta quotidiana ma è una stra-
da privilegiata verso la felicità perché
l’amore che dura esiste e rende felici.
Eliana (26 anni):
«Sì, perché l’amore
è un impegno continuo»
Crediamo nell’anima gemella in-
contrata per caso durante una pas-
seggiata, nel “vissero felici e con-
tenti”, nell’amore eterno, ma ciò cui
assistiamo è, invece, la fine di tante
grandi storie d’amore. L’amore è un
sentimento di natura fugace e se non
ben coltivato svanisce in fretta. C’è
chi teorizza che non è possibile che
l’amore duri tutta la vita; dopo un
periodo, che può essere di pochi mesi
oppure pochi anni, l’amore si ferma.
Queste idee però sono smentite dai
fatti perché, anche se non frequenti,
esistono diversi casi di persone cono-
sciutesi giovanissime che non si sono
più lasciate.
Molto spesso al centro delle at-
tenzioni dei media ci siamo
noi giovani e l’amore. Si
sente molto spesso dire
che ormai noi giovani non abbiamo
più valori, idee, che viviamo nell’era
del tutto e subito, eccetera. Non credo
sia così; è vero, viviamo nell’era della
tecnologia, dove tutto va più veloce,
molto spesso anche i sentimenti, ba-
sta un attimo a dire “Ti amo” e un
attimo per rinnegarlo. Io credo invece
che, nonostante tutto, esista ancora
l’amore che dura; credo che molto
spesso l’amore finisca perché siamo
troppo abituati o abbindolati da quel-
lo che vediamo nei film, dall’amore
poetico romantico privo di “intoppi”,
o più semplicemente non riusciamo
ad impegnarci; sì, perché l’amore è
un impegno continuo, mantenere in
piedi una relazione non è una passeg-
giata. Ci vogliono compromessi gior-
nalieri mentre l’orgoglio o la testar-
daggine (come nel mio caso) devono
essere messi da parte. Due persone
che stanno insieme devono cercare di
non farsi abbattere dagli eventi della
vita, devono essere complici, avere un
obiettivo comune. Non mi illudo sul
fatto che non capiteranno mai diffi-
coltà e credo che spesso lo sconforto
abbia la meglio e si pensi che la scelta
migliore sia quella di lasciare tutto,
ma credo fortemente che il pensiero
di un amore duraturo e di una felicità
di coppia sia più grande di tutto il re-
sto. Forse è per questo che molte sto-
rie finiscono: si dimentica qual è l’o-
biettivo comune, si dimenticano quali
erano i sogni che si avevano insieme.
“L’amore non dura se togli ogni lot-
ta: bada che non ti ami in sicurezza e
senza rivali, se togli la rivalità, l’amo-
re non dura bene…” (Ovidio, Amores,
23 a.C.).
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SALESIANI NEL MONDO
GIAMPIETRO PETTENON
Diario dal Madagascar
Come adlloanGBeonsecroala
Un carcere minorile, guardie
più o meno corrotte, un gruppo
di salesiani che vuol far capire
Il signor
Giampietro
ai ragazzi che quaggiù
c’è chi non li dimentica Pettenon, direttore
di Missioni Don
e lassù qualcuno che li ama. Bosco, con piccoli
del Madagascar.
E rano i primi di novembre quando siamo
arrivati nella casa di rieducazione per mi-
nori (il carcere minorile) che si trova nel-
la periferia di Antananarivo, capitale del
Madagascar.
Si tratta di una struttura con un impianto
tipicamente militare, praticamente una caserma,
con bassi edifici disposti sul perimetro esterno ed
un ampio cortile scoperto al centro. Vi sono ac-
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colti un centinaio di ragazzi – dagli otto anni ai
diciotto – trovati a delinquere, spesso denuncia-
ti per furti (una gallina, il cellulare...) e per così
poco messi in questa struttura in attesa di giudi-
zio, o a scontare la pena. Una cosa inimmagina-
bile per noi italiani.
Più che un centro di rieducazione a questi ragazzi
servirebbe (e basterebbe) una bella tirata d’orec-
chi. Chiusi in un’area circondata da un alto muro,
stretti in spazi che ne potrebbero accogliere meno
della metà, sorvegliati da funzionari statali mal
pagati e quindi demotivati, questi ragazzi se pri-
ma potevano essere potenziali delinquenti, dopo
qualche tempo in quella struttura saranno delin-
quenti professionisti!
I salesiani da circa dieci anni hanno avviato una
collaborazione con questa struttura di rieducazio-
ne iniziando un’animazione domenicale, che via
via si è ampliata, anche perché i responsabili della
struttura hanno capito che la presenza dei salesia-
ni aiutava molto i ragazzi ad esprimere la propria
vitalità, il desiderio di giocare, di far festa.
Cento cucchiai nuovi
Ieri la giornata si è svolta in questo modo: al mat-
tino quando siamo arrivati assieme ai novizi sale-
siani – sono quei giovani che si preparano alla vita
consacrata salesiana e che hanno la propria casa di
formazione a pochi chilometri da questa struttura
– abbiamo animato la Messa celebrata da un sacer-
dote salesiano. Tutti i ragazzi hanno partecipato
con una serietà e una devozione esemplari. Anche
in Madagascar il 2 novembre si ricordano i propri
cari defunti. Direi che se non avessi saputo di es-
sere in un carcere minorile avrei pensato piuttosto
ad un seminario minore, tanta era la compostez-
za, la partecipazione al canto ed il rispetto degli
uni verso gli altri. Rispetto religioso, perché tut-
ti hanno partecipato alla Messa, anche se alcuni
sono musulmani (pochi) e altri (molti) invece sono
cristiani protestanti. La Messa è terminata con la
distribuzione di un pacchetto di biscotti a tutti,
cattolici, protestanti, musulmani e... guardie, che li
aspettavano con un desiderio almeno pari a quello
La Messa
celebrata da un
salesiano nel
carcere minorile
di Antananarivo.
I ragazzi
partecipano con
serietà e devozione
esemplari.
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SALESIANI NEL MONDO
Dall’arrivo
dei salesiani
finalmente i
ragazzi possono
mangiare in modo
degno. I pasti
sono finanziati
dai benefattori
di Missioni Don
Bosco di Torino.
dei minori custoditi. Dopo la Messa si sono messi
in fila per gruppi di età per l’appello – siamo in un
carcere e l’appello si deve fare tre volte al giorno –
per recarsi in refettorio per il pasto.
Pasto speciale, come fosse domenica, per festeg-
giare la nostra visita. Alla domenica il pranzo è
speciale perché lo portiamo noi salesiani, prepa-
rato dalle nostre cuoche e distribuito dal perso-
nale del carcere.
È da più di un anno che lo prepariamo noi il
pranzo, finanziato con i fondi raccolti dai bene-
fattori di Missioni Don Bosco di Torino, perché
ad un certo punto il ministero aveva ridotto molto
i fondi per il mantenimento di questi ragazzi e
questi pativano la fame!
Allora abbiamo proposto alla direttrice del carcere
se potevamo pensare noi anche al cibo nel giorno
festivo in cui andiamo a fare animazione. La diret-
trice ha accolto ben volentieri la nostra proposta e ci
ha detto di portare i sacchi di riso e la carne. Non
l’abbiamo certo ascoltata! Se portiamo gli alimen-
tari questi non finiscono ai ragazzi detenuti, ma se
li spartiscono le guardie e se li portano a casa. Noi
salesiani siamo semplici, ma non ingenui. Abbiamo
deciso che il cibo lo cucinavamo noi e lo portavamo
già pronto da distribuire. In questo modo le guar-
die possono mangiare anch’esse con i ragazzi ma
non portarsi via la gran parte del cibo. Questo no!
Così abbiamo fatto anche con le posate: 100 cuc-
chiai nuovi di acciaio per 100 ragazzi. Sembra
strano ma finalmente tutti possono mangiare
contemporaneamente. Fino a quando non abbia-
mo portato noi i cucchiai per tutti, la struttura ne
aveva solo alcuni e i ragazzi più piccoli dovevano
aspettare che i più grandi avessero finito di man-
giare perché venisse ceduto loro lo stesso cucchiaio.
Che festa vedere i ragazzi con un enorme piatto di
riso con sopra carne e verdura (che servono ad insa-
porire il riso) e alla fine anche una banana ciascuno.
Gli altri giorni della settimana ogni pranzo preve-
de 5 chilogrammi di riso per 100 ragazzi... e basta!
Il pomeriggio poi è continuato con un pomerig-
gio a giochi nel cortile centrale, nei quali chi vin-
ceva prendeva un punto. C’era poi il “negozio” in
cui potevi spendere questi punti: con 3 punti un
sacchetto di popcorn, con 6 un rosario in plastica,
con 10 punti un’agenda, e tanto altro. Era uno
spettacolo vedere questi ragazzi partecipare con
entusiasmo alla corsa con i sacchi, al gioco del-
le bocce, al tiro a canestro. E via con l’accumulo
dei punti e poi la scelta del premio da “comprare”.
Una lotteria con cento premi
Non è tutto. Le guardie a dire il vero si sono di-
mostrate molto umane e cordiali con noi, tanto che
una di esse prima di pranzo ci ha detto queste pa-
role commoventi: «Se anche non portaste nulla, la
vostra presenza è il miglior regalo perché i ragazzi,
quando ci siete voi, si trasformano. Si respira un
clima del tutto diverso dagli altri giorni». Questi,
aggiungo io, sono i miracoli di don Bosco.
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LA STORIA: DON BOSCO ALLA GENERALA
Dicevamo delle guardie che incamerano le cose
se le si consegna loro invece di darle direttamente
ai ragazzi. Così è anche per i vestiti. E voilà che
i salesiani hanno trovato il sistema per distribuire
i vestiti a tutti senza infrangere le regole del car-
cere: una lotteria con 100 premi per 100 ragazzi.
Tutti vincono qualcosa da vestire, l’incognita sta
solo nell’indumento che viene estratto con il bi-
glietto che ogni ragazzo ha ricevuto: t-shirt, polo,
maglioni, pantaloni, scarpe da ginnastica, zainet-
to... tutto firmato e di gran qualità. Perché una
ditta italiana che ha una catena di boutique vicino
a Venezia e che ci conosce molto bene, i fondi di
magazzino invece di metterli in svendita in Italia,
li invia in missione.
Incredibile vedere questi ragazzi coperti di stracci
che si mettevano le scarpe della Robe di Kappa
o la polo griffata. Ed ho visto un ragazzo alto,
fra i più grandi, che aveva vinto una maglietta
piccola per lui, chiedere ed ottenere da un pic-
colino lo scambio con la sua di maglia, che inve-
ce gli era troppo grande. Ah, dimenticavo: ogni
ragazzo vinceva un indumento ma insieme gli
veniva dato anche un panino... Erano le quattro
del pomeriggio e la merenda ci voleva proprio!
Almeno per un giorno alla settimana, questi po-
veri ragazzi hanno riempito bene lo stomaco e
hanno vissuto un’esperienza di gioco e di festa in
cui gli adulti li hanno trattati per quello che sono
davvero: dei ragazzi.
Nel 1845, sulla strada per Stupinigi, era stata aperta una nuova prigione in
Torino: la Generala. Era il «riformatorio dei ragazzi», ne poteva contenere tre-
cento. Don Bosco lo frequentava regolarmente, e cercava di farsi amici quei
ragazzi condannati (al solito) per furto o per vagabondaggio.
Occupavano il tempo in lavori agricoli e in laboratori interni.
Nella quaresima del 1855 don Bosco fece per tutti un accurato corso di cate-
chismo, poi addirittura tre giorni di Esercizi Spirituali, che si conclusero con
una confessione veramente generale.
Don Bosco fu così colpito della loro buona volontà che promise «qualcosa di
eccezionale». Andò dal direttore, e gli propose di organizzare per i ragazzi (in-
tristiti dalla chiusura) una bella passeggiata fino a Stupinigi, dove c’erano un
magnifico parco e una splendida dimora del re. Il direttore mandò don Bosco
dal Ministro. Don Bosco andò dal Ministro e gli espose con tranquillità il suo
progetto.
«Va bene» disse il Ministro. «Una passeggiata farà certamente del bene ai
giovani prigionieri. Darò gli ordini necessari perché lungo la strada si trovino
carabinieri in borghese in numero sufficiente.
«Ah no» intervenne deciso don Bosco. «La sola condizione che metto è che
nessuna guardia ci protegga. E lei deve darmene la parola d’onore. Il rischio
me lo prendo io: se qualcuno scappa, metterà in prigione me».
«Don Bosco, ragioni. Senza carabinieri lei non ne riporterà a casa nemmeno
uno».
«E io invece dico che glieli riporterò tutti».
Il giorno dopo fu una giornata di sole tiepido, primaverile. Partirono per Stu-
pinigi lungo i sentieri della campagna. Saltavano, correvano, gridavano. Don
Bosco era in mezzo alla piccola truppa, scherzava, raccontava. Davanti a tutti
andava l’asino carico delle provviste.
A Stupinigi don Bosco disse la Messa, poi fecero pranzo sull’erba e si scate-
narono in gare e giochi lungo il fiume Sangone. Visitarono il parco e il castello
reale. Merenda e al tramonto ritorno. Il somaro era scarico, e don Bosco un po’
affaticato. I ragazzi lo fecero salire in groppa e, tirando le briglie e cantando,
arrivarono.
Il direttore si affrettò a contarli: c’erano tutti.
Mi è venuto in mente don Bosco che all’inizio del
suo ministero sacerdotale andava alla Generala – il
carcere minorile di Torino della metà Ottocento
– e faceva esattamente le stesse cose: giocava con
loro, pregava con loro, faceva fare loro merenda.
Si racconta che le fette di salame che metteva nel
pane erano talmente sottili che guardandole in
controluce.... si vedeva Superga (la basilica che sta
sulla collina di Torino). Assieme a quel pane, don
Bosco faceva trovare una fetta di salame, affinché
la vita avesse un po’ di gusto... come quella carne e
quella verdura bollita in cima alla montagna di riso
che i ragazzi del carcere minorile di Antananarivo
mangiano la domenica, affinché anche la loro vita,
seppure chiusa fra le mura di un carcere minorile,
possa avere un po’ di gusto.
Un panino e un
vestito nuovo: è
la felicità. Almeno
per un giorno.
Febbraio 2017
11

2.2 Page 12

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L’INVITATO
EMILIA DI MASSIMO
Pdeelrlauvni’etaconomia
Incontro con suor Alessandra Smerilli,
salesiana, docente di Economia
all’Auxilium e all’Università Cattolica,
tra i fondatori e docenti della SEC
(Scuola di Economia Civile).
Quando ti sei appassionata
di economia e di economia
civile?
Ho iniziato a studiare economia, su
richiesta della mia ispettrice, nel mio
primo anno di professione religiosa.
All’inizio l’ho fatto malvolentieri, e
anche con la paura che questo tipo di
studi e il lavoro che ne sarebbe seguito
mi avrebbero allontanata dai giovani.
Ma la Provvidenza stava preparando
per me altre strade.
All’università ero attratta dai corsi di
teoria economica, di economia dello
sviluppo, ma anche quelli di finanza
e di modelli matematici per i mercati
finanziari. Più studiavo e approfon-
divo, più mi rendevo conto di quanto
bisogno ci fosse di conoscere tutti i
modelli nei dettagli perché, mi dice-
vo, la teoria economica va cambiata
dal di dentro. Altrimenti c’è sempre la
tendenza a vedere la teoria economi-
ca come una scienza esatta, che deve
essere così e basta, e i vincoli etici de-
vono essere posti dall’esterno. Ma più
studiavo, più alcune cose non mi con-
vincevano, ma non riuscivo a trova-
re le alternative. Un giorno ho avuto
modo di leggere qualcosa sull’econo-
mia civile. Mi sono subito appassio-
nata a quella lettura del mondo e del
sistema economico. In quel percorso
ho conosciuto il professor Bruni, oggi
mio coautore. Nel confronto con lui
e con altri economisti, ho cominciato
a maturare l’idea di un’economia al
servizio della persona, di imprese che
12
Febbraio 2017

2.3 Page 13

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possono lavorare per il bene comune,
di una finanza che risponde ai biso-
gni reali delle persone. Insomma, da
quel momento mi sono appassionata e
ho cominciato anche io a dare il mio
contributo.
Ma che cosa vuol dire
economia civile?
L’economia civile è una prospettiva,
nata già nel ’700 con l’abate Antonio
Genovesi, che pone la persona e le sue
relazioni al centro: gli esseri umani
non sono dei semplici massimizzatori
di guadagni e di utilità. Le persone
sono fatte di relazioni, di dono, di
gratuità, di passioni.
L’economia civile può essere rappre-
sentata come la via al mercato pro-
pria dei paesi mediterranei, che non
si basa solo sull’individuo e sulle sue
libertà, ma pone al centro la persona,
le sue relazioni e anche le comunità di
riferimento.
Anche nella normale attività di im-
presa ci può essere spazio per concet-
ti come reciprocità, gratuità, rispetto
della persona. Oggi invece si pensa
ancora che l’impresa possa operare nel
mercato come meglio crede, o non ri-
spettare in pieno la dignità dei lavora-
tori, e poi magari fare donazioni filan-
tropiche, oppure concedere in cambio
l’asilo per i figli dei dipendenti. Ecco,
non dovrebbe funzionare così.
Quando vado ad un convegno,
quello che mi stupisce non è che
io sia l’unica suora, ma che a volte
sia l’unica donna tra i relatori
economisti vede poche donne come ci) è in crescita, l’offerta di tali beni,
protagoniste: quando vado ad un con- in famiglia, nei luoghi di lavoro, nel
vegno, quello che mi stupisce non è mercato, è profondamente legata an-
che io sia l’unica suora, ma che a volte che alla donna, e al suo “genio”.
sia l’unica donna tra i relatori. Sono
profondamente convinta, invece, che
il femminile abbia tanto da dire all’e-
conomia. Il femminile porta con sé
Qual è l’apporto
del carisma femminile
all’economia?
alcuni primati. Innanzitutto il pri- La teoria economica ha iniziato ad
mato della vita sulla legge, ma anche occuparsi dei beni relazionali quando
quello della prassi sulla teoria. Infine gli studiosi si sono accorti che le lenti
alla donna è stata da sempre rico- con cui l’economia guardava il mon-
nosciuta la caratteristica di vivere i do non vedevano il valore della rela-
rapporti umani non solo strumental- zione e, non vedendolo, rischiavano
mente, ma come fine in sé. E oggi,
in un momento in cui la domanda di
beni relazionali (che da qualche anno
sono riconosciuti come beni economi-
Uno dei numerosissimi convegni a cui è chiamata
suor Alessandra. È molto apprezzata anche
all’estero.
È difficile essere donna,
suora e occuparsi
di economia civile?
Io la trovo una missione carica di
sfide e per questo molto interessan-
te. Normalmente l’ambiente degli
Febbraio 2017
13

2.4 Page 14

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L’INVITATO
di distruggerlo. Un’altra dimensione
squisitamente femminile è quella del-
la creatività e dell’intuizione: dimen-
sione fortemente schiacciata e sotto-
valutata in un mondo economico in
cui hanno valore la logica deduttiva
e la razionalità (in particolare quella
strumentale), che si è affermata, so-
prattutto a partire dall’Illuminismo,
come una forma di conoscenza vera
o “scientifica”. La grande tradizione
cristiana e umanistica, invece, aveva
riconosciuto un valore pari, se non
superiore, all’intuizione, che veniva
attribuita agli angeli in modo per-
fetto. L’intuizione è più tipica della
donna, che proprio per questo coglie
aspetti della realtà che sfuggono ad
una logica solo deduttiva. Anche la
creatività, altra caratteristica molto
legata alla donna, ha bisogno di rien-
trare nell’economia: dalle crisi si esce
anche grazie a soluzioni innovative.
Infine, alla donna è spesso legata la
dimensione della gratuità, perciò, ad
esempio, tutti i lavori di ‘cura’ sono
considerati strettamente femminili.
La categoria antica che più dice che
cosa è la gratuità è agape. Luigino
Bruni ci ricorda che “la gratuità non
va quindi associata al ‘gratis’, di cui
spesso è proprio il suo opposto, poi-
ché l’atto gratuito non corrisponde ad
un prezzo nullo ma ad una assenza
di prezzo o, più propriamente, ad un
prezzo infinito”.
C’è una relazione
tra l’economia civile
e il carisma salesiano?
Ne vedrei tante. Pensiamo ad esem-
pio al partire dal positivo che c’è nelle
persone per far sviluppare comporta-
menti virtuosi. Partire dal positivo,
dal punto accessibile di ogni persona
è molto importante in ambito edu-
cativo, ma anche le imprese ne han-
no un grande bisogno. Dove non c’è
questo sguardo, ma si pensa invece
che le persone siano scansafatiche,
ci sono regole rigide e controlli, e gli
ambienti di lavoro diventano tristi e
invivibili. Dove invece c’è fiducia le
persone possono crescere, si respi-
ra un clima bello e si lavora meglio.
Anche il senso della gioia e della festa
sono importanti, in oratorio come nei
luoghi di lavoro.
L‘economia civile è la via
di uscita o una delle vie di
uscita all’attuale crisi?
L’economia civile affonda le sue radi-
ci, prima ancora che negli economisti
mediterranei della fine del ’700, come
Antonio Genovesi, nell’umanesimo
civile. La storia economica, civile e
culturale dell’Europa è anche la storia
dell’azione pervasiva dei carismi che
hanno rinnovato la cultura del lavo-
ro (San Benedetto), hanno aperto la
via all’economia di mercato (la scuola
francescana), hanno fatto nascere le
prime università, le prime scuole, i pri-
mi ospedali, i primi contratti di lavoro
a tutela dei giovani (don Bosco).
Quale posto occupa la
dimensione economica nella
formazione professionale
e nell’inserimento lavorativo
dei giovani?
Attualmente la dimensione econo-
mica nella formazione professionale e
scolastica in genere mi sembra molto
schiacciata sul versante aziendale e di
apprendimento di tecniche. La sepa-
razione tra cultura tecnica e cultura
filosofica ha portato a non considerare
in Italia l’economia come una scienza
della formazione di base. Scriveva a tal
proposito il filosofo italiano Giovanni
Vailati nel 1899: «E veramente ci do-
vrebbe sembrare molto strano, se non
vi fossimo abituati, il fatto che mentre
da un giovane, che aspira a ottenere un
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2.5 Page 15

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ECONOMIA DI COMUNIONE
L’economia di comunione è un’esperienza che rappresenta una realizzazione concreta dei
principi dell’economia civile. Ne parliamo con Luigino Bruni, responsabile a livello mondiale
di questo progetto.
Che cos’è il progetto di economia di comunione?
È un movimento di imprenditori, cittadini, poveri, lanciato da Chiara Lubich, fondatrice del
Movimento dei Focolari, nel maggio del 1991 a San Paolo. Nasce da uno sguardo sulle
ineguaglianze del nostro capitalismo, favelas e grattacieli, e dal desiderio di fare qualcosa
per ridurla. Chiara invitò gli imprenditori a condividere i loro profitti per alleviare la povertà,
contribuendo a cambiare la cultura dell’avere in quella che lei chiamò la ‘cultura del dare’.
Oggi, dopo 25 anni, sono circa un migliaio le imprese che vivono questa cultura, oltre 500 le
tesi di laurea e di dottorato, sei poli industriali in Sud America e in Europa, e c’è un crescente
interesse anche per la cultura accademica cresciuta attorno a questa esperienza.
Suor Alessandra durante la presentazione
di uno dei suoi libri. Alcuni hanno come coautore
il professor Luigino Bruni (cfr intervista a fianco).
certificato di idoneità [un diploma],
… si richiede che sappia i nove nomi
delle muse o dei sette re di Roma, o in
che sistema cristallizzano lo zolfo e la
pirite, e non si esige invece che abbia
la più vaga nozione della differenza tra
imposte dirette e indirette o di ciò che
sia una banca o una società anonima»
(Scritti, III, p. 262). Far tornare la di-
mensione economica nella formazione
vuol dire impegnarsi a formare perso-
ne nuove per un’economia nuova e per
un mondo migliore.
E oggi, dunque?
Oggi ci è chiesto di creare nuovo la-
voro dal basso: attenzione, non nuovi
posti di lavoro, ma lavoro nuovo, e
in questo i giovani possono esse-
re protagonisti. C’è bisogno di una
maggiore cooperazione e anche il
movimento cooperativo andrebbe
riscoperto. Occorre intraprendere e
Qual è il significato delle tre parti degli utili?
Chiara invitò le imprese a suddividere i profitti in tre parti: una per i poveri, una per la dif-
fusione della cultura tra tutti e i giovani in primis, e una reinvestita nell’impresa. Il valore
aggiunto ha una funzione sociale, lo sappiamo, e la tassazione non basta. Senza una cultura
nuova, poi, non si costruisce un’economia nuova, ecco il senso dell’investimento in cultura,
che oggi significa sostenere migliaia di giovani negli studi, il finanziamento dell’Istituto uni-
versitario Sophia a Loppiano, e molti progetti per i giovani. Ma l’impresa deve vivere e cre-
scere, quindi una parte dei profitti viene reinvestita, anche per creare nuovi posti di lavoro.
Coinvolge solo le imprese o è un progetto più ampio?
Si parte dalle imprese, la principale istituzione del capitalismo, ma poi il suo raggio di azione
è più ampio. Slotmob, un’iniziativa contro l’azzardo in Italia, la nascita di banche e di progetti
di microcredito (Mecc), progetti di cooperazione allo sviluppo, dicono che le imprese non
bastano. L’EDC è un movimento economico globale, che opera in tutte le dimensioni dell’e-
conomia.
Quali le sfide per l’economia di comunione oggi?
Molte, ne indico tre. 1) Dare vita ad una nuova fase dell’intreccio comunità-imprese. 2) L’E-
conomia di Comunione si salverà e crescerà se resterà popolare, fraterna e quindi povera.
3) È auspicabile che il tema dei diritti di proprietà, con forme più in linea con la cultura di
comunione, venga posto al centro dei nuovi esperimenti imprenditoriali che stanno fiorendo
un po’ in tutto il mondo.
lavorare nella custodia dei beni co-
muni, nel favorire i beni relazionali
ecc. Ma per fare tutto questo occor-
re che anche la politica abbia uno
sguardo nuovo, sia aperta all’idea,
propria dell’economia civile, dell’im-
portanza della biodiversità (la picco-
la cooperativa ha diritto di esistere
accanto alla multinazionale perché
entrambe concorrono allo svilup-
po del Paese). Oggi c’è invece una
tendenza al riduzionismo, a volere
che tutte le imprese siano uguali (la
piccola cassa rurale di un paese e la
banca multinazionale, la scuola di un
ordine religioso e una business school
per manager): si continua a pensare,
nonostante la crisi, che sia solo uno il
modello di impresa. Se non si inverte
questa tendenza credo che come Ita-
lia non ce la passeremo bene, perché
ritorneremo a crescere solo se, inve-
ce, faremo tesoro della specifica vo-
cazione italiana al mercato e all’im-
presa. Ma occorrono nuova classe
politica e nuovi programmi scolastici
dove si studi anche l’economia, fin
da piccoli.
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MONDO
3
A CURA DELL’ANS – WWW.INFOANS.ORG
2
4
INDIA 1
ETIOPIA 2
FINO AI CO
Un festival di corti
per la Disabilità
L’Ispettoria salesiana di Chen-
nai ha celebrato la Giornata Internazionale delle Persone
con Disabilità, prevista per il 3 dicembre, con un grande
Festival di Cortometraggi, denominato “Thiran 2016”
(termine che significa “Abilità”). In totale gli organiz-
zatori hanno ricevuto 163 corti, dei quali i migliori 25,
selezionati da un’apposita giuria, sono stati proiettati e
15 sono stati premiati nelle diverse categorie. Il festival,
che si è svolto presso l’auditorium Don Bosco dell’opera
salesiana di Egmore, ha visto la partecipazione di circa
1000 persone, delle quali 700 con disabilità.
Tra i filmati presentati al festival un’attenzione specia-
le è stata riservata al documentario prodotto dal “Don
Bosco Institute of Communication Arts” ( ), che
ha emozionato tutti i presenti. Il video presenta la figura
di Suguna, una donna la cui vita è stata interamente
dedicata alla cura di sei dei suoi fratelli e sorelle, affetti
da gravi disabilità. Nel documentario la donna raccon-
ta di considerarsi una privilegiata e di credere che Dio
l’abbia conservata e le abbia dato buona salute proprio per
prendersi cura dei suoi fratelli più bisognosi.
Stop al traffico di esseri umani!
Presso il “Salesianum” di Addis Abeba è stato organiz-
zato un seminario nazionale sul traffico di esseri umani.
L’Ufficio salesiano di Pianificazione e Sviluppo ( )
dell’Etiopia sta lavorando duramente per ridurre il tasso
di immigrazione irregolare e il traffico di esseri umani.
Nonostante i rischi elevatissimi dell’immigrazione irre-
golare infatti, molte persone, soprattutto giovani, conti-
nuano a migrare irregolarmente e molti di loro finiscono
così nelle mani dei trafficanti di esseri umani. Queste
persone ancora scelgono di migrare, a rischio della morte,
piuttosto che rimanere nel loro paese e cercare di guarda-
re le opportunità lì presenti. I Salesiani, oltre a mostrare
i pericoli e le conseguenze della migrazione irregolare
e della tratta intendono anche sensibilizzare i giovani
in questione, affinché sia possibile aiutarli a portare dei
cambiamenti nelle abitudini di lavoro del loro paese.
Durante l’anno vi è stato un grande impegno per realiz-
zare una campagna di sensibilizzazione sul tema della
tratta e il seminario è certamente un utile strumento per
rispondere ad alcune delle esigenze urgenti dei giovani
d’Etiopia.
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ITALIA 3
NIGERIA 4
1
Rilanciare il carisma salesiano in Europa Un’esperienza sorprendente
L’incontro biennale degli Ispettori d’Europa con il Rettor
Maggiore e il suo Consiglio è una tradizione consolidata,
che si è rinnovata ancora una volta nello scorso fine-
settimana (2-4 dicembre) presso la Casa Generalizia.
L’appuntamento è servito a favorire il dialogo tra le due
regioni salesiane e le molte lingue d’Europa, per condi-
videre alcune buone pratiche e, soprattutto, discernere le
priorità del comune cammino nel Vecchio Continente.
All’appuntamento hanno partecipato oltre 60 Salesiani,
tra Ispettori, membri del Consiglio Generale e Coordi-
natori di Pastorale Giovanile e Formazione. Nelle diverse
sessioni, trascorse tra ascolto, condivisione e discerni-
mento, sono stati affrontati diversi argomenti:
il Progetto Europa, che negli ultimi anni ha portato oltre
60 missionari nel Vecchio Continente; il multiforme e
ampio lavoro con gli immigrati e i rifugiati, che è stato
ribadito essere un campo d’azione privilegiato e cari-
smatico, specie in relazione ai minori non accompagnati;
le sfide pastorali riguardanti la scuola e la formazione
professionale in Europa; una panoramica generale sulla
situazione della formazione.
Don Jorge Crisafulli è un salesiano
argentino da 20 anni missionario in Africa. In questa
storia, piena di semplicità, presenta un bel messaggio di
servizio missionario: il tutto è avvenuto in un mercato
in Nigeria, in strada, a pochi isolati da dove i Salesiani
hanno la loro comunità in Abuja, la capitale.
«Ero andato in città per fare una visita ai miei confratelli
missionari e loro mi dicono che dovevo andare al
mercato all’aperto a confessare e a celebrare la messa.
Ovviamente, la cosa ha fatto sorgere in me un po’ di
sorpresa e persino d’incredulità: bisogna conoscere e
capire come si svolge un mercato aperto in Africa, con
migliaia di persone attorno a piccole bancarelle che
vendono di tutto, dal pesce fresco ai cellulari.
Arrivato al mercato mi portano una sedia, sotto un sole
tropicale caldo intenso e mi chiedono di mettermi a
confessare, in mezzo all’esagitazione collettiva. E viene
da chiedermi: ma che ci faccio io qui?
Con la mia veste bianca e la mia stola, seduto nel
mezzo della confusione, con centinaia di persone che si
muovono attorno, scrutano e comprano. Con mia grande
sorpresa una persona arriva da me e mi dice: «Padre,
posso confessarmi?». Gli ho chiesto se era cattolico e
mi ha risposto di sì, anche se erano 22 anni che non si
confessava. E così ha avuto luogo una bella confessione,
seguita dall’assoluzione. E poi da una Messa».
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2.8 Page 18

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A TU PER TU
DON BOSCO MAGAZIN - FOTO DI FRANZ SCHMID E MIVA
Traduzione di Marisa Patarino
I missionari hanno
due mani e due cuori
Incontro con il salesiano don Johann Kiessling che
dal 1982 vive nella Repubblica Democratica del Congo.
Lei è in Congo da 32 anni e
sette anni fa si è stabilito
nella zona del Kipusha. Che
cosa distingue Kipusha da
altre regioni del Paese?
Kipusha è la regione più povera del
Congo. Ha una superficie di 10 000
chilometri quadrati. È quindi estesa
come la Carinzia, ma ha una densità
della popolazione inferiore. I suoi abi-
tanti vivono di agricoltura e la terra
non è molto fertile. Poiché lavorano
con la zappa, possono coltivare campi
la cui estensione massima non supe-
ri due ettari, che corrispondono alla
dimensione di due campi da calcio.
Un missionario è un sacerdote
e nello stesso tempo un operatore
umanitario afferma.
Coltivano soprattutto mais e fagioli tatti con il mondo esterno disponiamo
e il loro lavoro è appena sufficiente solo della radio amatoriale nella mis-
per sopravvivere. Per avere un buon sione. Dobbiamo dunque accordarci
raccolto è necessario che il sole e la con un operatore che metta in azione
pioggia si avvicendino in modo fa- un’altra radio alla stessa ora due volte
vorevole. Se la pioggia è eccessiva, al giorno. Così riceviamo le notizie o
le piante ingialliscono e non portano segnaliamo che abbiamo bisogno di
frutto. Quando sono arrivato in que- un medico.
sta regione, sette anni fa, la perdita
del raccolto aveva provocato una ca- Quanti Salesiani vivono
restia. La gente poteva mangiare solo nella missione?
una volta al giorno e con il passare La nostra comunità è composta da
delle settimane questo unico pasto era cinque Salesiani: due congolesi, un
sempre più scarso. Così nessuno era belga, un polacco e io. Uno è un con-
sazio. Patirono dunque la fame fino al fratello laico, quattro di noi sono sa-
raccolto successivo di mais.
cerdoti, uno dei quali per le sue con-
Nella regione di Kipusha non c’è al- dizioni di salute trascorre la maggior
cun servizio postale, non ci sono In- parte del tempo in casa. Parliamo in
ternet e il telefono. Per tenere i con- francese.
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2.9 Page 19

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Quali responsabilità
ha un missionario cattolico
in Africa?
Un missionario è un sacerdote e nello
stesso tempo un operatore umanitario.
Lavoriamo dunque con entrambe le
mani. Con una cerchiamo di portare
il cristianesimo più vicino alla gente.
Con l’altra ci sforziamo di migliora-
re le condizioni di vita delle persone.
Non si può solo predicare la carità; la si
deve anche vivere. Ad esempio, in nes-
sun altro luogo costruire pozzi è diffi-
cile come nella regione di Kipusha. Sei
tentativi non sono andati a buon fine,
perché abbiamo sempre trovato una
lastra di pietra. C’era un piccolo corso
d’acqua, ma là bevevano gli animali e
tutti lavavano se stessi e gli abiti.
La nostra missione è anche un punto
di riferimento per gli ammalati o per
Don Kiessling vive da sette anni
nella missione della regione di Kipusha.
le madri che non riescono a dare alla
luce il loro bambino e hanno bisogno
di un taglio cesareo. Accompagniamo
le partorienti nella città di Sakanya.
Il percorso di 110 chilometri richie-
de cinque ore, perché la strada è in
cattive condizioni. Quando piove, la
situazione è ancora peggiore. L’ultima
volta ho impiegato dodici ore.
Siamo molto grati al Consorzio Mis-
sionario per i trasporti , che ci
ha fornito una Toyota Land Cruiser.
Grazie a questo veicolo abbiamo già
potuto salvare molte persone.
Nella regione di Kipusha
ci sono 40 parrocchie.
In che modo adempite i
vostri compiti pastorali?
Dal momento che abbiamo solo tre sa-
cerdoti attivi, incontriamo i fedeli del-
le varie parrocchie solo una volta ogni
tre o quattro mesi. I parrocchiani han-
no allora la possibilità di confessarsi e
di ricevere i sacramenti del battesimo,
dell’eucaristia o del matrimonio.
Nella nostra attività pastorale faccia-
mo affidamento sull’aiuto dei cate-
chisti, che visitano i vari villaggi con
regolarità e, ad esempio, preparano a
ricevere i sacramenti. Di nuovo grazie
a una donazione del Consorzio ,
i catechisti possono coprire in bici-
cletta le distanze spesso lunghe per
raggiungere i vari villaggi.
Quando è arrivato in Congo
in qualità di missionario,
a 48 anni, quali sono state
le sfide più importanti che
ha dovuto affrontare?
Per prima cosa ho dovuto imparare
il francese. Ma il solo francese non
era sufficiente. Nel corso dei primi
15 anni di missione ho visitato rego-
larmente tutti i villaggi e dunque ho
dovuto imparare anche la lingua chi-
bemba. Riesco quindi a esprimermi e
© Franz Schmid
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2.10 Page 20

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A TU PER TU
a predicare in chibemba. Molte vol-
te però pronuncio le parole in modo
non corretto e così il loro significato
cambia completamente. Ad esempio,
la parola kadeka se è articolata con le
vocali brevi significa “topi”. Con le
vocali lunghe vuole invece dire “auto-
rità”. Può così accadere che si dica di
pregare per i topi, suscitando ilarità.
Sei mesi dopo essere arrivato, sono
stato colpito dalla malaria. Pensavo
che sarei morto. Avvertivo dolori in
tutto il corpo, mi sembrava che la te-
sta mi scoppiasse, avevo la dissenteria.
Con il passare del tempo ho acquisito
anticorpi e non ho più subito attacchi
così forti. Ora ho sempre a portata di
mano farmaci antimalarici. Con il
tempo si impara a conoscere se stessi,
a comprendere se una sensazione pos-
sa essere sintomatica della malaria. Se
si assumono subito i farmaci, nell’arco
di due giorni i sintomi scompaiono.
Le compresse di chinino operano un
piccolo miracolo.
Qual è l’aspetto
specificamente salesiano
della sua opera
missionaria?
L’attenzione per i bambini. Noi Sa-
lesiani abbiamo il carisma del lavoro
accanto ai giovani. Qui nella regione
di Kipusha dedichiamo particolare
attenzione agli orfani. Nell’area del-
la nostra missione ci sono circa 500
Costruzione di pozzi nella regione di Kipusha.
I primi tentativi sono falliti a causa di una lastra di
pietra che bloccava l’accesso alle acque sotterranee.
Sotto: Don Kiessling è felice per aver ricevuto in
dono un fuoristrada dal Consorzio MIVA.
bambini orfani di un genitore o di
entrambi. Molti non possono anda-
re a scuola per la mancanza di mezzi
economici. Nella regione di Kipusha
gli studi sono a pagamento, dalle pri-
me classi elementari all’università. I
docenti ricevono da parte dello Stato
60 euro al mese, che non sono suf-
ficienti per vivere. Insistono dunque
affinché vengano corrisposte le rette
scolastiche.
I bambini che non pagano vengono
espulsi dalla scuola. I docenti li mi-
nacciano con un bastone perché non
rimangano in prossimità della scuola
e non disturbino gli altri. Ovviamen-
te, i bambini non sono in grado di va-
lutare che cosa significhi la scuola per
loro. Se sono espulsi dalla scuola, gio-
cano a calcio. Ma in questo modo non
impareranno mai a leggere e scrivere.
L’anno scorso ho dunque cominciato
a pagare le tasse scolastiche per gli
orfani. A Natale però non avevo più
denaro. Ho chiesto agli insegnanti e
ai direttori di permettere agli orfani
di studiare ancora per un anno. Ho
20
Febbraio 2017

3 Pages 21-30

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3.1 Page 21

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A sinistra: Anche il fuoristrada procede lentamente
lungo le strade in cattivo stato. Don Kiessling
impiega cinque ore per raggiungere la città
più vicina, che dista 110 chilometri.
Sotto: Don Kiessling con piccoli allievi nella
missione presso la regione di Kipusha.
promesso che avrei pagato le rette al
mio ritorno dall’Austria. Si fidano di
me perché in passato hanno verifica-
to che quando prometto una cosa la
mantengo. Ora dunque devo racco-
gliere in Austria il denaro per pagare
il mio debito e l’occorrente per per-
mettere ai bambini di frequentare la
scuola il prossimo anno scolastico.
Qual è il costo per
la frequenza di un anno
scolastico?
Permettere a un orfano di studiare
per un anno costa 40 Euro, compren-
sivi di lezioni, pensionato, acquisto di
quaderni, matite e penne. È un dato
medio. La scuola elementare avrà ad
esempio un costo molto inferiore ri-
spetto all’ultima classe delle scuole
medie superiori.
Per legge, i giovani che hanno supe-
rato l’esame di stato conclusivo della
scuola media superiore possono inse-
gnare nelle scuole elementari. Questo
è possibile perché le ultime due classi
delle scuole medie superiori hanno
un orientamento fortemente educati-
vo. Con le donazioni offerte a questo
fine si aiutano dunque molte persone:
i bambini che possono studiare, i do-
centi che, grazie alle tasse scolastiche,
si assicurano la sopravvivenza e i gio-
vani che, dopo aver conseguito il di-
ploma di scuola media superiore, pos-
sono contribuire, a lungo termine, a
risolvere il problema della carenza di
insegnanti nella regione di Kipusha.
Pensa di tornare
definitivamente in Austria?
No, non è nei miei programmi. Sto
molto bene in Africa. Naturalmente,
so che alla mia età devo essere cauto,
che devo valutare le mie forze. Non
vorrei però mai abbandonare questo
lavoro, che mi rende molto felice. Se
avrò la necessità di rallentare la mia at-
tività, dovrò accettare questa limitazio-
ne. Posso anche lavorare in case nelle
quali viene richiesto un impegno meno
gravoso. In Congo abbiamo circa 20
case, in cui si svolgono attività molto
diversificate. Ad esempio, una nostra
comunità ha la responsabilità della cura
pastorale in un ospedale. Quest’opera
ovviamente richiede molte meno ener-
gie rispetto alla costruzione di pozzi.
Se dunque non riuscirò più a svolgere
il mio servizio “in prima linea”, potrò
dedicarmi ad attività più leggere. Per
me, il Congo è diventato una seconda
patria. Vorrei essere sepolto là.
© Franz Schmid
Febbraio 2017
21

3.2 Page 22

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3.3 Page 23

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Ecpcoroil gnorsatrmo ma:
stiamo sempre
ALLEGRI(Don Bosco)

3.4 Page 24

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LE CASE DI DON BOSCO
GINO BERTO
La “scuola
di don Bosco”
a Roma
L’Istituto Pio XI
è un’opera che
guarda al futuro.
Una comunità
educante che
vuole realizzare
in pieno il sistema
preventivo di
don Bosco oggi.
Un gruppo di allievi del Pio XI
intorno al direttore.
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Febbraio 2017

3.5 Page 25

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Chi lascia la trafficata arteria di via Tusco-
lana ed entra nell’Istituto Pio XI è ac-
colto dagli ampi spazi dei cortili che in-
vitano ad essere abitati, circondati da un
arioso porticato con le sue colonne come
braccia che accolgono ed edifici allinea-
ti che dicono operosità di una realtà complessa
e salesianamente completa: Scuola Media, Liceo
classico e scientifico, Centro di formazione pro-
fessionale a indirizzo grafico, Oratorio - Centro
giovanile, Parrocchia, Tipografia. Quei salesiani
che nel 1928 arrivarono su terreni periferici della
città, non pensavano a uno sviluppo così fulgido
e fecondo di bene.
Negli anni ’30 del secolo scorso, conclusa la co-
struzione dell’Istituto e della parrocchia, attor-
no ad essa si è strutturato uno dei quartieri più
densamente abitati della città con vie intitolate a
nomi che dicono la storia salesiana, anzitutto un
papa, Pio XI, che da giovane prete ha incontrato
don Bosco a Valdocco e ne fu subito ammirato, è
il Papa che nel 1934 lo proclamò santo. E poi don
Unia, il cardinal Cagliero, don Filippo Rinaldi,
madre Maria Domenica Mazzarello, Santa Ma-
ria Ausiliatrice.
Il passaggio di consegne tra generazioni ci dona
oggi una realtà vivace e attraente, inserita in un
territorio, fucina di cultura e di avviamento al
lavoro, in ogni caso sempre ambiente educativo.
L’invito di don Bosco ad essere buoni cristiani e
onesti cittadini è il frutto di una complessità del
pensiero cristiano che ancora oggi fatica ad es-
sere compresa: non si può essere buoni cristiani
se non si lega alla dimensione religiosa quella
della giustizia, declinata attraverso l’onestà del-
la partecipazione alla vita comune, e cioè alla
cittadinanza. Buoni Cristiani e Onesti Cittadi-
ni non è uno slogan accattivante, bensì la meta
di un itinerario quotidiano fondato sul Sistema
Preventivo.
Questo itinerario complesso e affascinante è l’es-
senza di quella che in questi anni è stata rico-
nosciuta come “la scuola di don Bosco a Roma”:
l’Istituto Salesiano Pio XI.
Una scuola secondaria di primo grado (dagli anni
’40 a Roma) e un liceo Classico (nato nel ’38 nel
quartiere Esquilino e poi trasferito al Pio XI)
storici e un Liceo Scientifico nato nel 2010 che
in questi ultimi tre anni stanno registrando un
particolare successo nelle iscrizioni, in controten-
denza con tanti altri istituti.
Le strategie per incontrare
i giovani
In questi anni al Pio XI abbiamo raccolto l’invito
a volgere il nostro impegno in uno studio intenso
per scoprire come far sì che i giovani che abbiamo
di fronte si riconoscano protagonisti in una rela-
zione, soggetti dell’azione educativa e non desti-
natari di un servizio.
Abbiamo considerato necessario, prima di tutto,
uno studio approfondito e un sostegno costante;
abbiamo compreso che per far questo è fonda-
mentale che l’azione educativa non sia persona-
le, ma comunitaria. Tecnicamente potremmo
dire collegiale, ma non intendiamo un gruppo di
mutuo aiuto nelle difficoltà, o un’esibizione tec-
nica di correttezza formale da verbalizzare per
il prossimo audit di qualità: pensiamo invece ad
un insieme di persone in relazione tra loro, che
Chi entra
nell’Istituto Pio XI
è accolto dagli
ampi spazi dei
cortili che invitano
ad essere abitati,
circondati da un
arioso porticato
con le sue colonne
come braccia che
accolgono ed
edifici allineati
che dicono
l’operosità di una
realtà complessa
e salesianamente
completa.
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LE CASE DI DON BOSCO
La parrocchia
con i suoi 37 000
abitanti vive la
sua esperienza di
fede attorno a una
Basilica minore
dedicata a Maria
Ausiliatrice, “tra
le più belle chiese
di Roma”, sullo
stile delle grandi
Basiliche romane
della seconda metà
del Cinquecento.
facciano sintesi di pensieri differenti e si propon-
gano ai giovani all’unisono. Solo come comunità
educante si è potuto realizzare in pieno il Sistema
Preventivo di don Bosco oggi.
Come comunità educativa abbiamo letto i segni
dei tempi, studiato linguaggi nuovi, linguaggi par-
lati dai giovani, ci siamo appassionati ad essi. Ri-
conoscere uno studente come persona vuol dire
sorridere con lui, capirne i disagi, le ansie, com-
prenderne gli smarrimenti e proporre vie alterna-
tive al fallimento. Ogni azione didattica non può
prescindere dalla relazione tra persone.
Questo è il cambio di mentalità che abbiamo
messo in atto rispondendo all’invito di essere “la
scuola di don Bosco a Roma”, un cambio neces-
sario e ancora poco attuato nella pedagogia con-
temporanea.
In questo sistema ha trovato spazio la continua
ricerca dei mezzi necessari a far emergere questa
soggettività del giovane. La scuola con Tablet o la
scuola 2.0, realizzata al Pio XI ben 5 anni pri-
ma della pubblicazione del Piano nazionale della
Scuola Digitale del , nasce proprio come ri-
sultato di una lettura scientifica del tempo, delle
sue velocità e liquidità: è la risposta declinata in
chiave contemporanea di quell’evidente richiamo
di don Bosco ad ogni educatore: “Che cosa ci vuo-
le adunque? – Che essendo amati in quelle cose che
loro piacciono col partecipare alle loro inclinazioni
infantili, imparino a vedere l’amore in quelle cose che
naturalmente loro piacciono poco”. Questa è ancora
la rivoluzione culturale che don Bosco produsse
nella pedagogia.
Ad esso si aggiunge quello che le Costituzioni
Salesiane (cfr. art. 40) chiamano il criterio per-
manente, e cioè il pensiero che struttura il pro-
getto: ogni opera salesiana, nel senso di ogni
azione educativa nel nome di don Bosco, sia
«casa che accoglie, parrocchia che evangelizza,
scuola che avvia alla vita e cortile per crescere
in allegria». Cortile, casa, parrocchia e scuola
diventano, nella pedagogia di don Bosco, non
più spazi fisici da edificare, ma luoghi educativi
da rivivere.
La comunità del Pio XI si è chiesta, in questi
anni, dove fossero i giovani, e ha cercato insieme
strategie per incontrarli.
Quella che viene chiamata la digitalizzazione, la
dematerializzazione scolastica, altro non è che
l’addentrarsi con coraggio in altri “luoghi educa-
tivi”, probabilmente sconosciuti al mondo degli
adulti, e lì, dove sono i giovani, intessere relazioni
e fare scuola.
Solo il tablet
Ricordiamo i campi da calcio vissuti con un tor-
neo, la Pio’s Cup, da ottobre a giugno da tutte
le classi, per due pomeriggi a settimana, ani-
mati dai docenti giovani ed entusiasti; la Pio’s
Academy: il laboratorio musicale professiona-
le in cui i giovani cantano, ballano, scrivono,
compongono guidati da docenti professionisti;
la Lanterna di Dioniso: il laboratorio teatrale per
studiare il teatro classico mettendolo in scena;
e poi la scuola di lingue, i viaggi per scopri-
re il mondo, i progetti interdisciplinari. Tutto
questo è solo una parte della complessa rete di
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Febbraio 2017

3.7 Page 27

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IL NOSTRO INVITO PER L’OPEN DAY
attività divenute “luogo educativo” per tessere
relazioni e far emergere la soggettività del gio-
vane nella scuola.
A questi si aggiungono le convenzioni con l’as-
sociazione fondata da Pio Scilligo, l’ , per
un’azione di counselling socioeducativo e psicolo-
gico per i giovani e gli adulti, e più recentemente
con la Lazio per la prevenzione sanitaria.
Tra il 2003 e il 2008 la scuola del Pio XI rischiò
la chiusura: il calo di iscrizioni era notevole e
il consiglio ispettoriale era concentrato più sulla
parità di bilancio che su una visione di futuro.
La scuola media perse così una sezione e l’Istitu-
to Igea (ragionieri) chiuse. Gli educatori e alcuni
salesiani della comunità dovettero lavorare con
energia non solo per “invertire il trend”, impresa
dimostratasi possibile, ma anche per convince-
re tutti che la scuola di don Bosco a Roma, la
scuola del Pio XI, fosse una ricchezza della città
intera da offrire a più giovani possibile: dovette-
ro uscire dalle mura del Pio XI e andare nella
città di Roma per testimoniare che si poteva far
scuola in modo differente dall’ordinario, che lo
straordinario era da testimoniare nella quotidia-
nità e da offrire a tutti. Oggi al Pio XI di Roma
ci sono 27 studenti per classe e tanti in lista di
attesa.
I quasi settecento alunni di ogni età e indirizzo
scolastico che ogni giorno varcano la soglia del-
le aule portano uno zaino senza libri, ma solo il
tablet.
La parrocchia con i suoi 37 000 abitanti vive la
sua esperienza di fede attorno a una Basilica mi-
nore dedicata a Maria Ausiliatrice, “tra le più
belle chiese di Roma”, sullo stile delle grandi
Basiliche romane della seconda metà del Cin-
quecento.
Nel quartiere, quell’“andiamo all’Oratorio” espri-
me per i ragazzi e giovani un riferimento ricreati-
vo e formativo per i ragazzi della catechesi, quelli
del cortile, gli adolescenti dei gruppi apostolici e
il gruppo degli universitari.
Insieme sogniamo per te un posto diverso…
dove esprimere te stesso e sentire che la tua unicità è per gli altri una ricchezza
dove sentirti parte di una grande famiglia
dove le regole non sono divieti, ma consigli per la vita
dove gli insegnanti sono anche educatori e compagni di viaggio
dove la tecnologia sostiene e migliora la didattica
dove studiare significa appassionarsi al mistero della creazione e dell’esistenza.
Sogniamo per te un posto
dove imparare facendo esperienza anche fuori dai banchi di scuola
dove conoscere la complessità della vita attraverso la testimonianza di grandi
uomini (incontri letterari)
dove salire sulle tavole di un palcoscenico per prendere coscienza di sé (teatro)
dove poter gustare la felicità di una piccola vittoria e cogliere l’opportunità
dietro una sconfitta (calcio)
dove imparare nuovi modi di esprimere le tue emozioni (musica)
dove comunicare in diverse lingue per aprire la strada alla scoperta del mondo:
è il Sogno di don Bosco che continua a farsi storia.
in questo posto
la tua famiglia ha un alleato prezioso
e il tuo sorriso è più importante di un voto.
Questo posto si chiama cambiamento
Perché la nostra scuola non è la stessa scuola.
Pio XI
la scuola di don Bosco
a Roma
Gli studenti del Centro di formazione impegna-
ti sul fronte della grafica continuano l’esperienza
salesiana degli inizi a Valdocco, imparare ad es-
sere buoni comunicatori attraverso il cartaceo e il
web e, se si aggiunge un pizzico di creatività, il
futuro lavorativo è garantito.
C’è anche un lembo di struttura al Pio XI che
accoglie i salesiani anziani, pieni di anni che ri-
cordano una vita spesa per i giovani in Italia e an-
che in terre lontane, che ci ricordano un sistema
educativo salesiano senza confini e una generosità
senza misura.
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3.8 Page 28

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VOLONTARI
CLAUDIA KLINGER DAL DON BOSCO MAGAZIN
«Faccio parte
della famiglia»
Traduzione di Marisa Patarino
Q Subito dopo aver conseguito il diploma
di scuola superiore, Niklas Gregull ha cominciato
a lavorare nell’ambito di un progetto di volontariato
per bambini di strada in India.
uando Niklas Gregull arriva
a Vijayawada, non passa inos-
servato: ha i capelli rossi, la
pelle chiara, è un tipico eu-
ropeo. Ogni estate parte da
Vienna alla volta di Vijayawa-
Da allora torna in India ogni anno e aiuta altri da. «Questa è la mia seconda patria»,
giovani a prepararsi per diventare volontari
nell’ambito delle organizzazioni salesiane.
dice. Quando poi arriva al centro per
ragazzi di strada che i Salesiani di
don Bosco gestiscono in città, com-
Perché si impegna tanto? Niklas Gregull si stringe
nelle spalle. «Faccio parte della famiglia», dice.
prende che qui non è un estraneo, ma
un amico accolto con calore, un mem-
bro della famiglia.
«Sono cresciuto in una
parrocchia dei Salesiani
di don Bosco»
Niklas Gregull è arrivato per la pri-
ma volta a Vijayawada nel mese di
settembre del 2009. All’epoca aveva
appena terminato il corso di studi
medi superiori e voleva prestare opera
di volontariato nella Famiglia di don
Bosco per realizzare un sogno che
aveva fin dall’infanzia.
«Sono cresciuto in una parrocchia
dei Salesiani di don Bosco a Berlino
Wannsee», dice. «E don Schwierzi, il
sacerdote che c’era allora, ci mostrava
28
Febbraio 2017

3.9 Page 29

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IL DON BOSCO YOUTH-NET
sempre immagini dell’epoca in cui era
stato missionario in Liberia. Ne ero
stato molto colpito». Per questo pre-
sentò al Centro Don Bosco Mission
di Bonn la sua domanda per prestare
servizio di volontariato all’estero.
Così arrivò in India. Il progetto a cui
ha partecipato si chiama “Navajeevan”,
che significa “Nuova Vita”. Il sacerdote
salesiano indiano Thomas Koshy nel
1989 ha cominciato a impegnarsi per
permettere ai bambini di strada, che
a Vijayawada sono migliaia, di spera-
re in un futuro migliore. Da allora, il
progetto si è notevolmente ampliato
nella città indiana e i Salesiani e i loro
dipendenti non solo danno ai bambini
di strada una nuova casa, ma si pren-
dono cura dei bambini che lavorano,
aiutano le famiglie colpite dal dramma
dell’ , collaborano con le istituzioni
governative che lavorano nell’ambi-
to dei diritti dei bambini e compio-
no opera di prevenzione nei villaggi
intorno alla città, da cui provengono
molti bambini di strada e bambini che
lavorano. Una decina di volontari che
provengono dalla Germania, dall’Au-
stria, dalla Svizzera e dai Paesi Bassi
lavora stabilmente nell’ambito del pro-
getto Navajeevan.
Niklas Gregull è rimasto colpito, ri-
scontrando quanto sia importante de-
dicare semplicemente un po’ di tempo
ai bambini: «Molti di loro non hanno
mai vissuto l’esperienza di qualcuno
«L’India e Navajeevan rimarranno sempre una
parte della mia vita», dice con convinzione. Ora
Niklas vive a Vienna e studia scienze politiche.
Inoltre è impegnato nell’ambito dell’iniziativa “Don
Bosco Youth-Net”, per aiutare nuovi volontari a
prepararsi.
che dedichi loro attenzione e si inte-
ressi ai loro desideri e ai loro sogni.
In realtà cerchiamo di fare il possibile
perché i bambini di strada si riavvici-
nino alle loro famiglie, perché si trat-
ta sempre del contesto migliore in cui
un bambino possa crescere», spiega
Niklas Gregull.
«Le storie dei bambini
sono travolgenti»
Quando l’anno di servizio volontario
terminò, Niklas comprese con assolu-
ta chiarezza che voleva continuare a
svolgere quel lavoro. «L’India e Nava-
jeevan rimarranno sempre una parte
della mia vita», dice con convinzione.
Ora Niklas vive a Vienna e studia
scienze politiche. Inoltre è impegnato
nell’ambito dell’iniziativa “Don Bo-
sco Youth-Net”, presta attivamente la
sua opera a Benediktbeuern, in Ger-
mania, per aiutare nuovi volontari a
prepararsi, e tiene seminari per i gio-
vani provenienti da tutta Europa che
lavorano come volontari per un anno
in Germania nell’ambito di un pro-
getto sociale o ambientale.
Molti volontari, la maggior parte di
Don Bosco Youth-Net (DBYN) è una rete
internazionale di gruppi di lavoro e orga-
nizzazioni giovanili promossi dai Salesiani
che operano nello stile di don Bosco. La
rete mette assieme oltre 1000 dipendenti e
8000 volontari che si prendono cura di oltre
110 000 tra bambini, ragazzi e giovani in 13
nazioni dell’Unione Europea: Spagna, Ger-
mania, Slovacchia, Slovenia, Austria, Bel-
gio, Malta, Repubblica Ceca, Irlanda, Gran
Bretagna, Polonia, Olanda e Italia.
info@donboscyouth.net
www.donboscoyouth.net
loro, fanno esperienza della povertà e
della miseria per la prima volta nella
loro vita negli Istituti don Bosco in
India, in Africa, in Europa o in Sud
America. Sono esperienze inquietanti,
che possono suscitare la nostalgia di
casa. Ma non ce ne sarebbe il tempo,
come dice Niklas Gregull: «Le storie
dei bambini in alcuni casi sono molto
forti: alcuni sono stati venduti come
schiavi domestici e lasciati in balia
dei capricci dei “proprietari”. Ci sono
bambini affetti da completamente
soli, perché i loro genitori sono morti
di . E ci sono ragazze costrette al
matrimonio o obbligate a prostituir-
si. Ma nella vita di ogni giorno», dice
Niklas Gregull, «i bambini malgrado
tutto sono bambini e vogliono essere
felici. E proprio questo dà una motiva-
zione: si vedono i bambini, si gioca con
loro e si sperimenta come i collabora-
tori siano disponibili per loro in qua-
lunque momento. Il progetto s’inseri-
sce nell’opera di don Bosco ed è molto
impressionante».
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3.10 Page 30

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VALE LA PENA
ANS
Traduzione di Marisa Patarino
«Don Bosco riceveva spesso lumi superiori per il discernimento delle vocazioni. La sera del 31 ottobre 1885 egli dis-
se a don Lemoyne che talora, mentre stava in chiesa vedeva una specie di fiammella staccarsi dalle candele dell’altare
e girando e rigirando posarsi sul capo di qualche giovane, essere quello per lui un segno evidente di vocazione nel
designato» (Memorie Biografiche XVII, 470)
Le fiammelle di Dio volano ancora.
PAPUA NUOVA GUINEA
Bernard Kaiau
«Dio mi ha chiamato
due volte»
Ci vuole una comunità – famiglia, formatori, amici
– per far germogliare una vocazione, sebbene la
chiamata venga da Dio stesso. La testimonianza
vocazionale del chierico papuano Bernard Kaiau
ne è una prova.
Provengo da una famiglia cattolica e sono l’ultimo
di quattro figli, tre maschi e una femmina. Mio
padre è insegnante, mia madre è casalinga. Il mio
interesse per la vita religiosa è cominciato quando
avevo la tenera età di tre anni, grazie agli inse-
gnamenti e ai principi cristiani trasmessi dai miei
genitori. Mio padre e mia madre ci accompagnavano ai
rosari organizzati in diversi paesi dalle varie comunità, in
particolare nel mese di ottobre.
Tutte le domeniche i miei genitori si assicuravano che par-
tecipassimo alla messa. Crescendo, ho appreso che il nome
Bernard mi è stato dato da un allora frate passionista. La
buona formazione cattolica che ho ricevuto in famiglia mi
ha permesso di avere grande rispetto per i sacerdoti, le
suore e altri laici intesi come strumenti di Dio, che diffon-
dono la sua Parola e il suo amore.
Sebbene io presentassi già segni della mia vocazione, non
ero ancora chiaramente orientato a diventare religioso. Il
mio orientamento diventò chiaro quando entrai nell’Isti-
tuto Don Bosco Vanimo nella Provincia di Sandaun nel
2003. Rimasi là per quattro anni come studente interno
e seguii gli studi medi superiori a partire dall’anno scola-
stico 2003-2006. Ero molto felice perché la mia vocazio-
ne alla vita religiosa si rafforzava con l’aiuto dei Salesiani.
L’ambiente costruttivo in cui mi trovavo favoriva l’appren-
dimento e ha determinato un notevole impatto nella mia
vita di studente sotto tutti gli aspetti, mentali, sociali, fi-
sici, emozionali e soprattutto spirituali.
Le realtà che vivevo a scuola e che mi hanno aiutato a di-
ventare religioso sono state la recita quotidiana del rosario,
la disponibilità dei nostri sacerdoti salesiani per la confes-
sione, i ritiri, le conversazioni del buon giorno e della buona
notte. I Salesiani, inoltre, erano sempre presenti con noi in
occasione delle gite scolastiche, nei campi di gioco e in altre
attività scolastiche. Tutto questo incoraggiò noi che teme-
vamo di non essere in grado di raggiungere buoni risultati
negli studi o in altri ambiti della formazione.
Con questa direzione e questa guida nella mia vita, decisi
di aggregarmi al gruppo vocazione e, dopo aver termina-
to gli studi medi superiori, nel 2006 entrai nel Seminario
Savio Haus.
Nel 2007 fui scelto per compiere i miei studi presso il Don
Bosco Technological Institute a Port Moresby, mentre ero
aspirante presso il Seminario Savio Haus.
30
Febbraio 2017

4 Pages 31-40

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4.1 Page 31

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Sono chiamato a servire
Verso il mese di maggio del 2007 fui però colpito da una
forma grave di malaria cerebrale e fui ricoverato per una
settimana all’ospedale Pacific International Hospital di
Port Moresby. Fui poi mandato a casa a West Sepik, nella
Provincia di mia madre. Pensai che questo segnasse la fine
della mia vocazione e del mio percorso di studi.
Dio però mi ha chiamato ancora. Tornai a frequentare la
scuola ed espressi nuovamente il mio desiderio di essere
aspirante. Fui riammesso in seminario e continuai i miei
studi. Ho poi frequentato l’università per quattro anni e mi
sono laureato nel 2011. Vedere i miei compagni di studi
che andavano a lavorare mi indusse a uscire dal seminario.
Anche i miei genitori volevano che io vivessi fuori del se-
minario per un po’ e che lavorassi per contribuire ad aiutare
finanziariamente la nostra famiglia. Dovetti anche allon-
tanarmi da un’amica che studiava all’Università di Goroka
per rispondere a questa chiamata speciale da parte di Dio.
Per me è stato difficile prendere questa decisione. Gra-
zie alla preghiera, alla comprensione della mia famiglia e
al sostegno dei Salesiani della casa di formazione chiesi
perciò di essere ammesso al pre-noviziato e fui ammesso
al Centro di Formazione Don Bosco di Cebu, nelle Filip-
pine, dove rimasi per l’anno 2012-2013. Continuai il mio
percorso frequentando il noviziato, nell’anno 2013-2014. I
due anni di formazione mi hanno aiutato ad approfondire
la conoscenza di me stesso e, con l’aiuto di Dio, tramite i
suoi strumenti, i formatori, il direttore spirituale e il mae-
stro dei novizi, ho finalmente deciso di essere Salesiano di
don Bosco.
Ciò che veramente mi motiva è lo sforzo instancabile che
i missionari salesiani compiono qui nel nostro Paese, Pa-
pua Nuova Guinea, continuando ad aiutare e formare i
nostri giovani affinché diventino buoni cristiani e onesti
cittadini. Soprattutto, però, Dio mi chiama a essere suo
strumento nel cambiamento, trasformando la mia vita e la
vita di coloro che sono chiamato a servire, in particolare i
poveri e i più abbandonati, seguendo le orme di don Bo-
sco come seminarista in cammino per diventare sacerdote
salesiano.
SRI LANKA
Don Noel Sumagui
«Sarei un ipocrita
se dicessi che la vita
missionaria è facile»
Don Noel Sumagui (45 anni, missionario filippino
dell’Ispettoria FIN) è stato mandato dal Rettor
Maggiore nello scorso settembre 2015 insieme ad
altri 5 missionari nella Visitatoria dello Sri Lanka.
Dopo aver trascorso sei mesi in questo Paese
dell’Asia meridionale che ha recentemente subito
una guerra civile e molte esperienze dolorose,
don Noel parla della sua nuova esperienza di vita.
Come ha compreso di avere una vocazione
missionaria? Perché ha preso questa
decisione?
Dopo l’ordinazione sacerdotale, ho sempre voluto andare
di nuovo in terra di missione (ero stato in Papua Nuova
Guinea come tirocinante per 3 anni). Di fatto, penso di
aver sempre avuto questo desiderio. Solo negli ultimi 5
anni, però, questo desiderio è diventato una passione. Mi
frenava solo la sensazione di non essere abbastanza bravo
Febbraio 2017
31

4.2 Page 32

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VALE LA PENA
per diventare missionario. Ho però compreso che, se aves-
si aspettato il momento di essere davvero preparato per
partire, sarei stato troppo anziano per farlo. Per questo,
a 45 anni, dopo 25 anni di vita salesiana e a 15 anni di
distanza dall’ordinazione sacerdotale, mi sono fatto corag-
gio e ho compiuto un salto di fede, decidendo di tradurre
questo desiderio in realtà. Dopo tutto, per quanto io sen-
tissi di poter essere inadeguato, ho anche ricevuto molto
ed è opportuno che io condivida questi doni ovunque e
con chiunque Dio mi manderà.
Qual è stata la sua rinuncia più difficile?
Per la mia età e la mia formazione, e poiché sono sale-
siano da 25 anni, posso più o meno dire che avevo tro-
vato una stabilità nel ministero che svolgevo e in ciò che
potevo offrire alla Congregazione nella mia Ispettoria
madre. Per me è stato difficile rinunciare a questo e an-
che al conforto dei confratelli con cui sono cresciuto,
alla mia famiglia con cui potevo stare in contatto e an-
dare a trovare e all’ambiente naturale e alla cultura che
è già come una sorta di pelle. Questo è particolarmen-
te vero soprattutto ora, perché più vivo in Sri Lanka e
più riscontro la differenza tra la cultura degli abitanti
di questo Paese e quella a cui sono abituato. Ora sono
letteralmente come un bambino che impara e cerca di
accogliere tutto dall’inizio.
Dove ha trovato il coraggio per partire?
Dio è stato buono e generoso con me, nonostante i miei
numerosi difetti e le mie mancanze del passato come per-
sona, come religioso e come sacerdote. Tuttavia Dio mi ha
dato tanto. Sarei un ipocrita se dicessi che la vita missiona-
ria è facile e che le mie esperienze dei mesi trascorsi in Sri
Lanka sono state una passeggiata. Di sera però, quando
posso parlare con lui davanti al Santissimo Sacramento,
me ne ricordo sempre e gli dico: «Solo tu... nient’altro!».
Può sembrare che io ponga la questione sul piano spiritua-
le, ma questa è stata davvero la mia preghiera finora. Ho
imparato a smettere di darmi altre motivazioni, scuse e
ragioni. Ne rimango solo deluso. Dopo tutto, voglio sem-
plicemente e davvero donargli di nuovo tutto.
Può parlarci di un giorno della sua vita
missionaria?
Un giorno stavo parlando con un pre-novizio cingalese e
gli domandai come immaginasse il suo futuro. Disse che
voleva diventare sacerdote salesiano, ma aggiunse: «Non
un comune sacerdote salesiano che un giorno muore. Vo-
glio essere un sacerdote salesiano missionario e voglio
andare in posti molto lontani, dai più poveri. Voglio che
la mia vita abbia un significato». Sorrisi, ma soprattutto
sentii una grande conferma nel mio cuore... dopo tutto,
quel giovane comprendeva che essere missionario consiste
nell’“avere un significato più profondo per la vita”.
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Febbraio 2017

4.3 Page 33

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CAMBOGIA
Cl. Michael Gaikwad
«Un ragazzo buddista
mi ha insegnato le
preghiere cattoliche»
Cl. Michael Gaikwad, originario dell’India,
Ispettoria di Mumbai, è stato uno dei componenti
della 146ª spedizione missionaria salesiana
(settembre 2015). Insieme a Cl. è arrivato
alla Delegazione THA della Cambogia lo scorso
ottobre 2015 anche Joshua Pilaku,
proveniente dalla Nigeria.
Attualmente Cl. Michael sta studiando
la lingua khmer e compie il suo tirocinio pratico
nella comunità di Sihanoukville.
Questa scelta richiede coraggio.
Dove l’ha attinto?
Il coraggio non è l’assenza di paura. Ero ansioso e mi do-
mandavo quale situazione avrei trovato. Dopo che ho messo
tutto in mano all’Onnipotente, Egli ha preso le mie mani e
continua a tenerle. All’inizio sapevo che avrei compiuto un
salto; un giorno ho compreso che sarei saltato nelle mani di
Dio, che si prende cura di me e mi incoraggia.
Come ha compreso di avere una vocazione
missionaria? Perché ha preso questa
decisione?
In passato sono stato ispirato incontrando alcuni missio-
nari e, guardando documentari delle missioni salesiane,
ho compreso di avere una vocazione missionaria. Quando
però ho cominciato il percorso di discernimento con il mio
direttore ho compreso che è un dono di Dio. Nei momenti
di preghiera personale ho sentito veramente nel mio inti-
mo che Dio mi chiamava a essere missionario.
In che modo ha accolto la sua destinazione
come missionario?
Quando mi sono rivolto al Rettor Maggiore ho detto che
sarei stato lieto di lavorare in qualsiasi ambiente, di prefe-
renza tra i più poveri. Ho ricevuto l’obbedienza per andare
in Cambogia il 12 giugno 2015. Sono stato invitato a scri-
vere all’Ispettore e l’ho fatto.
Vale la pena dare la vita per gli altri in
modo così radicale?
Più che dare la mia vita, penso che condividerla con coloro
i quali vivono qui nelle missioni della Cambogia mi faccia
sentire che sto compiendo la volontà di Dio. Essere qui
è una sfida: una lingua sconosciuta, una cultura diversa,
tante cose diverse da imparare. Sono felice di essere qui
e posso senz’altro dire che vale la pena condividere la mia
vita, che è un dono di Dio per me.
Qual è stato l’incontro più significativo?
Ho ricevuto molte pubblicazioni di orientamento in Italia.
La considerazione migliore che ho letto è stata: «Dio è già
là prima di me in terra di missione e io sono su una terra
santa e devo togliermi i sandali». Per me l’incontro con un
ragazzo buddista che mi ha insegnato le preghiere cattoli-
che è stata un’esperienza molto toccante. Quel giovane in
terra di missione è diventato un missionario per me.
Febbraio 2017
33

4.4 Page 34

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COME DON BOSCO
PINO PELLEGRINO
Per una pedagogia consapevole
L’interrogativo è il nocciolo dell’intelligenza:
fa scattare il cervello e lo tiene sotto pressione.
Anche nell’arte di educare la domanda ha un ruolo
centrale. Il buon senso non basta: è meglio informarsi.
Ecco il perché dei nostri interventi a favore di una
pedagogia consapevole per non farci imprigionare
dalla teoria di turno.
Classi
promiscue
o unisex?
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Febbraio 2017
Sembrava una certezza ormai acquisita,
indiscutibile. Eppure oggi molti
la stanno rimettendo in discussione.
Stiamo parlando della questione se
siano da preferirsi le classi promiscue
o quelle divise per sesso.
Intanto un dato è certo: le classi
unisex stanno tornando di moda.
Negli Stati Uniti, ad esempio, nel
giro di poco più di dieci anni vi
è stato un incremento altissimo:
gli Istituti che all’inizio del 2000
offrivano classi divise per sesso erano
appena 4, oggi sono oltre 230!
Anche in Inghilterra, in Germania,
in Australia la separazione sta gua-
dagnando terreno. In Inghilterra in
almeno 9 scuole – 3 delle quali mol-
to prestigiose – i ragazzi e le ragazze

4.5 Page 35

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A LORO LA PAROLA
dagli 11 ai 14 anni sono in classi se-
parate.
Che dire?
Ad alcuni tali dati possono appari-
re passatisti, retrogradi, ideologici
o, peggio ancora, ispirati all’attuale
Stato Islamico della Siria e dell’Iraq
ove le classi devono essere tassativa-
mente unisex e gli insegnanti tutti
rigidamente dello stesso sesso degli
alunni.
È vero: le obiezioni possono essere
tante, ma i sostenitori delle classi uni-
sex contrattaccano immediatamente
adducendo più d’una ragione a loro
favore.
Le classi separate per sesso – dicono
– aumentano il rendimento scolastico.
Le unisex permettono di offrire un
metodo didattico più rispettoso del-
la diversità di crescita e di apprendi-
mento dei ragazzi e della ragazze.
Le ricerche avrebbero evidenziato che
le ragazze non solo imparano più ra-
pidamente dei ragazzi, ma sarebbe di-
versa la reazione a ciò che viene loro
insegnato.
La lettura del Diario di Anna Frank,
ad esempio, è capita ed apprezzata
dalle ragazze, mentre i ragazzi soven-
te sorridono e si annoiano presto.
Pure dal punto di vista delle necessi-
tà d’ordine fisico vi sono differenze:
i ragazzi necessitano di mezz’ora di
intervallo per scaricarsi, alle ragazze
è sufficiente un quarto d’ora.
Nelle classi unisex gli alunni sarebbe-
ro più liberi.
Nella scuola mista i ragazzi sono
portati a dire che la poesia è roba per
femmine e le ragazze, a loro volta, la-
sciano le applicazioni scientifiche ai
ragazzi; in quella separata, ognuno fa
quello che gli pare.
Sempre in tema di libertà, le ragazze
sarebbero meno schiave dell’obbligo
di piacere a tutti i costi per conqui-
stare i ragazzi.
La scuola divisa per sesso permet-
terebbe di proteggere meglio la vita
emotiva dei ragazzi.
Tutti sanno che la pubertà e la pre-
adolescenza sono il momento del
massimo tumulto ormonale, mai così
violento e precoce come nella nostra
società sempre più erotizzata.
Tutti sanno che nella prima adole-
scenza la parte del cervello che go-
verna il criterio dei comportamenti
è ancora in formazione e quindi non
preparato a reazioni controllate e so-
cialmente accettabili.
Finalmente, nelle classi separate per
sesso, gli studenti sarebbero più at-
«Tutti i giorni la mamma e il papà mi
domandano che cosa ho fatto oggi. Io
non mi ricordo più e loro non ci credono
perché cominciano subito ad arrabbiar-
si” (Stefania, otto anni).
«Quando la sera torna a casa papà, mi
sembra d’essere in vacanza” (Sara, sei
anni).
«A tavola mio papà sgrida sempre la
mamma perché la bistecca è troppo
dura. Io ci sto male perché le grida di
papà mi rovinano la digestione”. (Ric-
cardo, nove anni).
«La mia mamma fa la casalinga così
deve mantenere anche mio papà che la-
vora soltanto» (Irene, cinque anni).
«La mia nonna è come un aspirapolvere
perché ogni cosa che si poggia sul tavo-
lo per due minuti è sparita” (Alessandro,
sei anni).
tenti, meno disturbati dall’incrociarsi
degli occhi pieni di messaggi.
Una ragazza quindicenne lo confessa
molto serenamente: «Fino alla terza
Media la scelta è stata dei miei genitori.
Poi prima di passare alle Superiori ho
riflettuto ed ho deciso per la scuola sepa-
rata. Credo sia più facile stare attenti in
classe e poi, insomma, bado meno a come
sono vestita!”.
Tirando le somme, perché dunque
non offrire a scuola un’educazione, un
insegnamento differenziato, rispetto-
so delle caratteristiche psico-fisiche
dei ragazzi e delle ragazze?
La coeducazione (che non deve manca-
re: lo sottolineiamo) può (e deve!) ave-
re altri campi e altri spazi: il gruppo,
le vacanze, la piazza, il tempo libero,
il gioco, l’oratorio, gli incontri…
Queste nostre brevissime riflessioni
non hanno, ovviamente, la pretesa di
chiudere il discorso.
Vogliono essere un invito a dibattere
senza pregiudizi, così come si propon-
gono tutti i nostri interventi mensili.
La discussione è aperta.
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4.6 Page 36

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LA LINEA D’OMBRA
ALESSANDRA MASTRODONATO
mGaslcahera!
Ci vuole coraggio per spogliarsi dei propri
travestimenti e fidarsi degli altri;
per riconoscersi simili a loro, nelle paure
e nelle attese, nei fallimenti e nella fatica
di vivere.
Apparire invincibili, granitici, sicuri di sé.
È questo il mantra della società dell’effi-
cienza e della competizione a tutti i co-
sti; una società incentrata sul culto del-
la perfezione, che impone proattività e
capacità di adeguarsi in modo rapido ai
cambiamenti, che è pronta a sacrificare l’identità
e i bisogni dei singoli sull’altare della performance
produttiva, che non lascia spazio per le debolezze
e i tentennamenti individuali.
Lo sanno bene i giovani adulti, che in questa so-
cietà ci vivono da sempre e, in parte, hanno con-
Oggi la gente ti giudica
per quale immagine hai,
vede soltanto le maschere,
non sa nemmeno chi sei.
Devi mostrarti invincibile,
collezionare trofei,
ma quando piangi in silenzio
scopri davvero chi sei.
Credo negli esseri umani,
credo negli esseri umani,
credo negli esseri umani,
che hanno coraggio,
coraggio di essere umani...
tribuito ad alimentarne il mito. Educati a tenere
ben nascosta la propria fragilità dietro uno scher-
mo di ostentata sicurezza, abituati ad essere giu-
dicati più per quello che “fanno” che per quello
che “sono”, sperimentano la sofferenza di sentirsi
schiacciati tra le aspettative ingombranti di una
società che li vuole dinamici, intraprendenti, pro-
tesi al risultato, e un insopprimibile bisogno di
autenticità.
Per questo hanno imparato a fabbricarsi mille ma-
schere diverse, una per ogni situazione, da sfoggia-
re – a volte con disinvoltura, a volte con insofferen-
za – sul palcoscenico della vita, nella speranza di
trovarne almeno una che li faccia sentire a proprio
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4.7 Page 37

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Prendi la mano e rialzati,
tu puoi fidarti di me;
io sono uno qualunque,
uno dei tanti uguale a te.
Ma che splendore che sei
nella tua fragilità
e ti ricordo che non siamo soli
a combattere questa realtà.
Credo negli esseri umani,
credo negli esseri umani,
credo negli esseri umani,
che hanno coraggio,
coraggio di essere umani...
L'amore, amore, amore
ha vinto, vince e vincerà;
l'amore, amore, amore
ha vinto, vince e vincerà...
(Marco Mengoni, Esseri umani, 2015)
agio. Maschere che celano la loro insicurezza e le
loro angosce più segrete allo sguardo indiscreto
degli altri; maschere che cancellano e appiattisco-
no le differenze in nome di un rassicurante con-
formismo; maschere che finiscono con il diventare
inscindibili dai volti, con il rischio di non riuscire
più a “riconoscersi”, di perdere di vista ciò che sono
realmente e di non riuscire più a scrollarsi di dosso
quei travestimenti così subdoli e ingannevoli.
Ma per quanto si tenti di dissimulare i propri sta-
ti d’animo e la propria intrinseca fragilità, sce-
gliendo con cura l’immagine di sé da esporre al
giudizio degli altri, nessuna maschera è così im-
penetrabile da non lasciar trasparire in controluce
qualche traccia di umanità. La paura di mostrarsi
vulnerabili e di mettere a nudo i propri punti de-
boli non può azzerare la parte più intima e vera
di noi, il desiderio profondo di essere accettati ed
amati esattamente per quello che siamo.
Certo, ci vuole coraggio per dar voce a questa in-
vocazione interiore che, dagli angoli più remoti
dell’io, grida al mondo intero il nostro bisogno di
amore e di relazioni autentiche. Ci vuole coraggio
per spogliarsi dai propri travestimenti e fidar-
si degli altri; per riconoscersi simili a loro, nelle
paure e nelle attese, nei fallimenti e nella fatica di
vivere. Ci vuole coraggio anche per far pace con la
propria fragilità, imparando a vedere in essa non
già un limite alla propria capacità di affermazione
nel mondo, bensì un tratto caratterizzante della
propria condizione di esseri umani.
Ma, in fondo, diventare adulti significa proprio
questo: riconciliarsi con le proprie debolezze e
imperfezioni, non aver paura di mostrarsi falli-
bili e bisognosi degli altri, comprendere che an-
che per chiedere aiuto e mettersi in discussione
c’è bisogno di una grande forza ed umiltà. Solo
per questa via si può recuperare appieno la pro-
pria umanità e sperimentare quell’empatia verso
il prossimo e quell’autenticità di relazioni che sole
possono incoraggiarci ad uscire dalla prigione
dorata dell’apparenza e della dissimulazione e a
lasciarci “smascherare” dall’amore di chi ci sta ac-
canto.
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4.8 Page 38

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LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
FRANCESCO MOTTO
Centinaia di Salesiani
in armi fecero il loro
dovere nelle oscure ed
Prima e dopo umili trincee sotto il fuoco
accanito delle artiglierie,
sulle cime nevose delle
montagne, o sul mare nelle
Caporetto regionialbanesielibiche.
Intanto nel primo anno di guerra
(maggio 1915 - maggio 1916) era-
no già morti dodici Salesiani ita-
liani ed il secondo anno si apriva
sotto cattivi auspici: molti chierici
sarebbero stati chiamati alle armi,
i sacerdoti anziani rimasti in casa
avrebbero dovuto assumersi un su-
perlavoro e molte case salesiane, prive
di ragazzi durante l’estate, avrebbero
rischiato di venire requisite.
Da Torino si esortarono allora i sin-
goli direttori a trattenere in casa i gio-
vani convittori e ad accoglierne altri,
possibilmente orfani di guerra.
Il tracollo di Caporetto
Si era all’indomani della disfatta mi-
litare di Caporetto (24 ottobre 1917),
con la massa imponente di profughi
friulani e veneti che si disperdevano
nella pianura veneta e in altre parti
d’Italia. Don Albera subito dispose
che nell’Oratorio venissero ospita-
ti un centinaio di fanciulli profughi
e fece appello a tutti i direttori delle
case d’Italia perché vi accogliessero il
maggior numero di giovani. Vennero
in effetti ricoverati 423 giovani in ven-
ticinque collegi, secondo don Ceria,
ma in realtà in una quarantina, stan-
do ad un album fotografico degli anni
1923-1924. Per altro, dopo Pinerolo,
anche Roma si mosse con la fondazio-
ne di una scuola agraria al Mandrione
(Quartiere Tuscolano) a favore dei figli
di contadini caduti in guerra.
Il Rettor Maggiore ribadiva conti-
nuamente ai direttori ed ispettori di
spedire soccorsi in denaro, alimenti e
vestiario ai confratelli militari che ne
avessero bisogno, soprattutto ai pri-
gionieri ridotti alla fame in Austria,
Germania, Polonia, Cecoslovacchia, i
quali spesso non ricevevano i pacchi-
viveri inviati loro dai famigliari. E
per loro il 24 settembre 1918 chiese
che facessero di tutto per farli “inter-
nare” nelle case salesiane, come già si
era fatto altrove, come ad Oświęcim
(Auschwitz) dove vi erano come “pri-
gionieri” tredici confratelli italiani.
L’apporto alla patria
dei Salesiani soldato
Le centinaia di Salesiani in armi,
soldati semplici, sergenti, tenenti, ca-
porali fecero il loro dovere “ora nelle
oscure ed umili trincee, ora nelle fa-
ticose, irresistibili avanzate al fragore
ininterrotto del cannone e sotto il fuo-
co accanito delle artiglierie, ora sulle
cime nevose delle montagne, o sul
mare nelle regioni albanesi e libiche”.
Fra loro i cinquantacinque cappellani
militari, i numerosi sacerdoti aiuto-
cappellani di ospedali da campo,
portaferiti al fronte e i molti addetti
alla sanità in qualità di infermieri sui
treni-ospedale, negli ospedaletti da
campo, di tappa, contumaciale, negli
ospedali militari sparsi per tutta Ita-
lia. Piuttosto pochi furono i Salesiani
chiamati a servizi temporanei in uffi-
ci amministrativi, giudiziari, o come
portaordini in bicicletta o assegnati ai
militari di medio ed alto rango.
I morti furono una quarantina (set-
tanta con i non italiani, novizi com-
presi): deceduti per assalti o nelle
difese sui vari fronti o nei campi di
prigionia o negli ospedali (per ferite
riportate, per malattie infettive, pol-
monari, per febbri malariche); i feriti
gravi o con handicap permanenti su-
perarono il numero di cento.
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Febbraio 2017

4.9 Page 39

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Non mancarono Salesiani che si offer-
sero per missioni pericolose; altri che
si resero disponibili a continui assalti
con altissimi rischi per l’incolumità;
altri ancora che preferirono restare
semplici sergenti per stare con i loro
soldati feriti all’ospedaletto di campo
anziché diventare cappellani militari
con grado e stipendio superiore; altri,
infine, disposti alla morte piuttosto
che a compiere un peccato mortale. Ci
fu anche chi si incolpò del furto di 130
lire per salvare i veri colpevoli, suben-
done la relativa condanna.
Molti approfittarono della convivenza
con i commilitoni per fare dell’apo-
stolato salesiano: incitandoli alla reci-
ta delle preghiere, alla devozione alla
Madonna, alla frequenza dei sacra-
menti, alla fuga dal turpiloquio, dalla
bestemmia, dalla lettura della stampa
immorale sostituita da quella cattolica,
come il Bollettino Salesiano e le lettere
del Rettor Maggiore ai Salesiani mili-
tari che passavano di mano in mano in
trincea, nelle caserme e negli ospedali.
Come soldati-speciali in quanto reli-
giosi, i Salesiani cercarono anche di
essere di esempio nel compiere il pro-
prio dovere con precisione, con amore,
con spirito di fede e di sacrificio; nello
stesso tempo diedero prova di dispo-
nibilità, mansuetudine, delicatezza e
riguardo verso commilitoni e superio-
ri. Non si posero troppe domande di
carattere politico, anzi non entrarono
mai in dibattiti di tal genere, onde
evitare le facili accuse di disfattismo
confessionale, di pacifismo clericale,
di polemica e opposizione.
Se il numero dei premiati o decorati
non superò la cinquantina, uno ogni
20 mobilitati, la Grande Guerra ha
però restituito alla congregazione sa-
lesiana forti personalità che avrebbe-
ro lasciato poi un segno nel campo
della loro azione apostolica. Bastino i
nomi di grandi missionari (alcuni già
venerabili) come i vescovi mons. L.
Mathias, mons. S. Ferrando, mons. G.
Pasotti, G. Lucato o come i sacerdoti
don C. Braga, don C. Crespi, don F.
Convertini, don C. Vendrame, don L.
Albisetti, don S. Garelli, don G. Cuc-
chiara... Altri fecero strada nell’ambito
della Congregazione salesiana come il
Consigliere generale don Guido Bor-
ra, o come il Rettor Maggiore don
Renato Ziggiotti, che chierico, sot-
totenente e poi tenente di artiglieria,
combatté sul Carso già nell’agosto
1915 e che, ferito, sarebbe stato conge-
dato nel 1919 con il grado di capitano.
A fine guerra quasi tutti poi tornarono
alle loro normali occupazioni salesia-
ne, pronti a rimettere a servizio della
patria terrena “le migliori energie in-
tellettuali e morali con le loro sante e
pacifiche battaglie dell’insegnamento
delle scienze e delle arti”.
Documenti del chierico postnovizio brianzolo
Eugenio Magni (1899-1980), conservati dal
nipote, che ricorda come lo zio, a seguito del
congelamento dei piedi sul monte Grappa,
per tutta la vita dovette portare delle scarpe
polacchine per la scarsa sensibilità rimastagli.
Febbraio 2017
39

4.10 Page 40

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I NOSTRI SANTI
CAECSUARRAE DBISPSIEORLLIUIGI CAMERONI postulatore generale - postulazione@sdb.org
Coloro che ricevessero grazie o favori per intercessione dei nostri beati, venerabili
e servi di Dio, sono pregati di segnalarlo a postulazione@sdb.org
IL SANTO DEL MESE
In questo mese di febbraio preghiamo per la canonizzazione del Servo di Dio
Augusto Hlond, cardinale salesiano.
Augusto Hlond nacque a Brzeckowice (Polonia) il 5 luglio 1881. A 12 anni, attratto dalla fama di don
Bosco, seguì in Italia il fratello maggiore Ignazio per consacrarsi al Signore tra i Salesiani, e vi attirò
presto altri due fratelli. Ammesso al noviziato, ricevette l’abito talare dal beato Michele Rua (1896).
Fatti gli studi a Roma all’Università Gregoriana, tornò per il tirocinio in Polonia ad Oswiecim. Fu
ordinato sacerdote il 23 settembre 1905. Nel 1907 fu direttore della nuova casa di Przemysl (1907-
09), e poi di Vienna (1909-19). Nel 1919, divisa l’Ispettoria Austro-Ungarica, fu nominato Ispettore
(1919-22). In due anni, il giovane ispettore promosse la fondazione di una decina di nuove presenze.
Dopo esser stato Amministratore Apostolico, fu consacrato vescovo di Katowice il 3 gennaio 1926. Il
24 maggio dello stesso anno diventava Primate di Polonia. L’anno seguente, il 20 maggio, il S. Padre
lo creava Cardinale. Ebbe dalla S. Sede anche la cura dei Polacchi della diaspora, dispersi nelle varie
parti del mondo. Per questo egli fondò una Congregazione, la Società di Cristo per gli emigrati della
Polonia. Con la seconda guerra mondiale cominciò il suo calvario che lo costrinse all’esilio fino alla
fine della guerra. Sostò dapprima a Roma dove iniziò una coraggiosa difesa della sua Patria, che
intensificò in Francia, quando riparò a Lourdes. Raggiunto dalla polizia nazista, fu deportato a Parigi
affinché formasse un governo polacco ligio ai nazisti. Il Cardinale si rifiutò decisamente. Allora i nazi-
sti lo internarono dapprima in Lorena, poi in Westfalia. Liberato dalle truppe alleate tornò in Polonia,
ove venne nominato Arcivescovo di Varsavia. Qui, come prima aveva difeso il suo popolo dagli orrori
del nazismo, così ora con vigorose pastorali continuò a difenderlo dall’ateismo comunista. La divina
Provvidenza lo scampò da più di un attentato, riservandogli il transito dei grandi patriarchi. Morì il 22
ottobre 1948. I funerali furono un’apoteosi. Per la prima volta nella storia della Polonia, la tumulazione
venne fatta nella stessa cattedrale.
PREGHIERA
Signore Gesù, ti sei spogliato di tutto
perché tutti gli uomini siano raggiunti
dall’amore salvifico di Dio.
Ti preghiamo di lasciarci ispirare
dall’amore apostolico del Servo di Dio Augusto Hlond,
affinché sappiamo impegnare tutte le nostre forze
per compiere ogni giorno la tua volontà
e per far sentire a tutti gli uomini la bellezza e la profondità
della tua presenza amorosa nel mondo intero.
Rendici docili alle ispirazioni interiori
e idonei a tradurle in atti di carità pastorale.
Donaci il coraggio di spogliarci di tutto ciò
che ostacola lo splendere del tuo volto nella nostra vita.
Donaci la grazia di comunicare a coloro che incontriamo
che tu sei l’eterna giovinezza e l’unica vita autentica
che sorregge e anima tutto per sempre.
Fa’ che il tuo servo Augusto, se tale è la tua volontà,
sia elevato alla gloria degli altari.
e concedici, per sua intercessione,
la grazia che ti chiediamo...
Amen.
Ringraziano
Più volte ho avuto modo di ricor-
dare il venerabile Attilio Gior-
dani, mio maestro di catechismo.
In occasione della malattia di mio
fratello Alfredo, exallievo dell’o-
ratorio salesiano nella parrocchia
di S. Agostino in Milano, ho spe-
rimentato una grande vicinanza di
Attilio Giordani non tanto per la
guarigione di mio fratello ottanten-
ne e diabetico da quasi 25 anni, ma
per il fatto che, essendo solo, ab-
biamo potuto assisterlo. Più volte
ho rivolto una preghiera ad Attilio
Giordani e grazie al suo intervento
penso che mia figlia abbia potuto
trovare ancora in vita mio fratello.
Solo così si è potuto ricoverarlo ed
assisterlo nei pochi giorni prece-
denti la sua morte.
Giuseppe Candiani - Bergamo
Sono una ragazza che da parecchi
anni frequenta il mondo salesiano
ed è qui il luogo dove ho cono-
sciuto il Bollettino. Non avrei mai
pensato di scrivervi anche io ma
adesso è giunto il momento... Vo-
glio pubblicamente ringraziare con
tutto il cuore san Domenico Sa-
vio e santa Maria Ausiliatrice
per avermi aiutata a realizzare il
sogno mio più grande. Grazie alla
loro intercessione presso il Signo-
re e dopo diversi anni di difficoltà e
sofferenze, sono finalmente diven-
tata mamma di un bambino dolce
e sano che ha da poco compiuto
un anno. Durante la gravidanza e il
parto ho indossato l’abitino di san
Domenico Savio che lo ha protetto
in numerose occasioni.
Manuela - Catania
Per la pubblicazione non
si tiene conto delle lettere
non firmate e senza
recapito. Su richiesta
si potrà omettere
l’indicazione del nome.
40
Febbraio 2017

5 Pages 41-50

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5.1 Page 41

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IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
NALLAYAN PANCRAS
DON MARIO PORCU
Morto a Guwahati (India) il 23 giugno 2016, a 98 anni.
Era il più anziano missionario
nel Nord-Est dell’India, nato il
21 maggio 1918 a Cagliari. Ha
trascorso quasi tutta la sua vita,
75 anni, in India. Era uno di quei
“missionari inoffensivi” che riu-
scì a diventare cittadino indiano
nel 1965, in un momento in cui
il Governo indiano stava espel-
lendo i missionari stranieri dallo
Stato dell’Assam. Don Porcu era
all’epoca il Direttore della “Don
Bosco School” di Shillong, una
prestigiosa istituzione educativa
nel Nord-Est indiano.
Da ragazzo, a volte nel pomerig-
gio si impegnava per qualche ora
ad aiutare il padre, che era im-
presario edile. Mario portava un
solo mattone per volta con le sue
piccole mani. Tra i 15 e i 20 anni
aveva imparato vari mestieri: era
stato carpentiere, idraulico, elet-
tricista, fabbro. La sera andava
spesso all’Oratorio, leggeva la
Bibbia e si impegnava in molte
altre attività. Proprio all’Oratorio,
a quindici anni avvertì l’ardente
desiderio di diventare missio-
nario, dedicando a quell’obiet-
tivo il resto della sua vita. Dopo
aver terminato gli studi medi,
entrò nell’aspirantato salesiano
missionario di Gaeta, nei pressi
di Roma, per completare la sua
istruzione secondaria. Nel giu-
gno del 1939, pochi mesi prima
dello scoppio della seconda
guerra mondiale, terminò gli stu-
di universitari all’età di 21 anni.
Dopo aver completato la sua for-
mazione universitaria a Gaeta,
non poté partire subito per l’India
per colpa della guerra. Finalmen-
te, verso la fine di novembre del
1939, Mario Porcu ottenne il vi-
sto per recarsi in India. Vi arrivò
l’8 dicembre 1939 e Calcutta fu
la prima città in cui si fermò. Da
Calcutta, i suoi superiori lo man-
darono nel Collegio Salesiano di
Sonada, nel Darjeeling, a studiare
filosofia.
Nel mese di giugno del 1941, a 23
anni, Mario Porcu fu deportato in
un campo di concentramento del
governo britannico poiché era
cittadino italiano. Trascorse com-
plessivamente cinque anni in due
diversi campi di concentramento.
Una volta tornato nell’Assam,
Mario Porcu fu mandato nella
Don Bosco Technical School di
Shillong per cominciare la sua
opera, insegnare, accompagnare
i ragazzi nella loro formazione nei
laboratori di meccanica e per al-
tre specializzazioni. Qui terminò
i suoi studi teologici e fu infine
ordinato sacerdote salesiano il 7
gennaio 1951.
Durante la sua lunga permanen-
za qui, fino al 3 settembre 1966,
svolse vari incarichi soprattutto
amministrativi. Nel mese di set-
tembre del 1966 don Mario Porcu
tornò a Guwahati e fu nominato
Economo ispettoriale della nuova
Ispettoria di Guwahati. Ricoprì
questo incarico fino al 7 febbra-
io 1967. Occorre qui ricordare
che don Mario Porcu fu il primo
Economo ispettoriale della nuova
Ispettoria di Guwahati. È inte-
ressante sottolineare che in tre
periodi di tempo era anche stato
Ispettore pro tempore della nuova
Ispettoria di Guwahati.
Pioniere nelle colline Khasi e
Garo dello Stato di Meghalaya,
così come nella pianura dell’As-
sam e nel confinante Regno del
Bhutan, don Porcu è stato un in-
stancabile missionario di frontie-
ra in varie parti della regione nota
come “le sette sorelle”.
Don Porcu è stato un pioniere
anche della formazione profes-
sionale nell’Assam e il 30 maggio
scorso era presente all’inaugura-
zione di un nuovo ampio centro
di produzione elettronica sorto
presso la scuola Tecnico-Profes-
sionale Don Bosco di Maligaon,
fondata dal missionario italiano
nel 1968.
In tutti questi anni l’opera ha
offerto educazione tecnica e
competenze per il lavoro alla gio-
ventù rurale, ai ragazzi poveri ed
emarginati e che avevano abban-
donato gli studi, provenienti sia
dall’Assam sia dagli stati confi-
nanti, e solo negli ultimi tre anni
ha formato circa 3000 giovani,
dei quali l’80% è entrato con
successo nel mondo del lavoro.
Anche negli ultimi anni era un
salesiano attivo. Scriveva con la
sua vecchia macchina da scri-
vere, rispondeva alle telefonate
e alle lettere che riceveva. Era
molto mattiniero: si svegliava
alle 3,30 del mattino, pregava per
circa un’ora nella cappella e visi-
tava diversi conventi, poiché era
un cappellano popolare in diversi
Istituti della città di Guwahati.
Alle 8 del mattino riprendeva poi
il suo lavoro quotidiano nel pic-
colo ufficio al piano terra della
Casa Ispettoriale in cui risiede-
va dal 12 gennaio 2001. Offriva
assistenza spirituale, preferiva
essere definito “lavoratore” inve-
ce che missionario salesiano, si
schermiva da celebrazioni e “tito-
li” e credeva che il lavoro serio e
il sacrificio potessero liberare le
persone dalla povertà, dalla fame
e dalla malattia.
Un vero pioniere, fondatore, mis-
sionario della razza degli apostoli
fino alla fine.
Febbraio 2017
41

5.2 Page 42

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IL CRUCIVERBA
ROBERTO DESIDERATI
Scoprendo don Bosco
Scopriamo i luoghi
e gli avvenimenti
legati alla vita
del grande Santo.
La soluzione nel prossimo numero.
UN AFFETTUOSO E INDICATO NOMIGNOLO
Tutti, prima di diventare adulti, sono stati piccoli, anche i Santi e
anche, quindi, il nostro caro don Bosco. E da bambini, si sa, si
commettono errori perché è così che ci si migliora, correggendo
i propri errori. Il piccolo Giovannino Bosco amava frequentare i
suoi coetanei ed in particolare giocare al gioco della lippa. Que-
sto gioco, diffuso in molte varianti e nomi un po’ in tutta Italia,
consisteva nel dotare i giocatori di due pezzi di legno, general-
mente ricavati dal manico di una scopa, uno di circa 15 cm in
lunghezza con le estremità appuntite, l’altro lungo circa mezzo metro chiamato lippa che si impugnava
come una mazza da baseball. Si faceva saltare in aria il pezzo piccolo e si cercava di colpirlo con la mazza
scagliandolo lontano, fuori da un’area di gioco stabilita e disegnata sul selciato all’inizio. È facile imma-
ginare che questo lanciare pezzi di legno a tutta forza era alquanto rischioso. In questo gioco Giovannino
era bravo, ma non era raro che a lui o agli altri ragazzi capitasse di venir colpiti dalla lippa al volto o in
testa. Ed ogni volta il malcapitato di turno, e molto spesso era proprio il nostro Giovannino, non poteva far
altro che correre dalla mamma per farsi curare. Mamma Margherita anche se contenta di accudirlo non
poteva che rimproverarlo delle sue amicizie, e infatti, preoc-
cupata che potessero fargli ancora del male, lo implorava di
lasciarli perdere: “Perché vai sempre con quei compagni?
Non vedi che sono cattivi e ti fanno del male?” Ma il bambino
che ben conosciamo, chiamato XXX proprio per i suoi in-
fortuni, chiedeva perdono, ma rispondeva saggiamente: “Ap-
punto perché sono cattivi vado con loro. Se ci sono io, stanno
più buoni e non dicono parolacce.” La mamma sapeva di non
aver argomenti migliori ma insisteva su ciò che più le era a
cuore: “Mi hai inteso? Stai attento alla testa, almeno quella!”.
Definizioni
ORIZZONTALI. 1. Il viaggio
marittimo di Vasco da Gama intorno
all’Africa - 15. Era un componente
dell’eternit - 16. Bagna Firenze -
17. Un Raggruppamento speciale
di Carabinieri - 18. Dio egizio del
sole - 19. Prefisso iterativo - 20.
Proibito - 22. Era una delle Germa-
nie - 23. Quella rossa è un’organiz-
zazione umanitaria - 25. Numero in
breve - 26. Sassari (sigla) - 27.
XXX - 31. Lo sono gli amici a noi
più vicini - 32. Sono esposte nei
musei di Madame Tussauds - 33.
Amò Galatea - 35. Il Riccardo attore
di Mio fratello è figlio unico - 37.
Una progenitrice - 39. Osservati
con interesse - 41. Abbreviaz. di
Istituto - 42. Il serial di Medici in
prima linea - 43. All’inizio.
VERTICALI. 1. Un ramo di Casa
Savoia - 2. Profonda - 3. Il prin-
cipio del ritorno! - 4. La showgirl
del Tuca Tuca - 5. Erano i nordi-
sti durante la guerra di secessione
americana - 6. Matera (sigla) - 7.
Una Katia giornalista e modella - 8.
Le ha pari il gigante - 9. Lo Hugh
protagonista di Notting Hill - 10. Il
carbone di miglior qualità - 11. Un
“giardino” che contiene animali di
molte specie - 12. Una trilogia di
tragedie di Eschilo - 13. Io e te…
per Cicerone - 14. Consegnare un
imputato ad un altro Stato - 21. Un
accumulo di liquidi nei polmoni -
23. Uniti con ago e filo - 24. Si
dice alzando i calici - 26. Il signo-
re… a Roma - 28. Isola indone-
siana - 29. Lo Stato con Damasco
- 30. Colpevole - 34. Fa rima con
amor - 36. Consiglio Superiore
della Magistratura (sigla) - 38. La
città Serenissima (sigla) - 40. Ini-
ziali di Gramsci.
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5.3 Page 43

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LA BUONANOTTE
B.F.
Disegno di Fabrizio Zubani
«Aspetta un attimo»
Ultimamente la fretta ha preso
il sopravvento e la mia frase
più frequente è «Aspetta un
attimo, tesoro». Lo dico a
mio figlio mentre accudisco
la sua sorellina; lo dico a mia
figlia mentre aiuto suo fratello e lo
dico persino al mio paziente marito.
Mi ritrovo a pronunciare questa frase
in una serie infinita di circostanze.
Alcune settimane fa, mio figlio mi
ha chiesto di preparargli la merenda
e io, naturalmente, gli ho risposto:
«Un attimo, tesoro». Mi sono affret-
tata a finire quello che stavo facendo
e poi sono corsa a preparargli la
merenda. Lui si è seduto al tavolo e
ha cominciato a mangiare di gusto
mentre io già pensavo di tornare a
occuparmi delle mie faccende, ma
poi ho deciso di prendermi una pausa
e di sedermi insieme a lui.
«Grazie per avere aspettato che finis-
si di riporre i piatti, prima di prepa-
rarti la merenda. Sei stato davvero
molto paziente».
Lui annuì e continuò a riempirsi
la bocca di Nutella.
«Sai una cosa, Samuele, ultimamen-
te sono davvero molto indaffarata.
Capisci, vero, perché qualche volta
devi aspettare?».
Lui mi guardò con un’espressione
buffa sul viso. «Sì. Mi dici “un se-
condo, Samuele” così mi puoi ascol-
tare con tutti e due gli orecchi. Se ti
parlo mentre stai facendo qualcos’al-
tro, mi puoi sentire soltanto con un
orecchio. Ma se aspetto con pazienza
poi tu mi puoi sentire meglio», mi
disse annuendo solennemente.
Rimasi di stucco. Il mio bambino,
che non aveva ancora compiuto i
cinque anni, aveva già trovato una
spiegazione più che plausibile alla
situazione. Capii che quando gli
dicevo: «Aspetta un secondo», lui
interpretava quella frase come una
dimostrazione d’affetto. Era come se
io gli dicessi: «Aspetta un secondo,
così ti potrò rivolgere tutta la mia
attenzione» o «Quello che stai dicen-
do è molto importante per me, voglio
sentirlo con entrambi gli orecchi».
«Samuele, hai assolutamente ragione»,
gli risposi. «Ti voglio tanto bene e mi
piace tanto trascorrere il mio tempo
con te. Voglio sentire quello che mi
dici con entrambi gli orecchi perché
tu sei molto importante nella mia
vita», aggiunsi abbracciandolo forte.
Quella sera, mentre rimboccavo
le coperte a Samuele, lui mi prese
la faccia fra le mani e cominciò a
soffiarmi prima dentro un orecchio
poi dentro l’altro. Non capii che cosa
stesse facendo e gli chiesi spiegazione
del suo comportamento.
«Voglio essere sicuro che i tuoi orec-
chi siano puliti, mamma». Mi tirò a
sé e mi sussurrò: «Volevo essere certo
che mi sentissi con tutti e due gli
orecchi mentre ti dicevo che ti voglio
bene più del mondo intero».
Sentii le lacrime salirmi agli occhi
mentre gli rispondevo: «Oh, tesoro,
ti voglio tanto bene, anch’io più del
mondo intero».
«E ancora un briciolo di più», confer-
mò lui con la sua adorabile vocina.
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5.4 Page 44

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TAXE PERÇUE
tassa riscossa
PADOVA c.m.p.
In caso di mancato
recapito restituire a:
ufficio di PADOVA
cmp – Il mittente si
impegna a corrispon-
dere la prevista tariffa.
Nel prossimo numero
Il messaggio
del Rettor Maggiore
L’invitato
Don Rossano Sala
Nuovo impulso
alla Pastorale Giovanile
Salesiani nel mondo
Kazincbarcika
Una cittadella salesiana
in Ungheria
A tu per tu
Don Emanuele
De Maria
Nel “cuore” di Roma
Le case di don Bosco
Catania Barriera
Un’“Etna” salesiana
La linea d’ombra
La ricerca della felicità
Senza di voi
non possiamo
fare nulla!
PER SOSTENERE LE OPERE SALESIANE
Notifichiamo che l’Istituto Salesiano per le Missioni con sede in Torino, avente persona-
lità giuridica per Regio Decreto 13-01-1924 n. 22, e la Fondazione Don Bosco nel mondo
(per il sostegno in particolare delle missioni salesiane), con sede in Roma, riconosciuta con
D.M. del 06-08-2002, possono ricevere Legati ed Eredità.
Queste le formule
Se si tratta di un Legato
a)
Di beni mobili
“… Lascio all’Istituto Salesiano per le Missioni con sede in Torino (o alla Fondazione
Don Bosco nel mondo con sede in Roma) a titolo di legato la somma di ……………..,
o titoli, ecc., per i fini istituzionali dell’Ente”.
b)
Di beni immobili
“… Lascio all’Istituto Salesiano per le Missioni con sede in Torino (o alla Fondazione
Don Bosco nel mondo con sede in Roma), a titolo di legato, l’immobile sito in… per i fini
istituzionali dell’Ente”.
Se si tratta invece di nominare erede di ogni sostanza l’uno o l’altro dei due enti
sopraindicati
“… Annullo ogni mia precedente disposizione testamentaria. Nomino mio erede universale
l’Istituto Salesiano per le Missioni con sede in Torino (o la Fondazione Don Bosco
nel mondo con sede in Roma) lasciando a esso/a quanto mi appartiene a qualsiasi titolo,
per i fini istituzionali dell’Ente”.
(Luogo e data)
(firma per esteso e leggibile)
N.B. Il testamento deve essere scritto per intero di mano propria dal testatore.
INDIRIZZI
Istituto Salesiano per le Missioni
Via Maria Ausiliatrice, 32
10152 Torino
Tel. 011.5224247-8 - Fax 011.5224760
e-mail: istitutomissioni@salesiani-icp.net
Fondazione Don Bosco nel mondo
Via della Pisana, 1111
00163 Roma - Bravetta
Tel. 06.656121 - 06.65612663
e-mail: donbosconelmondo@sdb.org
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un’offerta.