Bollettino_Salesiano_202204

Bollettino_Salesiano_202204

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Don Bosco e
l’INTELLIGENZA
delle MANI
L’invitato
Don
Oreste
Valle
In prima
linea
Ucraina
I nostri eroi
Laura
Vicuña
Le case
di don Bosco
Monterosa
Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
APRILE 2022

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I FIORETTI DI DON BOSCO
B.F.
Cominciò con la mezzaluna
C on un prestito di Antonio
Rosmini e il concorso di
qualche altro amico don
Bosco riuscì a comprare nel 1851 i
beni di monsù Francesco Pinardi: la
bicocca del sogno e qualcos’altro
nelle adiacenze.
Dopo di che si rimboccò le mani-
che, ristrutturò i locali, li ingrandì,
pensò di dare una sistemazione al
presente e una garanzia al futuro dei
suoi ragazzi che in numero sempre
crescente approdavano al lido di casa
Pinardi.
Per non esporre ragazzi e speranze a
inutili rischi aprì laboratori in pro-
prio, diede lavoro ai suoi apprendisti
e li pagò di tasca sua, secondo gli
scatti di apprendimento.
Intanto egli creava altri settori di
lavoro: legatori e librai, fonditori
di caratteri, fabbri-meccanici,
cappellai, cartieri e persino pittori
e disegnatori.
Tutto nasceva nella leggerezza
e nella gioia. Così è nata la
prima legatoria salesiana.
«Don Bosco mentre sperava
di avere in tempo non
lontano una tipografia a
sua disposizione, nei primi
mesi dell’anno apriva,
scherzando, come era
solito a fare, in molte
sue imprese, un terzo
laboratorio nell’Ospizio:
Legatoria di libri. Ma
fra i giovani che aveva
nella casa non ve n’era alcuno che
s’intendesse di questo mestiere: pa-
gare un capo d’arte esterno non era
ancora il tempo. Tuttavia un giorno,
avendo intorno a sé i suoi alunni,
depose sopra un tavolino i fogli
stampati di un libro che aveva per
titolo: Gli Angeli Custodi, e chiama-
to un giovane gli disse: «Tu farai il
legatore!»
«Io legatore? Ma come farò se non so
nulla di questo mestiere?»
«Vieni qua! Vedi questi fogli? siediti
al tavolino bisogna incominciare dal
piegarli».
Don Bosco pure si assise, e fra
lui ed il giovane piegarono tutti
quei fogli. Il libro era formato ma
bisognava cucirlo. Qui venne in suo
aiuto Mamma Margherita e fra
tre riuscirono a cucirlo. Subito con
farina si fece un po’ di pasta ed al
libro si attaccò anche la copertina.
Quindi si trattò di eguagliare i fogli,
ossia raffilarli. Come fare? Tutti
gli altri giovanetti circondavano il
tavolino, come testimoni di quella
inaugurazione. Ciascuno dava il
suo parere per rendere eguali quei
quinterni. Chi proponeva il coltello,
chi le forbici. In casa all’uopo non
vi era ancora nulla, assolutamente
nulla. La necessità rese don Bosco
industrioso. Va in cucina, prende
con sussiego la mezzaluna d’acciaio
che serviva a tagliuzzare le cipol-
le, gli agli, le erbette, e con questo
strumento si pone a tagliare le carte.
I giovani intanto si rompevano lo
stomaco dal ridere».
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Don Bosco e
l’INTELLIGENZA
delle MANI
L’invitato
Don
Oreste
Valle
In prima
linea
Ucraina
I nostri eroi
Laura
Vicuña
Le case
di don Bosco
Monterosa
Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
APRILE 2022
APRILE 2022
ANNO CXLVI
NUMERO 04
Mensile di informazione e cultura
religiosa edito dalla Congregazione
Salesiana di San Giovanni Bosco
La copertina: Un giovane allievo di scuola
professionale (foto Shutterstock).
2 I FIORETTI DI DON BOSCO
4 IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
6 DON BOSCO NEL MONDO
Filippine
10 TEMPO DELLO SPIRITO
12 L’INVITATO
Oreste Valle
16 LE CASE DI DON BOSCO
Monterosa
20 IN PRIMA LINEA
Ucraina
24 FMA
Vietnam
26 LA NOSTRA STORIA
Una firma di successo...
30 I NOSTRI EROI
Laura Vicuña
34 COME DON BOSCO
36 LA LINEA D’OMBRA
38 LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
Giovanni Massaglia
40 I NOSTRI SANTI
41 IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
42 RELAX
43 LA BUONANOTTE
16
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Il BOLLETTINO SALESIANO
si stampa nel mondo in 64
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e raggiunge 132 Nazioni.
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numero: Agenzia Ans, Pierluigi
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Francesco Motto, Marcella Orsini,
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e i lavoratori.

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IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
Don Ángel Fernández Artime
Tra dolore e speranza
La fotografia del crocifisso di Leopoli, città dove
ci sono belle opere salesiane, che viene portato
in un bunker è stata riportata da tutti i giornali
del mondo. Stiamo vedendo dal vivo un altro
Getsemani e un altro Calvario.
Speriamo di vedere anche la ‘Resurrezione’
di questo popolo e di queste persone.
Miei cari amici, lettori
del Bollettino Salesia-
no di tutto il mondo.
Mentre scrivo queste
righe, tutti i media del mondo
stanno riportando, minuto per
minuto, quasi in linea diretta, le
notizie della terribile guerra che si sta svolgendo in
Ucraina. E sono convinto che la grande maggioranza
del popolo russo non vuole fare del male a nessuno.
Ma penso che la maggior parte di noi sia d’accordo
che quello che sta succedendo in quella terra bene-
detta è terribile, inimmaginabile, incredibile nel 21°
secolo, una follia totale, un vero genocidio. Pensare a
come ci sentiremmo se lo stessimo vivendo, suppon-
go che ci riempia di tristezza e ci faccia rabbrividire.
Questa è la triste realtà. E ancora una volta il male
fa rumore, distrugge cose e persone, porta morte,
taglia vite umane, frattura famiglie ecc. Il bene,
tanto bene e tanta solidarietà che stiamo vedendo
nello stesso momento in cui cadono i razzi e i pro-
iettili a lungo raggio, è un bene silenzioso, cerca di
mitigare il dolore, di asciugare le lacrime, di dare
calore umano. Perché anche il cuore umano è così.
In situazioni come queste vediamo il peggio del-
la condizione umana e anche il più bello del cuore
umano.
La fotografia del crocifisso di Leopoli, città dove ci
sono belle opere salesiane, che viene portato in un
bunker è stata riportata da tutti i giornali del mon-
do. Stiamo vedendo dal vivo un altro Getsemani e
un altro Calvario. Speriamo di vedere anche la ‘Re-
surrezione’ di questo popolo e di queste persone.
La stessa cosa è successa nella “prima settimana
santa della storia”. Così è stato con il tradimento di
Gesù, con la sua solitudine e il suo abbandono, con
il suo tradimento e il suo dolore, con la sua condan-
na a morte, con il suo silenzio e la sua solitudine
radicale (tranne che per sua madre e il discepolo
amato). E Dio ha pronunciato l’ultima parola con
la Resurrezione, con la Vita-Altra.
In questo periodo pasquale che stiamo vivendo non
so che cosa succederà con la guerra in Ucraina. Sto
scrivendo in anticipo e ogni giorno può essere diver-
so. Ho fiducia che con la ragionevolezza e la pressio-
ne di quasi tutte le nazioni e con la forza della solida-
rietà umana e la Fede e la preghiera, la Pace arriverà.
Oggi, dopo molti giorni di questa terribile guer-
ra, con un milione e mezzo di sfollati, voglio solo
sottolineare che la solidarietà, la fraternità, l’uma-
nità dei cuori semplici, delle famiglie, e lo sguardo
ragionevole di molti governi mi aiutano a sentirmi
meglio come persona. Altrimenti, non credo che
saremmo in grado di perdonarci.
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Il nostro piccolo grande
granello di sabbia
Sono in contatto quotidiano con i miei fratelli e
sorelle in Ucraina e Polonia. Mi dà molta pace sa-
pere che anche come famiglia salesiana offriamo il
nostro piccolo granello di sabbia, e sono felice di
sapere che i ragazzi ospitati nella nostra casa fa-
miglia di Leopoli sono ospitati in case salesiane in
Slovacchia. Mi dà pace sapere che le case salesia-
ne al confine tra Polonia e Ucraina hanno tutte le
porte aperte per accogliere gli sfollati della guerra.
A decine di madri con i loro bambini sono state
offerte stanze e posti dove vivere con dignità, cibo e
pulizia. E questa solidarietà sta raggiungendo altre
nazioni e anche molte altre presenze salesiane.
Da tutto il mondo salesiano, da tutte le Ispettorie,
arrivano piccoli o grandi aiuti, secondo le possibili-
tà. Medicinali e denaro sono stati inviati da tutto il
mondo, non per noi salesiani, ma perché, come me-
diatori, possiamo raggiungere i luoghi più remoti e
portare aiuto alle persone in difficoltà. Ed è solo un
granello di sabbia, ma siamo decine di migliaia di
persone e istituzioni che si sommano.
Preghiera per la Pace
Si tratta di questo. Non c’è rumore. Non c’è nes-
suna montatura. Ci sono semplicità e solidarietà. È
tempo di passare dal Getsemani e dal Calvario alla
speranza e alla forza della Resurrezione.
È molto doloroso che in questa preparazione alla
Settimana Santa e alla Santa Pasqua siano presenti
bombe, proiettili e pistole e la morte. Ma anche nel
dolore non smetto di proclamare che la vita è più
tr oAnnoc, olaraCuroncaev,oslcteanCdreisetod, edcaildseuodiindsimepoarraarbeile
con il suo popolo. Dal cuore delle grandi città
al deserto delle periferie più lontane, e oggi fino
ai bunker antimissili, non c’è luogo per il quale
e nel quale Gesù non scelga di abitare,
per stare con i suoi e amarli fino alla fine.
forte, la fratellanza umana è più forte, la solidarietà
è più forte, la dignità della persona (a volte
calpestata) è più forte, l’aiuto di fratello in fratello
(anche senza conoscersi o parlare la stessa lingua) è
più forte, la speranza è più contagiosa.
Chiedo al Signore della Vita nella preghiera di aiu-
tarci a rinsavire. Preghiamo anche per quelli
che hanno iniziato questa tragedia.
Prego con papa Francesco “Infondi in
noi il coraggio di compiere gesti con-
creti per costruire la pace. Signore,
Dio di Abramo e dei Profeti, Dio
Amore che ci hai creati e ci chiami
a vivere da fratelli, donaci la forza per
essere ogni giorno artigiani della pace;
donaci la capacità di guardare con
benevolenza tutti i fratelli che in-
contriamo sul nostro cammino”.
Il Signore tenga accesa in noi
la fiamma della speranza per
compiere con paziente perse-
veranza scelte di dialogo e di ri-
conciliazione, perché vinca final-
mente la pace.
Chiedo che i cuori pieni di Uma-
nità non tacciano.
Facciamo quello che ognuno di
noi può, cari amici. Uniamo i
nostri sforzi con le parole, con
le mani che aiutano e con la pre-
ghiera.
Che il Signore risorto ci riempia della
sua forza e della sua pace.
shutterstock.com
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DON BOSCO NEL MONDO
Marcella Orsini
Dopo il tifone
La rinascita delle opere salesiane nelle Filippine
all’indomani del tifone Rai - Odette.
L o scorso 16 dicembre le Filippine sono sta-
te colpite da uno dei più potenti e distruttivi
tifoni degli ultimi anni, il super tifone Rai,
chiamato localmente Odette, che ha attra-
versato 38 province con venti medi a 195 chilometri
orari, con punte fino a 270 chilometri orari, a cui si
sono aggiunte piogge così abbondanti da provocare
alluvioni e frane.
Il Governo stima che Rai - Odette abbia distrutto
completamente 370 mila abitazioni e che ne ab-
bia danneggiate e rese inagibili 980 mila, quasi 8
milioni di persone sono state colpite dal disastro
naturale e circa 500 mila sono stati gli sfollati in-
terni, persone costrette ad abbandonare i territori e
le abitazioni d’origine per aver perso ogni risorsa.
Le morti sono state poco più che 400, un numero
che possiamo definire limitato, data l’intensità del
fenomeno, ma tuttavia, dalle testimonianze degli
operatori umanitari e dei missionari salesiani sul
Il Don Bosco
Technical
College
di Punta
Princesa,
nella città di
Cebu, è tra
le opere più
danneggiate.
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campo, abbiamo potuto constatare che il suo im-
patto sia ancora oggi di proporzioni ben più grandi
di quelle a cui rimandano i numeri ufficiali.
I Salesiani in azione
L’attenzione mediatica si è ridotta, i dati governati-
vi non rimandano a un’emergenza umanitaria cau-
sata da un disastro naturale, ma è necessario che la
solidarietà internazionale sia rivolta alla riduzione
dell’impatto drammatico che l’evento ha oggi sulle
famiglie vulnerabili e in difficoltà, rimaste prive di
un tetto e della possibilità di tornare alle attività
produttive per la sussistenza.
Sebbene sia difficile raggiungere le fasce di popo-
lazione delle aree più povere colpite dal tifone, ri-
maste senza riparo, cibo, acqua potabile e accesso ai
servizi di base, possiamo ascoltare le voci dei Figli
di Don Bosco nelle Filippine e dell’intera Famiglia
Salesiana che immediatamente ha prestato soccor-
so attraverso la distribuzione di beni alimentari e
di acqua potabile e che oggi è impegnata nella rico-
struzione post emergenza.
I Salesiani dell’Ispettoria delle Filippine Sud (fis) ci
raccontano che il Don Bosco Technical College di
Punta Princesa, nella città di Cebu, è tra le opere più
danneggiate e richiede l’intervento delle organizza-
zioni salesiane nel mondo per la ripresa delle attività
a favore delle ragazze e dei ragazzi più bisognosi.
La Fondazione Don Bosco nel mondo ha raccolto
l’appello dei Figli di Don Bosco nelle Filippine, in
particolare per la rinascita di due delle parti del Don
Bosco Technical College più significative per la rea-
lizzazione delle attività aggregative e formative della
comunità studentesca, l’aula magna e la palestra.
Il tifone Rai - Odette ha manifestato tutta la sua
potenza su una vasta area già tragicamente colpita
dalla diffusione del Covid-19, laddove le precondi-
zioni erano già tali da rendere la popolazione parti-
colarmente fragile.
Per le ragazze e per i ragazzi la pandemia ha ridotto
le possibilità di formazione in presenza e per loro
tornare alle proprie abitazioni, studiare a distanza,
anche da villaggi remoti, con servizi di scarsa qua-
lità ha significato subire un vero e proprio trauma,
dovuto al distacco dai percorsi condivisi e dall’iso-
lamento dentro le proprie abitazioni, adesso per la
maggior parte spazzate via dal forte vento e dalle
alluvioni di dicembre.
Parola d’ordine: ricostruire
La missione dei Salesiani di Don Bosco nelle Fi-
lippine, fino all’arrivo del super tifone, si svolgeva
per l’accesso all’istruzione e alla formazione pro-
fessionale orientata all’acquisizione di conoscenze
e competenze per l’inclusione lavorativa, attraverso
programmi didattici durante la pandemia realizzati
a distanza e per il supporto alle famiglie più povere
dei villaggi delle province più remote.
Il Don Bosco Technical College aveva ripreso al-
cune attività didattiche e formative in presenza, ma
il tifone Rai - Odette ha interrotto bruscamente
il tentativo di ritorno alla normalità e ha distrutto
quegli stessi spazi che per i giovani rappresentavano
il simbolo del ritorno al loro “stare insieme”.
Nell’aula magna e nella palestra si svolgono, in
ogni scuola del mondo, assemblee, incontri forma-
tivi, attività dedicate al sano sviluppo della persona,
scambi fondamentali per la crescita umana, tutti
elementi di ripresa e di speranza che Rai - Odette,
a Cebu, ha spazzato via.
I Salesiani dell’Ispettoria delle Filippine Sud, tra-
mite l’Ufficio di Pianificazione e Sviluppo (pdo
Planning and Development Office) dal mese di
Una messa
nella
parrocchia
salesiana.
Così le
comunità si
ricompattano.
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DON BOSCO NEL MONDO
Anche un
pacco di
viveri può
ridare il
sorriso a chi
ha perso
tutto.
febbraio sono impegnati nella pianificazione e nel
coordinamento degli interventi di ricostruzione post
emergenza previsti in partenza nel mese di aprile,
stabilendo le priorità e le fattibilità in base agli aiuti
provenienti dalla solidarietà internazionale.
L’obiettivo a medio termine è ricostruire e rendere
nuovamente funzionanti gli spazi educativi e for-
mativi delle opere salesiane danneggiate, quello a
lungo termine è ricreare percorsi integrati, riabili-
tativi post emergenza per ricomporre un assetto di
vita equilibrato e sano per le ragazze e per i ragazzi
in situazione di disagio, per le loro famiglie e per le
comunità intere dei territori colpiti dalla pandemia
e dal disastro naturale.
La Famiglia Salesiana in questi due anni di pan-
demia si è riunita intorno alle popolazioni più in
difficoltà fino ai confini del mondo, oggi vogliamo
aiutare la ricostruzione delle opere salesiane dan-
neggiate nelle Filippine con lo stesso spirito di ri-
nascita che viene dalla vocazione stessa dei Figli di
Don Bosco, consapevoli che la sofferenza apra le
porte della speranza.
zione post emergenza, di raccontarci quanto forte
sia il bisogno delle ragazze e dei ragazzi di ritornare
alla “normalità”, in un tempo di sofferenza sia per
la pandemia di Covid-19 sia per il disastro provo-
cato da Rai - Odette.
Leah ci ha ricordato che le Filippine sono state
l’ultimo Paese al mondo a riaprire le scuole per le
lezioni in presenza da quando l’oms (Organizza-
zione Mondiale della Sanità) ha dichiarato lo sta-
to pandemico, a marzo del 2020. A dicembre del
2021 c’erano solo 287 scuole pubbliche e private, a
livello nazionale, che si sono proposte come scuole
pilota per la didattica in presenza, su circa 60 000
scuole primarie e secondarie del Paese. Le lezioni
in presenza vengono nuovamente interrotte a causa
dell’impennata della variante del virus Omicron e a
Cebu e in altre parti delle Visaya distrutte dal tifo-
ne Rai - Odette, l’esperimento di riaprire le scuole
non può proseguire anche a causa dei gravi danni
causati dal tifone. Sono stati distrutti stabilimenti
commerciali, edifici scolastici, linee elettriche e di
comunicazione, linee idriche, case e proprietà.
A Cebu, le lezioni online sono riprese all’inizio di
febbraio 2022. Gli insegnanti hanno cominciato a
tenere di nuovo le lezioni online con le loro case
Ferite brutali
Abbiamo chiesto a Leah Samson del pdo dell’I-
spettoria delle Filippine Sud, coordinatrice della
solidarietà salesiana per gli interventi di ricostru-
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danneggiate. Lo stesso ancora oggi avviene per un
buon numero di studenti, divisi tra lo studio e la
necessità della famiglia di riparare le abitazioni.
“I nostri ragazzi e le nostre ragazze desiderano ar-
dentemente tornare nelle loro classi”, ci racconta
Leah Samson, ma anche se le lezioni in presenza
saranno già consentite dal Governo quest’anno
scolastico (che terminerà a giugno 2022) sarà pri-
ma necessario realizzare i lavori di riparazione dei
danni subiti dalle scuole. Si tratta di un intervento
urgente che dovrà essere realizzato da subito ed en-
tro l’apertura del prossimo anno scolastico (agosto
2022) affinché un senso di normalità torni nella
vita degli studenti, un senso di normalità possibi-
le soltanto attraverso il ritorno all’apprendimento
“faccia a faccia” in classe, a scuola, luogo preposto
in maniera specifica a un’educazione olistica che
si realizza nelle interazioni di persona, il supporto
nella cura della salute psicologica e la realizzazione
di attività fisiche all’aperto e al di fuori degli spazi
domestici o di svolgimento delle lezioni.
In queste condizioni
di mancanza di ac-
cesso all’istruzione
e alla formazione, ai
Salesiani e al pdo delle Filippine Sud è stato chie-
sto uno sforzo di adeguamento che questi compio-
no, in maniera esemplare, attraverso alcune attività
sussidiarie di grande valore per l’inclusione.
Il tifone ha interrotto le comunicazioni e ha distrut-
to in alcune abitazioni la rete per le utenze. Ancora
oggi, non per tutti gli studenti è possibile il colle-
gamento a internet, ma alcune strutture salesiane,
rimaste agibili, sono state messe a disposizione de-
gli insegnanti per la regi-
strazione di interi moduli
didattici a cui far accedere
i ragazzi quando vi siano
le condizioni logistiche e
strutturali. Gli insegnanti,
inoltre, continuano a stam-
pare il materiale didattico
e si recano personalmente
a distribuirlo laddove sia
necessario, affinché nessu-
no resti indietro.
Nessun aspetto è trascurato. La scuola organizza
sessioni individuali di orientamento e di consulen-
za per gli studenti che soffrono di malesseri emo-
tivi e psicologici e, qualora sia necessario, queste
vengono estese ai genitori. Inoltre, nelle situazioni
di maggiore fragilità e bisogno, i Salesiani effettua-
no visite domiciliari agli studenti che necessitano
di essere seguiti individualmente o che vivono una
difficoltà specifica.
L’obiettivo
a medio
termine è
ricostruire
e rendere
nuovamente
funzionanti
gli spazi
educativi
e formativi
delle opere
salesiane
danneggiate.
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TEMPO DELLO SPIRITO
Carmen Laval
Più grande del “Big Bang”
La resurrezione di Gesù
è un fatto storico incontestabile,
non una leggenda.
A l tempo della propaganda antireligiosa, in
Russia, un commissario del popolo ave-
va presentato brillantemente le ragioni
del successo definitivo della scienza. Si
celebrava il primo viaggio spaziale. Era il momento
di gloria del primo cosmonauta, Gagarin. Ritorna-
to sulla Terra, aveva affermato che aveva avuto un
bel cercare in cielo: Dio proprio non l’aveva visto.
Il Commissario tirò la conclusione proclamando la
sconfitta definitiva della religione. Il salone era gre-
mito di gente. La riunione era ormai alla fine.
«Ci sono delle domande?».
Dal fondo della sala un vecchietto che aveva seguito
il discorso con molta attenzione disse sommessamente:
«Christòs ànesti», «Ma Cristo è risorto». Il suo vicino
ripeté, un po’ più forte: «Christòs ànesti». Un altro si
alzò e lo gridò; poi un altro e un altro ancora. Infine
tutti si alzarono gridando: «Christòs ànesti», «Cristo
è risorto».
Il commissario si ritirò confuso e sconfitto.
Al di là di tutte le dottrine e di tutte le discussioni,
c’è un fatto. Per la sua descrizione basterà sempre
un francobollo: Christòs ànesti. Tutto il cristianesi-
mo vi è condensato.
È un “fatto”: non si può niente contro di esso. C’è
uno squarcio nella storia dell’umanità: in un giorno
preciso, in un luogo ben conosciuto.
riten uNtiocnecr’tèi duanllsaomloaenvueanlitsoticstaoericdoa,gflriasqtoureicllii,
che sia stato testimoniato con argomenti
e garanzie così formidabili.
I filosofi possono disinteressarsi del fatto. Ma non
esistono altre parole capaci di dar slancio all’uma-
nità: Gesù è risorto. I primi cristiani, pur volen-
do far credere alla resurrezione, non la raccontano
mai. È scontata, sicura, certa.
Anche i più scettici, anche gli avversari più acer-
rimi sono costretti ad ammettere che qualcosa di
straordinario e unico ha cambiato le carte in tavola
ed ha sconvolto i piani umani.
Che cosa accadde di così sconvolgente da trasforma-
re dei poveri individui terrorizzati, che si sentivano
braccati, in temerari che sfidano apertamente le au-
torità nelle piazze, senza più paura di nulla, pronti a
tutto? Che cosa vissero di così enorme da capovol-
gere il loro terrore in ardente e tenace coraggio? Che
cosa si verificò per produrre in loro un così clamo-
roso cambiamento, da renderli tutti pronti a subire,
con semplicità e decisione, il martirio?
Conoscevano bene infatti le conseguenze a cui an-
davano incontro. Avevano visto il bestiale macello
di Gesù. E nonostante tutto, il loro terrore sparì di
colpo. Infatti furono ripetutamente arrestati, mal-
menati e avvertiti.
L’unica ipotesi plausibile è che davvero Gesù sia
tornato, vivo, risorto fra loro. Questo è l’unico fatto
che può spiegare un così repentino e stupefacente
mutamento. Se non hanno mai voluto rinnegare ciò
che affermavano di aver visto e toccato con mano,
se non se lo sono rimangiato neanche di fronte ai
tormenti degli aguzzini, significa che dovevano es-
serne ben certi e che doveva essere tutto vero.
Che cosa è successo
quella mattina, duemila anni fa?
È una mattina in cui tutti corrono. La prima è una
donna, Maria di Magdala, colei che dopo l’incontro
con Gesù, non ha potuto fare a meno di seguirlo.
Mentre tutti gli amici di Gesù si erano vilmente
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Il mattino
della
resurrezione
(1898 ca.),
di Eugène
Burnand
(1850-1921),
Parigi Musée
d’Orsay.
dileguati, terrorizzati e demoralizzati, lei con altre
donne aveva assistito alla morte di Gesù, anche se
prudentemente da lontano.
Per questo le donne saranno le prime a sapere. Sa-
ranno loro a dare il primo sconvolgente annuncio.
Maria di Magdala ha continuato a cercare, quindi
trova. E si precipita a scuotere gli altri che probabil-
mente non cercavano più e si preparavano a lasciare
la città, alla chetichella, come i due di Emmaus.
Anche Pietro e Giovanni corrono, vedono la tomba
vuota e le vesti abbandonate in un modo che attesta
che il corpo di Gesù non è stato rubato, ma che
Gesù se n’è semplicemente andato, lasciando i suoi
abiti nell’ordine e nel posto in cui li indossava.
I due apostoli «credono» e incominciano a capire.
Pensavano che la loro avventura fosse finita e inve-
ce è appena incominciata.
Il credere è qualcosa che mette in azione il di den-
tro: è questione di amore. Non è semplice adesione
intellettuale. È aderire, accogliere un evento storico
sconvolgente.
Gli apostoli ripartono di corsa, ma per annunciare
al mondo il messaggio di Gesù. E nessuno li fer-
merà più.
Senza la resurrezione
resta difficile spiegare:
come gli apostoli siano ritornati a credere a Gesù
dopo la catastrofe della sua morte;
come gli apostoli si siano impegnati così a fondo
per dire che Gesù è risorto. Il fatto stesso che,
quando Gesù è morto, l’abbiano abbandonato,
dice che non erano fanatici o plagiati da Gesù;
come gli apostoli, da giovani, non abbiano avuto
il coraggio di morire per Gesù e poi l’abbiano
avuto da vecchi;
come spiegare la conversione di Paolo, dopo
quello che egli ha fatto per diffondere il Cri-
stianesimo, senza accettare che fosse convinto di
aver veramente visto Gesù risorto?
il «fatto» che molte persone, dopo averli cono-
sciuti, abbiano accettato la loro parola ed abbia-
no creduto a loro, vuol dire che li hanno giudi-
cati credibili.
Noi siamo gli eredi del loro messaggio e continuia-
mo testardamente a portare il messaggio della vita
in questo mondo.
Aiutaci, Signore, a portare avanti nel mondo e
dentro di noi la tua Resurrezione.
Donaci la forza di frantumare tutte le tombe
in cui la prepotenza, l’ingiustizia, la ricchezza,
l’egoismo, il peccato, la solitudine, la malattia,
il tradimento, la miseria, l’indifferenza
hanno murato vivi gli uomini.
E mettici una grande speranza nel cuore.
Tu sei risorto: con te noi ce la possiamo fare!
APRILE 2022
11

2.2 Page 12

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L’INVITATO
Sarah Laporta
Don Oreste Valle
«Faccio don Bosco in Kosovo»
«La nostra di Gjilan è la comunità
salesiana che serve la più piccola
comunità cristiana nel mondo».
Don Oreste
alla mensa
dei bambini.
Com’è nata la tua vocazione
missionaria?
Da ragazzo ero un appassionato lettore di biogra-
fie di missionari. Durante il ginnasio mi avevano
appassionato personaggi come don Cagliero, don
Fagnano, don Lasagna, don Balzola, Colbacchini,
Versiglia, Caravario. Giusto 40 anni fa, iniziava la
nostra presenza a Ijeli, diocesi di Miarinarivo, al
centro del Madagascar. Nella parrocchia di San
Paolo a Cagliari, dove mi trovavo, tutto andava
bene. Un giorno del mese di maggio ero pronto a
celebrare alle 18, l’ispettore mi ha detto che dopo
la Messa doveva parlarmi. Ha assistito alla Messa.
Poi sono andato da lui e gli ho detto che ero pronto
a far parte del progetto Africa. Mi ha spiegato a che
punto erano le cose e mi ha dato una pagina con i
nomi di coloro con cui sarei partito, e il programma
da seguire a partire dal 13 giugno fino alla parten-
za fissata per la metà del mese di dicembre.
A Cagliari avevo fatto delle forti esperienze di
rievan­gelizzazione. Avevo toccato con mano come
Gesù poteva cambiare tante persone, tante fami-
glie, fare di persone indurite nel vizio dei veri apo-
stoli. Pensavo che sarebbe successo qualcosa di più
importante in missione. In missione, invece, mi
sono trovato con persone molto buone, dentro una
chiesa santa ed impegnata nell’evangelizzazione,
dove i laici erano impegnati, anche nella formazio-
ne e nella guida delle comunità.
Come sei finito nel Kosovo?
Quello che penso oggi, dopo aver riflettuto sulla sto-
ria delle comunità di Ijeli e di Betafo, dove sono sta-
to, è questo: è necessaria una preparazione specifica
per le cose che si devono fare. Le comunità troppo
piccole, in ambienti difficili, sono una benedizione,
perché favoriscono scambi profondi tra confratelli,
un aiuto reciproco molto condiviso, però si corrono
anche rischi: quelli nei quali anche noi siamo casca-
ti: la “troppa generosità” nel lavoro, in un clima non
sempre favorevole, con una disponibilità senza limiti
a venire incontro a indiscussi bisogni, ti logora e ti
esaurisce. Uno di noi dopo un anno circa è dovuto
tornare in Italia, il suo lavoro, non cosa da niente, è
caduto nelle spalle dei due che restavano. Così sono
cominciati i problemi per me. Tornato in Italia, per
circa due anni mi sono occupato dei cooperatori sa-
lesiani presenti nelle case delle fma e delle 4 comu-
nità delle Suore di monsignor Cognata presenti nella
diocesi di Oristano. Quando mi ripresi, il 6 gennaio
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APRILE 2022

2.3 Page 13

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del 1992, il Visitatore della Sardegna don Giuseppe
Casti, mi comunicò che il Rettor Maggiore aveva
avuto una richiesta, personalmente da papa Giovani
Paolo ll, per dare inizio a due presenze in Albania.
Era un invito che ho accettato.
L’Opera salesiana in Albania ha avuto un rapido
sviluppo. Durante la guerra Serbia-Kosovo a Tira-
na avevamo un campo profughi con 850 persone ed
in parrocchia assistevamo 6000 profughi registrati.
Dopo la guerra si è pensato di aprire un cfp a Pri-
stina, dove i salesiani della Slovenia avevano lavo-
rato bene in situazioni molto difficili per 32 anni,
quando sono subentrati a loro i salesiani dell’ispet-
toria meridionale.
Ho trascorso tre anni belli e fruttuosi come vice
parroco. In questi tre anni il Vescovo del Kosovo
ha cominciato la costruzione della cattedrale. La
parrocchia aveva circa 1700 fedeli. Non era il caso
che tenessimo la parrocchia e abbiamo anticipato la
richiesta del vescovo, consegnandola al clero dioce-
sano. Quando succedeva questo, è venuto a novem-
bre del 2008 in Visita straordinaria don Pierfausto
Frisoli, tra l’altro con mandato del Rettor maggiore
di sondare la possibilità di creare una nuova pre-
senza salesiana nei Balcani. La situazione sembrava
favorevole e così il primo di ottobre del 2009 don
Dominik Qerimi e io, lui da Tirana ed io da Pristi-
na, ci siamo trasferiti a Gjilan per dare inizio alla
nuova opera.
Com’è l’opera di Gjilan?
Gjilan è uno dei sette distretti (Province) del Ko-
sovo. A Sud-est. Confina a Sud con la Macedonia
e a Est con la Serbia. La città ha una popolazione
di circa 70 mila abitanti. Quasi al confine con la
Macedonia, in un villaggio che si chiama Letnicë
c’è un santuario dedicato all’Assunta, molto caro
ai cattolici di oggi, anche perché Madre Teresa di
Calcutta ha raccontato d’aver avuto lì la prima chia-
mata. Nel 1846 un “cattolico” molto zelante che
voleva far carriera, ha reso difficile la vita dei suoi
correligionari e poiché non rinnegavano la fede, ne
ha spedite alcune centinaia prigionieri in Turchia.
Dopo due anni circa una cinquantina sono torna-
ti in patria, e sono all’origine della fede cattolica
in tre parrocchie: Letnicë, Binq e Shtubëll. Sono
1300 cattolici, molto orgogliosi delle loro radici e
molto ferventi in queste tre parrocchie. A Gjilan,
quando siamo arrivati noi, abbiamo trovato solo un
battezzato. In diversi momenti altri hanno ricevuto
il battesimo. Ma ora di quelli solo una decina ten-
gono qualche contatto con noi.
«La nostra
di Gjilan è
la comunità
salesiana
che serve la
più piccola
comunità
cristiana
nel mondo.
E le cose
continueranno
così per molti
anni ancora».
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2.4 Page 14

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L’INVITATO
Quando don Frisoli è venuto a farci visita a Gji-
lan c’era un grande “rustico” con 1867 metri quadri
coperti in ognuno dei tre piani. Doveva essere una
“casa della pace”. Ma nonostante il nome qualcosa
non ha funzionato e dal 2002 fino al nostro arrivo
tutto era bloccato. Ed era un peso per i due vescovi
che si sono succeduti in Kosovo. In quel tempo la
gente sentiva un gran bisogno di vivere in pace ed
armonia ed il Kosovo veniva additato come esem-
pio perché le tre religioni monoteistiche vivevano in
pace e collaboravano in opere sociali (es. l’Associa-
zione Madre Teresa ha distribuito generi di prima
necessità a migliaia di persone ed insieme hanno
avviato un’attività straordinaria per la pacificazione
delle famiglie). A Gjilan c’erano alcune moschee,
una cattedrale ortodossa e nessun segno che facesse
riferimento alla Chiesa Cattolica. Così 263 intel-
lettuali hanno scritto una lettera aperta chiedendo
in generale alla società civile e in particolare alla
Chiesa qualcosa che fosse riferimento alla terza
fede riconosciuta in Kosovo. I colloqui di don Fri-
soli con il vescovo e soprattutto con il suo vicario
del tempo, la visita sua a Gjilan e la lettera lo hanno
favorevolmente impressionato e alla comunità sale-
siana già presente a Pristina ha dato come consegna
lo studio e la valutazione delle possibilità di apri-
re una nuova presenza in terra balcanica. Ciò che
è stato fatto e realizzato in un anno, grazie anche
all’impegno generoso dell’ispettore di allora, don
Pasquale Martino.
Quali sono le difficoltà “ambientali”?
Lascio perdere i problemi legati al clima continenta-
le. Ci si abitua! Le autorità civili e religiose si sono di-
mostrate molto accoglienti nei nostri confronti. Forse
noi non le abbiamo sempre capite! Qualche gruppu-
scolo forse per attese di tipo economico, e forse anche
per motivi religiosi, qualche problema ce lo ha creato.
Adesso sono anni che questi atteggiamenti negativi
sono un lontano ricordo e sentiamo sempre più che
la gente ci stima e ci aiuta, al di là dei nostri meriti.
Il fatto di non avere una comunità cristiana che con-
divide la nostra vita, però, ci condiziona. Don Mar-
toglio nella visita che ci ha fatto 7 anni fa ci ha detto
«La
stragrande
maggioranza
dei nostri
allievi è
brava ed
impegnata.
I ragazzi sono
disponibili
al dialogo e
facili a creare
un ambiente
sereno e
allegro».
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APRILE 2022

2.5 Page 15

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IL KOSOVO
Al centro della penisola balcanica, è delimitato a nord e a est
dalla Serbia, a sud-est dalla Macedonia del Nord, a sud-ovest
dall’Albania e a ovest dal Montenegro. Ha una superficie di
10 888 km² e una popolazione di circa 1,8 milioni di abitanti.
Con la conclusione della Seconda guerra mondiale divenne
parte della Jugoslavia, mantenendo una certa autonomia
amministrativa e culturale a causa della sua diversa identità
non slava. Dopo i gravi fatti e la guerra che ne scaturì, il Ko-
sovo ha dichiarato la sua indipendenza ed è una repubblica
parlamentare. La capitale è Pristina; la maggioranza degli
abitanti è di lingua albanese e si riconosce albanese. Pur non
appartenendo all’Unione Europea utilizza di fatto l’Euro dal
2002.
che la nostra di Gjilan è la comunità salesiana che
serve la più piccola comunità cristiana nel mondo. E
le cose continueranno così per molti anni ancora.
Come sono i giovani kosovari?
A Gjilan abbiamo un progetto pastorale che prevede
una scuola media e media superiore, un oratorio, un
servizio religioso per la piccola comunità cristiana,
un aiuto ai sacerdoti della zona perché loro stessi ci
aiutano e perché così abbiamo la possibilità di in-
contrare gli alunni cattolici della nostra scuola. Ogni
anno sono stati una ventina. La maggior parte degli
alunni proviene da famiglie musulmane che godono
di un certo benessere economico che permette loro
di pagare le rette. Non allontaniamo per motivi eco-
nomici ragazzi che mostrano desiderio di studiare
nella nostra scuola. Una ventina vengono da fami-
glie che percepiscono un assegno di povertà (circa
85 euro al mese) o toccati dalle conseguenze della
pandemia. La stragrande maggioranza è brava ed
impegnata, anche disponibili al dialogo e facili a
creare un ambiente sereno e allegro. Oggi più che
al tempo del comunismo i mezzi di comunicazio-
ne sociale trasmettono messaggi secondo i quali per
essere moderni si deve essere un poco trasgressivi
e bulli. Chi devia dalla massa, crea problemi, ma
sono ancora pochi. Frequentano la nostra scuola 210
alunni(e) che di solito ci fanno una buona pubblici-
tà... La maggior parte sono positivamente motivati
allo studio, alcuni purtroppo sono costretti dai ge-
nitori a frequentare la nostra scuola, perché ancora
riusciamo a garantire una certa disciplina e sperano
che questa scuola riesca a recuperare i loro figli che
non hanno fatto buona riuscita altrove.
Circa 200 ragazzi frequentano l’oratorio... Vengo-
no per passare qualche ora serenamente giocando,
parecchi frequentano i gruppi dei ragazzini, de-
gli adolescenti e dei giovani che i direttori dell’o-
ratorio che si sono succeduti, hanno organizzato.
C’è anche un gruppo che comincia ad impegnarsi
nell’animazione dei compagni, soprattutto in vista
dell’Estate Ragazzi.
I due problemi grossi, comuni ai due gruppi sono
innanzitutto il desiderio di emigrare, di scappare
dal Kosovo perché “qui non c’è futuro”: se vuoi la-
vorare, vivere in pace, guadagnarti la vita, studiare
bene, farti una famiglia ed un futuro devi emigrare.
E poi la scelta religiosa, che non può essere messa
in discussione.
Da noi un giovane che comincia a pensare seria-
mente al suo problema profondo più umano, si
guarda attorno, fa le sue ricerche e le sue valuta-
zioni sul “mercato delle religioni”. Qui questo non
è possibile! È fin troppo chiaro che gran parte del
malessere individuale è conseguenza della religio-
ne, ma questa non è mai messa in discussione.
APRILE 2022
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2.6 Page 16

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LE CASE DI DON BOSCO
La comunità
Nel cuore del “Monterosa”
L’oratorio salesiano “Michele
Rua”, nel quartiere torinese del
Monterosa festeggia quest’anno
i suoi primi 100 anni.
La chiesa in
stile Liberty
progettata
dall’architetto
salesiano
Giulio Valotti
e dedicata
alla Madonna
del Rosario.
Nel 1958 la
parrocchia fu
poi intitolata
a san
Domenico
Savio.
Era infatti il 1922 quando don Gallenca aprì
le porte di questo oratorio, presto diventato
un luogo di culto e gioco che accoglieva nu-
merosi bambini, figli delle tante migrazioni
che hanno colorato il volto del quartiere. Ancora
oggi, come 100 anni fa, l’oratorio accoglie tantissi-
mi ragazzi, che fanno tutti parte della grande co-
munità del “Michele Rua”.
Nato, come il primo Oratorio di Valdocco, inizial-
mente con solo una tettoia e un cortile, è cresciuto
insieme con il quartiere e la città, educando intere
generazioni e formando buoni cristiani ed onesti
cittadini.
L’antesignano di quello che oggi è l’oratorio Mi-
chele Rua fu il “Ricreatorio Mamma Margherita
Bosco”, eretto durante la Prima guerra mondiale a
poche centinaia di metri dalla sede attuale dell’ora-
torio. L’allora Rettor Maggiore, don Paolo Albera,
vi inviò un salesiano, don Ugo Lunati, a presiede-
re lavori e attività, che venivano portate avanti, in
pieno stile salesiano, insieme alle Figlie di Maria
Ausiliatrice e a tanti laici.
Dato il numero sempre crescente di ragazzi e la ri-
strettezza di quel primo ambiente, vennero stabiliti
il trasferimento e l’ampliamento della struttura: nel
1921 venne posta la prima pietra, e grazie al so-
stegno di tanti benefattori – tra cui anche l’allora
pontefice, Benedetto XV – i lavori furono presto
compiuti e nel luglio del 1922 si completò il trasfe-
rimento nella nuova sede di via Paisiello, ufficial-
mente dedicata al I Successore di don Bosco, don
Michele Rua.
“Di colpo la vita oratoriana cambiò. Qui (in via
Paisiello) c’era la bellissima Chiesa, il cortile e tan-
te sale che vennero occupate dalle diverse sezioni
che si trasformarono in base all’età degli oratoriani”
racconta la cronaca dell’epoca.
Il 30 settembre 1922 venne consacrata, alla presen-
za del Rettor Maggiore il Beato Filippo Rinaldi,
la chiesa in stile Liberty progettata dall’architetto
salesiano Giulio Valotti e dedicata alla Madonna
del Rosario.
Qualche anno dopo una nuova manica del fabbri-
cato ospitò il Cinema-Teatro. Nel secondo dopo-
guerra venne eretta la scuola di avviamento pro-
fessionale in seguito trasformata in scuola media.
L’espansione edilizia del quartiere e la forte crescita
della popolazione crearono i presupposti per la na-
scita nel 1958 della parrocchia intitolata a san Do-
menico Savio. Seguirono poi la scuola materna e
negli anni 2000 la scuola primaria.
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APRILE 2022

2.7 Page 17

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Una ciclone di attività
L’opera oggi vede la presenza della scuola (dell’in-
fanzia, primaria e secondaria di primo grado), per
un totale di circa 560 allievi, dell’oratorio, con pro-
getti che lo collegano alla Città, della Parrocchia,
con una Caritas molto attiva e attenta ai diversi bi-
sogni emergenti, del cinema/teatro. All’interno di
ogni ambiente troviamo poi tanti gruppi: la spor-
tiva, l’unione uomini, i laboratori dei maker lab, il
coro, la musica, il servizio per gli ammalati, l’aiuto
a chi non ha dimora…
Gli allievi della scuola hanno diversa provenienza
ed estrazione sociale. La maggioranza delle fa-
miglie degli allievi vive nel quartiere della nostra
Casa, Barriera di Milano e nei quartieri limitrofi
di Regio Parco e Rebaudengo.
Un gruppo numeroso di famiglie arriva invece da
quartieri più a nord come Barca e Bertolla fino ai
comuni Settimo Torinese e San Mauro. Queste ul-
time famiglie spesso lavorano a Torino e lasciano i
figli presso le nostre scuole che risultano sulla stra-
da verso il lavoro. È pacifico in sostanza affermare
che la grande maggioranza delle famiglie vive o è
legata al quartiere della Casa, la quale risulta quin-
di ben innestata con la comunità abitante e lavora-
trice del territorio.
Le scuole sono spesso situazione di incontro an-
che con le difficoltà che alcune famiglie vivono,
anche di natura economica. Questo aspetto ci mo-
stra come nelle nostre scuole convivano situazioni
familiari molto differenti. Dalla famiglia media-
mente benestante alla famiglia che ha risentito ne-
gli ultimi tempi della situazione pandemica, e che
quindi ha vissuto momenti di difficoltà economi-
ca, fino alle famiglie più povere, che però credono
nell’educazione salesiana e che decidono, per quan-
to possono, di investire nell’educazione.
è meno difficile di quanto pensiamo. L’integrazio-
ne, la povertà, la delinquenza sono sfide grandi da
superare per tutti, in particolare i nostri ragazzi. Ci
sono le baby gang, ma sono fatti sporadici anche se
problematici, esistono tanti bravi ragazzi che ci aiu-
tano e non ci lascerebbero mai, sentono che questo
territorio li “ha generati” e qualcosa debbono resti-
tuire. Certo molti di loro non possono permettersi
cure o assistenza specialistica a sufficienza, molti
vengono con i loro genitori a ritirare il pacco viveri,
ma restano prima di essere poveri, “fratelli”, sono
una nostra responsabilità.
L’oratorio qui ha una grande tradizione, la gente ri-
corda tanto tutti i salesiani che sono passati, questo
è veramente straordinario, dice la continuità sale-
siana e l’amore della gente per i vari don Bosco che
sono passati. All’interno abbiamo cinque educatori,
salesiani e Figli di Maria Ausiliatrice e giovani che
creano il clima di accoglienza e famiglia, questo è il
punto fermo della nostra realtà oratoriana.
La sportiva (con il calcio, la pallavolo, la pallacane-
stro, la danza e i roller), i maker lab con la robotica,
la stampante 3D, le macchine per il taglio e cucito,
la musica digitale… noi lo chiamiamo l’angolo del-
Siamo in
tanti, tanti
volontari,
tanti ragazzi
e tante
famiglie,
quando si è
in tanti non
è semplice
restare uniti,
ma questo
è anche
un grande
dono. Tante
esperienze
e tante vite,
siamo in
cammino ma
c’è un grande
desiderio di
Comunità.
I giovani sono responsabili
Sono ancora tanti e di tante etnie, qui si vive la
multiculturalità e sperimenta la sfida di imparare a
vivere assieme, anche se i piccoli ci insegnano che
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2.8 Page 18

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LE CASE DI DON BOSCO
L’oratorio
qui ha una
grande
tradizione, la
gente ricorda
tanto tutti
i salesiani
che qui sono
passati.
l’“imparare facendo”, dove piccoli, giovani e adulti
possono lavorare e imparare assieme… e dove gli
anziani si riscoprono giovani. Il dopo scuola è per
tutte le fasce d’età, perché il gioco e lo studio sono
da coniugare affinché tutti possano trovare l’im-
portante della vita.
Il gioco libero e assistito ha spazi enormi e ben cu-
rati, in questa attività non strutturata l’informalità
lascia spazio per le relazioni e perché tutti trovino il
suo tempo per potersi piano piano integrare.
Il centro diurno ci dà la possibilità di incontrare i
ragazzini più “speciali” del quartiere, sono un dono
che cerchiamo di custodire e chiediamo a loro di
farci il dono di condividere con noi la loro vita e a
volte di parte della loro famiglia.
Abbiamo anche progetti che ci aiutano ad entrare
nelle scuole del quartiere, questo ci dà la possibilità
di creare alleanza con il territorio, poter fare la no-
stra parte per costruire una parte di Città, di Società.
I giovani hanno “inventato” uno sportello infor-
matico per aiutare chi non ha competenze o mezzi
per accedere ai servizi informatici necessari per il
normale svolgimento della vita. “Amico click”, così
BORGATA MONTEROSA
I giovani del quartiere hanno scritto: «Un quartiere
ricco di realtà, associazioni e singoli che creano op-
portunità e curano spazi di aggregazione e socializ-
zazione per tutti i suoi abitanti. In breve, persone
che si prendono cura le une delle altre. Il nostro
quartiere è molto popoloso, eterogeneo, ricco di
fragilità e delle problematiche che a queste si ac-
compagnano, non bisogna nasconderlo. Visto da
vicino, il nostro quartiere non risulterà così diverso
da altre zone di Torino: composito e vitale come la
città in cui viviamo. Come la società in cui viviamo».
In Borgata Monterosa si registra uno dei tassi di
popolazione straniera residente più alti d’Italia, il
42,5%. Su poco meno di 27mila residenti in quella
parte di Torino gli italiani sono circa 15mila, men-
tre ben 11mila vengono da altre parti del mondo.
si chiama il servizio, esprime bene quello che è l’in-
tento, creare amicizia dove l’altro si sente sperso.
Il cinema/teatro, la sportiva e i gruppi formativi, in
modalità diverse, cercano di fare cultura e dare un
senso alla vita, cercando di uscire dall’ordinarietà e
dal rischio di conformismo. I gruppi e la catechesi
sono una sfida che sentiamo forte come oratorio/
parrocchia, preghiera e servizio, testimonianza e
condivisione, elementi che cerchiamo di vivere e
trasmettere.
La parrocchia da sempre è inserita nel quartiere,
fisicamente realizzata in mezzo alle case. La chie-
sa dapprima era dedicata alla madonna del Rosario
poi fu nominata San Domenico Savio in seguito
alla canonizzazione del discepolo di don Bosco. In
questi anni è stato luogo di inizio alla fede di tanti
fedeli, di unione di tanti sposi e ha cresciuto tante
generazioni di bambini e ragazzi, alcuni di questi
anche salutati per il Paradiso, Chiesa attenta al vis-
suto delle famiglie e alle loro necessità oltre che di
fede, aiuti nelle relazioni, aiuti e sostegni a chi ha più
bisogno. La particolarità bella è che la chiesa tutto
il giorno è sempre aperta e, situata sull’angolo della
strada, attira molte persone che entrano anche solo
per una candela o per ricordare il passato o affidare
il presente e sicuramente il futuro.
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2.9 Page 19

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TRE DOMANDE AL DIRETTORE DON STEFANO MONDIN
Quali sono le più belle
soddisfazioni?
Vivere in un quartiere di gente semplice e
vera, di persone che si assumono la respon-
sabilità della propria Comunità e della vita
degli altri. Poter condividere le giornate
con i ragazzi e le famiglie mi aiuta a vi-
vere la vita salesiana con entusiasmo. I
poveri creano le giuste domande e i miei
collaboratori/corresponsabili sono fonda-
mentali per capire che cos’è la Chiesa.
Qui si capisce fino in fondo quanto don
Bosco sia fondamentale per la mia e altrui
vita!
Quali sono i problemi di una
struttura così complessa?
Siamo in tanti, tanti volontari, tanti ragazzi e tante fa-
miglie, quando si è in tanti non è semplice restare uniti, ma
questo è anche un grande dono. Tante esperienze e tante vite,
siamo in cammino ma c’è un grande desiderio di Comunità.
Abbiamo bisogno della Città, abbiamo bisogno di
essere aiutati a costruire un territorio che doni
possibilità, speranza e che eviti ghetti che di-
vidono le persone.
In sintesi non parlerei di problemi ma sfide
e possibilità, qui regna la Speranza più che
la volontà di problematizzare.
Qual è il futuro che sogni?
Sogno che tutti i ragazzi e le famiglie
dell’opera possano sentirsi accolti e che
insieme impariamo a costruire una Comu-
nità capace di sostenersi e aperta agli altri
e al cambiamento. Vogliamo aiutare chi fati-
ca in famiglia, chi fatica nello studio e rischia
di abbandonare, chi non trova o non ha voglia
di lavorare, chi cerca un senso nella vita… voglia-
mo realizzare il sogno di Dio con il cuore di don Bosco
per rispondere come Chiesa all’oggi, alle persone di oggi, ai
poveri di oggi. Per me, sogno di essere un degno figlio di don
Bosco.
Fulcro vitale del quartiere
In merito a questo significativo anniversario, don
Stefano Mondin, Direttore dell’opera salesiana,
ha affermato: “100 anni di storia sono un grande
traguardo, in particolare se pensiamo che siamo in
una cultura del provvisorio e dell’individualismo.
100 anni di storia vogliono dire tante persone, tanti
sacrifici, tanta dedizione, per un territorio fatto di
persone concrete a cui dare risposte e una via per
dare un senso alla propria vita. Sono stati 100 anni
di storia salesiana, di dedizione per giovani poveri,
famiglie, immigrati… per tutti coloro che la Spi-
ritualità Salesiana è riuscita ad intercettare attra-
verso l’attenzione speciale di Salesiani e di Figlie
di Maria Ausiliatrice che si sono donati e spesi per
il prossimo; e anche 100 anni dove il Signore non
ha fatto mancare la sua benedizione, e che ancora
tutt’oggi dona l’Eucaristia, la Misericordia e sta vi-
cino a chi soffre, perché Dio ama”.
È passato un secolo da quando la felice intuizio-
ne dei primi eredi di don Bosco portò a edificare
questa grande struttura in una periferia fatta al
tempo di cascine e campagna... Oggi tutto attorno
è cambiato, ma di sicuro non cessa il via vai quoti-
diano di centinaia di bambini ed adolescenti “sim-
paticamente rumorosi”, che frequentano le scuole
e il cortile del “Michele Rua”, un oratorio sale-
siano che resta fulcro vitale, educativo e religioso
di una vasta area di Torino nord, che ha accolto e
accoglie ancor oggi vecchie e nuove famiglie del
territorio, restando fedele ad una delle massime
più famose del suo fondatore: “l’educazione è cosa
di cuore”!
In occasione del centenario, vogliamo vivere un
piccolo Cammino Sinodale con la nostra cep. Un
cammino che ci aiuti a consolidare il tanto bene
che è stato fatto e che ci aiuti a scoprire insieme che
cosa il futuro di Dio ci chiede.
È importante sognare insieme, come Comunità, è
importante continuare il sogno dei 9 anni. Come
dice papa Francesco: «è importante che il sogno
porti dentro la nostra e l’altrui gioia».
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2.10 Page 20

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IN PRIMA LINEA
Antonio Labanca - Missioni Don Bosco (fotografie di Ester Negro)
IUsaclersaianini a
non si fermano
Nonostante i pericoli,
Missioni Don Bosco è andata
in Ucraina a incontrare i salesiani.
Un viaggio all’insegna
della fraternità, per confermare
l’aiuto concreto e la preghiera
per una pace duratura.
Solo i
bambini
riescono
ancora a
sorridere.
C ontinuare l’attività formativa e pastorale
in un Paese che è in guerra da otto anni
è l’impresa che i salesiani dell’Ucraìna
stanno sostenendo in ogni città dove essi
sono presenti con le loro opere. Tra ripetuti
allarmi di attacco, crisi economica ge-
nerale, vittime dirette e indirette
delle ostilità, si tratta di preser-
vare la buona condizione fisica
e psicologica dei ragazzi e delle
ragazze che frequentano scuo-
le, oratori, chiese.
“Don Bosco”
garantisce
Il primo incontro è avve-
nuto a Žytomyr, cit-
tà di poco meno di
300 mila abitanti
a 140 km a ovest della capitale. Un cippo ricorda
la sua fondazione da parte dell’omonimo principe
della tribù dei Drevliani nell’anno 884 e porta il
pensiero alla prima evangelizzazione dell’Europa
orientale guidata dai santi Cirillo e Metodio. An-
cora oggi la località è punto nevralgico per i colle-
gamenti fra le città del nord dell’Ucraina e verso la
Bielorussia e la Polonia.
Padre Michal Wocial, direttore della casa salesiana
di Žytomyr, ci accompagna a visitare la scuola pri-
maria Vsesvit (“Universo”), con 40 insegnanti per
400 allievi, dal 2020 affidata alla congregazione. La
costruzione del plesso fu voluta da una delegazio-
ne guidata dal parroco di San Pellegrino a Reggio
Emilia, don Giuseppe Dossetti jr, alla ricerca di un
progetto verso il quale far confluire la solidarietà –
per i popoli tornati liberi dopo il crollo del Muro
di Berlino – di persone e di imprese della sua cit-
tà e di quella di Piacenza. Gli Italiani incontrarono
un piccolo nucleo di cattolici che avevano vissuto la
persecuzione religiosa; fra loro Sofia Okuneva che
era stata in prigione a causa della sua fede per tre
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APRILE 2022

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3.1 Page 21

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anni e mezzo fino all’indipendenza dell’Ucraina
dall’Urss nel 1991. Oggi sessantenne, racconta la
gioia di questa esperienza destinata a costruire un
tassello importante del futuro del suo Paese. Scoccò
una scintilla di simpatia e di fiducia, e la delegazio-
ne sposò il progetto della scuola primaria ecumenica
italo-ucraina, che venne affidata alla sua direzione.
Durante la visita arriva anche il Segretario comu-
nale di Žytomyr, Viktor Kliminskyi, per testimo-
niare il forte legame fra la Città e i salesiani. Spiega
che a questi verrà affidato il complesso scolastico
progettato in un quartiere di nuovo insediamento
abitativo. Il comune si accolla tutte le spese per la
costruzione e l’allestimento delle aule, il “marchio”
di don Bosco garantirà la qualità dell’istruzione.
Traspare un rapporto senza remore fra pubblico e
privato, fra istituzioni civili e un soggetto di natura
religiosa: quel che conta, spiega Kliminskyi, è che
sia “una scuola fondata su valori cristiani e patriot-
tici, importanti per il popolo ucraino”.
Il terrore si chiama Holodomor
La cuginanza con la vicina Russia è un dato che, as-
sieme agli elementi condivisi, ha suscitato nel corso
del tempo numerose tensioni. Kyïv era la capitale
del Principato medievale dei popoli che compren-
deva una vasta area tra Russia occidentale, Polonia,
Estonia, Lettonia e Lituania: è la Kyïvska Rus’ (la
Rus’ di Kyïv). Il principe Vladimir I strinse alleanza
con l’Impero Bizantino e nel 988 abbracciò il cri-
stianesimo, introducendolo nel suo regno con mag-
giore efficacia di quanto avesse tentato di fare sua
nonna, la principessa Olga (riconosciuta santa). La
capitale divenne sede di una Provincia ecclesiastica
riconosciuta da Costantinopoli, che tuttavia fu por-
tata prima a Vladimir e nel 1325 a Moskva (Mosca)
assecondando la parabola discendente del Principa-
to. Gli Ucraini di oggi vogliono comprendere meglio
anche questi passaggi storici, secondo loro falsificati
prima dall’Impero zarista poi da quello sovietico.
Non si tratta solo di materia del passato: quando nel
2014 avvenne l’occupazione russa della Crimea e del
Donbass, una parte degli Ortodossi ucraìni si separò
dal Patriarcato di Moskva che non intendeva ricono-
scere l’autonomia raggiunta dal Paese con il disfaci-
mento dell’Urss, e di conseguenza negò un’identità
nazionale alla stessa Chiesa come prevede la prassi
ortodossa. Il cerchio si è chiuso con il riconoscimen-
to della Chiesa ucraina autocefala da parte del Pa-
triarca di Costantinopoli nel 2019.
Se la questione religiosa ha un’evoluzione lacerante,
certamente la ferita inflitta dalla Russia ai tempi del-
lo Stalinismo è più difficile da ricucire. Tra il 1932 e
il 1933 avvenne una strage di Ucraini dell’ovest che
resistevano all’espansione del comunismo con mag-
giore convinzione e mezzi dei compatrioti dell’est.
Una ricercatrice, Nataliya Fedorovych, attualmente
al vertice della segreteria dell’Ufficio parlamentare
per i diritti umani, ha compiuto ricerche minuziose
per far emergere quanto occultato dal regime sovie-
tico fino a trent’anni fa: 6 milioni di morti per fame,
una “pulizia etnica” fra le altre praticate dal dittatore
Continuare
l’attività
formativa
e pastorale
in un Paese
in guerra è
l’impresa che
i salesiani
dell’Ucraina
stanno
sostenendo
in ogni città
dove essi
sono presenti
con le loro
opere.
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3.2 Page 22

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IN PRIMA LINEA
Don Maksim:
«Non abbiamo
mai smesso
di celebrare
le messe. Le
trasmettiamo
anche online,
tramite le reti
sociali. Ma
non abbiamo
mai smesso
neanche di
andare a fare
visita alle
famiglie, di
stare accanto
ai profughi.
Ogni
sacerdote,
nelle proprie
parrocchie,
cerca di
gestire, come
può, l’aiuto
concreto alle
persone».
georgiano al Kremlino dal 1924 al 1953. I risultati
delle ricerche hanno convinto l’Onu nel 2003 a dare
riconoscimento universale a questo genocidio, e il
Parlamento europeo nel 2008 l’ha classificato come
un crimine contro l’umanità. Ha un nome: Holodo-
mor. Ma proprio gli Stati europei che oggi si ergo-
no a difensori dell’autonomia ucraina – fra i quali
Germania, Francia, Italia – non hanno ancora osato
riconoscere formalmente questo eccidio.
Padre Maksim Ryabukha
In questo contesto è difficile non trasformare in
odio viscerale il sentimento della popolazione. I
salesiani contribuiscono con la loro azione educa-
tiva piuttosto a collocare il sentimento patriottico
nell’alveo della giusta autodifesa. “Nessuno odia
i Russi” ribadiscono e spiegano che l’Ucraina ha
incrementato l’interscambio con il vicino. Padre
Maksim Ryabukha in uno dei trasferimenti con gli
amici di Missioni Don Bosco fa notare il passag-
gio a fianco di un pullman bianco targato Russia
che circola liberamente, non fermato dalla polizia o
dall’esercito e neppure fatto segno di assalti o sem-
plici proteste della gente comune.
Lui è responsabile della Casa Maria Ausiliatrice
a Kyïv, una costruzione recente acquistata da una
famiglia di Rom che ne voleva fare la propria vil-
la. Non è ancora completata, don Maksim la sta
progressivamente trasformando in
luogo di accoglienza, di gioco e di
preghiera. È lui che ha invitato il
suo interlocutore in Italia quando
voleva sapere come i giovani Ucrai-
ni avrebbero interpretato l’invito di
papa Francesco a pregare in tutto
il mondo per la pace il 26 gennaio
scorso. Celebra la messa domenica-
le alla presenza di una cinquantina
di persone, in gran parte giovani,
vengono da vicino ma anche da al-
tri quartieri di questa città che con-
ta 4 milioni di abitanti più un paio
di altri milioni di profughi dalle zone occupate dai
Russi.
La liturgia è nel rito greco-cattolico, i salesiani qui
sono parte della Chiesa bizantina, una preghiera e un
mistero cantati per intero. Solo l’omelia è una rifles-
sione parlata in famiglia che non trascura di spiegare
la presenza degli ospiti che hanno assunto il compito
di raccontare quel che vedono della situazione so-
spesa tra voci dei potenti e speranze di liberarsi dal
giogo delle minacce. Dopo la celebrazione alle 11 del
mattino, il ritrovarsi nelle stanze dell’oratorio senza
un programma preciso se non quello di raccontarsi
l’ultima settimana, di giocare chi in piedi al calcio-
balilla chi accovacciato su un tappeto al nuovo gioco
di carte “The Mind”. E di scaldarsi con una tazza
di tè caldo e abbondanti razioni di biscotti e di torte
al cioccolato. Indispensabile anche qui una “mamma
Margherita” che arrivi dove il figlio non può arriva-
re, la signora Iryna Rohova.
A conferma dei buoni rapporti con il vicinato e
con le strutture pubbliche, prima della messa don
Maksim aveva promosso un incontro con la direttri-
ce e i suoi collaboratori della Scuola 113 che si trova
nell’isolato a fianco di Casa Maria Ausiliatrice.
Gli orfani di L’viv
L’ultima tappa del viaggio è a L’viv. Si nota subito
la presenza consolidata dei salesiani in questa città
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da un milione di abitanti che ha un sapore mittel-
europeo nella sua architettura. Qui hanno sede la
visitatoria e le attività formative. Il superiore, padre
Mychaylo Chaban è anche “papà” di più di trenta
minori, orfani o affidati dai servizi sociali, che con-
dividono gli spazi di Casa Don Bosco. Molti di loro
sono adottati a distanza dai benefattori della onlus
missionaria di Valdocco che li può incontrare e foto-
grafare in questa visita. Intorno fioriscono un asilo,
una scuola professionale e un centro sportivo inau-
gurato da pochi mesi, il “Bosco-Arena”, che mette
a disposizione una palestra oltre al campo di calcio
ai 350 ragazzi. La soddisfazione di padre Anatolij
Hetsjanyn responsabile della pgs è che questo plesso
è in grado di offrirsi anche ai professionisti del foot-
ball delle tre squadre di L’viv come centro di allena-
mento di alto livello. “Con la speranza che emerga
qualche campione fra i nostri ragazzi che possa por-
tare in alto il nome di don Bosco”.
Ristorazione e ricezione turistica, meccanica e ri-
parazione di automobili sono i corsi di un anno e
mezzo di durata che preparano a professioni molto
richieste in Ucraina, 25 allievi per classe. A queste
si è aggiunta quest’anno quella di informatica che il
direttore, padre Andryi Bodnar, descrive con meri-
tato orgoglio ai suoi visitatori.
All’orizzonte un impegno ulteriore, prestigioso: la
nuova scuola per quasi 700 allievi che sarà costruita
ex novo dal Comune di L’viv in un’area di sviluppo
urbanistico, e che sarà affidata (come a Zhytomyr)
alla mano salesiana. Lo conferma il sindaco Andriy
Sadovyi che riceve la delegazione di Missioni Don
Bosco con i giornalisti che l’hanno accompagnata
in questo viaggio. Descrive il programma di difesa
dagli attacchi fisici e psicologici, si spinge a prefi-
gurare una collaborazione più intensa con i Paesi
dell’Unione europea, riservando all’Italia un’atten-
zione particolare testimoniata dal fatto che la lin-
gua straniera più studiata in Ucraina dopo l’inglese
sia la nostra. E ribadisce che la formazione scola-
stica è l’investimento più forte per la pace e per lo
sviluppo.
È un invito a nozze per i salesiani, che continua-
no a progettare indipendentemente dallo stato di
guerra, dal Grest della prossima estate ai nuovi in-
sediamenti scolastici. Affermando così anche agli
occhi dei ragazzi e dei giovani che occorre non solo
evitare il panico, ma operare come se all’orizzonte
non si vedessero carri armati e aerei russi.
I progetti riferiti in questo articolo sono sostenuti
dall’Italia da Missioni Don Bosco.
Per maggiori informazioni consultate il sito
www.missionidonbosco.org
scrivete a progetti@missionidonbosco.org
o telefonate al n. 011 3990101
Ristorazione
e ricezione
turistica,
meccanica e
riparazione
di automobili
sono i corsi
di un anno
e mezzo di
durata che
preparano a
professioni
molto
richieste
in Ucraina.
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FMA
Emilia Di Massimo
La memoria della gratitudine
Da sessant’anni le Figlie di Maria Ausiliatrice
operano in Vietnam
“Ciò che di più prezioso voglio
regalare alle suore è la gratitudine.
Grazie per gli insegnamenti
che, donati con il cuore, aiutano
i giovani a diventare persone
umane e cristiane” (Thoại).
«Quando vengo
dalle suore mi
sento amata e
apprezzata, si
prendono sempre
cura di me,
mi ascoltano e mi
aiutano a superare
le difficoltà
che vivo».
Si impegnano attualmente per lavorare in-
sieme, per affrontare con rinnovato slancio
le sfide future, d’altronde non hanno mai
avuto grandi difficoltà per inserirsi tra la
gente con la loro presenza cordiale; così da ben 60
anni, da quando si sono poste a servizio dei giova-
ni, il 28 maggio 1961.
Sono le prime Figlie di Maria Ausiliatrice missio-
narie ed arrivano a Binh Tay-Cho Lon, nel Viet-
nam del Sud, dando vita ad una comunità com-
posta da tre suore: un’italiana, una cinese ed una
filippina, ma anche da sei aspiranti vietnamite. Al-
cuni mesi dopo, con altre missionarie provenienti
dalla Germania e dall’Italia, la prima Comunità
si costituisce ufficialmente ed inizia a svolgere le
attività scolastiche, l’oratorio, il catechismo in par-
rocchia.
Radici forti
Nell’ottobre del 1966 le suore ricevono la gestio-
ne della Scuola materna Lina a Tam Ha, un dono
del governo italiano per i bambini poveri e per le
vittime della guerra in Vietnam. La presenza delle
suore è richiesta per offrire un apporto significativo
alla Chiesa e alla società.
Suor Maria Pham ci dice che, “oltre all’impegno
nello studio della lingua vietnamita per poter co-
municare, le missionarie si concentrano sulla for-
mazione delle vocazioni locali e sull’integrazione
del carisma salesiano nella cultura vietnamita: l’I-
stituto in Vietnam mette solide radici destinate a
fiorire. La fiducia nella Provvidenza è l’atteggia-
mento che guida le prime Figlie di Maria Ausilia-
trice nel portare avanti la missione educativa con
speranza, soprattutto nelle situazioni difficili. In
comunione con la Chiesa ed in risposta alle ne-
cessità della società, le Figlie di Maria Ausiliatri-
ce aprono i centri professionali, l’orientamento al
lavoro, i pensionati universitari e gli internati per
ragazze indigene o studentesse. La rete educativa
è declinata mediante le scuole di diverso odine e
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grado, dal doposcuola, dal Movimento Giovanile
Salesiano, dal Vides (Volontariato Internazionale
Donne Educazione e Sviluppo) dalle exallieve, dai
Salesiani Cooperatori”.
Si mettono così quelle radici robuste che oggi con-
tinuano a fiorire.
Il cuore della missione
“In preparazione all’evento del 60° della presenza
delle suore”, ci spiega suor Nga Nguyen Thi “le
sorelle hanno cercato di intensificare la comunio-
ne riflettendo sulle parole del Padre Nostro, viven-
do maggiormente la carità. Hanno fatto memoria
della storia dell’Istituto in Vietnam alimentando la
gratitudine per le prime missionarie e per quanto si
è realizzato nel campo educativo. Ogni pagina del-
la storia evoca memorie vivide di persone ed eventi,
risveglia il desiderio di continuare a donarsi com-
pletamente a Dio mediante l’educazione giovanile.
L’evento del 60° è un incoraggiamento a rinnovare
la propria vocazione nella gioia, vivendo il carisma
in profondità. “A te le affido”: ha indicato a Maria
Mazzarello il cuore della missione educativa ed
oggi continua con le suore che camminano nella fede
e nella speranza con e per i giovani, specialmente con i
più poveri”, come si deduce dalle seguenti testimo-
nianze, di cui alcune firmate altre anonime.
“Quando vengo dalle suore mi sento amata ed ap-
prezzata, si prendono sempre cura di me, mi ascol-
tano e mi aiutano a superare le difficoltà che vivo.
Mi hanno aiutato ad avere una visione più profonda
della vita e mi hanno insegnato ad essere una per-
sona utile per la società” (Bao).
Con il progetto “Speranza”, il quale è stato portato
avanti anche durante il tempo della pandemia, le
suore ci hanno invitate ad impegnarci in opere di
carità. Con loro abbiamo visitato i poveri e con-
segnato pacchi alimentari. Nel mio cuore resterà
sempre l’immagine di noi sorridenti, entusiasti,
audaci, oltre ogni fatica; abbiamo cercato di donare
gioia, felicità e speranza, ciò che sento ricordando
l’esperienza” (Tép).
“Ciò che di più prezioso voglio regalare alle suore
è la gratitudine. Grazie per gli insegnamenti che,
donati con il cuore, aiutano i giovani a diventare
persone umane e cristiane” (Thoa∙i).
“Le attività apostoliche che le suore ci propongo-
no ci aiutano a formarci gradualmente crescendo
nella capacità di servire, di donarci gratuitamente
sentendo che così la nostra vita ha un significato”.
“Durante i miei anni trascorsi nel pensionato uni-
versitario delle suore ho imparato i valori della
libertà e della pace. Ho compreso che sono libera
quando sono me stessa, e l’ho imparato perché le
Figlie di Maria Ausiliatrice mi hanno accolta così
come ero, sia con i miei pregi sia con i miei limiti,
mi hanno corretta con la tipica amorevolezza sale-
siana”.
“Avevo vissuto alcune esperienze negative, in segui-
to ho incontrato le suore; la loro presenza ed il loro
aiuto mi hanno resa più forte, in grado di superare
le difficoltà. Ho scoperto in me sentimenti positivi
e belli sui quali investire la mia vita”.
Le Figlie di Maria Ausiliatrice e i giovani che han-
no fatto memoria della gratitudine hanno regalato
pagine tratte dal diario interiore che custodiscono
in sé, insegnando così che saper ringraziare rende
in grado di superare il passato, di aprirsi con spe-
ranza e gioia al futuro.
In risposta
alle necessità
della società, le
Figlie di Maria
Ausiliatrice
aprono i centri
professionali,
l’orientamento
al lavoro,
i pensionati
universitari
e gli internati
per ragazze.
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LA NOSTRA STORIA
Francesco Motto
Una firma di successo…
di 170 anni fa
Nel gennaio 1958, in un’Europa che si sta-
va sollevando dalle macerie della Secon-
da guerra mondiale ed in un’Italia che si
apprestava a vivere il boom economico,
papa Pio XII proclamava don Bosco “patrono degli
apprendisti”. Il perché era evidente. Nel corso dei
70 anni che erano passati dalla morte del santo
(1888) in tutto il mondo le scuole salesiane profes-
sionali (o di “arti e mestieri”) avevano fornito alla
società migliaia di cittadini in
grado non solo di potersi one-
stamente procurare un reddito
per vivere, ma anche di svol-
gere un’attività o un servizio
utile alla collettività e al pro-
gresso civile del Paese.
I primi veri
contratti di lavoro
della storia firmati
da don Bosco.
Nel 1958, il Papa
proclamava don Bosco
patrono degli apprendisti”.
Il perché era ed è evidente.
Cinquant’anni prima della proclamazione papale, in
pieno conflitto mondiale (1917) il ministro italiano
dell’Industria e del Commercio così scriveva al Con-
sigliere Generale per le Scuole professionali salesiane
don Pietro Ricaldone: “Mi affretto ad inviarle vive
parole di compiacimento per l’opera che esse svolgono da
lunghi anni a vantaggio del popolo. Anche le pubblica-
zioni, di indole didattica, in uso presso le scuole stesse at-
testano nel gran senso di praticità che anima i dirigenti la
benemerita associazione e come essi realmente intendano
la funzione e gli scopi dell’insegnamento professionale”.
Cinquant’anni dopo l’intervento papale i corsi di
formazione professionale tenuti in Italia dai sale-
siani accoglievano complessivamente circa 20 mila
allievi, segno evidente della capacità di tali opere
di rispondere alle esigenze di una particolare fascia
giovanile dell’epoca.
Oggi, 2022, per limitarci all’esempio delle “Opere
Sociali Don Bosco” di Sesto San Giovanni (mi),
una percentuale altissima di giovani che lasciano la
casa salesiana trova il lavoro adeguato alla propria
professionalità in tempi rapidissimi: “se il tasso di
occupazione degli istituti tecnici vola al 98 per cen-
to, quello generale si attesta comunque al 72,2 per
cento dei diplomati”. In un’Italia affetta da gravis-
sima disoccupazione giovanile, il dato è significati-
vo, al di là di ovvie considerazioni geografiche sul
mercato del lavoro nel “bel Paese”.
Ma tutto cominciò con una firma posta da don Bo-
sco su un semplice foglio di carta oltre un secolo e
mezzo fa...
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La situazione nel Piemonte
preunitario
Nel dicembre 1845 si aprì la prima scuola serale di
Torino affidata ai Fratelli delle Scuole Cristiane. Si
invitarono parenti, capi stabilimenti e di Industria,
padroni di bottega ad “agevolare ai loro figliuoli,
garzoni e apprendisti i mezzi di giovarsi del van-
taggio di questa benefica istruzione”.
Nel 1847 gli stessi Fratelli delle Scuole Cristiane
aprirono la scuola festiva per operai e la scuola pro-
fessionale agraria con l’appoggio governativo. Ad
opera di aristocratici si avviarono pure benemeri-
te attività filantropiche fondate sul doppio binario
dell’alfabetizzazione e dell’avviamento al lavoro, Si
mosse anche lo Stato con la fondazione dei collegi-
convitti nazionali di Torino, Genova e Nizza, con
corsi speciali di tre o cinque anni, frequentati da
giovani della borghesia che non intendevano atten-
dere agli studi classici.
Ma tutto ciò era un granello di sabbia in confron-
to delle necessità di una città che cresceva al ritmo
medio di 10 mila persone all’anno, quasi tutte ve-
nute ad allargare le frange deboli della popolazione.
no contenti i “datori di lavoro” che avevano garzoni
dell’oratorio obbedienti e rispettosi.
C’era però un ma: “In quei laboratori di Torino – scri-
veva un giovane accolto da don Bosco a Valdocco e
poi fattosi salesiano – se ne sentivano di tutti i colori.
Mi ricordo quante volte ho dovuto fuggire dal labora-
torio per non sentire dei discorsi osceni. Io avevo solo
14 anni e i garzoni erano già uomini fatti. Due era-
no veramente perfidi. Non avevano nessun pudore nel
parlare male della religione e costumi”.
Le scuole
professionali
salesiane
sono
riconosciute
e stimate
in tutto il
mondo.
I primi “artigiani esterni”
di Valdocco
Chi erano i ragazzi che negli anni 1846-1850 alla
domenica frequentavano l’oratorio di don Bosco?
Chi erano i primi convittori di Valdocco? Erano
per lo più fanciulli immigrati, muratori, scalpelli-
ni, spazzacamini, selciatori sfiancati dal lavoro già
a otto nove anni. Molti abbandonati dalla famiglia,
alcuni erano addetti a lavori stagionali e vagabondi
per il resto dell’anno, altri vivevano alla giornata
con lavori precari e pericolosi.
Don Bosco lungo la settimana andava a visitarli sui
cantieri, negli opifici, nelle botteghe, dove poteva
osservare le loro condizioni di lavoro ed eventual-
mente intervenire per migliorarle. Erano contenti
i giovani “difesi e protetti” da don Bosco; era con-
tento lo stesso don Bosco, cui interessava tanto la
felicità dei giovani quanto la loro vita cristiana; era-
Un “contratto di apprendistato”
in carta semplice
Don Bosco non stette con le mani in mano e avviò
quella che oggi si potrebbe definire un’attività sin-
dacale di formazione, collocamento e assistenza dei
minori: stipulò veri e propri “contratti di lavoro” o,
come si diceva all’epoca, di “locazioni d’opera”.
L’Archivio Salesiano Centrale conserva una anti-
chissima “convenzione”, redatta su carta semplice,
datata “novembre 1851” e sottoscritta da cinque
persone: un datore di lavoro, un apprendista, un
garante del giovane, don Bosco e un suo amico, il
teologo G.B. Vola. Non sarà forse in assoluto il pri-
mo “contratto di apprendistato” della storia d’Italia
e del Piemonte, ma di certo può essere considerato
un vero antesignano di un progetto socio-educativo
finalizzato alla formazione, tutela e all’occupazio-
ne dei giovani lavoratori. Non va dimenticato che
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LA NOSTRA STORIA
Valorizzare
l’apprendi­
stato è
un’opportu­
nità che
permetterà ai
giovani inseriti
nei percorsi
formativi di
sperimentarsi
nel mondo
del lavoro e
alle imprese
di conoscere
questi ragazzi.
in Italia il sindacato incominciò a muovere i primi
passi per il diritto all’esistenza e al riconoscimen-
to solo anni dopo, a seguito del primo Congresso
Operaio nel 1853. Ecco in sintesi i diritti e i doveri
di ciascun firmatario dell’importante documento
di don Bosco (i corsivi sono nostri).
Il vetraio Carlo Aimino si obbligava ad insegna-
re al giovane Giuseppe Bordone la sua arte per lo
spazio di tre anni, durante i quali gli avrebbe dato
“le necessarie istruzioni e le migliori regole riguar-
danti l’arte sua ed insieme gli opportuni avvisi rela-
tivi alla sua buona condotta, correggerlo, nel caso di
qualche mancamento, con parole e non altrimenti”.
Si obbligava pure di non occuparlo in lavori estranei
ad essa o che eccedessero le sue forze. Inoltre avrebbe
lasciato l’apprendista “per intero liberi tutti i giorni
festivi dell’anno” perché potesse frequentare l’ora-
torio di Valdocco. In caso di malattia o di legitti-
ma assenza da lavoro per oltre 15 giorni, avrebbe
potuto prolungare di altrettanti giorni il lavoro
dell’apprendista a scadenza del contratto. La paga
shutterstock.com
pattuita piuttosto alta (una lira al giorno, non in-
feriore a quella media di un operaio) doveva essere
aumentata del 50% nel secondo anno, e del 100% nel
terzo anno. Le ferie (o vacanze) erano di 15 giorni. Il
vetrario inoltre si obbligava mensilmente a valutare
per iscritto la condotta del giovane. Come si vede,
venivano garantiti al giovane l’adeguata formazio-
ne al lavoro, il riposo settimanale, le ferie estive, il
progressivo stipendio, il rispetto della sua persona
(certo da educare, ma nel rispetto della sua dignità).
Agli obblighi del datore di lavoro corrispondevano
quelli dell’apprendista: si obbligava a prestare du-
rante il tempo stabilito il suo servizio al padrone
“con prontezza, assiduità ed attenzione; di essere
docile, rispettoso ed ubbidire al medesimo”. An-
che nel caso fosse stato allontanato dall’Oratorio
– e dunque cessassero i rapporti fra il direttore e
il datore di lavoro – questi era tenuto a osservare
il contratto e a “compiere ad ogni suo dovere verso
del mastro fino al termine convenuto”. Se ne faceva
garante l’orefice Vittorio Ritner, che avrebbe anche
provveduto ad indennizzare il datore di lavoro per
eventuali danni dovuti ad incuria dell’apprendista.
Infine il direttore dell’Oratorio prometteva di pre-
stare la sua assistenza per la buona condotta dell’ap-
prendista e di accogliere con premura qualsiasi la-
gnanza del datore di lavoro.
Don Bosco poteva essere contento di tale contrat-
tazione multilaterale. Si trattava di norme in deciso
contrasto con la prassi dell’epoca in cui il rispetto
dei diritti del lavoratore e della tutela dei fanciulli
non erano ancora stabiliti per legge, ma lasciati alla
coscienza dei datori di lavoro. La durata limitata
dell’apprendistato – diversa secondo la difficoltà
del lavoro da apprendere – proteggeva il ragazzo
dal rischio dello sfruttamento. Il corrispettivo per
il lavoro svolto era dignitoso; non erano previste,
diversamente da altri casi, verifiche particolari di
rendimento e competenze e neppure sanzioni di-
sciplinari; era esclusa qualunque violenza fisica; era
garantita la tutela della salute fisica e morale del
giovane apprendista.
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Un contratto “formale”:
su carta bollata!
Tre mesi dopo, l’8 febbraio 1852 nello stesso Ora-
torio di Valdocco si redigeva un altro “contratto di
apprendistato”, simile al precedente, ma vergato in
4 pagine su carta da bollo. Questa volta si trattava
di un apprendista falegname, Giuseppe Odasso,
assunto per due anni dal Giuseppe Bertolino che si
impegnava ad insegnargli il mestiere, a non fargli
eseguire lavori estranei alla professione, a correg-
gerlo solo a parole, nel pieno rispetto della salute,
età, capacità e doveri verso l’Oratorio, ad aumen-
targli progressivamente lo stipendio giornaliero
pattuito (40 centesimi). Garanti erano don Bosco e
il padre del giovane con una fidejussione in caso di
danni non dovuti a un semplice effetto di acciden-
talità o per conseguenza d’imperizia dell’arte. In
caso di allontanamento dall’Oratorio, il contratto
rimaneva in vigore per gli altri tre contraenti.
Anche in questo caso si era di fronte ad un’esperien-
za lavorativa vera e propria, protetta, con tanto di
adulto-tutor, che però costituiva anche una scuola di
ordine, disciplina, impegno e che coinvolgeva una rete
sociale di alleanze: l’apprendista, il datore di lavoro-
insegnante, il papà del giovane, l’educatore don Bo-
sco. Convenzioni simili don Bosco le stipulò anche
negli anni seguenti.
Com’è scontato non gli mancarono contrarietà, dif-
ficoltà, dispiaceri: come difendere i fanciulli da pa-
droni troppo esigenti? Come salvaguardare i giovani
apprendisti dai nefasti influssi di maestranze, adulti,
colleghi adusi ad un linguaggio poco rispettoso della
sensibilità dei minori, e, dati i tempi, sovente ostili
alla Chiesa e alle pratiche religiose? Come assicura-
re la serietà di lavoro a ragazzi per lo più di strada,
spesso orfani o lontani da casa? Non era troppo poco
il tempo a loro disposizione per l’importante crescita
culturale, l’indispensabile socializzazione, la neces-
saria formazione cristiana? Non era troppo ristretto
il tempo e ridotto lo spazio che don Bosco aveva a
disposizione per accompagnare i suoi giovani a di-
ventare “buon cristiani e onesti cittadini”?
shutterstock.com
L’alleanza scuola-lavoro
Fece allora un altro passo avanti ed aprì in casa pro-
pria piccoli laboratori artigianali di sartoria e cal-
zoleria (1853), di legatoria (1854) di falegnameria
(1856), di fabbro ferraio e stamperia (1862). Erano
gli umilissimi prodromi di centinaia di future scuo-
le professionali vere e proprie, a norma delle leggi
dei singoli Paesi; erano la minuscola avanguardia
di istituti che 170 anni dopo raccolgono non meno
di 200 mila allievi, distribuiti nei vari percorsi di
formazione, cui andrebbero aggiunti altri 27 mila
con percorsi non ufficiali, duttili, studiati per le va-
rie congiunture. Fior di studi e ricerche, cui si può
facilmente ricorrere, ne documentano i processi
storici e le prospettive future nei singoli Paesi.
La sinergia scuola-lavoro, il binomio formazione-
lavoro, vale a dire l’accompagnare i giovani nel
mondo del lavoro con una sorta di accoglienza
educativa, formativa, teorica e pratica ben struttu-
rata è l’obiettivo di tali scuole e non può che essere
apprezzata da quanti (autorità, istituzioni, singoli)
hanno sinceramente a cuore il bene della gioventù
di oggi e dunque della società di domani.
Per dirlo in breve, don Bosco, ovviamente updated
(aggiornato) è sempre attuale.
Sarà dalla
sinergia tra
scuola-azienda
e territorio che
nei prossimi
anni vedremo
crescere
scuole di
eccellenza che
permetteranno
ai giovani di
transitare nel
mondo adulto
e del lavoro con
le opportune
competenze
richieste.
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3.10 Page 30

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I NOSTRI EROI
Teresio Bosco
Beata Laura Vicuña
II dono d’amore di una piccola coraggiosa ragazza
La sorella testimoniò:
«Io ero piccola e non capivo...
Ho poi saputo dalla mamma
che allestancia mia sorella passò
momenti difficili per la sua virtù».
Il ritratto di
Laura Vicuña,
opera di
Edoardo La
Francesca,
ricavato
dall’unica
fotografia
esistente.
A lla base della vicenda gentile e doloro-
sa di Laurita, una ragazzina cilena esi-
le e giovanissima, non c’è un racconto
leggendario intessuto da più persone. Ci
sono 653 grosse pagine di testimonianze giurate
e di documenti studiati da specialisti: una ricerca
durata 50 anni.
Tra i testimoni che hanno deposto giurando di
dire «tutta la verità e soltanto la verità» ci sono la
sorella, Giulia Amanda Vicuña, e don Augusto
Crestanello, confessore di Laura per quattro anni.
Il papà Giuseppe Domenico era militare di carriera
e di famiglia nobile a Santiago, capitale del Cile.
Ma era guardato con sospetto dai fratelli perché
aveva sposato «una sarta», Mercede Pino.
Nel 1897 (Laura aveva 8 anni, Giulia Amanda 3)
il papà morì. La mamma si trovò di colpo vedova,
con due bimbe da mantenere e priva di ogni mezzo
di sussistenza. Riprese a fare la sarta, cercando
lavoro di casa in casa, ma dopo due anni si ritrovò
stanca e sfiduciata.
Temuco è ai piedi delle Ande e tante famiglie
povere, giunte al limite di ogni risorsa, formavano
una carovana e tentavano l’emigrazione al di là del-
le montagne, in Argentina. Ad una di queste caro-
vane, nell’estate australe del 1899, si unì Mercede
Pino, portando con sé le due piccole. Si fermò a Las
Lajas, oltre la frontiera.
Ma la soluzione dei problemi, sovente, non è «al di
là delle montagne». Dopo pochi mesi quella donna
ancor giovane e distinta, che desiderava poter lavo-
rare onestamente, si trovò nuovamente sola, senza
appoggio, senza lavoro. Il testimone Lopez Urrutia
afferma: «Manuél Mora, tornando dal carcere di
Chos-Malàl dov’era stato rinchiuso, conobbe Mer-
cede Pino e la portò all’estancia di Quilquilhuè».
Manuél, in quella solitaria regione andina, posse-
deva due fattorie, estancias, dove allevava bovini con
l’aiuto di lavoranti e di famiglie che dipendevano
totalmente da lui. Era un tipico gaucho argentino,
gagliardo e spavaldo, sempre a cavallo o ad attaccar
briga. In quel momento doveva avere quarant’anni,
e se stava uscendo da una prigione non era per nul-
la. Lo chiamavano gaucho malo, allevatore cattivo,
perché aveva carattere superbo e passava da modi
gentili a comportamenti brutali e crudeli. Si com-
portava come un rozzo signorotto feudale.
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4 Pages 31-40

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4.1 Page 31

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Cibo abbondante e umiliazione
Un missionario che lavorò a lungo da quelle parti,
don Zaccaria Genghini, attestò: «La signora Pino,
trovandosi sola e con due bambine da mantenere,
accettò di convivere con Manuél Mora, come fan-
no in identiche circostanze molte donne in queste
terre. Qui nessuno se ne meraviglia».
Nella vasta estancia Laurita e Giulia Amanda co-
nobbero per la prima volta il cibo abbondante, i bei
vestiti, e la signora Pino accettò l’umiliazione di es-
sere la donna di un uomo che non la sposò e che a
tratti diventava bestiale.
Venti chilometri lontano dalla fattoria c’era un pae­se,
Junin de los Andes (300 abitanti, 780 metri sul livel-
lo del mare). Le suore Figlie di Maria Ausiliatrice
vi avevano aperto da un anno una missione-scuola
per le ragazzine dei dintorni. Alla porta della scuola,
il 21 gennaio 1900, si presentò Mercede Pino per
iscrivervi come interne le due figlie di 9 e 6 anni.
Prima di arrivare alla missione, aveva sostato alla
locanda del paese. Carmen Ruiz, allora una ragazzi-
na, attestò: «Ricordo che un pomeriggio di gennaio
(1900) arrivò a Junin donna Mercede Pino con le fi-
glie Laura e Amanda. Venivano a cavallo e furono
accolte da mia madre. Donna Mercede dichiarò che
veniva in paese per la prima volta, e si rivolgeva a
noi su indicazione di Manuél Mora. Venivano infatti
dalla sua estancia». Nel registro delle iscrizioni alla
scuola è scritto alla data 21 gennaio 1900: «Giulia
Amanda di sei anni e Laura del Carmine Vicuña di
nove anni, cilene. Pagano 15 pesos mensili ciascuna».
Quella cifra sembra una cosa da poco, e invece (come
sovente capita con i poveri che non hanno niente)
fu il mezzo con cui Manuél Mora umiliò e torturò
una madre e due figlie, lui che 15 pesos li buttava su
qualunque tavolo di scommesse sui cavalli.
Don Crestanello, il confessore di Laura, attestò di
quei primi mesi: «Ben presto le suore si resero conto
delle virtù di Laurita. Il carattere tranquillo, i modi
semplici e modesti, l’affabilità e la dolcezza del
tratto, rivelarono la sua indole calma e innocente,
per cui fu subito amata e apprezzata».
Amica del cuore di Laura divenne Mercedes Vera,
chiamata affettuosamente Mercedita, figlia di una
buona e ricca famiglia di Junin. Sua sorella Ma-
ria, il 25 maggio di quell’anno, indossò l’abito delle
aspiranti fma, e poi divenne suora. Anche Merce-
dita aveva quel desiderio, e si confidava sovente con
Laurita, che a sua volta si confidava con lei.
«Laurita ebbe uno svenimento»
Ogni mese Mercede Pino veniva a trovare le figlie
e a pagare la retta. Copriva di carezze e di coccole
la piccola Amanda, com’è naturale. Laura la sentiva
un po’ lontana, e ci pativa. Le faceva domande sulla
vita alla estancia, ma le risposte erano sempre vaghe
e generiche. Con l’intelligenza vivace dei suoi nove
anni, aspettava che la mamma le desse la notizia
del suo prossimo matrimonio con Manuél Mora.
Ma la notizia non arrivò mai. Suor Rosa scrisse:
«La prima volta che a scuola di catechismo spie-
gai il Sacramento del Matrimonio, dissi che erano
in colpa grave coloro che vivevano insieme senza
essere uniti dal sacramento della Chiesa. A quelle
parole, Laurita ebbe uno svenimento. A quel tempo
– continua quasi a giustificarsi suor Rosa – poche
Il monumento
di Laurita a
Junin de los
Andes.
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I NOSTRI EROI
Quell’unica
fotografia
in cui si vede
la piccola
grande beata.
famiglie in quella zona erano costituite cristiana-
mente, e occorreva istruire le fanciulle sui doveri
fondamentali della vita cristiana».
Il 1° gennaio 1901 ci fu la festa della premiazione,
e subito dopo cominciarono le vacanze. I mandria-
ni e le loro famiglie accolsero con allegria le due
ragazzine. Laura e Amanda poterono giocare e
rotolarsi sull’erba con altri bambini. Una sola cosa
turbò profondamente Laura. Quando la mamma la
vide per la prima volta pregare insieme alla sorella,
disse un po’ impacciata: «Potete pregare quando
volete. Ma non fatevi vedere dal signor Mora. Si
arrabbierebbe». Così attestò sotto giuramento il
missionario don Luigi Pedemonte, che ebbe le con-
fidenze delle compagne di Laura. Attestò pure che
la signora Mercede cercava pretesti per non pregare
insieme alle figlie. E questo turbò ancora più pro-
fondamente Laura.
«Dammi una vita di amore,
mortificazione, sacrificio»
Nel secondo anno di scuola, poiché aveva 10 anni,
Laurita potè fare la sua prima Comunione. La rice-
vette il 2 giugno 1901. Sua madre era presente, ma
non si accostò ai Sacramenti. Quando suor Rosa le
chiese se in quel primo incontro con Gesù si era ri-
cordata di pregare per lei, Laura le rispose: «Non ho
dimenticato nessuno». Nei giorni di preparazione,
aveva scritto tre «propositi», che si conservano nel-
la sua calligrafia curva ed educata: «Primo: O mio
Dio, voglio amarti e servirti per tutta la vita; perciò
ti dono l’anima, il cuore e tutto il mio essere. Secondo:
Voglio morire piuttosto che offenderti con il peccato; per-
ciò intendo mortificarmi in tutto quello che mi potrebbe
allontanare da te. Terzo: Propongo di fare quanto so e
posso perché tu sia conosciuto e amato; e per riparare le
offese che ricevi ogni giorno dagli uomini, specialmente
dalle persone della mia famiglia. Mio Dio, dammi una
vita di amore, mortificazione, sacrificio».
L’8 dicembre 1901, festa della Madonna Imma-
colata, mentre il secondo anno di scuola stava per
terminare, Laurita fu accettata tra le Figlie di Ma-
ria, un gruppo che radunava le alunne migliori.
La sorellina Amanda testimoniò: «II giorno in cui
ricevette il nastro azzurro e la medaglia di Figlia di
Maria fu tra i più felici per lei».
Il 2 gennaio le due sorelle tornarono alla estancia
per le seconde vacanze scolastiche. Doveva essere
un tempo felice, come le vacanze dell’anno prece-
dente. Invece furono mesi difficili e dolorosi per
Laura. Manuél Mora doveva essere un individuo
schifoso, se si incapricciò di una bambina che non
aveva ancora compiuto 11 anni.
Claudina Martinez, che ospitò e ricevette le confi-
denze di Mercede Pino dopo la morte di Laura, ha
testimoniato: «In una circostanza, il Mora cacciò
fuori di casa la signora Mercede, e pretese di re-
star solo con la ragazza. Questa però gli resistette
e riuscì a liberarsi. La stessa madre raccontava il
fatto con le lacrime agli occhi, assicurando di aver
osservato dalla finestra la scena brutale». La stessa
testimone narra di una festa per la marcatura de-
gli animali e del ballo che seguì in una grande ba-
racca. Laura non volle prendervi parte, e Manuél
(probabilmente ubriaco) la cacciò fuori al freddo, e
poi frustò la madre. Un’altra testimone, Giuseppina
Ferré, affermò: «Mora faceva soffrire l’incredibile a
Laura: le diceva insolenze e usava con lei maniere
sgarbate».
Nei mesi che seguono, Laura diventa una ragazza
seria, fin troppo seria per la sua età. La sorellina
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4.3 Page 33

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ricorda: «Faceva sacrifici. Mi invitava spesso a pre-
gare per la mamma». E don Crestanello: «La situa-
zione della madre le amareggiava la felicità di sen-
tirsi nella casa della Madonna. Laura soffriva nel
segreto del cuore... Poi un giorno decise di offrire la
vita, e accettare volentieri la morte, in cambio della
salvezza della mamma. Mi pregò anzi di benedire
questo suo ardente desiderio. Io esitai a lungo».
Le vacanze scolastiche, all’inizio del 1903, Lau-
ra le passò con le suore della sua scuola. Lunghe
passeggiate nell’aria frizzante, sotto il sole caldo,
la fecero rifiorire dalle fatiche dell’anno di scuola.
Mancava il cibo abbondante, ma la serenità era
totale. La mamma viene a trovarla in settembre,
mentre arriva la prima aria tiepida della primave-
ra andina. Decide di portarla per alcune settimane
all’estancia. Laura non vorrebbe, poi alle insistenze
della madre dice: «Se Gesù vuole questo da me, sia
fatta la sua volontà».
Ma nella fattoria non c’è nessuno che possa curare
Laura, mentre a Junin c’è almeno un farmacista.
La madre ve la riporta ai primi di novembre. Ha
portato via dall’estancia anche Amanda, decisa a
non tornarvi più. Affida Amanda alle suore; lei e
Laura sono ospitate in una poverissima casetta da
Felicinda Lagos.
essa ebbe la forza di dire alla madre il suo segreto:
«Da tempo ho offerto la mia vita per te... Mi pro-
metti?». Erano presenti Mercedita e don Genghini.
La mamma la fissò con gli occhi dilatati, le strinse
le mani e disse: «Te lo giuro».
Laura morì alle sei pomeridiane di quel 22 gennaio
1904. Il giorno dopo Mercede Pino si confessava da
don Genghini e faceva la Comunione accanto alla
bara di sua figlia.
Nel paese di Junin, dove Laura trascorse l’ulti-
ma parte della sua breve vita, nessuno possedeva
una macchina fotografica. E così di lei non esiste
nessuna fotografia. Guidato dalle parole della
sorella, un pittore ha tracciato un viso fiorente: il
volto «ufficiale» di Laura. Quello vero, che doveva
portare in fondo agli occhi un velo di sofferenza per
il male del mondo, lo conosce soltanto Dio.
La cappella
di Maria
Ausiliatrice
ai piedi del
vulcano
Lanin e sulle
rive del lago
Paimún.
Sulla strada, la picchiò a sangue
Nel gennaio del 1904 la salute di Laura peggiora
ancora. La febbre non la lascia più né di giorno né
di notte. A metà del mese arriva a cavallo Manuél
Mora. Vuole riportare Mercede alla fattoria. Da-
vanti al suo rifiuto, decide di passare la notte nella
casa, con lei. Laura, rabbrividendo di febbre, si alza
e dice: «Se lui si ferma, io me ne vado dalle suo-
re». Esce sulla strada e s’incammina verso la scuola.
Manuél la rincorre, la getta a terra e la picchia a
sangue. Nella sua rabbia potrebbe ammazzarla, se
non arrivasse Felicinda Lagos, attirata dalle grida.
Manuél risalì sul suo cavallo e se ne andò. Laura fu
tra la vita e la morte per alcuni giorni. Nel pome-
riggio del 22 gennaio le fu portato il Viatico. Ed
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4.4 Page 34

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COME DON BOSCO
Pino Pellegrino
Le malattie dell’educazione 4
La sclerocardia
Non amare i figli è inimmaginabile! Eppure oggi, nelle famiglie
l’analfabetismo emotivo ci pare si diffonda sempre più.
La mancanza di tenerezza è ai minimi storici.
Quando parliamo di ‘durezza di cuore’ non siamo nel regno
della fantasia. La ‘sclerocardia’ abita anche in Italia!
L o psichiatra Paolo Crepet è molto chiaro:
“Dietro migliaia di luci accese nei condomi-
ni delle nostre città si nascondono solitudini,
rancori, latitanze affettive”. Non meno espli-
cito, Marcello Bernardi: “Viviamo in un mondo
sempre più povero di amore. Questo è il grande
rischio che vedo davanti ai nostri bambini!”. Anche
l’educatore Antonio Mazzi: “La crisi più profonda
oggi parte dalla mancanza di abbracci, di relazioni,
di amicizia, di tenerezza”.
Strategie
Il primo passo è manifestare caloroso
incoraggiamento ai figli.
Affinché la vostra famiglia sia ricca di calore e af-
fetto, occorre che creiate un ambiente favorevole a
questo proposito. Forse direte: «Lei non sa come sia
il mio coniuge», o: «Mio figlio non è esattamente
un perfetto esempio d’amore, affetto e devozione».
Sono certo che abbiate ragione. Cominciate dun-
que a compiere piccoli passi.
Compiere piccoli passi significa che, se avete venti
cose da esaminare con vostro figlio adolescente quan-
do torna a casa da scuola e molti aspetti da trattare
riguardano incombenze a cui vostro figlio avrebbe
dovuto pensare, ma non l’ha fatto, dovreste aspettare.
Quando incoraggiate i vostri figli e il vostro coniuge,
avete la possibilità unica di farli sentire speciali.
Per incoraggiare i vostri figli, dovrete anche pre-
sentare loro aspettative realiste. Molti bambini hanno
un’autostima molto ridotta. Si confrontano conti-
nuamente con gli altri e ritengono di uscire siste-
maticamente perdenti. Quando sono in questione
l’intelligenza, la bellezza e il denaro, la nostra so-
cietà non è tenera con questa generazione di giova-
ni. Se non stiamo attenti, noi genitori manifestere-
mo le stesse aspettative culturali non realiste che i
nostri figli sperimentano ogni giorno.
L’educazione basata sul caloroso incoraggiamento,
invece, fa sentire i figli amati e accolti, anche in un
contesto di disciplina.
Ogni bambino ha bisogno di qualcuno che pensi in
termini irrazionalmente positivi di lui». I bambini
che vivono in un ambiente ricco d’affetto, calore e
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4.5 Page 35

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incoraggiamento si sentono ascoltati e apprezzati;
hanno dunque la fiducia necessaria a uscire e af-
frontare la vita, perché sanno che i genitori credono
in loro e li apprezzano.
Applicate il “principio don Bosco”: non
importa che i figli siano amati, importa
che se ne accorgano!
È noto a tutti che vi sono parole che gelano i cuo-
ri, altre che li riscaldano; parole che schiacciano
e parole che innalzano: parole pallottole e parole
carezze. Ditemi se non sono vitamine psicologiche
allo stato puro, parole come queste, dette al figlio:
“Sei favoloso!”. “Siamo orgogliosi di te!”. “È bello aver-
ti come figlio!”? Queste sono parole terapeutiche.
Privare di esse il figlio, è disidratargli l'anima, è
devitalizzarlo. Non usiamole con il contagocce:
quelle sono parole benedette!
Forse non tutti sanno che gli studiosi stanno ancora
cercando una medicina più efficace delle parole di
seta!
La ‘sclerocardia’ si combatte con le coc-
cole.
I figli hanno bisogno di affetto e contatto fisico da
parte dei loro genitori. Se non ne ricevono, quando
cresceranno li cercheranno in altre sedi, presso per-
sone che potrebbero strumentalizzarli. Il contatto
fisico è un'importante forma di benedizione.
Alcuni anni fa era in circolazione un magnifico la-
voro intitolato “La terapia delle coccole”. L’autore, Piero
Balestro, provava che il contatto pelle a pelle ha effet-
ti prodigiosi: giova alla crescita, previene le malattie,
migliora l’umore, stabilizza le funzioni cardiache.
Una cosa è certa: cinque secondi di carezze
comunicano più salute che un’ora di parole! Con le
coccole mandiamo al figlio mille messaggi positivi.
Gli diciamo: “Ti amiamo. Siamo contenti che tu ci sia.
Tu ci importi. Sei prezioso!”. Non per nulla la parola
carezza’ deriva dal latino ‘carus’, nel senso di ‘caro’, e
di ‘prezioso’. La carezza è sempre una dichiarazione
di valore! Le coccole fanno così bene che alcuni psi-
cologi propagandano il ‘metodo della mamma canguro’.
Il contatto pelle a pelle tra il bambino e la madre
è terapeutico, giova alla crescita, fa passare la ‘bua’.
Così la scienza ha provato ciò che le mamme sapeva-
no da tempo: le coccole fanno passare la ‘bua!
Le coccole assicurano al bambino la fiducia di base
nella vita che secondo lo psicanalista statunitense
Erik Erikson è il pilastro fondamentale della per-
sonalità sana.
Un bambino privo di coccole, molto facilmente,
sarà un adulto apprensivo, ansioso, incerto, incapa-
ce di serenità e di sicurezza.
La confessione di una psicologa la dice lunga: “Si
attaccano al collo della bottiglia perché da piccoli non
hanno potuto attaccarsi al collo della madre!".
Finalmente, la ‘sclerocardia’ si combat-
te regalando gentilezze.
Il famosissimo pediatra americano Benjamin Spock
era solito ricordare alle mamme che “la cura amore-
vole data con gentilezza ai figli vale cento volte di più
di un pannolino messo alla perfezione”.
Regalare gentilezze, infatti, è uno stile di vita che
sta sulla sponda opposta della ‘durezza di cuore’: è
accompagnare il bambino a letto e non mandarlo;
è fargli una sorpresa; è preparargli la pietanza che
gli piace tanto; è partecipare alla recita scolastica di
fine anno, anche a costo di lasciare un impegno di
lavoro importante.
Siatene certi: per tutta la vita il figlio si ricorderà
che avete preferito lui ai vostri impegni!
Per tutta la vita si ricorderà d'aver avuto genitori
che con il loro alto voltaggio emotivo riscaldavano
la casa anche con i termosifoni spenti.
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4.6 Page 36

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LA LINEA D’OMBRA
Alessandra Mastrodonato
L’utilità
dell’inutile
Sono l’effimera bellezza di un
tramonto o il piacere disinteressato
che scaturisce dalla creazione
artistica a far nascere in noi il
desiderio della trascendenza e
ad offrirci spiragli di luce con cui
resistere alla barbarie del presente.
In un’epoca che tende a riconoscere un valore in-
trinseco solo a ciò che è monetizzabile, misura-
bile, quantificabile in termini di “utile”, risulta
sempre più difficile e quasi velleitario riuscire a
dare il giusto peso a quello che, in una prospetti-
Non è inutile
che tu mi voglia bene,
non è inutile
far felici le persone,
non è inutile
pensare di cambiare il mondo
e non riuscirci mai.
Ognuno ha il suo dolore
e qualche goccia di sole dentro sé...
Oggi piovono parole
e sono tutte qui per te!
Siamo stelle, siamo fiori,
siamo lacrime e canzoni;
siamo frasi da finire,
siamo attori, e quindi veri,
in un prato di illusioni.
va meramente strumentale ed efficientistica, viene
solitamente considerato “inutile”. La contemplazio-
ne della bellezza fine a se stessa, il diletto regalato
dall’arte e dalla poesia, i sentimenti gratuiti e di-
sinteressati, il tempo dedicato alla cura di sé e della
propria interiorità, i gesti di gentilezza dispensati
a chi ci sta accanto senza aspettarsi nulla in cam-
bio appaiono come vanità oziose e improduttive,
espressione di uno sterile divertissement che disto-
glie le nostre energie dal perseguimento di obiettivi
ben più tangibili e costruttivi.
A fare le spese di questa stringente logica utilita-
ristica, ma nel contempo a contribuire inavverti-
tamente alla sua riproduzione, sono soprattutto i
giovani adulti, figli prediletti della società del pro-
fitto e della performance e abituati, loro malgrado,
a calibrare le proprie scelte e a programmare il pro-
prio tempo sulla base di criteri che rispondono uni-
lateralmente ai dettami di una fredda razionalità
economica. Nella corsa affannosa verso il raggiun-
gimento di standard socialmente accettabili di be-
nessere e piena realizzazione di sé, non c’è spazio,
infatti, per coltivare interessi, relazioni, valori che
non abbiano un’immediata ricaduta pratica e che
appaghino bisogni diversi da quelli che improntano
l’agire dell’Homo œconomicus.
Eppure è proprio «la forza generatrice dell’inutile»
che, come scrive il filosofo Nuccio Ordine, ci salva
dalla «desertificazione dello spirito». Sono l’effimera
bellezza di un tramonto o il piacere disinteressato
che scaturisce dalla creazione artistica a far nascere
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4.7 Page 37

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in noi il desiderio della trascendenza e ad offrirci
spiragli di luce con cui resistere alla barbarie del
presente. Sono le giornate sottratte al frenetico
agitarsi quotidiano e condivise con le persone che
amiamo a restituire qualità e significato al nostro
tempo concitato. Sono l’amore e la cura messi ge-
nerosamente al servizio degli altri a dare dignità
al nostro essere umani e ad alimentare la speranza
nella possibilità di costruire un mondo migliore.
Lungi dall’essere tempo “perso” in quanto impro-
duttivo, il tempo vissuto all’insegna della gratui-
tà ci libera dalla schiavitù dell’utile, anzi ci aiuta
a distinguere tra i due significati possibili della
parola utile. Ci insegna a comprendere che anche
l’“inutile” può essere “utile”, sia pure in un senso
diverso da quello implicito nella logica efficienti-
stica che guida assai spesso il nostro agire sociale.
L’“utilità dell’inutile” consiste piuttosto nella sua
capacità di restituire valore a ciò che ci rende auten-
ticamente umani e di farci assaporare momenti di
genuina felicità, ridisegnando le nostre priorità esi-
stenziali e riposizionando il nostro sguardo su ciò
che talvolta, adombrato e inaridito dalla spasmodi-
Io so cosa mi perdo
se il mondo non avrà il tuo sguardo,
già so cosa mi perdo...
Non è inutile
pensare che tutto questo è inutile,
cadere e poi rialzarsi e combattere
per chi non ha più voce
e forse non ne ha avuta mai.
Ogni tempo ha il suo dolore,
ma la cura è sempre quella che tu sai:
se non vuoi chiamarlo amore,
non lo chiameremo mai...
Siamo passi, siamo strade,
siamo ombrelli sulla testa;
siamo scene da girare,
siamo in onda, siamo in fuga,
accordi di un'orchestra.
Io so cosa mi perdo
se il mondo non avrà il tuo sguardo,
già so cosa mi perdo
se al mondo mancherà il tuo sguardo...
(Luca Barbarossa, Non è inutile, 2020)
ca ricerca della produttività e dall’insipienza di una
vita scandita da obiettivi di performance, rischia di
passare del tutto inosservato.
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4.8 Page 38

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LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
Francesco Motto
Giovanni Massaglia,
l’amico per la pelle Particolari inediti
di Domenico Savio di un allievo
di Valdocco.
San
Domenico
Savio aveva
il dono
dell’amicizia.
Scriveva don Bosco nella prefazione alla
“Vita del giovinetto Domenico Savio, allie-
vo dell’Oratorio di San Francesco di Sales
(1859): “Taluno di voi dimanderà perché io
abbia scritta la vita di Savio Domenico e non quella di
altri giovani, che vissero tra noi con fama di specchiata
virtù. È vero, miei cari, la Divina Provvidenza si de-
gnò di mandarci parecchi modelli di virtù; tali furono
Fascio Gabriele, Rua Luigi, Gavio Camillo, Massa-
glia Giovanni ed altri: … Per altro, se Dio mi darà
sanità e grazia, ho in animo di raccogliere le azioni di
questi vostri compagni, per essere in grado di appagare
i vostri ed i miei desideri col darvele a leggere e ad imi-
tare in quello che è compatibile col vostro stato”.
Don Bosco non riuscì a realizzare il suo deside-
rio e tutto restò limitato ai due capitoletti già editi
sull’amicizia di Domenico Savio con i giovani Ga-
vio e Massaglia. Circa quest’ultimo nella stessa vita
si leggeva: “Se volessi scrivere i bei tratti di virtù del
giovane Massaglia, dovrei ripetere in gran parte le cose
dette del Savio, di cui fu fedele seguace finché visse”.
Poche le novità introdotte nelle famose “Memorie
Biografiche” di don Lemoyne, nella riedizione e
studio nel 1943 dallo storico don Alberto Caviglia
ed anche nella Nuova vita di Domenico Savio di Mi-
chele Molineris (1974).
Novità e soprattutto completamenti invece emer-
gono ora dalle ricerche di Ornella Ceruti che all’al-
lievo di Valdocco ha dedicato un bel volumetto illu-
strato, promanoscritto, dal titolo Chierico Massaglia
Giovanni di Marmorito. Famiglia e luoghi di origine
(2021).
Con poche parole e molte immagini in bianco e
nero e a colori (foto, disegni) la ricercatrice rico-
struisce i paesaggi interessati del Monferrato, le
trasformazioni dei caseggiati abitati dai Massaglia
fino al momento attuale, l’intero albero genealo-
gico del chierico, nonché un profilo biografico più
completo dello stesso. La ricerca, seria, benché di
indole metodologicamente divulgativa, si basa su
fonti di prima mano: i documenti e le memorie dei
discendenti della famiglia Massaglia e soprattutto
la documentazione conservata in numerosi archivi:
salesiani, parrocchiali, diocesani, statali, comunali,
notarili; il tutto indicato e numerato a fine volume.
Molte le informazioni note, ma non poche le novità.
38
APRILE 2022

4.9 Page 39

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Le tante coincidenze
Anzitutto possiamo ricordare le numerose coin-
cidenze geografiche e biografiche dei due giovani
Giovanni e Domenico, amici per la pelle, benché
di età diverse. In effetti erano nati in paesi poco
distanti l’uno dall’altro (Mondonio e Marmorito)
ed erano stati contemporaneamente allievi di Val-
docco (stesso anno scolastico 1854/55 e nella pri-
ma metà del successivo). Aspiranti entrambi alla
vita sacerdotale (il più grande, Massaglia già con
la veste ricevuta da don Bosco ai Becchi, proprio
dove don Bosco aveva incontrato Domenico Savio
la prima volta), a Valdocco erano modelli di virtù
e si stimolavano a vicenda a percorrere la via del-
la santità nel compimento del proprio dovere. Soci
della stessa Compagnia dell’Immacolata, sono poi
morti entrambi giovanissimi (rispettivamente 18 e
14 anni), a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro e
per la stessa malattia: ciascuno a casa propria, ma
entrambi pochi mesi dopo aver lasciato l’Oratorio
al fine di recuperare la salute.
Novità
Agli inediti dati catastali e notarili delle proprietà
(con tanto di inventari dei beni anche minuti), si
aggiungono le fotografie e le riproduzioni in bianco
e nero e a colori di edifici e documenti cartacei che
si susseguono pagina dopo pagina, fino alle tabelle
finali. Risultano intriganti particolarmente le pa-
gine 118-124 circa lo scenario biografico: “Quello
che don Bosco non dice; Quello che dicono don Bosco e
la tradizione salesiana, quello che aggiungono i docu-
menti”.
Lasciando da parte quanto scritto da don Bosco, a
giudizio dell’autrice il biografo Bosco non ha dato
spazio né ha indicato con precisione il tipo di ma-
lattia (la contagiosa tubercolosi polmonare), di cui
furono vittime i due giovani dell’Oratorio, forse per
evitare un’immagine negativa dell’Oratorio. Invero
aveva fatto lo stesso nel 1843 nello scrivere la vita
del chierico Oblato di Maria, Giuseppe Burzio,
un caso molto simile, se non gemello, a quello del
Massaglia: due gio-
vani robusti e sani
deceduti della stessa
malattia.
Inoltre la lettura
attenta dell’atto di
morte ha consentito
all’autrice di pre-
cisare che il primo
testimone del de-
cesso del Massa-
glia è stato lo stesso
medico curante Mattia
Massaglia, che gli aveva
praticati gli insistiti ed
inutili salassi. Ma so-
prattutto è interessante
l’individuazione dei tre “arnesi di scuola” ritrova-
ti accanto al letto del giovane: un’antologia greca
firmata e datata con al suo interno dei petali di
rose, una Historia critica firmata, con la scritta (in
francese) “non tutti i mali vengono per nuocere”
contenente alcuni capelli, un doppio foglietto a
stampa dal titolo Eternità con tanto di riflessione
e preghiera sul tema. I libri sono intatti perché al
giovane era stato proibito di studiare; i fiori era-
no stati offerti in onore della Madonna nel mese
di maggio; la preghiera era quella per i momenti
finali della vita. A tutto ciò si dovrebbe aggiunge-
re il ritrovamento di qualche rametto di rosa con
spina, occultato sotto il lenzuolo per fare peniten-
za: cosa peraltro proibita da don Bosco allo stesso
Domenico Savio, così come tutte le altre penitenze
corporali.
Quasi certamente non si arriverà all’auspicato rico-
noscimento ufficiale della santità da altare del gio-
vane Massaia, come invece è avvenuto per l’ami-
co Savio. Ma di certo giustamente è stato inserito
nell’Enciclopedia del santi, beati e testimoni della fede
e noi oggi, per dirla con papa Francesco, possiamo
ritenerlo pure un santo della porta accanto, uno dei
tanti formati alla scuola di don Bosco.
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39

4.10 Page 40

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I NOSTRI SANTI
A cura di Pierluigi Cameroni  postulatore generale
 Coloro che ricevessero grazie o favori per intercessione
dei nostri beati, venerabili e servi di Dio, sono pregati
di segnalarlo a postulatore@sdb.org
 Per la pubblicazione non si tiene conto delle lettere
non firmate e senza recapito. Su richiesta si potrà
omettere l’indicazione del nome.
IL SANTO DEL MESE
In questo mese di aprile preghiamo per la Beatificazione
della serva di Dio Vera Grita (1923-1969) Laica,
Salesiana Cooperatrice.
Vera Grita, figlia di Amleto e di
Maria Anna Zacco della Pirre-
ra, nata a Roma il 28 gennaio
1923, era la secondogenita di
quattro sorelle. Visse e studiò
a Savona dove conseguì l’abi-
litazione magistrale. A 21 anni,
durante un’improvvisa incur-
sione aerea sulla città (1944),
venne travolta e calpestata dal-
la folla in fuga, riportando con-
seguenze gravi per il suo fisico
che da allora rimase segnato
per sempre dalla sofferenza.
Passò inosservata nella sua
breve vita terrena, insegnan-
do nelle scuole dell’entroterra
ligure (Rialto, Erli,
Alpicella, Deserto
di Varazze), dove si
guadagnò la stima
e l’affetto di tutti
per il suo carattere
buono e mite.
A Savona, nella par-
rocchia salesiana di
Maria Ausiliatrice,
partecipava alla
Mes­sa ed era assi-
dua al sacramento
della Penitenza.
Dal 1963 fu suo
confessore il sale-
siano don Giovanni
Bocchi. Salesiana
Cooperatrice dal
1967, realizzò la
sua chiamata nel
dono totale di sé al
Signore, che in modo straordi-
nario si donava a lei, nell’intimo
del suo cuore, con la “Voce”,
con la “Parola”, per comunicarle
l’Opera dei Tabernacoli Viventi.
Sottopose tutti gli scritti al di-
rettore spirituale, il salesiano
don Gabriello Zucconi, e custodì
nel silenzio del proprio cuore il
segreto di quella chiamata, gui-
data dal divino Maestro e dalla
Vergine Maria che l’accompa-
gnarono lungo la via della vita
nascosta, della spoliazione e
dell’annientamento di sé.
Sotto l’impulso della grazia
divina e accogliendo la me-
diazione delle guide spirituali,
Vera Grita rispose al dono di
Dio testimoniando nella sua
vita, segnata dalla fatica della
malattia, l’incontro con il Ri-
sorto e dedicandosi con eroica
generosità all’insegnamento
e all’educazione degli allievi,
sovvenendo alle necessità del-
la famiglia e testimoniando
una vita di evangelica povertà.
Centrata e salda nel Dio che
ama e sostiene, con grande
fermezza interiore fu resa ca-
pace di sopportare le prove e le
sofferenze della vita. Sulla base
di tale solidità interiore diede
testimonianza di un’esistenza
cristiana fatta di pazienza e co-
stanza nel bene.
Morì il 22 dicembre 1969, a 46
anni, in una cameretta dell’o-
spedale a Pietra Ligure dove
aveva trascorso gli ultimi sei
mesi di vita in un crescendo di
sofferenze accettate e vissute
in unione a Gesù Crocifisso.
“L’anima di Vera – scrisse don
Borra, Salesiano, suo primo
biografo – con i messaggi e
le lettere entra nella schiera
di quelle anime carismatiche
chiamate ad arricchire la Chie-
sa con fiamme di amore a Dio e
a Gesù Eucaristico per la dilata-
zione del Regno”.
Preghiera
O Trinità Beata,
ti adoro e ti ringrazio per averci donato Vera Grita,
portavoce dell’Opera dei Tabernacoli Viventi.
Ti prego di aiutarmi ad imitarla
nell’ascolto della tua Parola
e nell’amore vivo a Gesù Eucaristia e alla Vergine Maria
per essere come lei Tabernacolo vivente del tuo amore.
Sul suo esempio, fa’ che Gesù Eucaristia
sia in me vita che si offre al Padre
e cibo di Vita eterna che si dona a tutte le anime.
O Trinità Santissima, umilmente ti chiedo
di glorificare la tua Serva Vera Grita
e di concedermi per intercessione
della Vergine Maria Ausiliatrice,
e della sua fedele figlia Vera,
la grazia che ardentemente ti chiedo…
Per Cristo nostro Signore. Amen.
Ringraziano
Desidero rendere grazie e me-
rito alla venerabile Mamma
Margherita per una ulteriore
importante grazia ricevuta per
sua intercessione. La mia nipo-
tina ha superato molto bene un
controllo oculistico per il quale
eravamo molto in pensiero a
causa di alcune supposizioni di
alcuni pediatri.
Maria Ausilia Mastrandrea – Catania
CRONACA DELLA POSTULAZIONE
Il 9 novembre 2021 la S. Sede ha concesso il Nulla osta all’aper-
tura della Causa di martirio di Akash Bashir, Laico, Exallievo di
Don Bosco.
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APRILE 2022

5 Pages 41-50

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5.1 Page 41

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IL LORO RICORDO E` BENEDIZIONE
Ivo Coelho
Don Giuseppe (Joe)
Casti Tocco
Morto a Roma il 29 gennaio 2022, a 90 anni
Missionario in Goa portoghese e in India dal 1958, tornò in Italia
nel 2002. Sarà ricordato come formatore (fu maestro di novizi
in India) e successore di don Aurelio Maschio nella procura
missionaria di Mumbai. In questa ultima capacità era conosciuto
a migliaia di benefattori di don Bosco in Italia e altrove.
Joe è nato da Salvatore Casti e
Concetta Tocco a Borbona (Rie-
ti), Italia, il 28 settembre 1931.
La sua famiglia era originaria
della Sardegna. Suo fratello ge-
mello Francesco è anche lui un
salesiano dell’ispettoria ICC.
Fece gli studi teologici a Tori-
no, alla Crocetta (1954-1958).
È stato ordinato a Torino il 1°
gennaio 1958.
Subito dopo l’ordinazione, nel
1958, lo troviamo come cate-
chista e prefetto degli studi a
Panjim, nella Goa portoghese.
Nel 1965-1966 è stato vicepar-
roco a Valpoi, Goa, nel 1966-
1968 catechista a Yercaud –
Sud India.
Dal 1968 al 1974 è stato diret-
tore della casa di Panjim, Goa.
Dal 1973 al 1979 è stato vica-
rio ispettoriale della ispettoria
INB, nel 1973-1974 e di nuovo
nel 1976-1978. Fu direttore
dell’aspirantato di Lonavla dal
1975 al 1978. I ragazzi erano
innamorati del loro nuovo di-
rettore, reputato di essere un
“black belt” in judo.
Fu probabilmente a Lonavla
che Joe fece la conoscenza di
Tony De Mello, SJ, il cui Istitu-
to Sadhana era proprio dall’al-
tra parte del piccolo paesino,
dove si trova ancora. Fece un
lungo corso di formazione con
il grande maestro gesuita, e ne
divenne non solo discepolo ma
anche amico. Diceva che Tony
lo aveva liberato: non era più
don Giuseppe Casti, era sem-
plicemente Joe. Ma Joe era
davvero un uomo libero: pren-
deva da Tony ciò che voleva, ma
rimase sempre profondamente
cattolico e salesiano.
Dal 1978 al 1991 fu maestro dei
novizi a Nashik (INB). Sapeva ri-
spettare, “pazientare” e toccare i
cuori. I suoi novizi, quando veni-
vano a Roma, volevano sempre
salutarlo con affetto.
Nel 1991 Joe si è trasferito al­
la Casa Ispettoriale, Matunga,
Mumbai. Era direttore dal 1991
al 1996, con il compito di accom-
pagnare l’ormai anziano don
Aurelio Maschio, procuratore e
patriarca dell’ispettoria di Mum-
bai. Ha assicurato una transizio-
ne serena quando don Maschio
morì nel settembre 1996.
Dopo la morte di don Maschio,
Joe assunse l’incarico di procu-
ratore e rettore del Santuario
della Madonna di Don Bosco,
Matunga - Mumbai, nel 1996 e
mantenne questo incarico fino
al 2002. Durante questo pe-
riodo, sicuramente non facile
per lui, ha sofferto di un grave
ictus cerebrale che ebbe con-
seguenze sulla sua salute. Nel
2002 scelse di tornare nella
sua ispettoria d’Italia - Ligure
Toscana (ILT).
Don Giuseppe Casti era un
uomo buono. Era riuscito a rive-
stire di bontà tutto il suo modo
di essere e di fare. E alla bontà
don Casti aggiungeva un’alle-
gria tutta sua. Era famoso per le
sue storielle e le sue barzellette,
e aveva un suo stile nel raccon-
tarle, inimitabile. Non era una
fotocopia di nessuno. Era un
uomo profondamente salesiano
e profondamente libero e felice.
Don Savio Silveira, Ispettore
di Bombay, testimonia: «Don
Casti è stato uno dei fondatori
e grandi pilastri della nostra
Ispettoria. Fu il primo Vicario e
il primo Maestro dei Novizi del-
la nostra Ispettoria. Ha assistito
don Aurelio Maschio, il patriarca
della nostra Ispettoria nei suoi
ultimi anni, e poi è stato il suo
successore nel Santuario della
Madonna e della Procura di Don
Bosco. Era anche una delle gran-
di guide spirituali della nostra
ispettoria, che ha accompagnato
molti salesiani nel loro cammino
vocazionale. Ma soprattutto è
stato uno dei salesiani più ama-
ti dell’Ispettoria, un salesiano
gentile, mite, amorevole, gene-
roso e gioioso. Addio carissimo
don Giuseppe Casti. Rimarrai
sempre nei nostri cuori e nelle
nostre memorie».
Don Joe Casti sarà ricordato
come un grande salesiano. Era
sempre gentile e premuroso,
tutto ciò che un salesiano di
don Bosco dovrebbe essere.
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5.2 Page 42

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IL CRUCIVERBA
Roberto Desiderati
Scoprendo don Bosco
La soluzione nel prossimo numero.
L’ORATORIO, CHI SA COS’È?
In origine gli oratori erano luoghi di culto dove i fedeli si riuniva-
no a pregare e infatti la parola oratorio deriva appunto dal lati-
no orare, pregare. Il primo oratorio “moderno” fu istituito intorno al 1550 da XXX con l’intento
di creare una comunità di religiosi e di laici con le finalità della preghiera, della lettura della
Bibbia e dell’educazione dei giovani. Sulla scia di Filippo Neri, nacque l’idea di Giovanni Bosco.
Successivamente, ad inizio ’800, santa Maddalena di Canossa fondò le prime case (non anco-
ra chiamate oratori) per raccogliere le ragazze di strada di Verona, mettendo a disposizione
il suo palazzo e alcune case prese in affitto e istruendo loro alla religione e ad utili mestieri.
Nel 1831 nacque il primo Oratorio Canossiano a Venezia. Sulla scia di Filippo Neri, nacque l’i-
dea di don Bosco: nel 1841 incontrò alcuni giovani nella sacrestia della chiesa di San Francesco
d’Assisi a Torino per il primo di una serie di incontri di preghiera. La sua passione educativa per
i giovani lo portò ad avvicinare sempre più ragazzi, tra i quali Domenico Savio, e i primi incontri
non avevano un posto fisso. Solo nel giorno di Pasqua del 1846 l’oratorio si stabilì sotto una
tettoia con prato annesso di proprietà Pinardi a Valdocco. Da quel centro iniziale, l’oratorio è
diventato sempre più un luogo di formazione e di aggregazione, sia religiosa sia umana. Le
strutture si sono sviluppate, ingrandite e diffuse in tutta Italia. Nel 2013 la CEI ha redatto Il la-
Soluzione del numero precedente
boratorio dei talenti una nota pastorale che evidenzia il
valore e la missione degli oratori nell’educare alla “vita
buona” come insegna il Vangelo. Le attività svolte negli
oratori sono principalmente pastorali, come la cateche-
si dei bambini e dei ragazzi, ma si fa anche sport, teatro,
musica, mostre, attività benefiche e raccolte alimenta-
ri. Molti oratori posseggono una propria radio, pagine
web ed ospitano anche sedi di scout e guide.
DEFINIZIONI
ORIZZONTALI. 1. Fertilizzare un
terreno - 10. Cavallo poco lesto, ron-
zino - 16. Allestiscono i balletti - 17.
Campestre, agreste - 18. Provvede
all’approvigionamento alimentare dei
cittadini - 19. Cala al termine dello
spettacolo - 20. XXX - 24. Sfocia nel
mar Caspio il terzo fiume d’Europa
- 25. Per i tipografi è il “grassetto” -
26. Il giorno prima di oggi - 29. Una
pie­tra preziosa di colore viola - 31. In-
frazione del Codice Penale - 33. Onde
? Corte - 34. La terza preposizione - 35.
Località vicino Gaeta - 36. Era altissima
quella di Babele - 37. Lo nasconde l’es-
ca - 38. Aumenta con gli anni - 40. Il
Brass regista - 42. Copertura di edificio
- 44. I padri dei padri - 45. Particole
consacrate - 46. Ha nel centro la pu-
pilla.
VERTICALI. 1. Consunto dall’uso o dal
tempo - 2. Abbellire con fregi e decori
- 3. Lattanti - 4. Guerre - 5. Biografia
senza dispari - 6. Abbrevazione di mis-
ter - 7. Pari in paraurti - 8. Il tennista
Federer (iniz.) - 9. L’inizio del 5 maggio
manzoniano - 10. Festeggiare con una
levata di calici - 11. Costone roccioso
scosceso - 12. Lo consultano i viaggia-
tori - 13. La curano i dentisti - 14. 151
romani - 15. Le vocali del povero - 16.
Cagliari (sigla) - 19. Agisce con solleci-
tudine e coscienziosità - 21. La lingua
di Cicerone - 22. Sigla del piombo -
23. Un forellino della pelle - 27. Popo-
lo nomade - 28. Immagini sacre - 29.
Importante città yemenita - 30. Dispari
nelle sartie - 32. La madre di Achille -
36. Quantità imprecisata - 37. Africa
Orientale Italiana - 39. È canoro senza
coro! - 41. Iniziali del comico Solenghi
- 43. Nel centro di Montreal.
42
APRILE 2022

5.3 Page 43

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LA BUONANOTTE
B.F.Disegno di Fabrizio Zubani
Il rito Cherokee
G li Indiani Cherokee del Nord America
hanno un magnifico “rito” per significare
il passaggio dall’adolescenza all’età adulta.
Quando un ragazzo compie gli anni prescritti per
dimostrarsi adulto, il padre lo porta nel folto della
foresta e gli benda strettamente gli occhi, poi lo
lascia da solo seduto su un tronco.
Il ragazzo deve stare sul tronco tutta la notte e
non togliersi la benda fino al mattino.
Non può chiedere aiuto a nessuno. Se resiste, al
sorgere del sole sarà
proclamato uomo.
Di solito, la notte è
paurosa: ci sono ru-
mori strani, sibili e
scricchiolii, animali
che strisciano, lupi
che ululano, fruscii
e grugniti, combat-
timenti feroci tra i
cespugli.
Il ragazzo è armato
solo del suo corag-
gio. Stringe i pugni
e resiste, seduto sul
tronco, con il cuore
che batte all’impaz-
zata.
Finalmente, dopo
quella notte orribile,
il sole appare e il
ragazzo si toglie la
benda.
E allora scopre suo
padre poco lontano,
seduto su un tronco
accanto al suo.
Il padre non se n’è andato, è rimasto tutta la notte
in silenzio, per proteggere il figlio da ogni possibi-
le pericolo, senza che il ragazzo potesse accorger-
sene.
Quando il buon Mosè chiese a Dio il suo nome
Dio rispose semplicemente: «Il mio nome è “Io sono qui”».
«Non avere mai paura della notte» dice Dio.
«Io sono qui, accanto a te»
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5.4 Page 44

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