Bollettino_Salesiano_202301

Bollettino_Salesiano_202301

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L’invitato
Don
Andrew
Wong
In prima linea
Don Ángel
Prado
Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
GENNAIO 2023
STRENNA
2023
Don Bosco
nel mondo
Istanbul

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I FIORETTI DI DON BOSCO
B.F.
Le mele del Principe
E ra il 27 aprile 1865. L’Ora-
torio di don Bosco era in
festa. Era venuto in visita il
principe Amedeo di Savoia, duca
d’Aosta, figlio del Re. Un giovane
recitò il “benvenuto” che cominciava
così: Caro e diletto Principe, schiatta di
santi eroi, quale pensier benefico ti
mena qui fra noi?
Tutti i giovani erano schierati nello
spiazzo accanto alla Basilica che
stava sorgendo. Il Principe volle
passarli in rivista: per due volte egli
passò lentamente in mezzo a quelle
schiere plaudenti, e si fermò innanzi
alla banda musicale, compiacendo-
si nel vedere fra i suonatori alcuni
giovani usciti dall’Oratorio, con la
divisa del suo stesso reggimento. Il
principe, commosso per le cor-
diali accoglienze ricevute dagli
alunni dell’Oratorio, offrì una
bella somma per concorrere
all’innalzamento della grande
chiesa, dimostrando così la sua
devozione alla Madonna.
Nello stesso tempo avendo
conosciuto come gli alunni
di don Bosco si esercitas-
sero con piacere in giuochi
di ginnastica, dispose che
fosse loro recata in dono
parte degli attrezzi della
propria palestra.
Don Bosco lo contraccam-
biò di cuore con un dono
singolare. Vicino al luogo della
nuova chiesa, in un angolo del
cortile, era cresciuto un alberello di
mele, carico di fiori in primavera.
Don Bosco avvertì i giovani che non
toccassero quell’albero e lasciassero
maturare quelle mele, perché le vole-
va mandare al principe Amedeo.
I giovani correvano, saltavano e
nessuno toccò quell’albero, sicché
le mele vennero a perfetta maturi-
tà e di una grossezza mirabile. Un
giorno una mela cadde a terra. Un
giovane prese una foglia, vi mise
sopra il frutto, ed accompagnato da
tutti gli altri, lo portò a don Bosco
in refettorio. Don Bosco fece allora
raccogliere le altre mele e le mandò
al Principe. Il giovane Duca ringra-
ziò don Bosco del regalo inviandogli
un’altra offerta, perché comperasse
altra frutta per i suoi giovani, in
compenso delle saporitissime mele
che essi gli avevano mandato.
Per tal modo nel corso del 1865
l’edifizio fu condotto fino al tetto
e coperto; e ne fu compiuta anche
la volta, ad eccezione del tratto che
doveva essere occupato dalla perife-
ria della cupola.
Mentre si andavano compiendo tali
costruzioni accadde un fatto, che
fece meravigliare gli operai.
Un povero rivenditore di frutta era
venuto ne’ primi giorni d’estate per
vendere i suoi prodotti al mercato.
Avendo saputo che la chiesa di Maria
Ausiliatrice si stava costruendo con
il privato concorso dei fedeli, volle
anch’egli prendervi parte. Con
generoso sacrificio per un povero
uomo chiamò il direttore dei lavo-
ri e gli consegnò tutta la sua frut-
ta, perché la dividesse fra i mu-
ratori. Volendo poi compiere,
secondo la sua espressione,
l’opera incominciata, si fece aiu-
tare a mettere sulle spalle una
grossa pietra e s’incamminò
su pei ponti. Tremava tutto
il buon vecchio sotto il grave
peso, ma salì fino alla cima.
Giunto lassù depose il sasso,
e tutto allegro esclamò: «Ora
muoio contento, poiché spero
di potere, in qualche modo,
partecipare a tutto il bene che si
farà in questa chiesa!»
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GENNAIO 2023

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Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
GENNAIO 2023
GENNAIO 2023
ANNO CXLVII
NUMERO 1
Mensile di informazione e cultura
L’invitato
Don
Andrew
Wong
STRENNA
2023
religiosa edito dalla Congregazione
Salesiana di San Giovanni Bosco
In prima linea
Don Ángel
Prado
Don Bosco
nel mondo
Istanbul
La copertina: Questo è il mese dedicato
a don Bosco (Quadro di Caffaro Rore a Valsalice).
2 I FIORETTI DI DON BOSCO
4 IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
6 L’INVITATO
Don Andrew Wong
10 DON BOSCO NEL MONDO
Istanbul
14 TEMPO DELLO SPIRITO
16 IN PRIMA LINEA
Don Ángel Prado
18 I NOSTRI EROI
Akash Bashir
22 POSTER
24 FMA
La nostra mamma di Barcellona
26 ANCHE QUESTA È MISSIONE
La storia di D. al Centro Diurno
30 RAGAZZI SOLI
Jordy
34 COME DON BOSCO
36 LA LINEA D’OMBRA
Spettinati dalla vita
38 LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
40 I NOSTRI SANTI
41 IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
42 IL CRUCIPUZZLE
43 LA BUONANOTTE
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16
30
Il BOLLETTINO SALESIANO
si stampa nel mondo in 64
edizioni, 31 lingue diverse
e raggiunge 132 Nazioni.
Direttore Responsabile:
Bruno Ferrero
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Il Bollettino Salesiano
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IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
Don Ángel Fernández Artime
Quel giovane mi disse:
“la mia passione è Cristo”
Erano passati molti anni
dall’ultima volta che avevo sentito
quell’espressione da un giovane
in un contesto così scanzonato, alla
presenza di tutti i suoi compagni
che si accalcavano intorno a noi.
C ari amici del Bollettino Salesiano, abbia-
mo “doppiato il capo” dell’anno, si dice in
linguaggio marinaresco, e affrontiamo il
nuovo anno. Ogni inizio possiede qualco-
sa di magico e il nuovo ha sempre un suo fascino
particolare. Il 2023 mi sembrava un tempo lontano,
eppure eccolo qui. L’anno nuovo è ogni volta una
promessa che anche per noi arrivi qualche bella no-
vità. Il nuovo anno sgorga dalla luce e dall’entusia-
smo che ci sono stati donati nel Natale.
«C’è un tempo per nascere» dice Qoelet nella Bib-
bia. Non è mai troppo tardi per ricominciare. Dio
comincia sempre da capo con noi, colmandoci della
sua benedizione.
Una lezione ho imparato da questi ultimi anni: pre-
pararci alle sorprese e all’inatteso. Come dice san
Paolo in una lettera: «mai cuore umano ha potuto
gustare ciò che Dio ha preparato a coloro che lo
amano» (1 Cor 2, 9). Il contenuto della speranza
cristiana è vivere abbandonato nelle braccia di Dio.
Oggi molti modi di vivere, di esprimersi, di co-
municare sono cambiati. Ma il cuore umano, so-
prattutto quello dei giovani, è sempre uguale, come
un germoglio a primavera, ricco di vita pronta ad
esplodere. I giovani “sono” speranza che cammina.
Quello che vi confido ora mi sembra molto appro-
priato per questo saluto del Bollettino Salesiano del
mese di gennaio, il “mese di don Bosco”.
Qualche settimana fa, ho visitato le presenze sale-
siane negli Stati Uniti d’America (usa) e un giorno,
al mattino presto, sono arrivato nella scuola media
e superiore “San Dominic Savio” di Los Angeles.
Ho trascorso diverse ore con centinaia di studenti,
seguite da una tavola rotonda con 45 giovani del
liceo. Abbiamo parlato dei loro progetti e sogni
personali. Sono state alcune ore molto piacevoli e
arricchenti.
Alla fine della mattinata, ho condiviso un panino
con i giovani nel cortile. Ero seduto a un tavolo di
legno nel cortile con il mio panino e una bottiglia
d’acqua. In quel momento c’erano con me altri 4
salesiani; avevo salutato molti giovani, alcuni seduti
ai tavoli, altri in piedi. Era un pranzo condito di
allegria. Al mio tavolo c’erano due posti liberi e a
un certo punto due giovani si sono avvicinati e si
sono seduti con noi. Naturalmente ho incominciato
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a parlare con loro. Dopo un paio di minuti, uno dei
giovani mi disse: «Voglio farti una domanda».
«Ma certo, dimmi».
Il giovane disse: «Cosa devo fare per diventare
Papa? Voglio essere Papa».
Sembrai sorpreso, ma sorrisi. Gli risposi che non
mi era mai stata fatta una domanda del genere e che
ero sorpreso dalla sua chiarezza e determinazione.
Mi venne spontaneo spiegargli che tra 1 600 000
milioni di cattolici c’è molta concorrenza e non è
così facile essere eletto Papa.
Gli proposi: «Senti, potresti cominciare a diventare
salesiano».
Il giovane in modo sorridente disse: «Beh, io non
dico di no» e aggiunse, serissimo: «perché quello
che è certo è che la mia passione è Cristo».
Devo dire che rimasi colpito e piacevolmente sor-
preso. Credo che fossero passati molti anni dall’ul-
tima volta che avevo sentito quell’espressione da un
giovane in un contesto così spensierato, alla presen-
za di tutti i suoi compagni, che ora si accalcavano
intorno a noi.
Il giovane aveva un bel sorriso genuino e gli dis-
si che la sua risposta mi era piaciuta molto, perché
avevo capito che era assolutamente sincera.
Aggiunsi che, se era d’accordo, avrei voluto raccon-
tare il nostro dialogo in un altro momento e in un
altro luogo, e così sto facendo.
Ma già in quel momento il mio pensiero era vo-
lato a don Bosco. Sicuramente don Bosco avrebbe
apprezzato molto un dialogo con un giovane come
questo. Non c’è dubbio che in molti dialoghi avuti
con Savio, Besucco, Magone, Rua, Cagliero, Fran-
cesia e molti altri c’era molto di questo, il desiderio
di quei giovani di fare qualcosa di bello con la loro
vita.
E ho pensato a quanto sia importante oggi, a 163
anni dall’inizio della Congregazione Salesiana,
continuare a credere profondamente che i giovani
sono buoni, che hanno tanti semi di bontà nel cuo-
re, che hanno sogni e progetti che spesso portano
in sé tanta generosità e donazione.
Quanto è importante continuare a credere che è
Dio ad agire nel cuore di ciascuno di noi, ciascuno
dei suoi figli e figlie.
Mi sembra che oggi, nel nostro tempo, rischiamo
di diventare così pratici ed efficienti nel guardare
tutto ciò che ci accade e ciò che sperimentiamo che
rischiamo di perdere la capacità di sorprenderci di
noi stessi e degli altri e, cosa più preoccupante, di
non lasciarci “sorprendere da Dio”.
La speranza è come un vulcano dentro di noi, come
una sorgente segreta che zampilla nel cuore, come
una primavera che scoppia nell’intimo dell’anima:
essa ci coinvolge come un vortice divino nel qua-
le veniamo inseriti, per grazia di Dio. Penso che
come ieri con don Bosco, oggi ci siano migliaia e
migliaia di giovani che vogliono vedere Gesù, che
hanno bisogno di sperimentare l’amicizia con lui,
che cercano qualcuno che li accompagni in questo
bel viaggio.
Vi invito ad unirvi a loro, cari amici del Bolletti-
no, e vi auguro tanto tempo per stupirvi e tempo
per fidarvi, tempo per guardare le stelle, tempo per
crescere e maturare, tempo per sperare nuovamen-
te e per amare. Vi auguro tempo per vivere ogni
giorno, ogni ora come un dono. Vi auguro anche
tempo per perdonare, tempo da donare agli altri e
tanto tempo per pregare, sognare
ed essere felici.
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L’INVITATO
Sarah Laporta
«Quel giorno Maria
Ausiliatrice ci salvò»
La testimonianza
di don Andrew
Wong, superiore
della Visitatoria
dell’Indonesia.
“Basta, basta! Tornate a casa!”
gridò una voce di donna
«Era il 4 settembre 1999, 23 anni fa, in Timor Est,
dove abbiamo la nostra Casa Ispettoriale, la nostra
scuola vocazionale, una pensione per i ragazzi, nella
capitale Dili, in un luogo chiamato Comoro. Ave-
vamo un grande complesso con una grande palestra
e un campo da calcio. Infuriava la guerra tra l’In-
donesia e Timor Est.
Tante case e scuole, edifici governativi erano stati
distrutti. Diverse persone erano state uccise. L’e-
lettricità interrotta. La nostra casa era diventata un
rifugio per i nostri parrocchiani e per timoresi di
altre parrocchie e varie parti della capitale. Era-
vamo circa 10 000 persone all’interno del nostro
grande complesso.
Quella stessa mattina del 4 settembre, un soldato
dell’esercito indonesiano venne da me e mi disse
che di notte un gruppo di forze speciali dell’eserci-
to ci avrebbe attaccato. Il soldato era un mio amico
che a volte mi incontrava per parlarmi. Gli chiesi
perché ci avrebbero massacrati. Disse che il moti-
vo era che avevamo accolto nella nostra casa diversi
uomini che i soldati stavano cercando poiché erano
collegati con i guerriglieri timoresi.
Le sue ultime parole furono: «Padre, devi proteg-
gerti con ogni mezzo possibile. Questo gruppo di
forze speciali è crudele e vi ucciderà tutti».
Radunammo i capifamiglia per discutere come
poterci difendere. Gli uomini dissero che avevano
machete, lance. Ma che cosa possono fare queste
cose con i soldati che avevano armi pesanti e grana-
te? Alla fine fummo tutti d’accordo che noi quattro
sacerdoti salesiani e un coadiutore avremmo nego-
ziato quando sarebbero arrivati i soldati. Avremmo
aperto il nostro cancello di ferro e avremmo parlato
con i soldati.
I capifamiglia e le loro famiglie avrebbero dovu-
to stare un po’ lontani da noi e guardare che cosa
sarebbe successo. Se ci vedevano in piedi a parlare
con i soldati, avrebbero dovuto rimanere calmi. Se
ci vedevano cadere, cioè se ci sparavano, allora loro
e le loro famiglie avrebbero dovuto correre verso
il muro della nostra casa, arrampicarsi sul muro e
correre verso le colline vicine.
L’intero pomeriggio fu speso a costruire scale in
modo che gli anziani, i bambini e le donne potes-
sero facilmente scalare il muro e correre verso le
colline nel caso in cui la negoziazione fosse fallita.
Alle 18, il direttore della nostra comunità riunì tut-
ta la gente e diede l’assoluzione generale. Non c’era
tempo per la confessione individuale.
C’era tantissima tensione in casa. Continuavamo a
dire alla gente di stare calmi e che dovevamo conti-
nuare a pregare. Nel profondo di me, ero sicuro che
saremmo morti e che il negoziato non sarebbe mai
avvenuto. Esponemmo il Santissimo Sacramento
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per un po’ e poi nascondemmo l’Eucaristia in un
luogo sicuro del convento.
Verso mezzanotte il direttore ed io stavamo facen-
do il nostro turno di attesa dell’arrivo dei soldati.
Gli altri erano sdraiati da qualche parte. Improvvi-
samente, abbiamo sentito arrivare camion militari e
i soldati che saltavano fuori dai camion e correvano
verso il nostro cancello. Prima ancora che potessi-
mo aprire il nostro cancello di ferro secondo il pia-
no, i soldati iniziarono a sparare al cancello.
L’impatto dei proiettili che colpivano il cancello di
ferro era così forte che il direttore ed io siamo ca-
duti a terra senza poterlo aprire. Pensavo di essere
stato colpito, ma quando ho toccato il mio corpo,
non c’era sangue. Ero ancora vivo. Ho guardato il
direttore. Anche lui era per terra, ma senza sangue.
Eravamo entrambi ancora vivi.
Poi una granata è stata lanciata dall’altra parte. È
caduta proprio davanti alla mia testa. Non è esplosa.
Gli altri confratelli e la gente assistevano. Non
era secondo i nostri piani. Il cancello era chiuso.
I soldati continuavano a sparare. Tutti piangevano
e nessuno osava muoversi o correre a causa della
grande paura e confusione. C’era un caos totale.
All’improvviso, abbiamo sentito tutti dal cancel-
lo una voce di una donna. Era una voce semplice,
abbastanza forte da farsi sentire da tutti. Diceva:
In questi tempi difficili, il pensiero va a Maria
Ausiliatrice. Al suo amore di Madre e alla
sua misericordia è rivolta questa
implorazione:
Maria, madre
di tutti e mamma
di ciascuno,
prega per noi
(Madre di tutti perché Madre della Chie-
sa e mamma di ciascuno perché per ogni
figlio la madre è la “sua” mamma e, come
Mamma del Cielo, la Santa Vergine Maria
è il più sicuro rifugio per noi figli suoi).
Professor Raffaele Simonetta, da sempre
vicino alla Famiglia Salesiana, docente
dell‘Università di Torino e Novara
“Basta, basta! Tornate a casa!” Naturalmente, le
parole erano nella lingua dei soldati che è la lingua
indonesiana.
All’improvviso si fece silenzio. I soldati non erano
riusciti ad aprire il cancello. E sentimmo i camion
militari andarsene. La gente smise di gridare e pian-
gere.
Rimanendo a terra, mi rivolsi al direttore: “Grazie
a Dio, le Suore Orsoline ci hanno salvato e hanno
impedito ai soldati indonesiani di ucciderci.”
Erano le tre del mattino. Verso le sei di quella mat-
tina, il 5 settembre, io e il direttore corremmo al
convento delle Suore Orsoline. Il nostro cancello
era crivellato di colpi. Arrivati al convento chie-
demmo di parlare con le suore per ringraziarle per
averci salvato quella notte. Le suore rimasero così
sorprese e quasi cominciarono a piangere. Una so-
rella disse: «Padre, avevamo tanta paura ieri sera
e così siamo rimaste nascoste in cantina tutte in-
sieme. Abbiamo sentito la voce. Non era la nostra
voce. Non era la nostra voce».
Il direttore ed io cademmo in ginocchio e in lacri-
me ringraziammo Dio per l’intervento della nostra
Madre celeste, certi che fosse stata la Madonna a
fermare i soldati e a salvarci dal massacro.
Don Andrew
con alcuni
salesiani
indonesiani.
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L’INVITATO
Incontro con don Andrew Wong
Può presentarsi?
Sono don Andrew Wong sdb, attualmente supe-
riore della Viceprovincia di Indonesia (sigla ufficia-
le salesiana ina). Sono nato a Manila, nelle Filip-
pine, il 30 novembre 1952. Ho professato come sdb
il 1° maggio 1972. Sono stato ordinato sacerdote il
7 dicembre 1979. Ora sono missionario in Indo-
nesia.
Nel 2018, il Rettor Maggiore, padre Ángel Artime,
mi ha chiesto di andare in Indonesia per aiutare l’i-
nizio della nuova Vice Provincia separata da Timor
Est. La Vice Provincia è nata l’8 giugno 2018, festa
del Sacratissimo Cuore di Gesù.
Come è nata la sua vocazione?
La mia vocazione è iniziata quando sono entrato
nell’Aspirantato dei Salesiani nelle Filippine. Un
sacerdote salesiano, don Ángel Izquierdo, nostro
padre catechista nella nostra scuola elementare sa-
lesiana di Makati, mi ha incoraggiato a iscrivermi
a questo Aspirantato, che si chiamava Don Bosco
Juniorate, Pampanga, Filippine.
Anche la mia vocazione missionaria è iniziata da lì,
quando ho incontrato don Charles Braga, che era
il nostro Padre Confessore. La bontà di don Braga
mi colpì molto da ragazzo. Mi ha anche invitato ad
andare in missione, essendo lui stesso missionario
in Cina e poi nelle Filippine.
Come sono arrivati i Salesiani
in Indonesia?
I Salesiani sono arrivati in Indonesia nel 1985 con
don Jose Carbonell. Egli stabilì la Congregazione
a Giacarta, la capitale dell’Indonesia, per essere un
luogo di transito per i missionari che andavano a
Timor Est. L’Indonesia, in particolare Giacarta,
divenne anche un luogo per la preparazione filo-
sofica dei confratelli indonesiani e di quelli di Ti-
mor Est durante la loro formazione postnoviziale.
L’ufficio di padre Carbonell a Giacarta facilitava
l’adempimento di molti requisiti governativi, come
visti, permessi di soggiorno ecc. richiesti ai missio-
nari stranieri a Timor Est; questi missionari pro-
venivano dalle Filippine, dall’India e dall’Europa.
Qual è la situazione dei cristiani?
I cristiani costituiscono una minoranza dell’enorme
popolazione indonesiana. Sono circa il tre per cen-
to dell’intera popolazione che è appartenente alla
religione islamica. L’Indonesia, nonostante abbia il
maggior numero di musulmani al mondo, non è uno
Stato islamico. È un tipo di Islam molto moderato e
molto rispettoso di tutte le religioni del mondo.
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Qual è la situazione attuale
dei Salesiani?
Siamo cinquantasei salesiani nella nuova Vicepro-
vincia o Visitatoria. Abbiamo tre novizi, dieci post-
novizi, due tirocinanti pratici, un fratello salesiano
in formazione specifica e tre studenti di teologia.
Abbiamo nove comunità. Le nostre opere sono
scuole (medie e superiori), convitti, centri di forma-
zione, parrocchie, case di formazione (aspirantato/
prenoviziato, noviziato, post noviziato).
Quali sono le opere che ispirano
più speranza?
I convitti e le Parrocchie.
Quali sono i problemi più acuti
del momento?
L’aumento del radicalismo islamico nel Paese e l’e-
ducazione dei bambini e dei giovani.
Quali sono i bisogni più urgenti?
Convinzione personale di ogni confratello riguardo
alla nostra vita consacrata salesiana. La pratica del
Sistema Preventivo di don Bosco in tutte le nostre
opere e servizi.
Come vede il futuro?
Luminoso a causa delle sfide in molti aspetti della
vita; stimolante a causa delle molte opere e servizi
buoni che i Salesiani stanno attualmente svolgendo.
Molto luminoso grazie al generoso coinvolgimento
dei laici e alla loro fiducia nel valore del carisma
salesiano.
In Indonesia,
dove i cristiani
sono solo il tre
per cento della
popolazione,
i cinquantasei
Salesiani hanno
nove presenze
significative e
stimate.
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DON BOSCO NEL MONDO
Christoph Lehermayr (da DON BOSCO magazin)
Traduzione di M. Patarino
Tra mezzaluna e croce:
Don Bosco a Istanbul
Giovani impossibilitati a partire,
credenti perseguitati e un luogo
di rifugio nel mezzo di una
metropoli che conta milioni di
persone. Un sacerdote dell’Alta
Baviera è arrivato nel Bosforo e
ha portato luce sui volti e fatto
suonare un campanile.
Don Simon
Härting
è sempre
presente per
accogliere i
ragazzi.
C’è buona birra. La “Efes” turca e la
“Budweiser” americana. Gli altopar-
lanti fanno risuonare “I’m with you” di
Avril Lavigne. I ragazzi stanno vicino
alla griglia e sorvegliano attentamente le polpette,
che qui si chiamano kofte, per evitare che si brucino.
Tutti scherzano e in questa serata dal clima mite rac-
contano gli episodi che hanno caratterizzato la loro
giornata. Nel frattempo, le ragazze cospargono di
spezie orientali le insalate che hanno preparato per
servirle insieme alla carne alla griglia. Tutti ridono
e scherzano, ma all’improvviso tacciono, si siedono
ai tavoli e giungono le mani per pregare. Monsi-
gnor Lorenzo, il più importante ministro cattolico
di Istanbul, spiega: «La vita di comunità ci unisce
questa sera. Dovrebbe aprire i nostri cuori all’ascolto
reciproco e a percepire le preoccupazioni degli altri».
Questa sollecitudine è ben presente qui, come emer-
gerà in seguito. I presenti recitano il “Padre nostro”
in inglese e tradotto in turco e in arabo.
I Salesiani lo chiamano “oratorio”. Nello spirito di
don Bosco, si gioca a calcio e si prega, si trattano
temi spirituali e si parla degli avvenimenti quoti-
diani. Nel corso della serata don Simon Härting
interviene nei piccoli gruppi. Vedendolo con una
polo bianca e pantaloncini neri mentre gesticola,
ride, ascolta, dà consigli e parla, lo si potrebbe con-
siderare uno che fa parte del suo gregge, non il pa-
store. Probabilmente i pedagoghi definirebbero ciò
che si compie in questo cortile al centro di Istanbul
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“lavoro con i giovani a basso impatto”. Don Simon
e i suoi confratelli sono semplicemente presenti,
senza compiere grandi cose. E sono necessari, per-
ché i giovani adulti sono come piccoli pesci colo-
rati in un lago troppo grande. Sfrecciano in ogni
direzione, entrando in profondità sconosciute, ma
non sanno quale sia la loro destinazione e quando
la raggiungeranno.
“Ciò che è successo a Mosul
non può essere descritto
con parole normali”
Ci sono i fratelli Andro e Marcel. Uno ha i capelli
ricci e la chitarra, l’altro ha lo sguardo di una per-
sona che ha già visto molto. Forse troppo. Entram-
bi provengono da Baghdad, la capitale dell’Iraq.
Più tardi, quando all’interno del cortile la musica
costruisce una notte piena di bei ricordi, Marcel
racconta quali esperienze lui e suo fratello abbiano
alle spalle. «Siamo cristiani caldei e non è esagerato
dire che abbiamo avuto una bella vita. Non ci man-
cavano denaro e lavoro, prima che tutto comincias-
se a crollare». Marcel ha 24 anni e parla dell’occu-
pazione americana, dell’incertezza, degli attacchi
e di quella che gli articoli di politica sui giornali
definirebbero “crescente intolleranza religiosa”. Per
Marcel e la sua famiglia è stata la fine della vita che
avevano vissuto fino a quel momento.
Le milizie sciite presero d’assalto gli appartamenti
e le case, arraffando tutto ciò che potevano portare
con sé. Dissero: «Questa volta prenderemo solo le
vostre cose, ma se al nostro ritorno sarete ancora qui,
perderete anche la vita». Quindi la famiglia dei due
giovani fuggì. Via da Baghdad, in un luogo sicuro.
La famiglia si è spostata nel nord del Paese, nelle
zone controllate dai curdi e considerate relativamen-
te sicure e stabili anche dopo l’invasione statuniten-
se. La città di Mosul in particolare è diventata luogo
di rifugio per molti cristiani provenienti dal sud, fino
a quando i guerrieri del terrore dell’autoproclamato
“Stato islamico” hanno invaso il territorio. «Ciò che
è successo dopo a Mosul non può essere descritto
con parole normali», dice Marcel. Dopo una pau-
sa riprende: «Forse si possono usare termini biblici,
perché era già scritto che noi, come cristiani, sarem-
mo stati perseguitati e messi alla prova». La famiglia
è dovuta fuggire di nuovo. Questa volta rimanevano
solo il confine e il paese vicino, la Turchia. «Aveva-
mo perso tutto, eravamo stranieri e l’abbiamo subito
percepito. All’inizio siamo stati in Anatolia, dove
non ti consiglierei come cristiano di mostrare aper-
tamente la tua croce, se vuoi vivere tranquillamente
la tua vita di ogni giorno. Solo ora, qui a Istanbul, va
molto meglio».
In qualche modo l’oratorio è diventato una specie
di nuova casa per i giovani.
La storia di Marcel è simile a quella di tutti i giova-
ni e di tutte le giovani che si trovano nel cortile dei
Salesiani, che potrebbero sembrare semplicemente
ospiti invitati a una bella grigliata. Sono invece tutti
cristiani del Medio Oriente e sono rimasti bloccati
in questa città ubicata alle porte tra l’Asia e l’Europa
in un mondo che sembra privo di ragione. Andro, il
fratello di Marcel, dice: «Sinceramente sarei andato
via, se non ci fossero stati don Simon e i suoi con-
fratelli. L’Oratorio è diventato per noi una specie di
nuova casa». È un luogo in cui i giovani possono tor-
nare. Sempre. Soprattutto nei momenti in cui questa
megalopoli minaccia altrimenti di inghiottirli.
Istanbul è infatti cambiata, è cresciuta a dismisu-
ra e, data la situazione caotica dell’intera regione,
è diventata un centro di profughi. La Turchia ha
La casa dei
Salesiani è
un luogo in
cui i giovani
possono
tornare.
Sempre.
Soprattutto
nei momenti
in cui questa
megalopoli
minaccia
altrimenti di
inghiottirli.
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DON BOSCO NEL MONDO
È una
situazione
difficile,
anche per
don Simon.
Lavora con
i profughi
giorno dopo
giorno.
Organizza
giochi, serate,
talvolta una
grigliata
serale con
loro. Al
mattino
lui e i suoi
confratelli
si prendono
cura dei
bambini delle
famiglie.
accolto ufficialmente quattro milioni di persone
provenienti dalla sola Siria da quando la guerra ha
fatto precipitare il vicino Paese nel baratro. Anche
prima che i talebani prendessero il potere, il nume-
ro di arrivi dall’Afghanistan era in aumento. A dif-
ferenza dei Siriani, gli Afghani non fruiscono del-
lo status di protezione ufficiale nel Paese. Questo
fatto e la crisi economica della Turchia, insieme al
crollo della valuta e ai prezzi alle stelle inaspriscono
i fronti. In alcune città sono scoppiate le prime ri-
volte contro gli immigrati. Sui social stanno circo-
lando video di cacce all’uomo contro i rifugiati. Chi
può e ha abbastanza denaro si affida a trafficanti
che promettono la salvezza in Europa e varie per-
sone rischiano la vita durante le traversate.
Una vita in attesa
E Andro, Marcel e gli altri? Aspettano. Lo fan-
no da anni. Mentre in questo periodo milioni di
profughi sono passati da Istanbul per raggiunge-
re illegalmente la vicina Grecia e quindi l’Unione
Europea, i cristiani di cui si prendono cura i Sale-
siani che collaborano con don Simon sono rimasti.
Perché? «Perché non vogliamo partire illegalmente,
ma con documenti, un invito e dunque la possibilità
di una nuova vita regolare», dice Marcel. Le fami-
glie sono ufficialmente registrate come tali presso
l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Ri-
fugiati (unhcr) e sono in attesa di un invito da uno
dei Paesi partecipanti al programma di distribuzio-
ne. Tra questi Paesi si annoverano gli Stati Uniti
e il Canada, la Nuova Zelanda e l’Australia, che
sarebbe la destinazione che Marcel sogna. «Abbia-
mo partecipato a colloqui ed è stata compiuta una
valutazione sul nostro conto, tutto è regolare, ma
nessuno di noi sa quando arriverà la chiamata de-
cisiva e potremo partire», dice Marcel. «Potrebbe
accadere in qualsiasi momento, o potrebbero volerci
anni. Almeno è stato così per alcuni amici». Come
si può affrontare una vita in attesa? Marcel riflet-
te e indica la casa salesiana, il suo cuore e il cielo.
Mostra poi l’interno del polso, dove un tatuaggio
dice in caratteri arabi: «Senza l’oscurità, non vedrai
mai le stelle».
È una situazione difficile, anche per don Simon.
Lavora con i profughi giorno dopo giorno. A vol-
te, come ora, organizza una grigliata serale con
loro. Al mattino lui e i suoi confratelli si prendono
cura dei bambini delle famiglie. E di pomeriggio
si formano file di persone in grave difficoltà che
i Salesiani ricevono e che ormai non riuscirebbe-
ro a sopravvivere in questa città senza l’aiuto dei
Salesiani. «Certo, non è sempre facile. Spesso mi
trovo di fronte a storie di sofferenza e di rinunce,
ma vorrei che i giovani che sono in qualche modo
ai margini sentissero che qualcuno si prende cura
di loro, li difende, li ascolta e si impegna anche in
ambiti di cui nessun altro si interessa. Questa era
la preoccupazione principale del nostro fondatore,
don Bosco, ed è anche la mia».
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GENNAIO 2023

2.3 Page 13

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«Lo stupore è una delle parole
centrali della Bibbia»
Il fatto che don Simon, proveniente dall’Alta Bavie-
ra, sia venuto qui nel Bosforo è probabilmente una
coincidenza. In realtà si vedeva impegnato nella pa-
storale dei laici, dopo gli studi, e ha rischiato di al-
lontanarsi completamente dalla Chiesa, durante un
soggiorno in Vaticano: «Tutta quella confusione da
parte dell’apparato clericale mi dava sui nervi, perché
mi pareva che non avesse nulla a che vedere con la
vera fede». Solo con i Salesiani, che si rimboccano le
maniche, affrontano le cose e sono in prima linea nel
lavoro con i giovani, ha sentito di aver trovato una
risposta ai suoi dubbi. Il fatto che il suo primo inca-
rico in una casa per giovani in situazioni difficili in
Germania sia stato subito seguito da una missione a
Istanbul è una prova e nello stesso tempo un’opportu-
nità per questo sacerdote di 38 anni. Qui svolge tante
funzioni: offre un grande aiuto e un orecchio dispo-
nibile ad ascoltare per i rifugiati dell’oratorio. È un
pastore di anime per la comunità di lingua tedesca, a
volte va in bicicletta o in nave a visitare il suo gregge
nella metropoli tentacolare. Ed è anche un sacerdote
che celebra messe per le comunità di lingua straniera
della città nella magnifica Cattedrale dello Spirito
Santo di Istanbul. Nella sua stanza, in convento, è
appeso un grande poster. Riporta la scritta: stupore.
«È una delle parole centrali della Bibbia», dice don
Simon. «Molte volte ricorre questo contenuto: e poi
arrivarono i discepoli e rimasero stupiti». A Istan-
bul si può imparare bene proprio questo stupore. Ad
esempio, quando gli agenti di polizia turchi entra-
rono nella cattedrale accompagnati da un ministro
degli Esteri africano che voleva pregare qui, prima si
guardarono intorno con molta curiosità, poi si fecero
fotografare con entusiasmo con il vescovo e poi gli
chiesero di alzare la croce per regolare l’immagine.
Solo una cosa ha rattristato don Simon, che forma
la comunità Don Bosco di Istanbul insieme a con-
fratelli provenienti dall’Italia, da Haiti e dal Ghana.
Accompagna in chiesa, sale le scale, toglie le ragna-
tele e infine attraverso un portello esce sul tetto. E
improvvisamente Istanbul è sotto di lui. Una visione
divina e, in definitiva, un luogo che ispira timore,
perché i segni del tempo hanno danneggiato il cam-
panile della cattedrale, costruita nel 1846. Il gesso si
è sbriciolato, non si poteva nemmeno escludere un
crollo. Don Simon si è seduto e ha scritto lettere:
richieste di preventivi e di donazioni. Le campane
delle chiese di Istanbul dovrebbero funzionare, poi-
ché molti in Europa sono consapevoli del ruolo di
questa città come luogo centrale della cristianità.
Quando è ormai buio da tempo, termina anche l’o-
ratorio nel cortile del centro pastorale. Le giovani
donne e i giovani uomini escono lentamente. Per
strada continuano a chiacchierare e a ridere tra loro
prima di perdersi di nuovo in questa città gigante-
sca per qualche tempo. Ma prima di allontanarsi
possono guardare la torre della cattedrale appena
ristrutturata. Anche nel buio della notte la croce
brilla luminosa lassù.
Quando è
ormai buio
da tempo,
termina
anche
l‘oratorio
nel cortile
del centro
pastorale.
Le giovani
donne e
i giovani
uomini
escono
lentamente.
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TEMPO DELLO SPIRITO
Carmen Laval
Iinl k1i2t dsterullma efenltiicità
Dare, cambiare prospettiva, praticare
la gratitudine, dormire bene, sorridere
e soprattutto dare ali all’anima.
Felicità è espressione di una vita riuscita. Deve
quindi permeare tutto l’essere umano, la sua
dimensione spirituale, la sua intelligenza, la
sua affettività, la sua dimensione corporea
e materiale. Nel cuore di ognuno c’è quanto basta
a salvargli la vita. La bontà, l’amore, la felicità in
molti sono come stoppini spenti. Basta un piccolo
fiammifero per accenderli.
1. Muoversi
Quando parliamo di felicità, pensiamo prima a solu-
zioni psicologiche. Invece il miglior stimolante è an-
cora l’attività fisica. Passeggiate, correte, ballate, an-
date in bicicletta. L’esercizio fisico vi aiuterà a sentirvi
meglio, a proteggervi da depressione, ansia e stress e a
migliorare le vostre funzioni fisiche e cognitive.
2. Dormire
È importante che alla sera troviamo la calma. Il
silenzio della sera fa bene alla persona. Il baccano
della giornata si spegne. Soltanto se troviamo la
calma interiore ed esteriore, viviamo la calma come
benedizione. Soltanto allora, nel silenzio, entriamo
in contatto con la nostra anima. E allora dimen-
tichiamo «le lacrime del giorno», soltanto in quel
momento la nostra anima si sente a casa. Sono utili i
rituali. Anche andare a letto ha bisogno di una for-
ma fissa. Chi dorme tra le sei e le otto ore a notte sta
meglio di chi dorme meno di sei o più di nove ore.
3. Sorridere
I ricercatori hanno
recentemente dimostrato
ciò che Darwin stava suggerendo
nel xix secolo: mostrare le proprie emozioni le in-
tensifica, sia che si tratti di aggrottare le sopracci-
glia o di mangiare una banana. Infatti, l’atto di sor-
ridere attiva i muscoli facciali che inviano il segnale
al cervello per rilasciare endorfine: gli ormoni della
felicità. Più sorridete, più vi sentite felici!
4. Rimanere in contatto
È il miglior investimento della vostra vita. Connet-
tetevi con gli altri, la vostra famiglia, i vostri amici,
i colleghi, i vicini. Queste relazioni sono i capisaldi
della vostra vita. Una delle caratteristiche essenziali
dell’essere umano è la necessità di appartenere. Le
relazioni, soprattutto quando sono intime e amiche-
voli, sono ottimi indicatori di felicità. Una buona
rete di supporto sociale migliora il sistema immuni-
tario, riduce il rischio di malattie cardiache e rallen-
ta la degenerazione cerebrale con l’avanzare dell’età.
5. Essere consapevoli
Sii consapevole del mondo che ti circonda e di come
ti senti. Apprezza la bellezza. Assapora il momen-
to prestando attenzione a ciascuno dei tuoi sensi
(tatto, gusto, vista, udito, olfatto). Dice il proverbio
che chi non sa provare piacere, diventa spiacevole.
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È sempre insoddisfatto e irradia anche all’e-
sterno questa sua perenne insoddisfazione.
6. Praticare la gratitudine
Prima di andare a letto, prima di ad-
dormentarti, pensa a tre momenti della
giornata per cui ti senti grato. Scrivi
un’email a un collega per ringraziar-
lo per il suo aiuto durante la giorna-
ta. Esprimere gratitudine è uno dei
modi più efficaci per fare del bene a te
stesso. Cominciando sempre da «Ti adoro
mio Dio, ti amo e ti ringrazio di avermi crea-
to». La vita è tutto quello che abbiamo.
7. Non smettere di imparare
Che cosa ti è piaciuto imparare di recente? Uno
strumento musicale? Nuove ricette di cucina? Che
sia attraverso un libro, un documentario, una con-
ferenza, il fatto di riprendere una vecchia passione
o iniziare un nuovo apprendimento rafforza la fi-
ducia in se stessi e la sensazione di essere vivo e
vegeto.
8. Cambiare la prospettiva
Gli eventi sono raramente “tutti bianchi” o “tut-
ti neri”, ma visualizzarli positivamente fa molto
bene. Come diceva don Bosco, in ogni persona,
anche in quella più antipatica e insopportabile, c’è
un punto positivo.
giorno? Gli studi dimostrano che ci sentiamo più
felici quando sentiamo di avere il nostro tempo. Un
modo per farlo è prenderti letteralmente del tempo
per te stesso, un po’ ogni giorno. E facciamo quello
che vogliamo con esso: una passeggiata nel quar-
tiere o nella foresta, sedersi sulla terrazza di un bar,
leggere il giornale, mettersi le cuffie... L’importan-
te è organizzare questa pausa e per un po’ stare con
se stessi.
11. Donare
Fare un gesto disinteressato, avere una parola gen-
tile, per un amico o uno sconosciuto. Dai il tuo
tempo. Unisciti a un’associazione della parrocchia o
dell’oratorio. Studi di neuroscienza hanno stabilito
che la generosità e la gentilezza stimolano le aree
del cervello che emettono endorfine. Ma dare non
è solo uno stimolante chimico, è anche un legame.
Un legame di fiducia, la chiave del benessere con se
stessi e con gli altri.
12. Dare le ali all’anima
Invocare e rendersi disponibili a Dio è collegarsi alla
sacralità della vita. La vera preghiera è dono di se
stessi ed è donando che si crea lo spazio per poter
ricevere. La gioia in Dio – affermano i Padri della
Chiesa – è una gioia che ci accompagna sempre. E
una gioia che nemmeno le vicissitudini della vita ci
possono togliere, perché Dio non viene mai meno.
9. Accettare
Il vecchio proverbio dice: «Cambia ciò che puoi
cambiare, accetta ciò che non puoi. E abbi la sag-
gezza di distinguere l’uno dall’altro». Accettarti,
essere indulgente con te stesso aumenta la resilien-
za e l’apprezzamento per la vita. Allo stesso tempo,
sarai anche più indulgente con gli altri.
10. Prendere del tempo per se stessi
Hai mai l’impressione che il tempo voli più ve-
locemente di prima, che ci siano meno ore in un
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IN PRIMA LINEA
O. Pori Mecoi
Don Bosco nel cuore
dell’America
Incontro con Don Ángel Prado,
ex ispettore del Centro America.
«La provincia CAM è composta da sei nazioni:
Guatemala, El Salvador, Honduras, Nicaragua,
Costa Rica e Panama. Quest’anno celebriamo i
125 anni di presenza di don Bosco nella regione».
L‘Ispettoria conta
attualmente
154 salesiani
professi. Sono 25
le presenze su
tutto il territorio
provinciale.
Ovunque c‘è un
clima sereno e i
laici sono riusciti a
identificarsi con il
carisma, il che fa sì
che don Bosco sia
molto sentito in
ogni opera.
Può presentarsi?
Mi chiamo don Ángel Prado Mendoza, salesiano
di don Bosco, nato in Costa Rica, America Cen-
trale. Sono salesiano da 44 anni e sacerdote da 34
anni. Attualmente sono in servizio come ispettore
nella regione dell’America Centrale - cam.
Come è nata la sua vocazione?
Ho conosciuto i Salesiani di don Bosco quando ho
avuto l’opportunità di lasciare la mia città natale
per frequentare la scuola secondaria, dato che la
mia famiglia è di origine contadina e non aveva-
mo la possibilità di andare oltre la scuola primaria.
La Divina Provvidenza mi ha portato in un’opera
salesiana e quello è stato il mio primo incontro con
i salesiani, con don Bosco e con la mia chiamata
vocazionale.
Ho sentito il risveglio della mia vocazione attraver-
so un’esperienza molto semplice: sono stato invita-
to a tenere una catechesi a un gruppo di bambini
che si stavano preparando alla prima comunione,
e alla fine dell’esperienza ho sentito nel mio cuore
che volevo dedicare tutta la mia vita alla formazio-
ne cristiana dei bambini e dei giovani. Ho parlato
con il direttore dell’opera salesiana e mi ha subito
dato tutto il sostegno necessario per continuare a
studiare con i salesiani nell’esperienza dell’Aspi-
rantato. Ho fatto il noviziato nel 1977 e la prima
professione nel gennaio 1978.
Quali sono le nazioni del vostro
Ispettorato?
La provincia cam è composta da sei nazioni: Gua-
temala, El Salvador, Honduras, Nicaragua, Costa
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Rica e Panama. Quest’anno celebriamo i 125 anni
di presenza di don Bosco nella regione.
Vi sentite nell’occhio del ciclone?
L’America Centrale sta vivendo da molti anni una
profonda destabilizzazione sociale a causa di con-
flitti armati interni, corruzione politica e guerre
civili, bande criminali, il dramma della migrazione
verso gli Stati Uniti ecc.
Negli anni ’80 e ’90 la Chiesa cattolica ha subìto
una grande persecuzione, con l’assassinio di due
vescovi, molti sacerdoti e centinaia di laici. Oggi,
con la canonizzazione di monsignor Romero e la
beatificazione di diversi sacerdoti e laici, la Chiesa
ha riconosciuto il loro martirio, essendo tutti morti
per odio verso la fede.
Il Nicaragua è attualmente governato da una ditta-
tura che ha deciso di attaccare duramente la Chie-
sa, e i Paesi di Guatemala, El Salvador e Honduras
sono stati lacerati dal problema della violenza in-
terna, costringendo migliaia di persone a lasciare i
loro villaggi e le loro famiglie in cerca di una vita
più sicura in altri Paesi, il che rende il dramma del-
la migrazione molto difficile.
Qual è la situazione dei Salesiani?
Per la benedizione di Dio, tutte le opere stanno
funzionando e in tutte le nazioni viene assistito un
numero significativo di bambini e giovani, per cui
c’è lavoro sufficiente per un centinaio di altri Sa-
lesiani, visto che i beneficiari sono migliaia. L’I-
spettoria conta attualmente 154 Salesiani professi
e 16 giovani in fase di pre-noviziato e noviziato.
Sono 25 le presenze su tutto il territorio provinciale
per un totale di 107 fronti pastorali ed educativi. In
tutti i fronti c’è un clima sereno e i laici sono riusci-
ti a identificarsi con il carisma, il che fa sì che don
Bosco sia molto sentito in ogni opera.
Quali sono le opere più importanti?
In ogni Paese, tutte le opere sono molto significative,
quindi è difficile dire quali siano le più importanti.
Tuttavia, per il tipo di persone che servono, potrei
indicare come particolarmente importanti l’Istituto
Tecnico Don Bosco a Panama, il Centro Educati-
vo Salesiano, cedes Don Bosco in Costa Rica, in
Nicaragua il lavoro scolastico a Masaya, in Hondu-
ras la Parrocchia Maria Auxiliadora, in El Salvador
Ciudadela Don Bosco e in Guatemala la missione
parrocchiale tra gli indigeni nel nord del Guatemala.
E quelle che ispirano più speranza?
Si tratta di quelle in cui ai beneficiari vengono of-
ferte varie opportunità di formazione tecnica che
in seguito consentono loro di sviluppare iniziative
imprenditoriali.
Quali sono i problemi più
acuti del momento?
Potrei riassumerli in uno solo: il
dramma della migrazione causata
dalla violenza e dalla povertà, che è
la causa della grande destabilizza-
zione politica, economica e sociale
di tutti i nostri Paesi. A questo si
aggiungono i problemi dell’istru-
zione, dell’assistenza sociale ecc.
ma tutto ciò è molto specifico del
resto dell’America Latina.
Quali sono i bisogni più
urgenti?
Opportunità di formazione umana, cristiana e pro-
fessionale, opportunità di lavoro, ambienti sociali
più sicuri, offerte educative accessibili a tutti.
Come vede il futuro?
Con grande speranza, perché tutta questa realtà è
una grande opportunità per il carisma salesiano.
Le nostre città in America Centrale sono piene di
giovani, e tra loro ce ne sono migliaia poveri e a
rischio, quindi c’è sempre molto da fare in base alla
missione che lo Spirito Santo ha affidato a san Gio-
vanni Bosco.
Le nostre
città in
America
Centrale
sono piene
di giovani, e
tra loro ce ne
sono migliaia
poveri e
a rischio,
quindi c‘è
sempre molto
da fare.
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2.8 Page 18

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I NOSTRI EROI
Pierluigi Cameroni
Akash Bashir
Un giovane pakistano
martire di Cristo
Le sue ultime parole al terrorista
sono state: “Morirò, ma non ti
lascerò entrare in chiesa”.
Il 15 marzo 2015 è la IV domenica di Quare-
sima e nella parrocchiale St. John’s Catholic
Church, nel quartiere cristiano di Youhanabad
(Lahore-Pakistan), tra i 1200 e i 1500 fedeli
della locale comunità cattolica sono riuniti per la
celebrazione eucaristica, presieduta da padre Fran-
cis Gulzar. Alle 11.09 un primo attacco terroristico
viene portato alla comunità anglicana riunita pres-
so la Christ Church, appartenente alla Church of
La famiglia
di Akash,
una famiglia
fieramente
cristiana.
Pakistan, che dista meno di 500 metri dalla chiesa
cattolica. Alle 11.10 una seconda detonazione av-
viene proprio all’ingresso del cortile della St. John’s
Catholic Church, dove presta servizio, come guardia
di sicurezza volontaria, Akash Bashir. La St. John’s
Catholic Church è situata all’interno di un cortile,
circondato da un muro perimetrale, al quale si
può accedere attraverso un cancello che dà sul-
la strada. Nessuno dei volontari della sicurezza
era dotato di armi, la difesa armata era compito
della polizia.
Così la madre di Akash, Naz Bano, ricorda quel
giorno: «Akash ne parlava con gli amici e ha insistito
per tre mesi sul fatto che voleva proteggere la chiesa.
Era pronto a sacrificare la sua vita se Dio gli avesse
dato la possibilità di proteggere altri.
È morto durante la Quaresima. Stavo lavando i panni
in casa quando mio figlio è uscito per andare in chiesa
quella domenica. Era tutto vestito di bianco. Qualche
istante dopo ho sentito degli spari fuori, poi la nostra
strada ha rimbombato per le esplosioni. Ricordo le don-
ne che parlavano di minacce di morte ricevute alla scuo-
la della chiesa [anglicana] di Cristo. Gli studenti dice-
vano di ricevere lettere minatorie e sudari nella posta.
Le strade erano piene di gente. Sentendo la seconda
esplosione, sono corsa con il mio figlio minore verso la
chiesa cattolica. Cercavo Akash tra i ragazzi in piedi
vicino al portone della chiesa. Il suo braccio destro era
stato quasi strappato via. Non riuscivo a credere ai miei
occhi.
I poliziotti in servizio guardavano una partita di cri-
cket della World Cup. Akash doveva controllare i visi-
tatori a una barriera a una certa distanza dalla chiesa,
ma ha insistito per stare alla porta del tempio. Le sue
ultime parole al terrorista sono state: “Morirò, ma non
ti lascerò entrare in chiesa”».
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2.9 Page 19

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Akash: un giovane con cuore
salesiano
Bashir Emanuel, il padre di Akash, apparteneva
alla minoranza cristiana e crebbe in una famiglia
molto devota. Aveva sposato Naz Bano, una ragaz-
za cristiana originaria di Shahdara, cittadina posta
al margine settentrionale di Lahore. I due ebbero
5 figli: una femmina, Komash (la maggiore, nata
il 1° settembre 1991), e i 4 maschi Waqas (nato il
28 marzo 1993), Akash (nato il 22 giugno 1994),
Arsalan (nato il 13 settembre 1995) e Ramish (nato
il 13 aprile 1996).
La vicinanza all’Afghanistan e l’incremento degli
attentati terroristici fecero maturare nel 2007, nei
genitori di Akash, la decisione di emigrare nelle
zone orientali del Pakistan: nel Punjab e preci-
samente a Lahore, nel quartiere di Youhanabad,
vicino alla famiglia della madre di Akash. Qui il
papà di Akash trovò lavoro come imbianchino e nel
2008 tutta la famiglia si riunì a Lahore.
«Youhanabad è una delle più grandi comunità cri-
stiane del Pakistan. Qui Akash frequentò per un
anno la St. Dominic High School, a partire dal
25 settembre 2008. Abbandonò successivamente
la scuola a causa della sua scarsa propensione agli
studi per iscriversi poi al Don Bosco Technical and
Youth Center, fondato nel 2000 per accogliere gli
studenti respinti dalle scuole tradizionali.
I Salesiani del quartiere di Youhanabad gestiscono
un collegio per bambini e giovani, una scuola ele-
mentare, una scuola tecnica, laboratori per giovani
donne e una scuola serale.
Akash frequentò l’istituto fino al 24 febbraio 2011,
non riuscendo a superare l’esame di promozione.
Era un giovane molto semplice, anche dal punto di
vista intellettuale. Il papà lo ricorda come un figlio
obbediente, un umile lavoratore che proveniva da
una famiglia povera e che nella povertà visse, una
persona paziente, un giovane con una forte fede.
Furono i genitori a educare Akash a una vita de-
vota, semplice e onesta, irreprensibile e laboriosa,
rispettosa ed educata. Simpatico e allegro, «parlava
sempre con la faccia sorridente» ed era sempre di-
sponibile ad aiutare.
La chiesa
e la comunità
di Akash.
Per loro ha
dato la vita.
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2.10 Page 20

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I NOSTRI EROI
Nel nostro
cimitero
cristiano la
tomba di
Akash Bashir
è sempre
piena di fiori
e vi si può
leggere: ’Sii
fedele fino
alla morte
e ti darò
la corona
della vita’
(Apocalisse
2,10).
La breve, ma profonda espe-
rienza dello spirito salesiano
e del Sistema preventivo che
lo anima ebbero un’intima e
profonda ricaduta sulla for-
mazione del giovane Akash,
che lo avrebbe spinto ad una
maggiore conoscenza e ad una
rafforzata amicizia con Cristo
e con Maria, la cui statua è
presente in una grotta nel cor-
tile della chiesa parrocchiale
di Youhanabad, la St. John’s
Catholic Church: Akash vi si
fermava davanti in preghiera
prima di prendere servizio.
Il signor Naveed – un ottico
presso cui Akash si recava con
la nonna perché le riparasse gli occhiali –, di fede
musulmana, ricorda l’attenzione di Akash per i po-
veri e i bisognosi: «Aveva un ottimo rapporto con i
poveri e i bisognosi: ogni volta che vedeva qualche
povero, si sentiva triste; se non aveva nulla da offri-
re o da donare, pregava per loro. Nonostante a volte
fosse affamato, era solito dare il suo cibo agli altri».
I Salesiani gli insegnarono inoltre che l’importan-
te non era fermarsi davanti alle avversità personali,
ma perseverare con umiltà nel cammino della vita
e della fede, e guardare ancora con più entusiasmo
alla vita e al servizio del prossimo.
«Salverei tante persone
sacrificando la mia vita»
Akash seguì poi – unico maschio del gruppo – un
corso di cucito-sartoria della durata di sei mesi al
Manifacture April College, grazie al quale lavorò
come operatore di macchine nella fabbrica dell’a-
zienda Nishat a Lahore; in quel periodo conobbe
la signora Farah Giyan Khush-Hall, che ricorda:
«Era un istituto musulmano. Ogni mattina legge-
vano i versi del Corano. Noi eravamo 25-30 cri-
stiani. Solo Akash è stato coraggioso, ha parlato e
ha detto che avremmo pregato le nostre preghiere
separatamente». Non aveva vergona di testimoniare
la sua fede andando contro corrente.
Con lo stipendio dei primi cinque mesi di lavoro, si
comprò un cellulare in modo tale da poter ascolta-
re inni cristiani. Così lo ricorda il papà: «Si alzava
presto la mattina. Pregava regolarmente e ascoltava
volentieri gli inni cristiani». Nel frattempo, dal 5
all’8 novembre 2014 aveva partecipato a un corso
per animatori biblici organizzato dalla Catholic Bi-
ble Commission Pakistan a Sadhoke. Akash faceva
infatti parte di un gruppo di studio biblico. Cer-
cava il Signore, custodiva la sua Parola, cercava di
rispondere ad essa con la propria vita, per crescere
nelle virtù e rendere forte il cuore.
Padre Francis Gulzar descrive Akash Bashir con
queste parole: «Come parroco ho visto in Akash un ra-
gazzo molto semplice, orante, obbediente e vivace. Era
molto partecipe alle attività della parrocchia. Faceva
volontariato in ogni momento e in ogni modo possibi-
le. Sia nelle calde estati di Lahore sia nei gelidi gior-
ni d’inverno, Akash era solito partecipare alla Santa
Messa e la maggior parte delle volte veniva visto in
piedi, al cancello principale della chiesa, mentre svolge-
va il suo compito di sicurezza.
Anche se Akash apparteneva ad una famiglia poco privi-
legiata, aveva un grande cuore, faceva amicizia con altri
giovani ragazzi e cercava sempre di essere al servizio di
altri gruppi impegnati nelle attività della Chiesa».
Il clima politico era sempre più minaccioso. Nel
settembre 2013, due kamikaze si erano fatti esplo-
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dere nel piazzale antistante alla chiesa di Ognis-
santi a Peshawar uccidendo più di 80 persone. Le
diverse chiese della città di Lahore e del paese ave-
vano formato un servizio di sicurezza a protezione
dei luoghi di culto e dei fedeli che in essi si reca-
vano per la preghiera e le celebrazioni liturgiche.
Nel dicembre 2014, Akash si offrì come volontario,
contro il parere della madre.
La donna racconta lo scambio di battute avuto con
il figlio: «Mamma perché sei così spaventata?».
«Non sai perché sono spaventata? Ci sono attentati
ovunque».
«Se Dio mi desse questa opportunità, salverei tante per-
sone sacrificando la mia vita. Non saresti felice?».
Infatti, per diventare membro del corpo di sicurez-
za parrocchiale non bastava avere capacità legate
ai compiti di sicurezza e non era sufficiente essere
totalmente liberi nel compiere questa scelta: era ri-
chiesto di essere persone affidabili e buoni cristia-
ni, esempi credibili di moralità e disciplina.
Come Santo Stefano
Akash era il più giovane in servizio e si dedicava
con serietà e puntualità a questo compito che ri-
chiedeva impegno e ore di formazione. Il suo ruolo
era quello di sorvegliare l’entrata nel cortile della
parrocchia e di perquisire i fedeli al cancello d’in-
gresso. Il 15 marzo, come ogni domenica, si recò
alla St. John’s Catholic Church per prestare servi-
zio. Quel giorno era l’unico componente della fa-
miglia presente in parrocchia: sua madre era sola a
casa; suo padre era fuori città, a Muri; due fratelli
di Akash stavano lavorando e il più giovane, Ra-
mish, stava tornando da alcune commissioni; sua
sorella era a casa di una zia.
Dopo l’esplosione rimasero a terra i corpi di quattro
persone agonizzanti: l’uomo che aveva trasportato
l’esplosivo e che era stato bloccato da Akash all’in-
gresso del cortile; un mercante di legumi che sta-
zionava davanti alla parrocchia; una bambina di sei
anni di nome Amol che al momento dell’esplosione
stava giocando nel cortile della parrocchia. Vi era
L’OPUSCOLO VELAR
SUL SERVO DI DIO
AKASH BASHIR
A seguito dell’avvio ufficiale dell’In-
chiesta diocesana per la Causa di Bea-
tificazione e Canonizzazione del Servo
di Dio, Akash Bashir, exallievo di don
Bosco, il primo cittadino pakistano in
processo di Beatificazione e Canoniz-
zazione, è uscito, per i tipi della Velar,
l’opuscolo che presenta la vita di que-
sto giovane testimone di Cristo.
anche il corpo di Akash Bashir, sanguinante sulla
terra marrone, profondamente dilaniato.
Come il primo martire, Santo Stefano, Akash
muore contemplando il cielo, testimoniando con il
suo sacrificio unito a quello di Cristo redentore che
la violenza è sconfitta dall’amore, la morte dalla
vita. Con la sua morte questo giovane servitore del
Vangelo ci insegna che la gloria del Cielo, quella
che dura per tutta la vita e anche nella vita eterna,
non è fatta di ricchezze e potere, ma di amore e
donazione di sé.
Il 18 marzo il corpo di Akash viene tumulato dopo
le esequie per i morti cattolici e anglicani dei due
attentati, celebrate ecumenicamente nella St. John’s
Catholic Church alla presenza di un numero com-
preso tra i 7000 e i 10 000 fedeli, persone di tutte
le età di Lahore.
Arsalan, il penultimo dei fratelli Bashir, dopo la
morte di Akash è entrato a far parte dei volonta-
ri del gruppo delle guardie di sicurezza della St.
John’s Catholic Church di Youhanabad. Arsalan rac-
conta: «Per quanto riguarda la sicurezza, Akash era
molto attento. Voleva sempre parlare di sicurezza. Era
impegnato nella sicurezza giorno e notte. Una volta è
venuto da me dicendo: “Arsalan, c’è bisogno di ragazzi
nella sicurezza”. Gli ho risposto: “Vai tu, è il tuo lavoro
e a me non piace”. Dopo la sua morte mi sono unito al
gruppo dei volontari perché era suo desiderio avermi
qui».
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FMA
Emilia Di Massimo
La nostra mamma
di Barcellona
La scuola Santa Dorotea a Barcellona, Spagna,
una scuola dinamica, vivace e ben organizzata,
è un dono del grande cuore della Cooperatrice
salesiana Venerabile Dorotea de Chopitea.
In alto: un
ritratto di
Dorotea de
Chopitea.
Accanto: La
missione
educativa
che le suore
svolgono è
prevalente­
mente
scolastica ma
non mancano
altre attività
alle quali si
dedicano con
passione e
professio­
nalità.
L a missione educativa delle suore, come anche
dei Salesiani, in genere ha “dietro le quinte” la
presenza operativa di grandi benefattori che
talvolta restano sconosciuti, pertanto abbia-
mo voluto chiedere sia a suor Maria Rosa Olivella
sia a suor Elsa Franco di raccontarci le vicissitudini
che ci sono all’inizio della loro opera e soprattutto
chi c’è. Ci dicono che in quanto narrano occorre
saper cogliere le tracce della Provvidenza che co-
munque conduce e realizza i suoi disegni, anche se
non sempre siamo in grado di accorgercene.
Dorotea de Chopitea, illustre signora della Barcel-
lona dell’Ottocento, è strettamente legata all’arrivo
dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice in
Spagna, in particolare a Barcellona; è una donna
ricca, moglie di un banchiere, dedica la sua vita e la
sua immensa fortuna all’edificazione di istituzioni
nella città: asili nido, scuole, ospedali. Comprende
che i poveri hanno bisogno più di queste istituzioni
che di elemosina. Nel 1884 fonda la prima scuola
professionale salesiana a Sarriá: chiedendo, insi-
stendo, pagando e prendendosi cura dei ragazzi.
Dorotea conosce da tempo la Congregazione fem-
minile della Famiglia salesiana, ha letto un opu-
scolo su don Bosco ed il suo lavoro pubblicato in
Andalusia nel quale si parlava anche delle Figlie
di Maria Ausiliatrice; la donna valorizza l’eccel-
lenza della loro missione educativa a tal punto da
chiedere a don Cagliero (direttore spirituale della
Congregazione) di far venire a Barcellona le “so-
relle aiutanti” per prendersi cura dei detenuti e per
aprire un asilo. Insiste molte volte, ci sono 60 bam-
bini interni da educare, ma non ha risposta. Senza
aspettare la conferma comincia a cercare una casa
e a procurarsi l’autorizzazione del Vescovo, ciò che
non è così facile da ottenere.
Don Bosco giunge a Barcellona nel 1886 e, da bra-
va Salesiana cooperatrice, Dorotea insiste di nuovo
per avere l’intera presenza dei componenti della Fa-
miglia Salesiana.
Il segretario di don Bosco, don Branda, racconta
un dettaglio importante: don Bosco, passeggiando,
indica una casa adiacente all’edificio e pensa di de-
stinarla alle suore, ne ordina immediatamente l’ac-
quisto ma subentrano alcune difficoltà.
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Sono davvero coincidenze?
La casa, chiamata Torre Gironella, appartiene al si-
gnor Clavé i España, un ricco mercante che non
vuole assolutamente venderla in quanto vi trascorre
il riposo estivo. Nonostante ciò, nel 1886 stesso don
Bosco decide che le Figlie di Maria Ausiliatrice
vengano a Barcellona e collaborino con i Salesia-
ni. A Nizza le suore iniziano ad imparare la lingua
spagnola.
Dunque i problemi si sono risolti? Niente affatto:
occorre ancora trovare una casa ed il permesso del
Vescovo, il quale non desidera più Congregazioni
femminili nella sua diocesi. Eppure entrambe le
difficoltà hanno un esito positivo: il Vescovo cede
alla richiesta ed una casa viene affittata nei dintorni
della Gironella.
Il 18 ottobre del 1886 quattro suore partono da
Torino con la Madre generale, suor Caterina Da-
ghero, e con suor Elisa Roncallo; al loro arrivo l’ac-
coglienza è analoga a quella riservata alle grandi
personalità: carrozze, visita alla città, cena di gala.
Inizialmente le Figlie di Maria Ausiliatrice si de-
dicano all’educazione dei ragazzi interni alla casa
dei Salesiani; contemporaneamente si verifica una
singolare coincidenza: muore inaspettatamente
il proprietario della Torre Gironella, la casa passa
alla figlia Emilia, sposata con Casimiro Girona,
banchiere cattolico e collaboratore dei Salesiani,
ma i coniugi non vogliono vendere la casa. Don
Branda insiste per acquistarla, si affida a Maria
Ausiliatrice ed alla fine il signor Girona gli lascia
la Torre Gironella per meno della metà della ci-
fra precedentemente pattuita. Il costo è di 70 000
pesetas da pagare in contanti; don Branda si reca
da Doña Dorotea e le racconta la situazione. Lei
si commuove e piange: in precedenza ha deposi-
tato 70 000 pesetas in banca nel caso avesse avu-
to imprevisti quando sarebbe stata anziana ma,
afferma, “Il Signore vuole che muoia veramente
povera”.
Il 17 marzo 1887 l’atto viene firmato: 75 000 pe-
setas in contanti ed un’altra parte da versare dopo
quattro anni. Vengono prese le disposizioni neces-
sarie ed il primo maggio 1887 la Torre Gironella
riceve la comunità delle Figlie di Maria Ausilia-
trice, avranno anche una cappella, un giardino ed
un frutteto.
Il 24 maggio si celebra la prima grande festa di
Maria Ausiliatrice; “Non c’è altra casa nell’Istituto
che dimostri l’intervento di Maria come quello di
Sarrià”, asserisce don Branda. Ma suor Maria Rosa
e suor Elsa concordano che il vero e grande mira-
colo concesso da Maria è stato quello di aver dato a
Doña Dorotea il coraggio di donare tutto, di vivere
in povertà sino alla fine della sua vita.
Attualmente la Torre Gironella è una casa che ac-
coglie gruppi di formazione e della Famiglia Sale-
siana, la comunità delle nove suore vive nella casa
adiacente e gestisce il Colegio Santa Dorotea, così in-
titolato perché ricordi perennemente l’insostituibile
aiuto che ha dato questa grande donna. La missione
educativa che le suore svolgono è prevalentemente
scolastica ma non mancano altre attività alle quali
si dedicano con passione e professionalità.
Il vero e
grande
miracolo
concesso da
Maria è stato
quello di aver
dato a Doña
Dorotea il
coraggio di
donare tutto,
di vivere in
povertà sino
alla fine della
sua vita.
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ANCHE QUESTA E` MISSIONE
Francesca Banaudi*
La storia di D.
al Centro Diurno
“Appena esce da scuola e quando arriva al
Centro Diurno, D. fa il giro tra educatori e
volontari per salutare e abbracciare ciascuno”.
Ovunque esistono, i Centri Diurni di scuole e
oratori sono un pezzo del cuore di don Bosco.
Èsabato mattina, sono le 8 meno qualche
minuto e suona la sveglia. Oggi ci aspetta
una lunga giornata: i bimbi del Centro
Diurno non vanno a scuola e stiamo insieme
tutto il giorno. Questo significa che alle 9 si parte,
si sale sul pulmino, si raggiunge casa per casa e si
dà il buongiorno a ciascuno. Concluso il giro si
torna al Centro, si fa colazione insieme, si lavano
i denti e poi siamo pronti per iniziare la giornata!
Il sabato è sempre un momento particolare: non
abbiamo i minuti contati come durante la setti-
mana e il tempo a nostra disposizione è molto. Lo
sappiamo noi educatori, ma anche i più piccoli ne
sono ben consapevoli e, giustamente, fanno di tutto
per approfittarne. Mentre i più grandi vorrebbero
giocare, ai più piccoli piace disegnare e colorare,
qualcuno vorrebbe addirittura fare un giro in bici
vista la bella giornata. Ma non possiamo lasciarci
trasportare. Bisogna prima finire tutti i compiti per
il lunedì, altrimenti chi le sente le maestre! Il posto
migliore sta per essere conquistato, il tavolo per lo
studio non ha più speranza di sopravvivere perché
sta per essere invaso: astucci, diari, libri e quader-
* 22 anni, vive a Vallecrosia, una cittadina ligure al confine con la Francia, ed è un’educatrice.
Ha studiato a Genova laureandosi in Scienze dell’Educazione e della Formazione e sta frequentando
un Master in Counseling educativo presso lo IUSVE. Da circa due anni presta servizio presso il Centro
Diurno “Nuove Rotte”, prima come volontaria, poi come tirocinante e infine come educatrice.
ni sono già pronti ad occuparlo, iniziano i compi-
ti! Chi finisce le divisioni in colonna, chi ripassa
la lezione di geografia, chi sta imparando l’analisi
grammaticale, chi deve solo leggere qualche pagina
ma fa comunque fatica. Ognuno ha il suo lavoro da
svolgere e ciascuno vorrebbe un educatore tutto per
sé sempre accanto, e non perché non siano in grado
di farlo da soli, ma perché avere qualcuno vicino
che si occupa e si preoccupa di noi è un’esperien-
za che non ha prezzo, “Io! Io! Io ho bisogno! Non
ho capito come si fa questo esercizio” “Hai letto la
consegna?” “Mmm... no” “La leggiamo insieme?”
“Mmm... sì”. Ed ecco spuntare un sorriso e una
luce nuova negli occhi. “Sì lo so fare, è facilissimo!”
“Bene! Inizia a farlo che guardo gli altri compiti e
poi passo a controllare”. Un attimo di silenzio, una
nota di malinconia e l’espressione di una necessità:
“Ti siedi qui vicino a me così ti faccio vedere come
lo faccio bene?”. Come poter dire di no a quello
sguardo così vispo e implorante? Quegli occhi che
nascondono un vortice di emozioni, sensazioni, bi-
sogni inespressi, paura di non essere compresi, es-
sere giudicati o, ancora peggio, essere ignorati.
Un’occhiata intorno per assicurarsi che siano tutti
tranquilli e poi posso sedermi ed esaudire quella pic-
cola richiesta, così semplice ma così poco scontata.
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E la reazione ne dà testimonianza: un sorriso su
tutto il volto, un’eccitazione generale racchiusa in
un corpicino che non è in grado di nascondere la
gioia che sta provando, un abbraccio che esprime
gratitudine immensa e possiamo finalmente inizia-
re l’esercizio. Un’operazione molto semplice (fare i
compiti) che porta alla luce sguardi e desideri na-
scosti che vanno colti e accolti con gioia e sensibi-
lità, cura e attenzione, poiché non aspettano altro
che essere presi in considerazione e compresi.
Esserci è tutto
«Si faccia in modo che gli allievi non siano mai
soli». Con queste parole don Bosco ci guida e ci
consiglia già nel lontano 1877, grazie alla stesura di
quelle sette paginette de il Sistema Preventivo nella
educazione alla gioventù. L’importanza della pre-
senza, punto fondamentale della pedagogia di don
Bosco e punto di partenza dell’educatore salesia-
no. Essere presenti dà la possibilità di osservare il
“campo” di cui il Santo ci parla nel Sogno dei nove
anni, di comprendere gli sguardi e di prevenire le
intenzioni. Ma il primo passo per una buona azio-
ne è sempre un’attenta osservazione, che porta alla
comprensione della situazione ed è proprio difficile
poter osservare se non si è presenti e non si cam-
mina accanto nel quotidiano. Camminare accanto
giorno per giorno significa farsi prossimo, signifi-
ca crescere insieme in umiltà e bontà, gioendo dei
successi e affrontando insieme i momenti di crisi.
Ciò vuol dire anche confrontarsi con le tracce la-
sciate dagli episodi passati, segni indelebili e spesso
critici che influenzano nel profondo ogni azione e
riflessione di oggi. I bimbi del Centro Diurno ne
presentano tante tracce con cui necessariamente si
confrontano nel quotidiano; sono il loro punto di
partenza, elementi della loro unicità e originalità.
Sono quelle le basi sulle quali ciascun educatore
poggia la propria opera e il proprio intervento edu-
cativo, poiché è chiaro che non sia possibile trala-
sciare le fondamenta della Casa che ogni giovane
e adulto rappresenta nel momento in cui si decide
di prendersene cura. Occorre però anche ricordare
che il passato è solo l’origine del giovane che noi
educatori siamo chiamati ad incontrare: il futuro
ne sarà influenzato, ma è ancora tutto da scrivere!
Questa è la certezza che mi permette di guardare
negli occhi D. condividendo con lei una parte del suo
percorso di vita. D. frequenta una scuola primaria ed
è una bambina socievole, anche se talvolta timorosa
dell’incontro con l’altro. A D. piace andare a scuola,
ma le piace molto anche stare al Centro Diurno che
è diventato ormai la sua seconda casa, se non addirit-
tura la prima. Perché la scuola sì, è bella, però a volte
è difficile. È difficile stare seduti tutto il giorno ed è
difficile mantenere sempre un comportamento ade-
I centri
diurni sono
presenti in
molte opere
salesiane e
sono luoghi
di affettuosa
accoglienza
per molti
minori
svantaggiati.
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ANCHE QUESTA E` MISSIONE
Anche fare
i compiti
porta alla
luce sguardi
e desideri
nascosti che
vanno colti
e accolti
con gioia e
sensibilità,
cura e
attenzione.
guato. È difficile parlare con le maestre “perché ogni
tanto proprio non mi capiscono e quell’esercizio, io,
non sono riuscita a finirlo”. Ed è difficile anche rela-
zionarsi con i compagni... Oh com’è difficile! D. vor-
rebbe sempre giocare con le sue compagne di classe,
ma quanta fatica quando si sente presa in giro perché
ha la pelle un po’ più scura degli altri o quando i
suoi capelli tutti arricciati vengono guardati male
perché diversi rispetto a quelli dei suoi compagni.
Sono quelli i giorni in cui D. non è molto contenta
di andare a scuola, sono quelli i giorni in cui D. esce
da scuola un po’ imbronciata e non vuole parlare con
nessuno. Ma è davvero il colore della pelle o l’aspetto
dei capelli che rendono D. così così diversa e unica?
Non credo proprio! La sua unicità è dettata anche
dalla sua storia, come quella di ciascuna di noi. D. è
nata un po’ per caso e per i primi anni della sua vita
ha viaggiato; è stata presa, portata, scambiata, senza
possibilità di scelta. D. ha anche trascorso più di un
anno all’interno di una tribù in un Paese dell’Africa
settentrionale: qui ha vissuto ed è stata educata in
modo selvaggio e imbarbarito e solo lei è a conoscen-
za dell’accaduto.
Queste sono solo alcune delle cicatrici visibili e
invisibili che costituiscono il punto di partenza di
D. Quanta forza che ha avuto! Quanta forza ogni
giorno per riuscire a stare seduta al banco di scuola
shutterstock.com
e mescolarsi fra gli altri compagni. Dopo più di un
anno al Centro Diurno, D. si sente finalmente a
casa e ha imparato che qui c’è qualcuno disposto
ad accoglierla, ad accogliere proprio lei con la sua
unicità e diversità.
L’abbraccio-rifugio
Oggi, quando a scuola va proprio male o riemerge
qualche ricordo del suo passato, D. sa come sfogar-
si: osserva bene la situazione, sceglie l’educatore o il
volontario più adatto per quel momento e, senza dire
una parola, si va a nascondere in un abbraccio con lo
sguardo arrabbiato. Quanti mesi ci sono voluti per
arrivare a quell’abbraccio, ma ce l’ha fatta. Oggi D.
sa che quell’abbraccio è un rifugio sicuro e che, dopo
qualche lacrima, può provare a raccontare che cosa è
successo, con la certezza che condividendo è possi-
bile trovare una soluzione e ricevere quella parolina
all’orecchio che ribalterà la situazione, aiutandola a
sistemare i pezzi anche questa volta.
È stato semplice raggiungere questo obiettivo? No,
per niente, ma ce l’abbiamo fatta. Ora è tutto facile?
No, ogni tanto è troppo anche per la D. di oggi e il
suo comportamento selvaggio torna a far capolino.
Rispetto a un anno fa, però, i cambiamenti ci sono
e si vedono quotidianamente: adesso D., appena
esce da scuola o quando arriva al Centro Diurno,
fa il giro tra educatori e volontari per salutare e ab-
bracciare ciascuno. Succede talvolta che all’arrivo al
Centro venga distratta dalla vista di una merenda
golosa o dai troppi compiti da fare e si dimentichi
del suo rito di ingresso. In questi casi succede che,
nel bel mezzo della merenda o appena tirati fuo-
ri il diario e l’astuccio, D. si alzi tutta concentrata
alla ricerca di qualcosa, si avvicini all’educatore e
compia il suo rituale. Solo al termine del giro ri-
prende la sua attività esclamando «Ecco cosa mi ero
dimenticata! Ora posso iniziare i compiti», il tutto
coronato da un’espressione soddisfatta. Arrivata
timorosa di tutto e di tutti, con il volto sempre teso
e arrabbiato, questi sono i comportamenti e la gioia
di D. oggi.
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Lacrime e pace
Che cosa è successo in questi mesi e come siamo
arrivati fin qui? Parlavamo prima di osservare, co-
gliere, comprendere e prevenire, azioni strettamente
legate alla presenza. La presenza e l’attenzione nel
quotidiano sono diventate familiarità, giorno dopo
giorno sono diventate parte della vita di D. e dei suoi
compagni. E don Bosco aveva qualcosa da dire sui
frutti della familiarità, qualcosa che rivediamo in
ogni rapporto educativo, senza esclusione. “La fami-
liarità porta l’affetto, e l’affetto porta la confidenza”,
scrive don Bosco nella Lettera da Roma del 10 mag-
gio 1884. La confidenza è ciò che ha sperimentato
D. e che le ha permesso di arrivare a quell’abbraccio:
la sicurezza che il suo mostrarsi vulnerabile non sa-
rebbe stato oggetto di scherno, bensì un modo per
farsi conoscere, comprendere e accogliere. Credo sia
importante ripeterlo ancora una volta: tutto parte
dalla presenza. Una presenza così importante che
deve far assaporare il gusto di una Casa che spesso
risulta impossibile da immaginare per i bimbi e i ra-
gazzi inseriti nel Centro Diurno.
Presenza e accoglienza sono dunque due dei punti
cardine con cui si deve confrontare quotidianamen-
te l’educatore salesiano. È su queste fondamenta
che poggiano la Casa e la Famiglia che si va a crea­
re all’interno del Centro Diurno, di una Comunità
residenziale o dell’Oratorio in cui è presente lo spi-
rito salesiano.
Occorre ancora evidenziare un ulteriore elemen-
to essenziale nell’ambito di un progetto educativo
salesiano, ovvero l’attenzione alla presenza del Si-
gnore. Ci si potrebbe domandare come il Signore
sia presente in luoghi come questi, che raccolgono
storie di abbandoni, violenze, dipendenze e perdite.
La risposta è così semplice che potrebbe darcela
persino un bambino; e sarà proprio un bambino a
darne dimostrazione. Era proprio un sabato mattina
e, dopo aver fatto colazione, ci siamo divisi fra chi
doveva finire i compiti e chi invece li aveva già finiti
e ha avuto la possibilità di mettere in gioco la fan-
tasia, sbizzarrendosi nella creazione di racconti dai
particolari spesso tragici. Proprio nel bel mezzo di
un evento critico di una di queste narrazioni, si apre
la porta e subito appare N., il più piccolo dei bimbi
del Centro Diurno (7 anni), in lacrime e accompa-
gnato dal fratello maggiore N. ha ricevuto una pal-
lonata in faccia durante l’allenamento di calcio, ha
dovuto fermarsi e gli sta uscendo sangue dal naso. N.
si avvicina, sta piangendo ed è sporco di sangue un
po’ dappertutto, ma niente di serio. Però è agitato,
fatica a stare fermo, la situazione è nuova, l’adrena-
lina della partita sta scendendo e sta realizzando che
cosa sia successo. E, soprattutto, si accorge di avere
tutti gli occhi addosso. Quindi si asciuga il viso, pro-
va a ricomporsi e a raccontarci che cosa sia accaduto,
la sua versione dei fatti almeno, “io stavo correndo,
mi stavo avvicinando alla porta, il mio amico mi ha
passato la palla e io l’ho presa di faccia perché volevo
prenderla di testa, poi però ho fatto gol!».
Riusciamo finalmente a pulire mani e viso e a se-
derci sulla sedia, tenendo il ghiaccio in fronte. Rag-
giungiamo uno stato di quiete e tranquillità, tutta
l’agitazione pian piano viene allontanata e la sere-
nità emerge nei suoi occhi. Nell’osservare quello
sguardo non si può non notare un netto cambia-
mento, una luce diversa che trasmette pace. La pace
che solo la presenza del Signore può portare, quella
pace che sa di Casa, di Famiglia, di Amore.
La presenza
e l‘attenzione
nel
quotidiano
diventano
familiarità
e affetto,
giorno dopo
giorno.
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RAGAZZI SOLI
Angelo Ferrari (Fotografie di Ester Negro)
Jordy che
voleva lasciare
la strada
Una partita a pallone, un sogno
ed un tetto di lamiere.
E la speranza di una vita migliore.
Jordy era un ragazzino di strada di Pointe
Noire. L’ho conosciuto durante il mio lungo
soggiorno nella Repubblica del Congo.
Il 25 maggio 2018 è il giorno, nel mondo,
dedicato all’Africa. Avrei potuto raccontare delle
enormi ricchezze del continente, depredate dai bu-
limici del potere e del denaro, i dittatori irremovi-
bili di numerosi stati africani. Avrei
potuto raccontare della sanità che
non funziona, dell’educazione
e della scuola privilegi per
pochi. Delle malattie, della
povertà, dell’assenza di Sta-
to e governance. Della cor-
ruzione. Ci penserà sicu-
ramente qualcun altro.
Io, invece, ho deciso
di raccontare la storia
di questo ragazzino di
strada, dei suoi sogni che,
poi, sono i sogni di
centinaia di migliaia di bambini e bambine africa-
ne, a cui è negato il diritto di esistere, nemmeno
sognare un futuro possibile, ma solo vivere affinché
si arrivi a sera vivi.
Una partita a pallone
sulla riva dell’oceano
Le domeniche pomeriggio, sulla riva dell’oceano
Atlantico, sulla CÔte Sauvage, insieme ad altri ami-
ci organizzavamo delle partite di calcio i cui prota-
gonisti erano proprio alcuni ragazzini di strada di
Pointe Noire. In occasione di una di quelle partite
ho conosciuto Jordy. Nell’intervallo tra un tempo
e l’altro mi ha raccontato la sua storia. Di essere
scappato da Kinshasa, la capitale dell’altro Congo,
perché i suoi genitori non riuscivano a mantenerlo
e il padre acquisito lo maltrattava. È stato, persi-
no, accusato di stregoneria. Di aver attraversato il
fiume con mezzi di fortuna. Di essere sbarcato su
questa sponda a Brazzaville e con il treno fino a
Pointe Noire.
Una scelta ponderata, perché questa è la capitale
economica del paese. Brazzaville, la capitale poli-
tica, offre poco anche ai bambini di strada. Così
abbiamo fatto amicizia, una lunga amicizia. Mi ha
raccontato della mamma che “non c’è più” e non ha
potuto salutarla per l’ultima volta. Forse qualcuno,
io non riesco a farlo, gli racconterà che lei ora lo
guarda da lassù. Non capisco, però, come ha fatto
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a sapere che la mamma non c’è più. Pointe Noire
non è la sua città, il suo villaggio è a centinaia di
chilometri, addirittura in un altro Stato. Eppure
l’Africa è così. Jordy, tuttavia, non si scoraggia.
Crede, ne è convinto, che un giorno tornerà al suo
villaggio non più da paria e bambino di strada, ma
da adulto con un mestiere, capace di progettare il
futuro. Me lo ripete spesso, perché il suo sogno è
avere un tetto sopra la testa e andare a scuola. Per
ora si accontenta del tetto di lamiera delle bancarel-
le del mercato della città.
“Dormire sulla spiaggia
è pericoloso”
“Dormire sulla spiaggia”, mi dice, “è troppo ri-
schioso. Almeno al mercato se piove posso riparar-
mi”. E poi c’è la scuola. Capisce perfettamente che
quello è il passaggio necessario per avere un futuro.
Vorrei aiutarlo a realizzare i suoi sogni. E così mi
metto in moto. Con l’aiuto di un missionario sa-
lesiano che lavora lì, padre Valentino, cerchiamo
di introdurlo al foyer degli altri ragazzi di strada,
costruito dal missionario. Qui tutti hanno un tetto,
da mangiare due volte al giorno e, soprattutto, tutti
o vanno a scuola o frequentano le scuole professio-
nali per imparare un mestiere. A Jordy piace.
che gli ronzano intorno. Ma in Jordy, ormai, si è in-
sinuato il desiderio, la voglia, di frequentare quel-
la casa di ragazzi che hanno lasciato la strada per
costruirsi un futuro. Sempre più spesso mi chiede
quando accadrà. Non voglio deluderlo. Ho fatto una
promessa a lui e a me stesso. E il giorno arriva.
Padre Valentino, una sera, senza troppi giri di pa-
role, mi dice che Jordy può lasciare la strada ed en-
trare nel foyer des enfants de la route. Basta, bisogna
solo dirlo a lui. Ci diamo appuntamento alla Citro-
nelle, pasticceria alla moda sulla via principale, la
Charles de Gaulle. Jordy arriva, non dice una pa-
rola, si abbuffa di pasticcini e, ben sazio, indica la
porta, la strada.
Di notte, l’angolo di fronte alla pasticceria, diven-
ta un ristorante per bambini di strada, ubriaconi
dell’ultima ora e donne perdute. Il suo mondo.
Nel foyer
costruito dal
missionario
tutti hanno
un tetto, da
mangiare
due volte
al giorno e,
soprattutto,
tutti o vanno
a scuola o
frequentano
le scuole
professionali
per imparare
un mestiere.
I soldi sulla strada battuta
dai bianchi
Dopo la diffidenza iniziale, ora lo frequenta tutte le
domeniche. Padre Valentino vuole capire se riuscirà
ad adattarsi, a seguire le regole di una comunità.
Altra cosa è la strada. Tutto viene vissuto istante
dopo istante. Jordy continua a “battere” le vie più
frequentate dai bianchi. Sa perfettamente che lì
girano i soldi ed è più facile finire la giornata al
mercato con la pancia piena.
Solo il sabato, Jordy migra nelle vie delle discote-
che frequentate da bianchi in cerca di una compagna
nera. Sa perfettamente che quando sono un po’ be-
vuti, i bianchi, e in compagnia di una ragazza nera,
sganciano più facilmente pur di disfarsi dei mocciosi
Domani al foyer
Il traffico della Charles de Gaulle si smorza d’im-
provviso. Jordy mi prende la mano, non lo aveva
mai fatto. Gli racconto che già l’indomani potrem-
mo andare al foyer. Non dice una parola. Un sem-
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31

4.2 Page 32

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RAGAZZI SOLI
Sotto: don
Valentino
Favaro,
missionario
salesiano.
plice cenno del capo e un sorriso grande così. Gli
dico di trovarsi l’indomani davanti al cancello di
casa mia intorno alle 10 e gli faccio solo una racco-
mandazione: questa sera non andare a battere le vie
delle discoteche. Non so perché glielo dico. Sono
solo contento che domani potrà incominciare a co-
struirsi un futuro, per davvero.
L’indomani Jordy non si presenta. Aspetto, ma di
lui nemmeno l’ombra. Comincio a cercarlo. Sguin-
zaglio gli altri ragazzini di strada. Ma niente. Sva-
nito nel nulla. Mi rassegno. Spesso capita che pre-
feriscano la strada a un luogo sicuro. Torno a casa
un po’ deluso. Verso sera mi chiama il guardiano
e mi dice che ci sono dei ragazzini che vogliono
parlare solo con me. Sono di poche parole: “Jordy
è morto”.
Una tomba scavata di nascosto
Indago, voglio capire che cosa è successo. Sabato
notte stava girovagando davanti alle discoteche
della città. Ormai notte, forse mattina, insieme a
un altro ragazzo ha deciso di rannicchiarsi in una
rientranza di un marciapiede per dormire, proprio
davanti a una discoteca. Un tizio, ubriaco e strafat-
to, occidentale bianco, insieme alla donna raccatta-
ta in un night, ha messo in moto il suo suv. Troppo
REPUBBLICA DEL CONGO, L’INFERNO DEGLI ULTIMI
«Papà capo è diventato il mio soprannome. Anche se vieni per soli
dieci minuti, noi siamo felici, sei l’unica persona che ci vuole bene»
dice don Valentino Favaro, salesiano.
Bambini di strada presi a basto-
nate o uccisi. Detenuti lasciati al
loro destino in condizioni disuma-
ne. Il coronavirus nella Repubblica
del Congo ha cominciato a fare le
sue vittime, anche se indirettamente.
Nel Paese, ex colonia francese, sono stati
pesanti gli effetti della pandemia soprattutto sul-
la popolazione più fragile e denutrita.
La Ville e la Cité
Tra gli ultimi degli ultimi ci sono i detenuti e i bambini di stra-
da. Gli enfants de la rue sono praticamente scomparsi dalle
strade delle grandi città africane. Nella Repubblica del Congo
il fenomeno è molto rivelante, in particolare nella capitale
economica del Paese, Pointe Noire. Una città che sfiora il mi-
lione di abitanti dove sono a decine i ragazzini senza un tetto
che vagano senza meta per le strade della Ville. Molti di questi
arrivano dalla vicina Repubblica Democratica del Congo, dove
il fenomeno è ancora più marcato. Pointe Noire è una città
dove si addensano quasi tutte le multinazionali del petrolio
e la divisione tra la Cité — la parte più povera della città, dove
vive la stragrande maggioranza della popolazione — e la Ville
— la parte più ricca e abitata soprattutto dagli espatriati im-
piegati nell’industria del petrolio è ben marcato. Le condizioni
di vita nella Cité sono precarie e i servizi, corrente elettrica e
acqua potabile, non sono fruibili da tutti. Molte abitazioni non
hanno l’acqua corrente. In questa città ci ho vissuto a lungo e
ricordo un solo episodio, che mi pare significativo, per capire
che cosa vuol dire vivere in quella parte della città. Era il 2010,
per ragioni che non si sono mai capite la fornitura elettrica si
è interrotta per 12 giorni in tutta Pointe Noire. Questo fatto ha
causato un’epidemia di poliomielite che ha provocato più di
500 vittime in pochi giorni e centinaia di contagiati. L’epicen-
tro è stato proprio nella Cité. La Ville si è salvata perché le abi-
tazioni sono tutte fornite di generatori di corrente. Erano dieci
anni che nel Paese non si registrava un caso di poliomielite.
Gli enfants de la rue
I ragazzi di strada si addensano nelle vie della Ville, ma ora sono
spariti, conseguenza delle misure di contenimento dell’epide-
mia messe in atto dal governo. Ma dove sono finiti? Nella città
vive e lavora, da lunghi anni, padre Valentino Favaro, missiona-
rio salesiano, che si occupa proprio dei ragazzi di strada. «Qui da
noi — mi spiega padre Valentino — le persone più toccate e sensi-
bili sono gli enfants de la rue e i detenuti. Gli ultimi degli ultimi.
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GENNAIO 2023

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preso dalla venere nera è partito passando sopra
Jordy. Mi hanno detto che è morto quasi subito e
i compagni di strada, senza far troppo rumore, lo
hanno sepolto da qualche parte, in fretta e senza
cerimonie, proprio come si addice a un ragazzino
di strada senza storia e senza nome.
Anche se è morto ha vissuto e ha provato fino all’ul-
timo a realizzare il suo sogno. Jordy è stato ed è nel
mio cuore, e lo sarà per sempre, ora è anche nel vo-
stro cuore perché avete letto e conosciuto la sua sto-
ria. Ecco perché questo articolo lo dedico a Jordy e
ai tanti bambini e bambine, senza nome e storia, che
popolano le strade delle metropoli africane.
Sono le prime vittime di questo male oscuro, imprevedibile, che
ha messo in ginocchio società molto più organizzate di quella
in cui mi trovo». La vita di questi ragazzi si è fatta ancora più
dura in questi momenti di restrizioni per far fronte all’epidemia.
«Stanno vivendo un tempo durissimo: cacciati da tutti, bastona-
ti dalla polizia che tira su di loro come sui polli, gettati poi in una
fossa, come i loro amici banditelli, i bebé-noirs, ragazzi tra i 17
e i 20 anni che seminano terrore e paura nei quartieri. E la poli-
zia spara e se vuoi recuperare il corpo devi pagare il costo delle
pallottole sparate per uccidere». Eppure padre Valentino, un
ottantunenne che non si dà per vinto, si occupa di loro da anni,
rappresentando l’ultima speranza per decine di ragazzi che
altrimenti non avrebbero proprio nulla, soprattutto in questo
periodo. «Noi salesiani — racconta il missionario — abbiamo
aperto due foyer per questi ragazzi: una sessantina saranno
ospitati giorno e notte per almeno due mesi. L’impegno è
importante: vitto, vestiti, materassi, lenzuola, medicinali, perso-
nale per il giorno e per la notte. Un organismo francese, il Samu
Social, ci aiuta molto, ma tutta l’organizzazione è nelle nostre
mani». Insomma, uno sforzo imponente.
Il carcere di Pointe Noire
Lo scoramento non appartiene al carattere di padre Valentino,
tanto che prosegue anche la sua attività nel carcere della città.
I detenuti sono totalmente dimenticati dalle autorità. Valen-
tino non ha ancora ricevuto il lasciapassare dalle autorità per
il suo andirivieni con il carcere. Ma non rinuncia ad andarci.
«I detenuti sono contenti anche solo per il fatto che li vado a
trovare. “Papà capo” è diventato il mio soprannome. Anche se
vieni per soli dieci minuti, noi siamo felici, sei l’unica persona
che ci vuole bene. Questo mi dicono». Il missionario salesiano,
che è anche cappellano del carcere, si è impegnato a portar
loro ogni giorno anche qualcosa da mangiare. «Faccio l’im-
possibile per preparare per loro una specie di colazione — riso,
spaghetti, latte e altro —, per loro è una specie di miracolo. La
prigione dovrebbe fornire un altro pasto al giorno, ma spesso
la direzione non è in grado di farlo, allora la mia colazione di-
venta l’unico mezzo di sussistenza. Riesco anche a portare dei
medicinali, specie contro la malaria. La prigione ha un infer-
miere, ma non ha — o non fornisce — nemmeno una pastiglia
per il mal di testa, figuriamoci i medicinali per la malaria».
La situazione nella prigione è particolarmente drammatica. Il
carcere di Pointe Noire è stato costruito negli anni Cinquan-
ta del Novecento dalla Francia, ex potenza coloniale, ed è
stato pensato per ospitare 75 persone: ora in quelle quattro
mura sono rinchiusi quasi 550 detenuti. «Dormono per terra
e sul fianco, non c’è nemmeno lo spazio per poter dormire di
schiena o di pancia. Ma il numero aumenta. Ci sono detenuti
che aspettano anni prima di vedere un procuratore della
Repubblica; se non hanno 2000 franchi Cfa (3 euro) per chie-
dere udienza, il loro caso rimane nel cassetto. Sugli ultimi del-
la terra ora si sta abbattendo anche questa malattia. Che cosa
accadrà? Non lo so, ma posso prevederlo, visto che non si fa
nulla in previsione di un probabile contagio. Insomma non so
immaginare che cosa diventerà la vita qui da noi se scoppiasse
l’epidemia».
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COME DON BOSCO
Pino Pellegrino
Pedagogia controcorrente 1
Meglio felici che famosi
Don Bosco, come educatore,
è stato un «cercatore» e un
«promotore» della felicità dei suoi
giovani. I genitori devono anche
insegnare ai loro figli a gustare la
gioia di vivere. Ma che cosa rende
veramente felice un bambino?
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Ricordiamo una delle espressioni più belle di
don Bosco che ne dice – meglio di tante pa-
role – l’intuizione e l’orizzonte: «Miei caris-
simi figliuoli in Gesù Cristo, vicino o lonta-
no io penso sempre a voi. Uno solo è il mio desiderio,
quello di vedervi felici nel tempo e nell’eternità». È
il Vangelo della gioia che don Bosco ha offerto ai
suoi giovani attraverso la pedagogia della bontà per
giungere a una santità che vede la gioia come pun-
to di partenza e punto di arrivo: «Noi qui facciamo
consistere la santità nello stare sempre allegri».
I genitori devono anche insegnare ai
loro figli a gustare la gioia di vive-
re. Ma che cosa rende veramen-
te felice un bambino?
Se ci fosse una risposta a que-
sta grande domanda, se potes-
simo conoscere la ricetta, che
sollievo per i genitori! Come
possiamo sapere se non stiamo
sbagliando obiettivi e mezzi? For-
se tornando all’essenziale, solo all’essenziale. Un
bambino non può essere felice nel suo presente e
nel suo futuro, se non si sente amato con un amore
assoluto e incondizionato. Non perché sia bello, in-
telligente, affettuoso, gratificante, ma perché è lui.
I genitori possono anche insegnare ai loro figli a gu-
stare la gioia di vivere. Amare la vita significa pre-
stare attenzione positiva e gioiosa a ciò che facciamo,
a ciò che vediamo, a ciò che sentiamo, a ciò che desi-
deriamo; significa gioire del bello e del buono prima
di lamentarsi del triste, del meno buono o del brutto.
Significa credere che l’oggi è pieno di piccole e gran-
di meraviglie e che lo sarà anche il domani, perché
la vita dà a chi cerca. Se questo non è uno dei segreti
della felicità, è vicino. Nutrito da questi viatici, come
potrebbe un bambino essere veramente infelice?
Il segreto
Alcuni anni fa un’indagine, che ha coinvolto mi-
gliaia di madri con almeno un figlio tra i 6 ed i 14
anni, ha dato risultati sorprendenti.
Il 72% delle mamme sogna un figlio calciatore; il
49% lo desidera attore; il 44% presentatore televisi-
vo; il 35% imprenditore.
Queste le risposte per i figli maschi. Per le bambine
le cose non cambiano: il 64% delle mamme le vuole
cantanti, il 56% presentatrici televisive; il 43% bal-
lerine; il 39% attrici/modelle; il 22% buone madri
e buone mogli.
Insomma, le mamme desiderano figli emergenti, di
successo. Figli famosi. Che dire?
Il genitore controcorrente ha buon gioco a rispon-
dere. Il figlio che ha una madre ed un padre con
attese tanto alte, infatti, è destinato al 90% alla
tristezza. Sì, perché, quasi sicuramente, si sentirà
in colpa per non essere in grado di realizzare i sogni
dei genitori; quasi sicuramente sprecherà il tempo
più bello della vita ad inseguire mete impossibili.
Ma vi è un’altra ragione, ben più profonda, che
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porta a dare ragione al genitore controcorrente.
Non tutti gli uomini nascono per diventare famosi,
tutti nascono per essere felici!
Il bisogno di gioia è scritto nel nostro patrimonio
cromosomico genetico.
Ecco perché la pedagogista Elisabetta Fiorentini
non ha dubbi: “Per un bambino, la gioia è importante
come il pane e il companatico. Se non di più». Dunque
la gioia del bambino non è da prendersi sottogamba!
Lo psicopedagogista Franco Frabboni è tassativo: “Se
un bambino non ride, bisogna preoccuparsene!”. Parole
vere e severe che hanno forti ricadute operative che il
genitore controcorrente pratica in questo modo:
non obbliga il figlio a dimostrare d’essere un genio;
non lo costringe a fare l’adulto in anticipo;
si ricorda d’essere stato bambino pure lui;
non lo tiene inscatolato in casa come le statuine
del presepio;
lo sveglia con un bacio, non accendendo la tele-
visione;
lo coccola;
gli dà più calore che calorie;
ha sempre in mente il saggio proverbio africano:
“Quando due elefanti si combattono, chi ci rimette è
l’erba del prato”.
Magnifico programma, impegnativo, ma anche
esaltante: far felice un bambino, nobilita l’uomo.
La domenica mattina
Da bambina ero felice ogni giorno di scuola, quan-
do tornavo a casa e mia madre mi vedeva sulla soglia
e interrompeva all’istante tutte le attività domesti-
che, si puliva le mani, si toglieva il grembiule, si ri-
metteva una ciocca di capelli vagante nell’orecchio
e diventava madre. “Sono sicura che stai morendo
di fame”, diceva, e questo le dava il via libera per
prepararmi uno spuntino, un lungo panino imbur-
rato e una tavoletta di cioccolato. Si sedeva accanto
a me, guardandomi divorare, e quando una briciola
di pane si attaccava al bordo delle mie labbra, faceva
un gesto per rimuoverla sulla sua stessa bocca! Ciò
che rende felice un bambino è giocare a nascon-
dino e trovare il nascondiglio
giusto, il sottile brivido tra il
piacere di sfuggire a chi cerca
e il desiderio di essere scoperto.
«Sono i giochi della domenica
mattina, quegli abbracci sinceri, le
risate e i pianti che vengono portati via, la sensa-
zione potente di essere in una vera famiglia dove non
può accadere nulla di brutto o doloroso. Gli stessi
gesti, le stesse grida, lo stesso stupore deliziato e la
voce languida del bambino che si ferma: “Fermati,
papà, fermati ancora, ancora!” Mi stupisco sempre
quando vedo e sento la gioia di un bambino al ricor-
do di un momento felice o imprevedibile con uno
dei due genitori» scrive il professor Jacques Salomé.
«Per esempio, una delle mie nipoti, Emeline, di sei
anni, mi ha raccontato, ridendo di gusto, la reazione
di suo padre a uno dei suoi scherzi. “Una domenica
mattina, papà era ancora a letto, mezzo addormen-
tato, gli sono saltata addosso, so che gli piace, e gli
ho chiesto (con voce molto dolce): “Vuoi che ti lavi
i denti? Suo padre, ancora insonnolito, acconsentì
con un sussurro. Poi, dopo qualche secondo, in un
lampo di lucidità, chiede alla figlia: “Dove hai tro-
vato lo spazzolino? – Nel bidone della spazzatura
dei vicini! Poi papà si è svegliato all’improvviso e
ha detto “Uh, che schifo!” Aprì completamente gli
occhi e mi chiese: “E l’acqua, dove l’hai trovata? –
Sono troppo piccola, non potevo aprire il lavandino
e quindi l’ho presa dal water!” Poi nonno, avresti
dovuto vedere papà, si è alzato, saltando verso il
soffitto, ridendo “Non è vero, non è vero! Non avrei
mai dovuto mettere al mondo una ragazza così in-
traprendente!” Ed Emeline conclude, ridendo tra le
braccia del padre: “Papà dice sempre che bisogna
accontentarsi di quello che si ha!”
La felicità di un bambino è legata alla stabilità
emotiva dei genitori e all’affidabilità e coerenza
delle loro risposte. Quando, ad esempio, non si
parla di lui, ma a lui! Quando non facciamo per lui,
ma con lui! Quando si hanno desideri verso di lui,
e non su di lui!».
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LA LINEA D’OMBRA
Alessandra Mastrodonato
Spettinati dalla vita
Tu che più cadi più ritorni in piedi,
/ tu che alla fine ancora un po’ ci
credi. Ci credi? A una vita così, /
che anche quando ti spettina è
splendida, sì!
Il cammino verso l’adultità, con il suo terreno
accidentato e le sue false partenze, assomiglia
spesso ad una corsa a ostacoli che, mentre mette
a dura prova la nostra capacità di resistenza, ci
allena al sacrificio e alla fatica quotidiana, stimolan-
doci a testare nuove forme di equilibrio con cui af-
frontare, passo dopo passo, i tanti “salti” della vita.
In questa gara con noi stessi impariamo a nostre
spese a fare i conti con i nostri limiti, a rialzarci
un po’ ammaccati subito dopo ogni caduta, ma an-
che a credere in noi stessi e a conoscere a fondo le
risorse interiori su cui possiamo fare affidamento.
Ci alleniamo a puntare sempre un po’ più in alto,
ad entrare in sintonia con il nostro corpo, a dosa-
re accuratamente le forze per non rischiare di fer-
marci a metà tragitto in debito d’ossigeno e con le
gambe doloranti. Lasciamo da parte ogni paura e
accettiamo di correre il rischio di apparire un po’
goffi e scoordinati mentre lanciamo il cuore oltre
l’ostacolo e ci cimentiamo nel fronteggiare le diffi-
coltà della vita con tutti i mezzi e le energie a nostra
disposizione.
Talvolta ci capita, però, di essere talmente concen-
trati sul traguardo e desiderosi di bruciare le tap-
pe verso la meta che ci siamo prefissati da perdere
di vista il senso stesso del cammino e tralasciare
di chiederci se la strada che abbiamo intrapreso ci
renda davvero felici. Dimentichiamo le motivazio-
ni remote alla base delle nostre scelte di vita, smar-
Amati più che puoi,
e poi amati come vuoi,
e lascia stare chi ti punta sempre il dito,
e lascia stare chi non l'ha capito.
Mettiti quel vestito,
anche se dicono che non ti sta,
e smettila di dire sempre
che per ballare non hai più l'età.
E poi chiediti come stai:
da quanto tempo non lo fai?
Tu che eri una che viveva d'istinto,
ora al futuro ci credi a stento.
Tu che “per sempre” non esiste mai,
che non esiste chi ama come noi.
Tu che più cadi più ritorni in piedi,
tu che alla fine ancora un po' ci credi.
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4.7 Page 37

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riamo l’itinerario complessivo del nostro percorso
e ci pieghiamo ad andare avanti per inerzia, attenti
più alla prestazione in sé che non a fare tesoro del-
le competenze esistenziali che ogni giro di campo
puntualmente ci insegna. Ma soprattutto perdiamo
il gusto di sentire il vento che ci accarezza il viso e
la pelle, di percepire in ogni fibra del nostro corpo
le energie chiamate a raccolta per vincere l’attrito
dell’aria e del terreno; il gusto – perché no – di la-
sciarci anche spettinare dallo sforzo propulsivo del-
la corsa.
Come ha scritto infatti qualcuno, «tutte le cose bel-
le della vita ci spettinano un po’»: camminare sulla
spiaggia in un giorno ventoso, andare in bicicletta a
perdifiato, ballare fino a tarda sera, ridere a crepa-
pelle, abbracciare le persone che amiamo...
Eppure abbiamo spesso la pretesa di essere sempre
impeccabili, azzimati, ordinati (anche a costo di ri-
sultare ordinari) e ben pettinati e facciamo fatica ad
accettare un’immagine di noi stessi che si discosti
da questo stereotipo esigente di perfezione. Un po’
troppo sbrigativamente, associamo l’essere spettinati
Ci credi?
A una vita così,
che anche quando ti spettina è splendida, sì!
Sembra quasi una corsa ad ostacoli
e tu, tu vuoi battere il record mondiale,
anche quando il traguardo scompare...
Splendida malinconia,
splendida quella bugia
che ti tiene prigioniera da vent'anni
e aggrappata a una fotografia.
Splendida anche questa luna,
che non hai certo fabbricato tu,
splendida la paura
di dire a tutti che ora vuoi di più,
di più... da una vita così,
che anche quando ti spettina è splendida, sì!
È una specie di corsa ad ostacoli
e tu, tu vuoi battere il record mondiale,
anche se a volte vorresti morire...
Ma una vita così,
io la voglio lo stesso;
una vita così,
a pensarci mi vengono i brividi,
ma io la voglio cantare,
anche quando l'orchestra scompare...
La vita splendida!
(Tiziano Ferro, La vita splendida, 2022)
ai giochi anarchici dei bambini o all’inquietudine
arruffata degli adolescenti e ci convinciamo, invece,
che la condizione adulta coincida con l’assunzione
di un atteggiamento di irreprensibile autocontrollo
e pacatezza. Ma, in tal modo, finiamo con il rinun-
ciare a priori a buttarci a capofitto in tutte quelle
esperienze che ci mettono in discussione, a coltiva-
re relazioni che ci attirano al di fuori della nostra
comfort zone, a spingere sull’acceleratore per affron-
tare con il giusto slancio il cammino dell’esistenza.
Se la posta in gioco è questa, allora vale la pena
di correre il rischio che la vita ci spettini un po’, e
anzi potremo forse scoprire quanto può essere libe-
ratorio fare piazza pulita di questi cliché e luoghi
comuni, per percorrere più leggeri, e dunque con
passo più spedito, la nostra corsa a ostacoli verso
l’adultità.
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4.8 Page 38

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LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
Francesco Motto
«Sacra Real Maestà»
«Ho sempre avuto bisogno di tutti» ripeteva don Bosco.
Anche del re.
Intraprendere la via del sacerdozio per il nostro
Giovanni Bosco non è stata una scelta facile.
Non tanto perché non vi si sentisse chiama-
to – aveva dalla sua parte, fra l’altro, dei segni
dall’Alto – ma perché vi era un problema serio da
affrontare: i costi economici per i numerosi anni di
studi seminaristici. Confidando nella Provvidenza,
nell’ottobre 1835 entrò in seminario a Chieri. La
madre Margherita gli provvide un piccolo corredo e
versò, probabilmente con beni in natura, quello che
poteva per la pensione ed i libri. Ma Giovanni fece
la sua parte. Per tutti i sei anni del seminario (1835-
1841) all’esame semestrale si meritò il premio di 60
lire che veniva dato a chi “in ogni corso riportava
Il re Carlo
Alberto di
i migliori voti nello studio e nella condotta mo-
Savoia. rale”. Nel secondo anno poi come sacrista si im-
pegnò pure nella “cura della
nettezza della chiesa, della
sacristia, dell’altare, e tenere
in ordine lampade, candele,
gli altri arredi ed oggetti ne-
cessari al divin culto”; e così
si meritò altre 60 lire. L’altra
metà pensione poi la pagava
l’amico e conterraneo don
Giuseppe Cafasso.
In vista della meta
Procedendo negli studi semi-
naristi ebbe bisogno di altro
denaro e pensò bene di rivol-
gersi nientemeno che al re.
Al momento la “Sacra Real
Maestà” del regno di Sarde-
gna portava il nome di Carlo Alberto di Savoia, che
sarebbe passato alla storia come il “re tentenna” ma
anche come il primo tra i capi di Stato italiani pre­
unitari a concepire il disegno di unificare la peniso-
la. Non sarebbe riuscito nel suo disegno – si autoe-
siliò dopo la sconfitta di Novara contro gli austriaci
nella prima guerra di Indipendenza del 1848 – ma
pochi mesi prima aveva dato al suo Regno la carta
costituzionale che sarebbe poi stata conservata dal
Regno d’Italia per quasi un secolo fino alla procla-
mazione della Repubblica a seguito dei risultati del
referendum istituzionale del 2 giugno 1946.
Ora dagli archivi della Grande Cancelleria di To-
rino sono emerse recentemente tre lettere a lui in-
dirizzate dal seminarista Giovanni Bosco. Ecco di
che si tratta.
La prima è del gennaio 1838 e in essa il chierico
Bosco chiedeva alla cassa del Re un sussidio per
pagare la pensione dell’anno di seminario e per
procurarsi indispensabili effetti personali. Scrisse:
Sacra Real Maestà, Il chierico Bosco Gioanni allievo
del Seminario di Chieri, essendo privo di padre e quasi
affatto di beni di fortuna, stretto dal bisogno tanto per
pagare la pensione, e per provvedersi abiti quali sono
mantello, veste etc., ricorre umilmente alla Maestà Vo-
stra supplicandola d’un sussidio onde provvedersi nelle
sue strettezze, e seguire la carriera in cui le sembra esse-
re da Dio chiamato.
Avuto probabilmente un esito positivo, ripresentò
analoga domanda un anno dopo, nel febbraio 1839.
Vi aggiunse però un particolare significativo sul-
la famiglia: non poteva “sperare alcun soccorso dai
propri parenti mentrecché essi devono procacciarsi
il vitto a servizio altrui”.
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La terza richiesta è del marzo 1840 e per la sua
importanza merita di essere trascritta per intero:
Sacra Real Maestà, Il chierico Bosco Gioanni del fu
Francesco di Castelnuovo d’Asti studente già da cinque
anni nel venerando Seminario di Chieri, avendo tro-
vato persona benefica che gli costituisce il patrimonio
ecclesiastico, per essere sprovvisto di che concorrere alle
spese che vi si ricercano: Supplica umilmente V. S. R.
M. a volersi degnare di concedergli un caritatevole sus-
sidio, onde corrispondere alle spese di detta costituzione
patrimoniale, come pure per pagarsi l’annua pensione,
e procurarsi altre cose che ad un chierico sono indispen-
sabili; e ciò tutto a fine di poter perseverare nello intra-
preso stato eccl.co a cui giudica essere unicamente da Dio
chiamato. Umiliandosi al real trono rispettosamente si
dice.
Il supplicante
[chierico Gioanni Bosco]
Ma di che si trattava? Per essere ordinato suddia-
cono – uno dei passaggi fondamentali per entrare
fra il clero e diventare poi sacerdote – il seminarista
doveva disporre di un certo patrimonio ecclesiasti-
co, la cui rendita potesse servirgli a vivere degna-
mente. In quegli anni tale rendita doveva collocarsi
fra le 230 e le 384 lire annue. Purtroppo la rendita
complessiva dei beni di Giovanni pure assommati
a quelli del fratello Giuseppe era semplicemente di
125 lire. Ma con la messa a sua disposizione di al-
cuni beni immobili del conterraneo Giovanni Feb-
braro, (don) Bosco poté raddoppiarlo, e giungere
a un reddito annuo di lire 292. Vi erano ulteriori
spese al riguardo: occorreva formalizzare tale co-
stituzione di patrimonio con un atto notarile, il che
aveva un costo non indifferente. Si comprende allo-
ra il suddetto fiducioso appello al re Carlo Alberto.
L’esito delle tre richieste
Non è dato sapere; con molta probabilità venne-
ro tutte accolte. Di certo rimane il fatto che il 23
marzo 1840 dai due fratelli Bosco e dal sig. Gio-
vanni Febbraro venne firmato l’atto notarile della
costituzione del patrimonio ecclesiastico del chie-
rico Bosco nello studio del notaio Carlo Razzini
a Buttigliera d’Asti. E così il nostro Giovanni nel
breve volgere di poco più di un anno poté ricevere
nell’ordine il suddiaconato, il diaconato e il pre-
sbiterato.
Don Bosco non mancherà successivamente di ave-
re fiducia nell’aiuto economico della famiglia Sa-
voia, a cominciare dal re Vittorio Emanuele II: a
loro chiese soprattutto doni per le sue numerose
lotterie e l’acquisto di un certo numero di relativi
biglietti. In linea di massima la famiglia reale, tanto
nella componente maschile che femminile, rispose
positivamente. E così anche successivamente furo-
no buoni i loro rapporti con i salesiani, facendo-
si i Rea­li presenti personalmente o per interposta
persona in determinate circostanze in alcune case
salesiane d’Italia.
Da ricordare soprattutto è il fatto che nella solenne
cerimonia della canonizzazione di don Bosco nella
basilica vaticana il giorno di Pasqua 1934 il princi-
pe Umberto II (ultimo re d’Italia nel 1946) sedesse
in prima fila, al lato del trono papale. Ovviamente
quella dei cosiddetti “funerali a corte” del 1854 è
tutta un’altra storia.
Sacrifici ed
umiliazioni,
che
coinvolsero
tutta la sua
famiglia,
dovette
affrontare
Giovanni
Bosco per
poter entrare
in seminario.
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39

4.10 Page 40

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I NOSTRI SANTI
A cura di Pierluigi Cameroni  postulatore generale
 Coloro che ricevessero grazie o favori per intercessione
dei nostri beati, venerabili e servi di Dio, sono pregati
di segnalarlo a postulatore@sdb.org
 Per la pubblicazione non si tiene conto delle lettere
non firmate e senza recapito. Su richiesta si potrà
omettere l’indicazione del nome.
IL SANTO DEL MESE
In questo mese di gennaio preghiamo per la beatificazione
della Venerabile Laura Meozzi, Figlia di Maria
Ausiliatrice, di cui ricorre il 150° della nascita.
Nasce a Firenze il 5 gennaio
1873. La famiglia, nobile e
agiata, si trasferisce presto a
Roma, dove Laura compie gli
studi presso le Suore Dorotee,
e in seguito frequenta alcuni
corsi di medicina. Laura pre-
ga molto. Quando il direttore
spirituale, un salesiano, le dice
che Dio la chiama tra le suore
di don Bosco, passa notti inte-
re in preghiera. Divenuta Figlia
di Maria Ausiliatrice nel 1898,
lavora come insegnante a Ge-
nova, e poi in Sicilia: Alì Mari-
na, Catania, Nunziata. “Siate
prima madri, poi insegnanti”
ricordava alle suore, rivelando
la sua caratteristica particola-
re. Nel 1922 è stata scelta per
fondare la presenza delle Figlie
di Maria Ausiliatrice in Polonia.
Inizia a Różanystok con la pic-
cola comunità di cinque suore.
Pur nella povertà estrema apre
case per ogni esigenza: inizia
con alloggi per bambini orfani
e abbandonati; poi le ragazze,
le scuole, i laboratori, le po-
stulanti, le novizie, le suore;
poi i rifugiati, i perseguitati, gli
ammalati, i profughi... Riesce
a dare conforto a tutti, prega e
soffre. Vive la lunga agonia e
il martirio della Polonia negli
anni 1938-1945 con le case
occupate, le suore disperse,
contatti difficili. Vestita da con-
tadina si nasconde nella casa
di Sakiszki, animando le suore
con lettere clandestine, molto
simili a quelle di Madre Maz-
zarello. Alla fine della guerra,
definite le nuove frontiere della
Polonia, devono partire da Wil-
no le suore e 104 ragazzi, con
un treno speciale: ma, nascosti,
vi erano molti non autorizzati e
partigiani con le loro famiglie.
Madre Laura aveva detto sì a
tutti! Con la preghiera inces-
sante durante 16 giorni di viag-
gio ottiene la grazia dalla Ma-
donna, tutti salvi e ben arrivati!
Dopo la guerra, Madre Laura,
in collaborazione con il primate
della Polonia, cardinal Augusto
Hlond, salesiano e oggi Venera-
bile, ricomincia tutto da capo:
apre nuove case ed opere, af-
fronta le nuove sfide che impo-
ne il giogo del comunismo. Nel
1946 si stabilisce a Pogrzebień,
un antico palazzo regalato dai
Salesiani, che durante la guer-
ra era servito ai tedeschi per
annientare donne e bambini.
In questo luogo di martirio
rinasce il noviziato; ovunque
ritornò il vigore, la gioia, il sor-
riso. Ma ormai Madre Laura si
sentiva sempre più affaticata.
Assistita dalle suore, morirà il
30 agosto 1951. La sua salma
si trova all’ingresso della chiesa
parrocchiale di Pogrzebień (Po-
lonia). Il suo processo canonico
era iniziato nel 1986 ed è giun-
to alla Venerabilità suor Laura
Meozzi, dichiarata dal papa Be-
nedetto XVI il 27 giugno 2011.
Preghiera
O Dio Padre,
tu hai colmato di bontà il cuore della tua figlia,
la Venerabile Laura Meozzi,
che consumò la vita nell’assistere gli orfani,
nel consolare gli afflitti e nel soccorrere i bisognosi.
Affretta, te ne preghiamo, l’ora della sua beatificazione
e concedi a noi, che ci affidiamo con fede alla sua intercessione,
le grazie che umilmente ti domandiamo.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
Ringraziano
Ho fatto una rovinosa caduta sui
gradini della nostra immensa
chiesa dedicata a don Bosco a
Bologna, la settimana dopo la
Canonizzazione del beato Arte-
mide Zatti. Da anni ho l’artrosi
ad una gamba. Conseguenza
della caduta: tra la meraviglia
di tutti, non mi sono rotto nulla.
Sono convinto che sant’Artemi-
de, infermiere, mi abbia dato
una mano. In occasione della ca-
nonizzazione abbiamo preparato
un grande cartellone per onorare
sant’Artemide, esposto nella no-
stra grande chiesa per 15 giorni.
Don Franco Rustighini – Bologna
Una nostra cara amica della
provincia di Cagliari ci ha chie-
sto preghiere per suo figlio e
sua nuora che da più di quattro
anni desideravano un bambino
senza esito. A maggio, abbia-
mo inviato loro l’abitino di san
Domenico Savio, pregando
tutti insieme per ottenere
questa grazia. Qualche giorno
fa, con immensa gioia e gran-
de sorpresa, ci hanno inviato
copia dell’ecografia del loro
bambino. Ringraziamo con tut-
to il cuore Dio che ha concesso
questa grazia.
Donatella e Filippo - Monza
CRONACA DELLA POSTULAZIONE
Il 19 ottobre 2022 il Dicastero delle Cause dei Santi nel
Congresso ordinario ha dato la validità giuridica all’in-
chiesta diocesana per la Causa di Beatificazione e Ca-
nonizzazione del Servo di Dio Silvio Galli, (1927-2012),
sacerdote professo della Società di San Francesco di Sales.
L’8 novembre 2022, nel corso del Congresso peculiare
dei Consultori Teologi presso il Dicastero delle Cause
dei Santi, è stato dato all’unanimità parere positivo in
merito all’esercizio eroico delle virtù, alla fama di santità
e di segni del Servo di Dio Antonio De Almeida Lusto-
sa (1886-1974) Arcivescovo di Fortaleza, Salesiano di Don
Bosco.
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5.1 Page 41

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IL LORO RICORDO E` BENEDIZIONE
Marco Faggioli
Don Filiberto
Rodríguez Martín
morto a Benguela,
il 7 maggio 2019, a 76 anni
Don Filiberto Rodríguez nacque
l’8 novembre 1942 a Valsalabro-
so (Salamanca), Spagna. Venne
ordinato sacerdote nel 1970 a
Salamanca; nel 1974 conseguì
anche la Laurea in Chimica all’U-
niversità di Oviedo.
Tra i suoi numerosi incarichi,
è stato Amministratore della
Scuola Salesiana di Ourense,
Direttore della Scuola e Centro
di Formazione Professionale
“Don Bosco” di León, Ammini-
stratore ispettoriale dell’Ispet-
toria di Spagna-Nord Ovest.
Dal 1988 al 1994 fu Ispettore
dei Salesiani del medesimo
territorio.
Divenne consigliere della
Congregazione per l’Europa
dell’Ovest, consapevole che la
frontiera della missione è an-
zitutto nella cultura attuale del
Vecchio Continente. Chiamato
per la sua sensibilità a occu-
parsi dei più vulnerabili, fu una
naturale evoluzione del suo
ministero accettare l’incarico di
responsabile della visitatoria a
Luanda in Angola.
Si trattava di gettare le basi
formali e sostanziali dell’ufficio
di pianificazione e di sviluppo
(PDO), occorrevano l’entusia-
smo di una forza nuova e la
competenza acquisita negli
studi universitari. Ma don Fili-
berto diede subito la traccia del
lavoro: «Metti giù la borsa con
tutti i tuoi progetti e vieni con
me a incontrare le persone».
Era il giugno 2010.
“Andammo a trovare i ragazzi
che lui visitava tutte le sere”
ricordo, “soccorsi dal Centro
Salute che si trova a un isolato
dalla sede ispettoriale, diven-
tato un punto di ritrovo per
una moltitudine di ragazzi di
strada. «Sono i nostri datori di
lavoro» dichiarava don Filiber-
to, «tutto ciò che facciamo deve
essere rivolto a loro»”.
Che la vocazione missionaria sia
rivolta anzitutto agli ultimi del-
la società era la convinzione di
don Filiberto, senza ostentazio-
ne; consapevole di essere im-
merso in un mare di contraddi-
zioni sociali. L’Angola è il primo
produttore di diamanti al mon-
do, il secondo per estrazione di
petrolio in Africa. Oltre alle ma-
terie prime, il Paese dispone di
acqua in abbondanza, di un va-
sto territorio coltivabile a fronte
di una popolazione meno den-
sa che in altre parti dell’Africa, e
gode di uno sbocco sull’Oceano
che offre opportunità commer-
ciali sul piano globale.
Quelle che sono le ricchezze
del Paese sono anche le ragio-
ni della sua arretratezza. Dopo
il tempo della colonizzazio-
ne portoghese, non c’è stata
pace per la costruzione della
nazione. Conclusa la lotta di
liberazione, nel 1975 è iniziata
la guerra civile fra le diverse
anime politiche che, con brevi
interruzioni, si è conclusa sola-
mente nel 2002.
Don Filiberto ha colto anche
il respiro della stagione della
ricostruzione. La prima ondata
di salesiani provenienti dal Sud
America aveva dato all’azione
missionaria l’impronta “socia-
le” di soccorso alle persone
più povere; il mandato di don
Filiberto era quello di passare
alla fase di costruzione di un
tessuto culturale ed economico
attraverso la formazione scola-
stica e professionale. Più di una
generazione di Angolani era
cresciuta senza istruzione nei
30 anni di conflitto. Il termine
di questa fase comportava an-
che l’assistenza alle migliaia di
giovani e di ragazzi che dalle
campagne si riversava nelle
città, soprattutto nella capitale
del Paese, alla ricerca di lavori
di pura manovalanza. Per il
nuovo “ispettore” salesiano di
Luanda si trattava di dare rispo-
sta agli sbandati con centri di
accoglienza e con case famiglia,
di costruire con loro un’identità
mediante la reintegrazione nel-
la società e l’inserimento nel
mondo del lavoro.
L’impegno di don Filiberto
diventò febbrile. La sua era la
mistica della carità. Il confra-
tello don José Antonio Leon lo
richiamava benevolmente alla
cura di sé: «Ti stai consumando,
sei un disastro per la tua salu-
te», È il “fuoco della missione”,
possiamo dire in termini meno
confidenziali, che per ardere ha
bisogno molte volte del legno
delle persone. Il missionario lo
mette nel conto. E non ne fa un
motivo di vanto, non lo fa per
mettere se stesso in evidenza.
Anzi, lo rende sempre più di-
sponibile anche ad accompa-
gnare l’esperienza di altri.
«Una nuova presenza in mis-
sione è un dono, e si deve stare
insieme, camminare insieme»:
questo insegnava don Filiberto
ai giovani volontari, e ricorre-
va spesso all’abbraccio anche
fisico per rendere palpabile il
suo animo: “Prima che avesse
un nome, lui praticava la ’ab-
braccio-terapia’, e con questa ci
comunicava positività, il senso
altissimo dei valori che era lì a
testimoniare” ricordo con com-
mozione.
E poi la domanda ricorrente,
non retorica, dopo aver consi-
derato tutto e tutti: «Tu, come
stai?». Ossia: va bene il tuo im-
pegno, vanno bene le cose che
stai facendo, bene i risultati…
ma alla fine dei conti, come
sta il tuo animo? È la domanda
dell’educatore vero, quello che
ti guarda negli occhi non per
scoprire se ci sia un segreto
non dichiarato ma per entrare
in rapporto con l’anima dell’in-
terlocutore. “Como estás?” ri-
suona ancora come l’interesse
principale di don Filiberto ver-
so chi era al suo fianco. Prima la
qualità dello spirito del missio-
nario, poi le opere.
Occuparsi degli altri tanto da
sembrare persi, porre il bari-
centro della propria giornata
negli altri... Trascurare se stessi
provoca purtroppo la caduta
delle difese del corpo: un’in-
fezione polmonare mal curata
portò don Filiberto alla morte il
7 maggio 2019.
Aveva scritto: Nella formula
della professione diciamo: “...
mi offro totalmente a Te, im-
pegnandomi a donare tutte le
mie forze a quelli a cui mi man-
derai...”. È rimasto fedele fino
all’ultimo respiro.
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5.2 Page 42

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IL CRUCIPUZZLE
Roberto Desiderati
Scoprendo don Bosco
Parole di 3 lettere:
Eco, Fra, Inc., Lia, Noè, Rea, Tea, Uan.
Parole di 4 lettere:
Amen, Open, Orio, Ossa, Tram.
Parole di 5 lettere:
Brodo, Naspi, Netto, Opera, Osare,
Ozono, Rione, Siori, Stelo.
Parole di 7 lettere:
Caspita.
Parole di 8 lettere:
Oloferne.
Parole di 9 lettere:
Inserite nello schema le parole elencate a fianco, scrivendole da sinistra a destra e/o dall’alto
in basso, compatibilmente con le lunghezze e gli incroci. A gioco ultimato risulteranno nelle
? Buongusto, Grigliate, Scontrosa,
Trasmesso.
Parole di 10 lettere:
?
caselle gialle le parole contrassegnate dalle tre X nel testo. La soluzione nel prossimo numero. Caravaggio, Buccinasco, Ginecologa,
La soluzione nel prossimo numero.
Monorotaia, Sottobanco, Stampatori.
NEL BRONZO, MEMORIA E DEVOZIONE
L’ampio piazzale prospicente il santuario di Maria Ausiliatrice voluto da don Bosco sorge
nei luoghi dove c’erano la tettoia che Francesco Pinardi diede in affitto per accogliere i
giovani disadattati sottratti alla strada e la chiesetta dedicata a san Francesco di Sales. A
quei tempi Valdocco, così era chiamata la zona, dal nome del rione, era piena di campi e
qualche cascina e da allora in avanti il comprensorio salesiano che si andava costituendo
divenne il centro propulsore di tutta la Congregazione. Al centro della piazza suddetta, esattamente 102 anni
fa, il 23 maggio 1920, si inaugurò con una festa solenne il XXX la cui realizzazione era stata decisa circa 9 anni
prima in occasione del Congresso Internazionale degli Exallievi e poi rimandata a causa dello scoppio della
Prima Guerra Mondiale. Si diede avvio a una raccolta di fondi con cui venne raggiunta la cifra di 200 mila lire
dell’epoca. Contemporaneamente fu indetto il concorso internazionale per la scelta del monumento dedicato
al “santo dei giovani” e tra 59 candidati fu selezionata l’opera dello scultore Gaetano Cellini di Ravenna. Il mo-
numento, che vediamo tuttora e che misura 11 metri di lunghezza per 15 di larghezza, si compone di un basa-
mento piramidale in granito e di due ali laterali che formano una sorta di altare. È alto 6,50 metri ed è costituito
Soluzione del numero precedente
in bronzo per la statua del santo circondato dai fanciulli. Altri tre gruppi
scultorei completano il blocco: l’“Umanità chinata al bacio della Croce”, la
“devozione alla SS. Eucaristia” e la “devozione alla Vergine Ausiliatrice”.
Sul retro del basamento lo scultore pose un notevole altorilievo suddiviso
in tre scene che simboleggiano tre ambiti di azione dell’opera salesiana
di quei tempi: “i missionari salesiani tra gli emigranti italiani”, “le scuole
professionali salesiane” e “le scuole agricole salesiane”.
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5.3 Page 43

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LA BUONANOTTE
B.F.Disegno di Fabrizio Zubani
L’eremita
e l’orcio
dell’olio
C’ era una volta un eremita che viveva in un
villaggio. Ogni giorno la gente del
villaggio gli dava tre pagnotte, un po’
?
d’olio e un po’ di miele. E con queste poche cose
l’eremita riusciva a campare. Anzi, poiché era
molto frugale, l’olio non lo usava neppure tutto, e
lo conservava in un orciolo che teneva sopra il suo
letto di paglia. Quando l’orciolo fu pieno, l’eremita
cominciò a pensare che cosa farne:
«Venderò l’olio e mi comprerò una pecora. La
pecora farà degli agnellini, e quando questi
agnellini saranno cresciuti, faranno a loro volta
altri agnelli, e in questa maniera io finirò per
avere un intero gregge. Allora comprerò una
grande casa e molti servi, e sposerò la figlia del
mercante Abù Kir. Preparerò un festino di noz-
ze come mai se ne sono visti prima. Ammazzerò
buoi, pecore, galline e piccioni. Comprerò dolci
e vino. Assolderò attori, artisti e musicanti.
Comprerò fiori e profumo. Inviterò ricchi e
poveri, governanti e sudditi, e manderò dovun-
que un araldo che annuncerà: “Chiunque abbia
bisogno di qualcosa, si faccia avanti e pren-
da quel che vuole!”. Ed io la smetterò di fare
Così dicendo l’eremita afferrò un bastone e lo alzò
l’eremita. Col tempo mi nascerà un figlio. Lo per far vedere come lo avrebbe usato: il bastone
alleverò e lo educherò; se sarà buono lo loderò e urtò l’orciolo dell’olio che stava sopra il letto,
premierò, se sarà cattivo, prenderò un bastone e l’orciolo cadde, si ruppe e tutto l’olio si versò sulla
gliele suonerò di santa ragione...».
testa dell’eremita.
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43

5.4 Page 44

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