Bollettino_Salesiano_202203

Bollettino_Salesiano_202203

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Le case
di don Bosco
Tolmezzo
L’invitato
Emmanuel
Niyoyitungira
In prima linea
Nell’inferno
del lavoro
minorile
Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
MARZO 2022
DUopnmerevnosilactnoo
Savio

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I FIORETTI DI DON BOSCO
B.F.
Il mal di denti in prestito
T ra il 1871 e il 1881, don
Bosco si recò in Francia
tutti gli anni. Il più delle
volte approfittava dell’andata o del
ritorno per visitare la casa di Sam-
pierdarena e confortare con la
propria presenza il direttore don
Paolo Albera, il suo «Paolino».
Una volta, nel 1877, indisse là una
riunione di direttori. Terminata la
riunione, ci fu qualcuno dei presenti
che, pensando alla generosità dei
francesi verso don Bosco, gli chiese
filialmente se non avesse un po’ di
soldi per loro.
Don Bosco rispose di non disporre
per il momento di denaro liquido,
ma di avere ricevuto alcune gemme
e pietre preziose, offerte da varie fa-
miglie francesi. Le tirò fuori di tasca
in un fazzoletto e le pose sul tavolo
a loro disposizione. Si servissero a
seconda del bisogno di ciascuno.
Don Albera, di temperamento
timido e restio, non si mosse se non
quando tutti si erano già serviti. Sul
tavolo era rimasta soltanto una pic-
cola pietruzza di parvenza insigni-
ficante. Don Bosco, raccogliendola,
la porse a don Albera dicendogli:
«Prendila; questa vale diecimila lire
(equivalente oggi a circa ottanta
milioni di euro!)».
Don Albera l’accettò, pensando che
le parole di don Bosco volessero
soltanto consolarlo, visto che quella
pietruzza era stata trascurata da tutti.
Ma quale non fu la sorpresa quando,
andato da un banchiere per farla sti-
mare, si sentì dire immediatamente:
«Questa pietra vale diecimila lire»,
confermando il valore esatto che don
Bosco aveva detto.
Così don Albera, che doveva far fron-
te a particolari impegni finanziari per
le tante domande di ragazzi, ebbe i
fondi per la costruzione del bellissimo
collegio di Sampierdarena.
Un’altra volta, don Bosco volle far
visita a un benefattore di Genova.
Allestito quindi un calesse, don
Bosco e don Albera si recarono da
lui. Ma quando giunsero al palazzo
del benefattore, don Bosco chiese
a don Albera un favore singolare:
«Senti, Paolino, fammi un favore.
Ho un dente che mi tormenta e non
mi lascia la calma per poter parlare
al nostro benefattore. Tu fermati qui
e prenditi il mio male per un po’ di
tempo, fino al mio ritorno».
E don Albera pronto: «Faccia pure».
Don Bosco scese di carrozza ed en-
trò nel palazzo per la visita. Ma don
Albera, rimasto sul calesse, cominciò
a torcersi per il dolore, ad estrarre il
fazzoletto per comprimere la guancia
che doleva e a sospirare un pron-
to ritorno di don Bosco. Quando
ricomparve in strada dopo la visita,
don Bosco lo ringraziò dicendogli:
«Bravo, Paolino, ora restituiscimi
pure il mal di denti».
Immediatamente don Albera si sentì
libero e, intascando il fazzoletto, rin-
graziò a sua volta don Bosco. Qual-
che giorno dopo, contando il fatto,
commentava bonariamente: «Andare
con don Bosco non è sempre un
piacere».
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Le case
di don Bosco
Tolmezzo
L’invitato
Emmanuel
Niyoyitungira
In prima linea
Nell’inferno
del lavoro
minorile
Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
MARZO 2022
Upnervoslatno
DomSeanvicioo
MARZO 2022
ANNO CXLVI
NUMERO 03
Mensile di informazione e cultura
religiosa edito dalla Congregazione
Salesiana di San Giovanni Bosco
La copertina: Immagine di Domenico Savio
di Edoardo La Francesca.
Il poster: Quadro di Massimiliano Ungarelli.
2 I FIORETTI DI DON BOSCO
4 IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
6 DON BOSCO NEL MONDO
Cile
10 TEMPO DELLO SPIRITO
12 L’INVITATO
Emmanuel
16 LE CASE DI DON BOSCO
Tolmezzo
20 IN PRIMA LINEA
Lavoro minorile
22 POSTER
26 FMA
Il talento di educare
28 IMMAGINI
Con il cuore e lo scalpello
30 LA NOSTRA STORIA
Santi Versiglia e Caravario
34 COME DON BOSCO
36 LA LINEA D’OMBRA
38 LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
40 I NOSTRI SANTI
41 IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
42 RELAX
43 LA BUONANOTTE
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Il BOLLETTINO SALESIANO
si stampa nel mondo in 64
edizioni, 31 lingue diverse
e raggiunge 132 Nazioni.
Direttore Responsabile:
Bruno Ferrero
Segreteria: Fabiana Di Bello
Redazione:
Il Bollettino Salesiano
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numero: Agenzia Ans, Loris Biliato,
Pierluigi Cameroni, Roberto Desi-
derati, Emilia Di Massimo, Ángel
Fernández Artime, Antonio Labanca,
Carmen Laval, Cesare Lo Monaco,
Alessandra Mastrodonato, Francesco
Motto, Pino Pellegrino, O. Pori Mecoi,
Kirsten Prestin, Luigi Zonta, Fabrizio
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livello internazionale che tutelano le foreste, l’ambiente
e i lavoratori.

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IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
Don Ángel Fernández Artime
Don Bosco farebbe
lo stesso
«Immaginare il mio confratello
salesiano che aspettava fino a tarda
sera il giovane che tornava dal lavoro
per offrirgli la cena insieme ad altri
due educatori, come un vero fratello
o un padre, mi commuoveva. Mi sono
detto: don Bosco farebbe lo stesso».
C arissimi amici del Bollettino Salesiano e
del carisma di don Bosco, in un incon-
tro con un salesiano del Perù, ho avuto la
grande gioia di sentire una realtà che mi
ha fatto sentire fortemente nel mio cuore: don Bosco
avrebbe fatto lo stesso.
Si tratta di una nuova presenza salesiana a Lima-
Perù. La casa dove vengono accolti questi giovani
e le famiglie (e capirete perché dico “famiglie”) si
chiama “Casa Don Bosco per l’accoglienza di gio-
vani immigrati e rifugiati”.
L’iniziativa è iniziata 4 anni fa, nel 2018, con l’ac-
coglienza nella casa salesiana di 5 ragazzi, ancora
minorenni, arrivati senza documenti dal Venezue-
la. Vagabondavano per strada a Lima, cercando di
vivere e sopravvivere fino a quando hanno ricevuto
l’invito ad andare alla casa di don Bosco. Ho pen-
sato mentre lo ascoltavo: è lo stesso cammino che
don Bosco fece a Valdocco all’inizio dell’Oratorio
nella casetta Pinardi.
Tutti gli studiosi di don Bosco sono d’accordo su
un punto. Il “modello familiare” non era l’unico
che don Bosco avesse a disposizione dalla tradi-
zione per descrivere la comunità educativa, ma
evidentemente lo considerava il più adatto.
Un’altra casa, un’altra vita
Don Bosco lo preferiva anche per ragioni personali.
Lemoyne afferma che “l’amore santificato di fami-
glia era un’inclinazione prepotente nel suo cuore”.
Braido parla di passione per l’intimità familiare
come di una caratteristica precipua del tempera-
mento di don Bosco. Stella sostiene che questo
fosse un aspetto della sua personalità, prodotto
dall’essere sin da piccolo rimasto orfano.
L’influenza morale e l’efficacia educativa del suo
metodo risultano ancor più chiare se consideriamo
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che molti dei suoi «figli» non avevano mai ricevuto
l’amore e la cura di una madre o di un padre.
Va ricordato che il primo Oratorio era una “casa”
per i giovani anche perché vi trovavano delle madri.
Questo era un tocco speciale che don Bosco volle
mantenere il più a lungo possibile, e non solamen-
te per ragioni pratiche: sua madre Margherita con
la sorella Marianna Occhiena, la signora Rua, la
signora Gastaldi, la signora Bellia ed altre ancora.
I “ragazzi perduti” di Lima iniziarono la loro “altra
vita” nella Casa Don Bosco. Da allora, più di 600
giovani sono passati attraverso la casa fino a trovare
una situazione stabile. Oggi sono 47 a vivere nella
casa, e sette di loro sono giovani adulti che avevano
una famiglia o una giovane moglie e l’hanno por-
tata con loro.
I giovani entrano in contatto con la Casa Don Bo-
sco, che è sempre più conosciuta, perché “fanno
correre la voce” tra di loro. Coloro che desiderano
rimanervi vivono lì, condividono la vita con altri
giovani e con gli educatori e il salesiano che accom-
pagna il progetto, e che segue la vita della casa ogni
giorno e accompagna la giornata di ogni giovane
fin quando gli ultimi, spesso giovani che lavorano
nel settore alberghiero, arrivano alla casa Don Bo-
sco per riposare, verso l’una di notte. Immaginare il
mio confratello salesiano che aspettava fino a tarda
sera il giovane che tornava dal lavoro per offrirgli la
cena insieme ad altri due educatori, mi commuove-
va. Mi sono detto: don Bosco farebbe lo stesso.
Questi giovani vengono anche aiutati nella pre-
parazione dei documenti, nell’aiuto psicologico da
parte di psicologi volontari, e viene data loro una
piccola formazione e, per quelli che sono adatti, la
possibilità di iniziare un lavoro con il quale possono
guadagnarsi da vivere onestamente. Questi giovani
provengono dalle situazioni più diverse; hanno vis-
suto le violenze più diverse. Provengono dalle sette
più diverse o senza alcun riferimento religioso. L’u-
nica cosa importante è che sono giovani che hanno
bisogno di aiuto. Questa è l’unica documentazione
che viene richiesta. Tutto il resto sarà risolto.
Una motocicletta per il futuro
Alcuni di loro hanno trovato lavoro con l’aiuto del-
le Missioni Don Bosco di Torino e della Missione
Procura di Bonn (Germania). Sono state acquista-
te 20 motociclette e ai giovani che trovano lavoro
come fattorini viene offerta una moto per il loro
servizio. Non viene regalata. La pagano poco a
poco durante i mesi o gli anni con i loro risparmi.
E con i soldi del rimborso se ne comprano altre in
modo che nuovi giovani possano avere un lavoro.
Mi è piaciuta questa risposta creativa alle situazioni
di emergenza. E penso che sia un ottimo modo per
togliere questi giovani dal pericolo della tossicodi-
pendenza. Molti di loro, nella situazione attuale, fa-
cevano già uso di qualche tipo di narcotico. La Casa
Don Bosco li sta aiutando ad uscirne completamente.
E c’è qualcos’altro che mi ha colpito. Si scopre che
molti di questi giovani uomini hanno lasciato le
loro giovani mogli, a volte con un bambino a casa.
Fortunatamente, approfittando del fatto che la casa
è grande, sette di queste giovani coppie hanno la
propria stanza dove la famiglia ha potuto abita-
re insieme e avere una piccola casa, condividendo
spazi comuni come la cucina e la sala da pranzo
con altre giovani coppie, accompagnate anche dagli
educatori e dal salesiano che guida il progetto per
conto della vicina comunità salesiana.
La Casa Don Bosco per immigrati e rifugiati a
Magdalena del Mar a Lima sta cambiando in me-
glio la vita di molti giovani e coppie molto giovani.
Resto convinto che don Bosco oggi farebbe lo stesso.
Le motociclette
donate dalle
procure
missionarie
di Torino e
di Bonn per
i giovani
fattorini.
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DON BOSCO NEL MONDO
Kirsten Prestin (da DON BOSCO magazin, foto di Tamara Merino/Don Bosco Mission Bonn/Fairpicture, traduzione di Marisa Patarino)
Cile Il futuro nonostante
l’handicap
In Cile, i giovani che presentano disabilità mentali o fisiche
difficilmente ricevono l’aiuto di cui hanno bisogno.
La scuola Laura Vicuña di Puerto Montt, gestita dai Salesiani
di Don Bosco, offre loro la possibilità di un futuro migliore.
Quando il diciassettenne Tomàs torna a
casa da scuola, il pranzo è già in tavola.
Suo padre, José, di trentanove anni, ha
preparato tutto ed è contento di tenere
compagnia al figlio durante i pasti. José Villanueva
vive con Tomàs in una baracca di lamiera ondulata
e legno in un quartiere povero della città portuale
di Puerto Montt, nel sud del Cile. Il piccolo locale
in cui padre e figlio dormono e mangiano è sempre
pulito e ordinato. José tiene molto a questo. La ba-
racca non dispone di riscaldamento; le pareti sono
coibentate con contenitori per le uova. Qui l’inver-
no è spesso freddo e umido.
Padre e figlio sono molto uniti e trascorrono molto
tempo insieme. José alleva da solo suo figlio, che
presenta un lieve deficit intellettivo e difficoltà di
apprendimento. La madre di Tomàs se n’è andata
via quando il bambino aveva due anni. Aveva in-
contrato un altro uomo con il quale voleva iniziare
una nuova vita. Non vede suo figlio da molto tem-
po. Sebbene siano stati stabiliti i tempi e le modali-
tà per le visite, preferisce non incontrarlo. Quando
Tomàs è nato, non sono state riscontrate anomalie.
Solo più tardi, quando il bambino all’età di quattro
anni ha cominciato a frequentare la scuola d’infan-
zia, è stato comunicato al padre che Tomàs aveva
problemi di apprendimento e che sarebbe stato più
opportuno che frequentasse una scuola speciale.
Negli ultimi 15 anni José non ha ricevuto alcun
sostegno finanziario né dallo Stato, né dalla sua
famiglia. «Per fortuna c’erano alcuni angeli sul-
la nostra strada», dice il padre con un’espressione
felice sul volto. Tra questi angeli ci sono anche
i Salesiani di Don Bosco. Fin da quando aveva
cinque anni Tomàs frequenta la scuola Laura Vi-
cuña tutti i giorni, dalle 9 dalle 13. Questo isti-
tuto offre a giovani fino a 26 anni di età che pre-
sentano disabilità mentali o fisiche la possibilità
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di seguire un percorso scolastico e professionale.
«Tomàs ha compiuto grandi progressi, da quando
frequenta regolarmente la nostra scuola. Le attivi-
tà proposte dalla scuola sono molto importanti per
questi ragazzi, ma si tratta soprattutto di creare fidu-
cia», sottolinea Johanna Gómez, direttrice del centro
e insegnante di sostegno, presente nella scuola Laura
Vicuña da oltre dieci anni. Il padre di Tomàs può
solo confermare le parole della direttrice: «Mio figlio
è diventato più aperto e riesce a esprimersi meglio.
Imparare è diventato molto più facile per lui», dice
José, che pure presenta un leggero handicap mentale,
da bambino non è mai stato seguito in modo specifi-
co a scuola e ancora oggi se ne rammarica.
Un’opera eccellente
La scuola “Laura Vicuña” sostiene e accompagna
i giovani portatori di handicap dal 1996. Nell’an-
no scolastico 2016/17 l’istituto è stato insignito del
certificato di qualità “Excelencia Académica” con-
ferito dal Ministero dell’Istruzione nazionale per la
sua offerta educativa. «I bambini e gli adolescenti
che frequentano la nostra scuola provengono da fa-
miglie povere.
quand  oTofmreàqsuheantcaormegpoiulatormgeranntedilapnroogsrtreasssic,udoala.
Le attività proposte dalla scuola sono molto
importanti per questi ragazzi.
Johanna Gómez, direttrice della scuola
Molti sono autoctoni e vengono emarginati per la
loro origine», dichiara la direttrice Johanna Gómez.
«Per noi è importante creare opportunità per il loro
futuro, tramite una solida formazione professionale
e l’integrazione nel mondo del lavoro». Con que-
sto obiettivo i Salesiani di Don Bosco lavorano a
stretto contatto con le aziende. Grazie ai tirocini gli
studenti possono acquisire la loro prima esperien-
za professionale. «I tirocini incrementano anche le
possibilità di trovare un lavoro in seguito», spiega
l’insegnante di sostegno.
La scuola propone corsi di cucina, panificazione e
vari altri percorsi professionali. La pratica di diversi
sport favorisce lo sviluppo psicomotorio dei bam-
bini e dei ragazzi. La musicoterapia e la logopedia
completano l’offerta formativa. Viene anche inse-
gnato agli allievi a usare il computer.
In Cile circa il 75 per cento delle persone diversa-
mente abili in grado di lavorare è disoccupato.
Sopra:
Fernanda
con il fratello
e a sinistra:
Tomàs con
il papà.
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DON BOSCO NEL MONDO
Il mio più grande timore è
che quando moriremo Fernanda
non abbia risorse per vivere.
Alejandro Nunez, padre di Fernanda,
una giovane diversamente abile
A destra:
la famiglia
di Fernanda.
Sotto:
L’aula di
musicoterapia.
In questo Paese sudamericano esi-
stono poche strutture in grado di
aiutare bambini e giovani diversa-
mente abili a livello mentale o fi-
sico. Secondo l’ultimo censimento,
che risale al 2012, il 12,9% della popolazione cilena
presenta una disabilità fisica o mentale.
Tomàs è piuttosto timido e introverso. A scuola se-
gue i corsi con attenzione e interesse. Ha ancora dif-
ficoltà a parlare ed esprimersi con chiarezza. «Spesso
è solo agitato e per questo quando parla si confonde»,
spiega José. Ma con il tempo è migliorato. La scuola
l’ha aiutato a superare la sua insicurezza. «Tomàs ha
imparato a usare frasi complete. Ora riesce anche a
svolgere lavori manuali e a interagire con altri ragaz-
zi», dice il padre visibilmente orgoglioso.
Dopo aver pranzato, Tomàs passa molte ore al cel-
lulare. A causa del Coronavirus, dopo le lezioni
non può più incontrare l’unico amico che abbia a
scuola. L’isolamento determinato dalla pandemia
l’ha turbato e gli ha creato timori. La principale
preoccupazione di suo padre è che il ragazzo possa
essere contagiato dal Coronavirus.
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UNA PRESENZA VITALE
I Salesiani di Don Bosco sono presenti in Cile dal 1887. Nelle
varie zone del Paese ci sono 22 scuole Don Bosco, due fonda­
zioni, 19 parrocchie e numerosi oratori e centri giovanili ge­
stiti da loro. A Santiago, la capitale del Cile, i Salesiani di
Don Bosco hanno fondato anche un’università cattolica.
Circa due terzi degli studenti che la frequentano fruisco­
no di borse di studio e possono studiare gratuitamente.
La maggior parte di loro proviene da famiglie povere.
Per Tomàs e suo padre i Salesiani
sono l’unica speranza per il futuro.
I genitori di Fernanda, una giovane con sindrome
di Down, hanno deciso di non mandare la figlia a
scuola. Pensano che il rischio che contragga l’infe-
zione sia troppo alto. Da ormai due anni Fernanda
non partecipa a lezioni in presenza.
Le lezioni online non costituiscono un’alternativa
efficace per Fernanda, che ha difficoltà a concen-
trarsi. I genitori hanno quindi deciso che l’anno
prossimo la manderanno di nuovo a scuola.
Timori per il futuro
José è preoccupato per il futuro di suo figlio. «Chi si
prenderà cura di lui quando io non ci sarò più? Ha
solo me e quando me ne andrò non potrò nemme-
no lasciargli denaro per mantenersi», dice. José si
sta ora impegnando per cercare di ricevere una casa
prefabbricata dallo Stato. Per averla deve pagare un
contributo di 1500 dollari statunitensi, ma finora
ne ha raccolti solo 1000. Non ha un reddito rego-
lare, ma riesce a garantire la sopravvivenza della
sua piccola famiglia con lavori saltuari. Al mattino,
quando suo figlio è a scuola, svolge lavori di pulizia
nelle case o vende uova al mercato. Con il denaro
che guadagna riesce a coprire i costi per l’acquisto
di generi alimentari e per l’affitto della baracca, ma
non ha modo di risparmiare molto.
Anche i genitori di Fernanda sono preoccupati per
il futuro della figlia. «Il mio più grande timore è che
quando moriremo Fernanda non abbia risorse per
vivere», confida il padre della giovane. «Per questo
cerco di risparmiare il più possibile, affinché in se-
guito possa vivere dignitosamente». Probabilmente
il fratello minore di Fernanda dovrà prendersi cura
di lei. Il ragazzo, che ha tredici anni, vuole bene
a sua sorella, ma è anche consapevole dell’enorme
responsabilità che incombe su di lui.
José spera di poter racimolare il denaro che gli
manca ancora per poter accedere alla casa. È otti-
mista: «Mio figlio dovrebbe almeno avere una casa
calda e poter condurre una vita dignitosa. È tutto
ciò che spero!».
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TEMPO DELLO SPIRITO
Carmen Laval
I doni del silenzio
Inquinamento visivo e acustico,
frenesia dei consumi, ritmo di vita
sempre crescente... Trovare un’isola
di silenzio nella nostra società
troppo eccitata sembra essere
diventata una missione impossibile
per la maggior parte di noi.
1. Il vero “Tu”
Un uomo si recò da un monaco di clausura. Gli chie-
se: «Che cosa impari mai dalla tua vita di silenzio?».
Il monaco stava attingendo acqua da un pozzo e
disse al suo visitatore: «Guarda giù nel pozzo! Che
cosa vedi?».
L’uomo guardò nel pozzo. «Non vedo niente».
Dopo un po’ di tempo, in cui rimase perfettamen-
te immobile, il monaco disse al visitatore: «Guarda
ora! Che cosa vedi nel pozzo?».
L’uomo ubbidì e rispose: «Ora vedo me stesso: mi
specchio nell’acqua».
Il monaco disse: «Vedi, quando io immergo il sec-
chio, l’acqua è agitata. Ora invece l’acqua è tran-
quilla. È questa l’esperienza del silenzio: l’uomo
vede se stesso!».
Per i monaci tacere era un mezzo importante per
incontrare se stessi e, alla fine, incontrare Dio e di-
venire un tutt’uno con lui.
2. La purezza del cuore
Il silenzio viene prima del tacere. Il silenzio è
uno spazio nel quale ci immergiamo. Noi tutti
conosciamo questi spazi del silenzio che ci fanno
bene, che sono un balsamo per l’anima. Quando
sediamo in una chiesa silenziosa, abbiamo la
sensazione che il silenzio ci avvolga e ci protegga.
Il bosco è silenzioso. Quando passeggiamo in un
bosco dove non arriva né il rumore delle auto né
il rombo degli aerei, ci sentiamo bene, percepiamo
l’effetto terapeutico del silenzio.
Amelia, 14 anni, scrive:
«Quando non ce la faccio più, vado a sedermi vicino
a mia nonna mentre lavora a maglia... Mia nonna
profuma di cipria e ha un respiro lento lento. Di tanto
in tanto alza gli occhi e sorride un poco, di solito però
si limita a lavorare e respirare... Beh, mi fa sentire
cullata...».
Ciò che mi piace molto nell’idea di tacere è proprio
che non aggiungiamo qualcosa da fare. Ci offria-
mo semplicemente la possibilità di dare un nuovo
sguardo al mondo riscoprendolo, riconnettendo-
ci attraverso il silenzio. Ad esempio, se cammini
per strada, rimuovi le cuffie dalle orecchie, riponi
il telefono lontano dagli occhi e vai a destinazione
osservando l’ambiente circostante, la natura, le per-
sone, ascolta i suoni, senti la temperatura, respira
gli odori se tu sei fortunato ad essere in campagna...
Vedrai che una sensazione di calma e pace interio-
re si farà sentire molto rapidamente. Questo è un
esempio molto semplice e concreto per sperimen-
tare il silenzio.
Come il vino deve rimanere fermo a decantare per-
ché diventi limpido, così anche noi dobbiamo rima-
nere fermi nel silenzio per far decantare tutto il tor-
bido che si è insinuato nel nostro cuore e intuire ciò
che i primi monaci chiamavano «purezza del cuore».
3. La presenza di Dio
Per Rilke è Dio stesso che affiora in noi nel silen-
zio. Nel silenzio – dice il poeta – possiamo pensare
a Dio stesso. Nel frastuono del vivere quotidiano
Dio ci appare così estraneo che non possiamo nem-
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meno pensare a lui. Nel silenzio, invece, affiorano
pensieri che provengono da Dio stesso. Ricevia-
mo in dono un’immagine di Dio. E per un breve
istante possiamo riconoscerlo, ma non trattenerlo.
È un sorriso, che Dio provoca in noi e che ci dona
la certezza che lui esiste.
Quando facciamo questa esperienza del silenzio
non soltanto pensiamo a Dio, ma siamo in grado
di donarlo alla vita intera, a ogni essere vivente, a
ogni persona. Allora Dio è come un grazie che si
diffonde su tutto. D’un tratto guardiamo il mondo
con riconoscenza. Donare Dio, che intuiamo nel
silenzio, è come un grazie che non riempie solo il
nostro cuore ma ogni essere intorno a noi.
I primi monaci parlano dello «spazio del silenzio»
dentro di noi. In noi c’è uno spazio nel quale il si-
lenzio esiste già. È lo spazio in cui Dio dimora in
noi, in cui, per dirla con le parole di Gesù, il regno
di Dio è già in noi (cfr. Le 17,21).
Tacere, meditare, sedere in silenzio dinanzi a Dio
aiuta a rientrare in contatto con questo spazio inter-
no del silenzio. Talvolta giova anche raccogliersi in
una chiesa silenziosa. Certe chiese sono il silenzio
fatto edificio, là il silenzio respira. Raccogliendoci
in quel luogo di quiete scopriamo in noi lo spazio
del silenzio, ci riconosciamo tempio di Dio nel
quale dimora la gloria divina.
Nel momento in cui viviamo questa esperienza,
tutti i pensieri cessano e godiamo di quell’attimo.
Sperimentiamo il silenzio come qualcosa che rende
preziosa la nostra vita.
nuovo mattino, una giornata primaverile dopo un
lungo inverno, un cielo stellato, la prima passeggia-
ta, piena di speranza, dopo una malattia, la presenza
di un caro amico. Sono tutte cose di una ricchezza
incommensurabile che fanno risplendere, luminosa e
aurea, la nostra vita... se sappiamo vederle.
Questi sembrano veramente un mondo e un tem-
po sempre più infelici e impotenti e disperati. In
realtà, ciò che più ci manca è proprio il rapporto
con il mistero, l’apertura sull’infinito di Dio; per
cui l’uomo è così solo, e insufficiente e minacciato;
è la caratteristica di questa civiltà del fracasso: non
si fa più silenzio, non si contempla più. Si è perso il
vero valore delle cose. Nulla ha più valore.
Questo è un mondo senza misura e senza gloria,
perché si è perso il dono e l’uso della contemplazione.
Ed è un tempo senza canti. Oggi non si canta,
oggi si urla, si grida, appunto civiltà del frastuono.
Tempo senza preghiera. Senza silenzio, e quindi
senza ascolto. Più nessuno ascolta nessuno. Anche
le nostre liturgie sono spesso liturgie del fracasso.
Fare silenzio vuol dire mettersi in ascolto. E questo
era il più alto punto della preghiera: il cuore aperto
alla confidenza di Dio.
4. Lo stupore del quotidiano
La quotidianità non è soltanto una routine o un peso
da sopportare. Il modo in cui la si vive dipende sem-
pre dal punto di vista. Potremmo concepirla anche
come il dono di un tesoriere che ha pronta per noi
una ricchezza incommensurabile e ce la consegna
se diventiamo amici. Ad arricchire la nostra vita
sono le cose ovvie, quelle che non occorre spiega-
re. La felicità è sempre presente, sempre disponibile:
il battito del nostro cuore, il canto degli uccelli, un
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L’INVITATO
O. Pori Mecoi
Emmanuel
Dal Burundi alla Siberia
per don Bosco È il posto più freddo del
Puoi presentarti?
Mi chiamo Emmanuel Niyoyitungira. Ho 35 anni.
mondo, ma la porta dei
Salesiani è sempre aperta.
Sono burundese. Sono salesiano di Don Bosco dal
2013. Vengo da una famiglia cristiana di nove per- Perché sei diventato religioso
sone, tra cui due genitori e sette figli, di cui io sono e salesiano?
il maggiore. Come molti altri giovani burundesi, Sono diventato religioso perché ne ero molto at-
ho fatto i miei studi primari e secondari durante le tratto da bambino. E ho coltivato questo desiderio
situazioni difficili che il Burundi ha vissuto, cioè nel movimento dei Focolari e nel gruppo di cantan-
l’insicurezza. Ho finito i miei studi di base nella ti di cui facevo parte in quel periodo.
nostra regione. Dopo di che sono entrato nel se- Solo dopo aver deciso di non continuare gli studi
minario minore di Mureke nella diocesi di Ngozi. nel seminario maggiore diocesano, ho sentito il de-
Emmanuel e
i suoi ragazzi
in piazza a
Yakutsk.
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MARZO 2022

2.3 Page 13

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Un piccolo siberiano
e, sotto, Emmanuel
sui pattini.
shutterstock.com
siderio di entrare nella congregazione salesiana, che
non conoscevo bene.
Con l’aiuto della preghiera, dei confratelli e di va-
rie conferenze sulla missione, ho coltivato questo
desiderio. Infine ho ricevuto la croce missionaria
durante la 148ª spedizione missionaria del 2017 dal
Rettor Maggiore Don Ángel Fernández, che mi ha
inviato a Yakutsk in Russia. L’inizio della missione
non è stato facile; e mi sono impegnato a imparare
la lingua e a farmi amare.
Come ha reagito la tua famiglia?
La reazione della mia famiglia fu piuttosto negati-
va a causa della poca familiarità di questa terra di
missione. Ma ci siamo seduti insieme per cercare la
volontà del Signore attraverso di me, e finalmente
mi hanno capito e hanno promesso di pregare per
la missione salesiana a Yakutsk.
Qual è il tuo compito attuale?
Dopo quattro anni di vita comunitaria a Yakutsk,
durante i quali ho frequentato l’Università e orga-
nizzato attività oratoriali, il Padre Provinciale mi
ha mandato a studiare Teologia alla Crocetta: at-
tualmente sto facendo il primo anno di Teologia.
Com’è il lavoro che state facendo?
A Yakutsk, oltre alle attività universitarie, ho dato
alcune lezioni di inglese e francese ai giovani che
frequentano il nostro oratorio. Ma anche agli stu-
denti che volevano essere aiutati nelle lingue. Ab-
biamo organizzato gite, catechesi, giochi ecc.
Come sono i vostri giovani?
I nostri giovani sono poveri e vengono da famiglie
in difficoltà. Sono generalmente alla ricerca del
senso della vita; ma a causa di molti anni vissuti
nell’oscurità, hanno paura di impegnarsi e di stac-
carsi dalle credenze precedenti; vivono di pratiche
ancestrali o ignorano qualsiasi trascendenza. In
breve, sono dei poveri giovani; oziosi; che vagano
di qua e di là per trovare il tranquillante.
MARZO 2022
13

2.4 Page 14

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L’INVITATO
Come viene percepita la Chiesa
in Siberia?
Direi che la percezione della Chiesa cattolica in Si-
beria è molto complessa: alcuni la vedono come un
duello con gli ortodossi; altri la vedono come una
setta degli ortodossi; c’è chi non la conosce più; al-
tri preferiscono non interessarsene e così via.
E i salesiani?
In generale, il termine “salesiano” è molto meno
usato. Quelli che vengono a casa nostra preferisco-
no usare “Casa Don Bosco”. Così i salesiani sono
visti come lavoratori, buoni educatori impegnati ad
aiutare i giovani di don Bosco.
Una Messa nel soggiorno
estivo dei Salesiani.
YAKUTSK, IN SIBERIA, È IL POSTO PIÙ FREDDO
DEL MONDO: –50°C
Yakutsk ha ben 322 mila abitanti, vanta un’università, è
servita da un aeroporto dove fa scalo la compagnia Polar Air­
lines, ha un museo, una stazione meteorologica, cinema e
più o meno tutto quello che possiate immaginare esserci in
una città di medie dimensioni. Solo che qui ogni cosa è viziata
da temperature glaciali. La media invernale è di –42,9. D’e­
state rispetto all’inverno si può dire che si muore di caldo visto
che si raggiungono anche i 18 gradi!
Se leggere di temperature bassissime non sconvolge più
di tanto, è invece totalmente pazzesco immaginare di vivere
e condurre una vita normale quando fuori ci sono –40 gradi.
Eppure gli abitanti di Yakutsk sono abituati a questo clima gla­
ciale e svolgono le loro attività giornaliere. Ma certo con qual­
che attenzione in più. Ad esempio una delle maggiori preoc­
cupazioni sono i tubi che scoppiano per il gelo. Si usano
dei prodotti per evitarne la formazione nelle tubature di casa,
lo stesso vale per l’auto. Tutti hanno un garage riscaldato e
fuori, mai spegnere il motore fuori da un garage: la macchi­
na non ripartirebbe mai! Le verdure fresche in inverno non
si mangiano perché a quelle temperature non cresce nulla e
quello che arriva via aereo è ovviamente surgelato.
I bambini vanno regolarmente a scuola fino ai –46
gradi. Solo quando il termometro segna quella
temperatura si sta a casa. Si esce il meno possibi-
le, le passeggiate fra i negozi non si fanno in inver­
no, tirare fuori una mano dalla tasca per più di 20
secondi vuol dire rischiare il congelamento.
Il Sole durante il giorno in inverno non c’è per più
di tre ore al giorno. È normalità avere una slitta trai­
nata dai cani, i panni lavati non si stendono certo
all’esterno, ma tutti hanno in casa un’asciugatrice.
Il frigo non serve, basta una stanza adibita a ma­
gazzino per la conservazione dei cibi. Si mangia
soprattutto pesce e non c’è acqua nel sottosuolo:
è tutto ghiacciato. L’acqua la prendono dal fiume
Lena. Nonostante tutte queste difficoltà gli abitanti
amano la loro città, la natura e quel senso di pace
e tranquillità che si respira (attraverso uno spesso
strato di sciarpe in lana!).
La “squadra” di hockey
su ghiaccio.
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2.5 Page 15

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SALESIANI: RUSSIA, CELEBRATI I 30 ANNI DI PRESENZA
NEL PAESE
I salesiani in Russia hanno celebrato, domenica 12 settembre,
il loro 30° anniversario di presenza nel Paese. La ricorrenza,
come riferisce l’agenzia salesiana Ans, è stata festeggiata con
una Messa, molto partecipata dai fedeli e dagli amici dell’o­
pera salesiana, presso la Cattedrale dell’Immacolata Conce­
zione della Beata Vergine Maria a Mosca. I salesiani hanno
cominciato il loro servizio nella capitale russa nel 1991, dopo
esservi stati invitati da monsignor Tadeusz Kondrusiewicz,
all’epoca amministratore apostolico per tutta la Russia euro­
pea. Egli “conosceva la loro esperienza, fedeltà e capacità di
combattere”, ha sottolineato nella sua omelia di domenica
12 settembre monsignor Paolo Pezzi, l’arcivescovo di Mosca.
“Ringraziamo la Congregazione Salesiana per aver accettato
questo non solo difficile, ma duro servizio” ha proseguito il
presule. Infatti, all’epoca, dopo 70 anni di persecuzione del­
la Chiesa Cattolica da parte del regime sovietico, mancava il
clero per rinnovare le strutture ecclesiali e ripristinare la vita
religiosa, e così il compito affidato ai salesiani era davvero pio­
nieristico. Per i primi 26 anni, dal 1991 fino al 2017, il parroco
della cattedrale è stato don Jozef Zaniewski, a cui è succedu­
to poi don Vladimir Kabak, attualmente in carica. Dopo aver
messo piede a Mosca, la presenza salesiana in terra russa si
è negli anni ampliata: oggi i Figli di Don Bosco hanno altre
presenze a Gatčina, vicino San-Pietroburgo; a Rostov sul Don;
e a Soči – tutte opere appartenenti all’Ispettoria di Polonia-Pila
(Pln); mentre nella Repubblica di Jacuzia, nella zona siberiana
del Paese, si trovano i due avamposti missionari di Yakutsk ed
Aldan, che appartengono all’Ispettoria della Slovacchia (Slk).
Quali sono le realtà più belle?
Vorrei sottolineare l’atmosfera che regna nella nostra pic-
cola comunità, l’impegno dei fedeli, la fiducia reciproca
tra salesiani e genitori dei giovani che vengono all’orato-
rio, l’intesa tra la Chiesa ortodossa, protestante e cattolica.
Buona collaborazione tra la Chiesa cattolica e il governo,
così come varie istituzioni governative e non governative.
Quali sono i problemi?
Avendo visto che la missione a Yakutsk suggerisce la com-
binazione di energie, posso dire che rimane il problema
del personale, la mancanza di infrastrutture, la mancanza
di attività varie e il limite climatico.
Qual è il tuo sogno?
Il nostro sogno è di vedere una missione di Yakutsk svi-
luppata, con i giovani coinvolti nell’oratorio, di vedere una
chiesa piena di giovani, di portare i giovani a Gesù.
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2.6 Page 16

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LE CASE DI DON BOSCO
Loris Biliato
Tolmezzo
Un’opera tra i gioielli della Carnia
Un ambiente sereno, ricco
di tradizioni, vitalità e salde
radici cristiane.
Un felice
intervallo.
“Ifigli di don Bosco vennero a
Tolmezzo il 7 ottobre 1926
per assumere la direzione
del Collegio Convitto Comunale. Da
molto tempo le Autorità di Tolmezzo, in specie, e
gli amici ed exallievi salesiani locali, sentivano il
bisogno di affidare gli allievi che frequentavano le
scuole cittadine a mani sicure di educatori i quali
oltre all’apporto morale, dessero anche impulso alle
scuole che a stento si reggevano data la riluttanza
dei genitori a collocare i figlioli presso famiglie pri-
vate o ad un collegio non organizzato su basi reli-
giose” (dalle prime righe della Cronaca della Casa).
Quando, il 7 ottobre, giungono a Tolmezzo per di-
rigere il Collegio Convitto Comunale tre Salesiani:
il direttore, un chierico come assistente e un sale-
siano coadiutore, le condizioni appaiono miserevo-
li; erano solo sette gli allievi precedentemente ac-
cettati. Si trattava di cominciare ex novo, sotto tutti
i punti di vista. Dai sette ragazzi dell’inizio, già ai
primi di dicembre i giovani salgono a ventotto.
L’anno scolastico 1927-1928 inizia con cinquan-
ta convittori. La Cronaca del tempo ricorda che
l’ambiente era già sereno e salesiano. Nel successivo
anno scolastico i convittori sono già settantacinque.
Il 27 marzo 1928 alle 9 di mattina mentre i ragazzi
sono a scuola, una fortissima scossa di terremoto
semina panico e rovine mentre nel Collegio si apro-
no crepe senza però comprometterne la struttura.
24 maggio 1932, posa della prima pietra di un nuo-
vo edificio di proprietà dei salesiani con al piano
terreno il teatro e al piano superiore un grande
dormitorio per i convittori. Il teatro risulta uno dei
più grandi della provincia e permette l’avvio di un
Oratorio festivo per i ragazzi a partire dagli 8 anni
mentre attira numeroso pubblico alle recite teatrali
preparate dai convittori.
Il primo dicembre 1934 nel teatro si installa un ap-
parecchio cinematografico sonoro che viene inau-
gurato con la pellicola “Tom Mix alla riscossa”.
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MARZO 2022

2.7 Page 17

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Nel 1937-38 si apre il Ginnasio interno con le pri-
me due classi mentre nel giugno 1940 iniziano gli
esami di ammissione alla prima classe della nuova
scuola media unica che unifica tutti i trienni suc-
cessivi alle elementari.
Un momento difficile per il Collegio salesiano
di Tolmezzo è stato il periodo dal settembre del
1943 al maggio del 1945, durante la seconda guerra
mondiale. La zona di Tolmezzo dopo l’armistizio
dell’8 settembre venne occupata dalle truppe te-
desche. Il 1° ottobre una commissione di ufficia-
li germanici e caucasici visita il Collegio in vista
di un’eventuale requisizione. Il 12 ottobre il Col-
legio viene requisito come sede di medicazione e
smistamento feriti. Il 30 ottobre viene adibito ad
ospedale cosacco mentre il teatro viene usato per le
rappresentazioni dei cosacchi che si sono stabiliti in
Carnia. Il 22 febbraio 1945 nel pomeriggio, cinque
cacciabombardieri sganciarono una decina di bom-
be sul ponte vicino al Collegio mandando in fran-
tumi la maggior parte dei vetri e scardinando por-
te e finestre. Verso la fine di aprile circolano voci
sulla resa delle armate tedesche in Italia e il cortile
diventa luogo di bivacco di cavalli e carriaggi dei
cosacchi provenienti da tutta la Carnia che sostano
la notte, per riprendere al mattino la via del nord.
Per iniziativa dell’Arcivescovo di Udine si forma
un comitato per l’accoglienza dei reduci e il Colle-
gio Don Bosco diventa centro per il pernottamento
e lo smistamento dei reduci italiani che attraversa-
no il confine, assicurando pasti caldi, cure medi-
che e distribuzione di pacchi di vestiario. L’afflusso
maggiore si ebbe nella settimana dal 30 aprile al 6
maggio. Il 2 maggio al mattino entrano ufficial-
mente a Tolmezzo le squadre dei partigiani. Il 6
maggio verso le ore 18 entrano in paese i carri ar-
mati degli alleati. Alla metà di giugno si comincia
la riparazione, l’imbiancatura e la pulizia dei locali
in vista dell’apertura del nuovo anno scolastico.
Il 10 luglio del 1950 si inaugura il “grest”, orato-
rio quotidiano per i ragazzi della città. Nel primo
giorno oltre 200 iscritti delle classi elementari e
medie, si continua per tutto il mese di agosto e fino
al 30 settembre.
Il terribile sisma
Alle ore 21 del 6 maggio 1976 arrivano improvvise
tre scosse di terremoto, la prima quasi di avviso, non
forte ma ben sentita, una seconda la più disastro-
sa, seguita a pochi secondi da una terza assai forte
calcolate all’8° e 9° grado della scala Mercalli con
un valore di magnitudo pari a 6.5, fra i più alti mai
registrati nell’Italia settentrionale. I ragazzi che si
trovavano nella sala TV, dopo la prima scossa scen-
dono in cortile passando poi la notte all’aperto su
materassi stesi per terra. Il fabbricato con la Cappella
«Nel futuro
più prossimo
immagino una
celebrazione
del centenario
di questa casa
(2026) come
occasione per
far memoria
delle migliaia
di ragazzi che
hanno potuto
beneficiare
dell’accoglienza
di centinaia
di salesiani
che li hanno
accompagnati
nei momenti più
belli e delicati
della loro vita,
facendoli crescere
attraverso la
scuola, il convitto,
l’oratorio,
il teatro, le
passeggiate, le
esperienze estive
come “buoni
cristiani e onesti
cittadini”».
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2.8 Page 18

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LE CASE DI DON BOSCO
è il più lesionato, dato che si sono riaperte le crepe
provocate dal terremoto del 1928, mentre l’edificio
con la cucina e la mensa, costruito nel 1959, risulta
fin da subito ancora agibile. Il Comune chiede ai sa-
lesiani di aprire una mensa che funzionerà dal 7 al 31
maggio fornendo pasti con punte di 800 al giorno.
Il Collegio con i suoi ampi cortili diventa centro di
smistamento di camion che arrivano con alimentari,
vestiario, suppellettili e medicinali.
Il 2 agosto riapre il grest, da quell’anno aperto an-
che alle ragazze, con attività in parte nel Collegio e
in parte nei prati vicini alla Cartiera.
Il 15 settembre nuove scosse di terremoto dell’8° e
9° grado della scala Mercalli rovinano quello che
era stato faticosamente riparato durante l’estate e
costringono tanta gente di Tolmezzo e della Carnia
a partire verso Grado, Lignano e la zona costiera.
Nello stesso giorno arrivava nel Collegio il prefab-
bricato, già da tempo ordinato in Austria, in previ-
sione del nuovo anno scolastico. Nei giorni successivi
inizia il montaggio della struttura lunga 44 metri e
larga 15, capace di ospitare 8 aule e un salone. Sarà
pronto per l’11 ottobre ad accogliere i ragazzi e per
la prima volta anche le ragazze, per il primo giorno
di scuola. È stato certamente il modo più degno per
festeggiare il 50° dell’opera la cui solenne celebrazio-
ne era stata fissata proprio per il 10 ottobre 1976 e
rimandata ovviamente per cause di forza maggiore.
Tra gli exallievi del Collegio e dell’Oratorio, pos-
siamo annoverare due vescovi: il vescovo salesiano
monsignor Tito Solari arcivescovo emerito di Co-
chabamba (Bolivia) e monsignor Pietro Brollo che
è stato arcivescovo di Udine, numerose vocazioni
di sacerdoti e religiosi tra cui l’ultima, in ordine
di tempo, del sacerdote salesiano don Matteo Ru-
pil che ha potuto celebrare una delle sue prime S.
Messe nel cortile del “suo” Oratorio.
L’oratorio con
il grest è un
serbatoio di
attività che
coinvolge
ragazzi
provenienti
da tutta la
Carnia.
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2.9 Page 19

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Giovani magnifici
Tolmezzo si trova al centro di un territorio, la Car-
nia, alla confluenza di varie vallate costellate da tanti
piccoli paesi. La denatalità è una piaga che si fa molto
sentire e i paesi si vanno svuotando da vari decenni
ma non perdono la loro identità, le loro tradizioni e il
forte senso di appartenenza. È partito da poco il pro-
getto diocesano delle collaborazioni pastorali volto a
formare cristiani che diano testimonianza di dialogo,
collaborazione, partecipazione alla vita della chiesa
in forza del loro battesimo, rallentato però dalla cul-
tura identitaria legata al paese di origine. I giovani,
che respirano questa cultura, allo stesso tempo han-
no un’anima globalizzata in cui sogni e progetti sono
allineati ai valori del nostro tempo. Il mix di questi
due ingredienti li rende ragazzi a tutti gli effetti figli
del nostro mondo come in qualsiasi altra parte d’I-
talia ma con un legame verso il paese di provenienza
che lascia in loro un forte senso di comunità.
I salesiani sacerdoti prestano da sempre servizio mi-
nisteriale nelle numerose chiese dei vari paesi sparsi
per le valli della Carnia e sono molto apprezzati per
questo. Senza di noi la domenica tante comunità re-
sterebbero senza Eucarestia domenicale. In alcune
zone riusciamo a supplire alla mancanza di catechi-
sti e questo regala un senso di gratitudine e di spe-
ranza. Siamo generalmente apprezzati dalla gente
per le attività che facciamo in favore dei giovani.
La nostra opera
È presente nella nostra casa una scuola primaria e
quella secondaria di primo grado. Durante l’estate
è molto vivo l’oratorio con le attività organizzate
per tutti i ragazzi del territorio (grest, campi, ora-
torio serale), durante la stagione invernale si dà la
possibilità ai ragazzi e ai giovani di continuare la
vita di gruppo iniziata attraverso degli appunta-
menti mensili del “grest live”.
In questi ultimi anni il desiderio di essere presenti
tra i ragazzi che non frequentano la nostra casa ed
esprimere la nostra missione in “uscita” ha spinto
la comunità a investire un confratello nell’insegna-
mento della religione cattolica nelle scuole statali
del territorio. È molto frequentata la cappella ester-
na dedicata a Maria Ausiliatrice, punto di riferi-
mento per confessioni e celebrazioni eucaristiche
per persone che vengono da tutte le valli.
I punti di eccellenza
La nostra casa è ricercata soprattutto per l’offer-
ta scolastica che assicura una preparazione solida e
ricca. L’Oratorio trova il suo momento di maggiore
vitalità ed apertura sul territorio nelle attività estive
che coinvolgono centinaia di ragazzi e giovani pro-
venienti da tutta la Carnia nell’esperienza del Grest,
nei tornei serali, nei campi mobili. Quest’ultima
esperienza nata da alcuni anni porta i ragazzi delle
medie a percorrere il “Cammino delle Pievi”, un pel-
legrinaggio della durata di una settimana, attraverso
i sentieri delle montagne della Carnia, dormendo in
rifugi, canoniche, malghe... e visitando nelle varie
tappe le “Pievi”, chiese antiche che nel passato han-
no rivestito un ruolo spirituale, sociale e anche mili-
tare molto importante per questo territorio e che an-
cora oggi sono portatrici della presenza del Risorto
in questo tempo. Con questa esperienza l’Oratorio fa
della sua casa tutta questa terra con la sua storia, le
sue ricchezze e continua ad essere segno dell’amore
di Dio per i ragazzi e i giovani che lo abitano.
Le passeggiate
attraverso le
montagne
della Carnia,
con il direttore
in testa, sono
un piacevole
inno alla
Creazione.
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2.10 Page 20

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IN PRIMA LINEA
Antonio Labanca - Missioni Don Bosco (fotografie di Ester Negro)
Nell’inferno del
lavoro minorile
La Via Crucis di 160 milioni di bambini
crudelmente sfruttati.
Hassane ha una storia costellata da tanti ri-
fiuti. La donna che lo ha generato diciotto
anni fa lavorava in un ristorante di stra-
da a Yamoussoukro, capitale della Costa
d’Avorio. Uno degli avventori ebbe una relazione
con lei ma, alla notizia della nuova vita da crescere,
si dileguò rifiutando ogni responsabilità. La gravi-
danza fu portata a termine ma il piccolo, oltre a non
incontrare il padre, non ebbe neppure il diritto di
vivere con la madre: venne abbandonato nelle brac-
cia del gestore del ristorante.
L’uomo, uno delle migliaia di Beninesi emigrati
in Costa d’Avorio alla ricerca di lavoro, non aveva
possibilità di occuparsene. Si sentì però in dovere
di trovare una soluzione in quanto era amico del
partner della sua dipendente, in qualche modo si
sentiva coinvolto dall’incontro fra i due. Decise così
di portare il bambino in Benin, dove la sua famiglia
avrebbe potuto adottarlo. Ma nel volgere di poco
tempo il “nonno” morì e il bambino iniziò a stare
di volta in volta in casa dei fratelli e delle sorelle del
“padre adottivo” rientrato in Costa d’Avorio.
Garantita la sopravvivenza fisica, si fece tuttavia
evidente la mancanza di tutela da parte degli adulti
che l’avevano ospitato. Per questo, alle prime diffi-
coltà, il ragazzo dovette abbandonare la scuola pri-
Non mi piace lavorare qui, è sofferenza.
Voglio tornare a scuola e trovare un buon lavoro.
Eisha, una ragazza di 11 anni di un villaggio dell’India
maria, per le difficoltà nell’apprendimento ma an-
che per il costo che comportava mantenerlo. Fu così
messo a bottega, si fa per dire, come apprendista
muratore quando aveva 12 anni: un lavoro massa-
crante accompagnato da continui maltrattamenti.
Hassane decise scappare da questa situazione senza
alcuna idea di che cosa questo avrebbe comportato.
Aveva 14 anni quando il servizio di protezione dei
minori lo individuò per strada e lo affidò al Fo-
yer Don Bosco di Porto Novo. Venne inserito nei
corsi di recupero per il completamento della scuo-
la primaria e superò l’esame finale. Ora il giovane
frequenta la scuola professionale per specializzarsi
come elettricista edile. C’è un piano per aiutarlo a
entrare nel mondo del lavoro ed essere pienamente
incluso nella società.
«Non possiamo restare
a guardare»
La vicenda di Hassane è una fra le tante in Benin e
nei Paesi vicini e ovunque nel mondo. L’espressione
“lavoro minorile” indica non solo l’età dei soggetti
convolti ma anche la condizione di massima vul-
nerabilità: vera schiavitù ed esposizione costante al
pericolo di incidenti.
“Negli ultimi quattro anni il numero di bambini
costretti a lavorare in tutto il mondo è salito a 160
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MARZO 2022

3 Pages 21-30

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3.1 Page 21

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milioni” ha riconosciuto l’Organizzazione interna-
zionale del lavoro (Ilo) presentando nel 2021 il rap-
porto sulle rilevazioni dell’anno precedente. Per la
prima volta insieme con l’Unicef, il direttore gene-
rale dell’Ilo Guy Ryder ha osservato che “a questa
cifra si aggiungono tutti quei bambini che sono a
rischio a causa dell’impatto della crisi pandemica”.
Il rapporto, pubblicato nella Giornata mondiale con-
tro il lavoro minorile che si celebra il 12 giugno, è
un termometro improvvisamente tornato a segnare
temperature alte. Il progresso verso l’eliminazione
del lavoro minorile ha subìto una battuta d’arresto
per la prima volta in venti anni, invertendo la ten-
denza al ribasso che si era vista tra il 2000 e il 2016
con una diminuzione di 94 milioni di unità. “Le
nuove stime sono un campanello d’allarme. Non
possiamo restare a guardare mentre una nuova ge-
nerazione di bambini è a rischio” ha concluso Ryder.
Un rischio fisico evidente lo corrono i bambini co-
stretti a produrre sigarette, fiammiferi ed esplosivi
in India nella regione del Tamil Nadu: intossica-
zione dai materiali maneggiati, pericolo costante
di esplosioni. Secondo l’ultimo censimento dispo-
nibile (2011), in India ci sono oltre 10 milioni di
bambini lavoratori, di età inferiore ai 14 anni, con
disparità significative tra gli Stati: “il Tamil Nadu
occupa un posto elevato nel muro della vergogna”
spiegano i salesiani di Vellore; il loro sforzo è quello
di occuparsi dei piccoli spesso costretti anche dalle
famiglie a entrare nei capannoni di produzione. Le
sigarette chiamate ‘beedi’ sono quasi un prodotto
identitario, consumato dalla maggioranza dei fu-
matori indiani. Porta a numerosi effetti negativi
sull’apparato respiratorio, ma un altro è di gene-
rare gravi danni al palato del fumatore. Ma anche
la manipolazione del tabacco e degli altri materia-
li usati nella fabbricazione comporta conseguenze
dannose, sotto forma di reazioni cutanee comuni a
chi deve rollare i ‘beedi’ in fabbrica.
Nelle fornaci
nepalesi è
frequente
trovare minori
che lavorano
in condizioni
malsane e
pericolose.
Il distretto di Vellore è noto per il lavoro minorile
nella lavorazione delle sigarette. Con molti sforzi
da parte dell’amministrazione distrettuale e delle
organizzazioni civili negli ultimi dieci anni la mag-
gior parte di questi bambini è stata ritirata dalle
fabbriche e iscritta alle scuole. “Eppure ci sono
migliaia di questi bambini che restano vincolati al
lavoro e non ottengono quasi nessuna energia da
dedicare alla loro istruzione” spiega fratel Lucas
Gomes, direttore del Don Bosco Reach Out.
Il fenomeno dell’impiego di bambini e ragazzi nel-
le fabbriche ad alto pericolo ha radici sociali diffi-
cili da estirpare anche perché non tutte affiorano
al suolo. La schiavitù per debiti, ad esempio. Una
persona o una famiglia si trovano costrette a chie-
dere un prestito di denaro a qualcuno; se al mo-
mento della restituzione non riesce a fare fronte, le
viene chiesto di dare ore di lavoro. Questa forma di
accomodamento può prendere strade perverse fino
a che il tempo da dare in restituzione diverta esor-
bitante. “La persona viene indotta con l’inganno e
intrappolata a lavorare per una paga molto bassa o
nulla” spiega padre Gomes. Il meccanismo si river-
continua a pag. 24
MARZO 2022
21

3.2 Page 22

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3.3 Page 23

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3.4 Page 24

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IN PRIMA LINEA
continua da pag. 21
Un totale di
97 milioni
di ragazzi e
63 milioni
di ragazze
non vanno a
scuola ogni
mattina.
Vanno nelle
fabbriche,
nelle miniere,
nei campi,
nei mercati,
nei laboratori
tessili…
sa sull’intera famiglia, “i più colpiti sono i bambini
e le donne, in particolare quelli delle comunità Da-
lit e delle tribù emarginate”. C’è un divieto di leg-
ge, ma il lavoro vincolato è ampiamente praticato.
Ci sono anche calcoli sbagliati da parte delle fami-
glie più povere: sono convinte che l’alto numero di
figli possa aumentare la capacità di reddito, man-
dandoli a lavorare in età precoce. In realtà crea­
no un circolo vizioso perché l’apporto finanziario
che porta un minore è sicuramente insufficiente al
mantenimento di uno status di vita dignitoso.
Ci sono bambini che lavorano
per noi in questo momento
Dappertutto. Esattamente 160 milioni in cifre uf-
ficiali. Quelli non ufficiali sono sconosciuti. Un to-
tale di 97 milioni di ragazzi e 63 milioni di ragazze
che non prendono la cartella e vanno a scuola ogni
mattina. No. Vanno nelle fabbriche, nelle minie-
re, nei campi, nei mercati, nei laboratori tessili, nei
bordelli... A volte non si muovono nemmeno. Ci
vivono dentro. Minori, tra i 5 e i 17 anni, con un
mestiere, spesso senza nome. Sempre senza infan-
zia. Sono uno su dieci nel mondo. Nei paesi ricchi
non li vediamo quasi mai, sono nascosti o masche-
rati. Ma nei paesi in via di sviluppo, nei più poveri,
sono ovunque. Girati in qualsiasi strada ed eccoli lì:
ai quattro angoli del mondo. Anche così, con occhi
occidentali ci vuole tempo per vederli, per capire
chi sono, perché sono lì; per capire che hanno un
padrone o sono vittime della tratta o del contrab-
bando... Quando ci troviamo in luoghi vulnerabili
assumiamo la miseria circostante e, con essa, nor-
malizziamo la loro condizione di bambini lavorato-
ri come parte del paesaggio. Come se lo meritassero
per essere nati dove sono nati. Come se non ci fosse
nessuna anomalia, nessuna causa, nessuna opzione.
I piccoli minatori colombiani
Una situazione analoga a quella indiana si verifica
in Colombia, dove le famiglie gestiscono esse stesse
lo sfruttamento dei figli per l’estrazione del carbone
dalle miniere abusive. Il Paese è tra i maggiori espor-
tatori di carbone al mondo; nell’anno della prima epi-
demia di Covid (il 2020) la produzione scese a 48,4
milioni di tonnellate, la metà circa di quanto estratto
l’anno precedente (82,4 milioni di tonnellate). Per
l’attività estrattiva si paga un tributo pesante: 82 mi-
natori deceduti nel 2019, raddoppiati l’anno seguente.
Se il pericolo incombe nelle strutture regolari, è di
portata maggiore quando l’attività estrattiva si svolge
fuori dagli impianti industriali: il 60% dei decessi è
da imputare infatti alle attività minerarie illegali.
Il problema è dato dall’esistenza del ‘mercato nero’
(è il caso di dirlo) del carbone. Una rete di traf-
ficanti abusivi provvede a ritirare quanto estratto
dalle famiglie, paga poco il prodotto ma ha buone
possibilità di venderlo agli stessi prezzi del mer-
cato legale. La debolezza del sistema di imprese
regolari, penalizzate dalla pandemia, ha favorito
questa economia sommersa. Nelle città di Amagá
e di Angelópolis, nell’area mineraria di Sinifaná,
vivono famiglie in cui l’attività di minatori di frodo
si è tramandata da generazioni. I figli vengono im-
piegati per percorrere le gallerie abbandonate o per
scavarne di nuove: le loro ridotte misure corporee
rendono penetrabili questi cunicoli.
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3.5 Page 25

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A parte l’immaginabile rischio della vita e le pe-
santi conseguenze sulla salute derivate dal lavoro
in ambienti senza luce e con esalazioni dannose ai
polmoni, il risultato è che metà dei ragazzi in età
scolare non frequenta più la scuola, uno su cinque
rimane analfabeta. Le famiglie alle loro spalle sono
incapaci di pensare a un cambiamento. Il consumo
di droghe e di alcool, la disgregazione familiare, le
violenze e gli abusi, la prostituzione minorile sono
le conseguenze a cascata di questo ‘inferno’ econo-
mico. Le bambine sono il terminale più penalizzato
se si considera l’alto numero di gravidanze, frutto
di stupri anche in famiglia.
I salesiani a Medellin vanno incontro alle necessità
sociali ed educative delle persone più povere. Recen-
temente il fronte di intervento si è allargato all’area
mineraria di Sinifaná. La loro azione è secondo tra-
dizione quella di offrire delle alternative ai minori
incominciando dal recupero scolastico per arrivare a
dare ospitalità nei casi più difficili. Ma qui si è pre-
sentata l’urgenza di uno scatto in avanti della proget-
tazione: i figli di don Bosco vogliono passare dall’in-
seguimento del problema a un cambiamento radicale.
“Oggi proponiamo un progetto sociale alternativo
affinché padri e madri partecipino attivamente alla
salvaguardia dei minori” spiega don Carlos Manuel
Barrio di Ciudad Don Bosco, “dialogando con le au-
torità locali abbiamo messo in campo un programma
psicosociale e pedagogico rivolto a 150 famiglie”. Si
stanno elaborando modelli di impresa per costituire
alternative all’estrazione del carbone (considerata an-
che la prospettiva di una riduzione del suo consumo
per via della conversione ‘green’): l’agricoltura potreb-
be creare lavoro pulito, sano, aggregante.
Se le ‘Giornate mondiali’ servono a tenere viva
l’attenzione su un problema, si devono poi trovare
le strategie per contrastare i fenomeni negativi nella
concretezza di ogni situazione. Si tratta di ricostruire
l’autostima dei ragazzi liberati dal lavoro forzato oltre
che dotarli di risorse materiali. I salesiani nel mondo
continuano a farsi carico di proporre ai ragazzi la
frequenza della scuola, nei casi più difficili di dare loro
ospitalità. Si punta a ricostruire l’identità di persone
violate e di farle vivere come chiede la loro età.
Negli stessi giorni di pubblicazione del rapporto
Ilo-Unicef sul lavoro minorile, Hassane in Benin
ha conseguito il Certificate of Primary Studies. Pa-
dre Aurelien J. Ahouangbel che si è occupato di lui
è fiero di vedere “il desiderio di apprendere in piena
libertà la professione, consapevole della sua situa-
zione e determinato per il successo del suo futuro”.
Un ‘figlio di nessuno’ ha trovato paternità.
I progetti riferiti in questo articolo sono sostenuti dall’Italia da Missioni Don Bosco.
Per maggiori informazioni consultate il sito www.missionidonbosco.org
scrivete a progetti@missionidonbosco.org o telefonate al n. 011 3990101
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3.6 Page 26

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FMA
Emilia Di Massimo
Il talento di educare
Diversa da tutte, una università
per la cultura della vita: la Facoltà
“Auxilium” coltiva, promuove
la ricerca nel campo delle
scienze dell’educazione, prepara
ricercatori, insegnanti e operatori,
a diversi livelli, nell’ambito
dell’educazione.
Suor Piera
Ruffinatto,
Preside della
Pontificia
Facoltà di
Scienze
dell‘Educazione
“Auxilium”.
“A distanza di cinquant’anni sentiamo
la rinnovata fiducia della Chiesa e
dell’Istituto delle Figlie di Maria
Ausiliatrice nei confronti della no-
stra Facoltà, nello stesso tempo siamo consapevoli
della responsabilità che ci viene riaffidata: essere
istituzione universitaria, pontificia, salesiana, fem-
minile. Nella densità di significato degli aggettivi
che ci qualificano è contenuta una chiamata che ci
interpella e non possiamo disattendere”. Così suor
Piera Ruffinatto, Preside della Pontificia Facoltà di
Scienze dell’Educazione “Auxilium” (Roma) intro-
duce un dialogo che desidera soprattutto far emer-
gere il valore educativo che si vive nell’università.
“L’impegno della nostra ricerca è costantemente
orientato all’elaborazione di una cultura umana ed
umanizzante che pone al centro la qualità della vita
e la sua crescita. E questo valorizzando la logica pe-
dagogica, progettando il cambiamento e la trasfor-
mazione sociale a partire dall’empowerment delle
persone, nella consapevolezza che educare suppone
il mettersi in atteggiamento di reciproco potenzia-
mento a vari livelli”.
Chiedendo il perché della scelta del nome “Auxi-
lium”, del motto Con Maria, per una cultura della
vita, apprendiamo che ciò ha qualificato ulterior-
mente l’identità della Facoltà nella linea di coltivare
l’interesse e lo studio della figura di Maria come
educatrice. Infatti, sottolinea ulteriormente suor
Piera: “La Facoltà ‘Auxilium’ coltiva, promuove
la ricerca nel campo delle scienze dell’educazione,
prepara ricercatori, insegnanti e operatori, a diver-
si livelli, nell’ambito dell’educazione. La Facoltà
orienta il suo impegno in una prospettiva educa-
tiva, accogliendo l’invito di essere sul territorio
un “laboratorio pedagogico” dove elaborare piani
di intervento per preparare i giovani alla vita, per
educare ed evangelizzare.
Persona, più che matricola
Chiara si è laureata nel marzo 2020, in piena pan-
demia, dopo aver frequentato il Corso di Laurea
magistrale in Psicologia dell’Educazione.
“Quando si parla di università si pensa spesso ad
un ambiente grande, caotico, pieno di persone, in
cui gli studenti si sentono disorientati, dispersi in
un marasma ricco di stimoli, talvolta forse troppi.
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«La prima
cosa che mi ha
stupito è stata
la cordialità
delle persone:
quando varcavo
la porta di
ingresso venivo
inondata di
sorrisi e belle
parole».
Io, nella mia personale esperienza, venivo da una
triennale in una università pubblica in cui sentivo
di essere soltanto un numero, una matricola, nulla
di più. Agli esami i professori preferivano dare im-
portanza alla quantità piuttosto che alla qualità. Vi
lascio immaginare le file interminabili alla segre-
teria studenti e tutte le mail a cui non ho ricevuto
risposta. Ma quando per la prima volta sono entrata
all’interno dell’Auxilium mi sono resa conto che da
quel momento in poi la mia esperienza sarebbe sta-
ta molto diversa. Ricordo che la prima cosa che mi
ha stupito è stata la cordialità delle persone: quando
varcavo la porta di ingresso venivo inondata di sor-
risi e belle parole. Le persone mi chiamavano per
nome e non ero più semplicemente un numero di
matricola, ma una persona. Tutto questo succedeva
non solo tra colleghi, ma anche con gli insegnanti,
con i quali negli anni ho stretto un rapporto di sti-
ma e fiducia, ben oltre la materia di studio, sentivo
che desideravano conoscermi, si preoccupavano se
notavano delle difficoltà, erano disponibili a venire
incontro alle mie esigenze. Ricordo con molta gioia
le feste organizzate all’interno della Facoltà prima
delle vacanze, quando tutto il corpo docente e gli
alunni si ritrovavano per scambiarsi i saluti prima
di ritornare dalle proprie famiglie. Erano momenti
di convivialità e di spensieratezza che ci ricordava-
no che oltre a condividere le fatiche dello studio,
era importante condividere la gioia dello stare in-
sieme vivendo la fraternità.
La didattica della Facoltà si basa prevalentemente
sull’educazione integrale, sull’empatia e ciò favorisce
la motivazione delle competenze personali. Il mot-
to dell’Università è “coltivare il talento di educare”
e la missione è quella di accompagnare gli studenti
in una ricerca personale, volta all’educazione, alla
capacità di ognuno di noi di trarre fuori il talento
personale e degli altri. Ogni studente viene messo
nella condizione di cercare e coltivare i propri talenti,
le proprie capacità e farne una missione di vita an-
che in ambito professionale e lavorativo. L’università
negli anni mi ha insegnato davvero a coltivare il ta-
lento del dono e a farne una professione, come affer-
ma papa Francesco: «Donare fa sentire più felici noi
stessi e gli altri; donando si creano legami e relazioni
che fortificano la speranza in un mondo migliore».
Ho avuto modo di individuare le mie potenzialità
per costruire un progetto professionale ed i passi
necessari per realizzarlo. Certo, la strada da percor-
rere è ancora tanta ma ho fiducia: ho ricevuto delle
basi solide per entrare con maggiore sicurezza nella
vita, nel mondo del lavoro”.
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3.8 Page 28

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IMMAGINI
Francesco Motto
Vogliamo vedere Domenico!
Con il cuore Non abbiamo un ritratto
di Domenico Savio,
e lo scalpello ma in tutto il mondo
si moltiplicano dipinti
e sculture che vogliono
dargli un volto.
Oltre all’abilità artistica
ci mettono anche il cuore.
Il magnifico gruppo scultoreo che
ritrae don Bosco, san Domenico
Savio e Michele Magone.
Emiliano Facchinetti e Cristina Berloffa sono
due artisti, compagni di vita e di scultura.
Dall’Oratorio di Trescore (BG), intitolato
a san Giovanni Bosco, sono stati incarica-
ti di pensare e di realizzare un progetto scultoreo
dedicato al Santo della Gioventù. La loro ricerca
iconografica li ha portati a confrontarsi con alcu-
ni documenti fotografici del tempo e a scegliere i
componenti del gruppo scultoreo: don Bosco, Do-
menico Savio e Michele Magone. Il risultato finale
è una composizione molto equilibrata, frutto di un
impegnativo lavoro sui legni che sono stati utiliz-
zati, ricavati e lavorati a blocchi interi, opportuna-
mente scavati all’interno e resi in tutta la brillan-
tezza delle loro venature, valorizzate da preziose
laccature e patinature.
Il Santo, con il braccio alzato, invita i due piccoli
allievi a guardare al Cielo. Delicato, e quasi scon-
tato, è l’atteggiamento devoto di Domenico Savio;
Michele Magone, è presentato invece in tutta la sua
scanzonata esuberanza. Ha riposto nelle tasche la
fionda dei suoi giochi e si prepara a seguire il mo-
dello di santità proposto dal suo Protettore, che ne
avrebbe scritto una esemplare biografia. Il dialogo
tra i tre personaggi riassume il progetto educativo
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IL RITRATTO
DI SAN DOMENICO SAVIO
DELLA NOSTRA COPERTINA
Dopo la realizzazione dell’inedito ritratto di don Bosco
di Edoardo La Francesca, don Charles Cini, SDB, ha pro­
posto all’artista italiano un nuovo progetto: il disegno e
la pittura di due importanti figure del mondo salesiano:
san Domenico Savio e la beata Laura Vicuña.
Per la realizzazione del dipinto del giovane santo, La
Francesca ha compiuto uno studio molto approfondito e
una qualificata ricerca, attraverso vari libri, tra cui la vita
di Domenico Savio scritta dallo stesso don Bosco, poiché
non esistono immagini del santo.
Questo studio ha contribuito a creare ed esprimere l’im­
magine coerente e la personalità di Domenico Savio,
tenendo presente che il giovane santo è fonte di ispira­
zione per i giovani d’oggi.
Emiliano Facchinetti e Cristina Berloffa sono
i due artisti, compagni di vita e di scultura,
che hanno realizzato la bellissima opera per
l’Oratorio di Trescore (BG).
di don Bosco, come venne, e viene, proposto a tutti
i giovani, sia a quelli già orientati a divenire “bravi
cristiani e onesti cittadini”, sia a quelli ancora alla ri-
cerca di una loro dimensione personale nel mondo.
Il gruppo scultoreo è stato inaugurato e posizionato
domenica 30 gennaio 2022.
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3.10 Page 30

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LA NOSTRA STORIA
Teresio Bosco
Santi Luigi Versiglia e
Callisto Caravario Martiri
«Siamo Missionari. Perché
dovremmo aver paura di morire?».
Nei primi giorni del febbraio 1930 giunse
al centro missionario salesiano di Shiu-
chow il giovanissimo missionario don
Callisto Caravario (26 anni). Veniva dal-
la piccola comunità cristiana di Lin-chow, la più
lontana dal centro della Missione. Doveva accom-
pagnare il vescovo monsignor Versiglia (57 anni)
a visitare le sue due scuolette e i suoi duecento
cristiani, piccolo seme nella città di 40 mila
abitanti, turbata e devastata dall’intermi-
nabile guerra civile.
Gli corsero incontro festosi diversi
bambini che don Caravario aveva
salvato dal caos e dalla miseria por-
tandoli nell’Orfanotrofio e nell’I-
stituto Don Bosco di Shiu-chow.
Santo il
barbiere
e santo il
“paziente”:
monsignor
Versiglia taglia
i capelli di don
Caravario.
23 febbraio. I bagagli per la partenza sono pron-
ti: una ventina di colli con merce di ogni genere:
abiti, paramenti sacri e materiale inviati dalla carità
dei benefattori d’Italia, e il cibo occorrente per il
viaggio di sette persone, che dovrà durare otto
giorni (per superare una distanza di 90 chilometri!).
I confratelli salesiani hanno visto don Caravario
darsi da fare attorno a tutto quel bagaglio e gli
fanno allegre congratulazioni: «Quanta grazia di
Dio!». E lui, con il solito sorriso buono: «Purché
non vada tutto in bocca al lupo!». Poi, stringendosi
nelle spalle: «Ad ogni modo, sia fatta la volontà del
Signore!». Tutti sanno che questa ultima è l’espres-
sione abituale di don Caravario «il santino». In quei
giorni don Caravario ha scritto una lunga lettera a
sua madre, a Torino, datandola «13 febbraio».
Partenza all’alba del 24 febbraio. Sveglia alle quat-
tro, santa Messa, raduno dei partenti. Sono il ve-
scovo Versiglia, don Caravario, due giovani maestri
diplomati all’Istituto Don Bosco (Thong Chong
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4 Pages 31-40

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4.1 Page 31

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Wai, pagano; M Pan Ching, cristiano), le loro due
sorelle (Thong Su Lien Maria, 21 anni, maestra; M
Yu Tee Paola, 16 anni, che lascia gli studi e torna in
famiglia). C’è anche Tzen Tz Yung Clara (22 anni, si
reca a Lin-chow come catechista). Michele Arduino,
vescovo successore di monsignor Versiglia, depose:
«I giovani e le giovani che venivano in collegio o
tornavano in famiglia, erano sempre accompagnati
dai Missionari. I genitori imponevano questa condi-
zione ai Missionari, per lasciar partire le loro figlie.
In questo caso i due giovani maestri, le loro sorelle
e la catechista avevano atteso appositamente per fare
il viaggio con il Vescovo e don Caravario ed esserne
protetti da possibili aggressioni di pirati».
La mamma
di san Callisto
Caravario
fra i giovani
dell’Oratorio.
Sulla barca verso Nord
La comitiva, capeggiata dal vescovo Versiglia, si
mosse in treno dalla stazione ferroviaria di Shiu-
chow alle 8,30 del 24 febbraio. Alle 17 giunse a
Lin-kong-how, sede di una Missione salesiana. Li
attendeva il sacerdote don Cavada, che li accompa-
gnò alla Missione dove pernottarono.
Il giorno dopo, 25 febbraio, monsignor Versiglia
e don Caravario dissero la Messa. Poi tutti sali-
rono sulla barca che doveva risalire verso Nord il
fiume Lin-chow, e portarli alla Missione di Lin-
chow dove li aspettava la piccola comunità cristiana
di don Caravario. Erano le 7 del mattino. Se il
viaggio in treno era durato otto ore e mezza, quello
in barca (per superare una distanza quasi uguale)
era previsto di sette giorni. Alla comitiva si erano
aggiunti il ragazzo cristiano Luk Apiao Pietro, di
10 anni, che si recava alla scuola di don Caravario
per iniziare gli studi, e un’anziana catechista che
doveva affiancare il lavoro della giovane Clara. I
barcaioli erano quattro: l’anziana padrona della
barca, suo figlio ventenne, due robusti lavorato-
ri (che stando a riva avrebbero trascinato la barca
controcorrente nei punti più difficili).
La barca cinese è come una piccola casa: la prua è
scoperta, ma la poppa è avvolta da una specie di
baracca che la trasforma nella casa di chi viaggia.
Sulla prua venne posto un drappo bianco con la
scritta Tin Tchu Tong (Missione Cattolica). Doveva
essere una specie di salvacondotto: tutti sapevano
che i missionari non erano ricchi e lavoravano per
la povera gente. Ma poteva essere anche un’esca che
attira i malvagi...
25 febbraio: agguato sul fiume
Mezzogiorno. Sulla barca si prega. D’un tratto
si sente un grido imperioso: «Fermate la barca!».
Quella decina di uomini è vicina. Puntano fuci-
li e pistole. Gridano: «Chi portate?». Il barcaiolo
risponde: «II Vescovo e un padre della Missione».
Gridano: «Non potete portare nessuno senza la no-
stra protezione. I Missionari devono pagarci 500
dollari in carta europea, o vi fucileremo tutti!». Le
donne, udito il dialogo, capiscono subito di che si
tratta. Presa la corona del Rosario, pongono la fac-
cia sulle ginocchia, si coprono il capo con le mani
e pregano.
Il Vescovo dice a don Caravario: «Di’ loro che sia-
mo missionari, e perciò non abbiamo con noi tanto
denaro».
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4.2 Page 32

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LA NOSTRA STORIA
Monsignor
Versiglia
in una
illustrazione
cinese.
Sentita la risposta, alcuni pirati
saltano sulla barca e la esplora-
no. Il bambino Apiao si dichia-
ra lestamente figlio del barca-
iolo. La vecchia catechista non
è degnata di uno sguardo. Ma
quando i banditi scorgono le
ragazze, gridano: «Portiamo via
le loro mogli!». Don Caravario
spiega: «Non sono nostre mogli,
ma nostre alunne che accompa-
gniamo a casa». Con bei modi
(com’è d’obbligo!) i Missiona-
ri trattengono i banditi fuori
della baracca. Con i loro corpi
chiudono l’entrata. I pirati allo-
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ra gridano: «Diamo fuoco alla
barca!». Pochi metri più in là è
ferma una barca carica di legna.
Trasportano fascine sulla prua e
appiccano il fuoco. Ma la legna
è grossa e verde, stenta ad accen-
dersi, e il Vescovo riesce a sof-
focare le prime fiamme. Furiosi,
i pirati tirano fuori dalle fascine
i rami più grossi e iniziano una
terribile bastonatura sui cor-
pi dei Missionari. Dopo molti
minuti, sanguinante e sfinito,
il Vescovo cade. Don Caravario
resiste ancora qualche minuto,
poi cade anche lui mormorando:
«Gesù, Giuseppe e Maria...».
A terra, i pirati legarono i due
Missionari dopo averli frugati e
depredati di ogni cosa. Sul triangolo erboso della
congiunzione dei due fiumi, furono gettati i Missio-
nari e le donne, tutti in preda al dolore e allo smar-
rimento. «Noi dobbiamo ammazzarvi – gridò uno
verso i Missionari –. Non avete paura di morire?».
Il Vescovo rispose: «Siamo Missionari. Perché do-
vremmo aver paura di morire?».
Cinque colpi di fucile
I pirati ordinarono a quelli della barca di tornare a
Lin-kong-how. Su di essa erano rimasti, con i bar-
caioli, il piccolo Apiao, l’anziana catechista, i fra-
telli di Maria e Paola. Quello stesso pomeriggio del
25 febbraio, alle 17, giunsero alla missione di don
Cavada e diedero la triste notizia. Più rapidamente
possibile furono avvertite le autorità, che fecero
appello a reparti dell’esercito regolare stanziati non
molto lontano.
Intanto sul fiume si consumava la tragedia. Maria
testimoniò: «Distavamo dai missionari non più di
tre metri. Vidi che don Caravario, chinato il capo,
parlava sottovoce al Vescovo». Si stavano confes-
sando a vicenda. La catechista Clara testimoniò a

4.3 Page 33

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sua volta: «II Vescovo e don Caravario ci guardava-
no, c’indicavano con gli occhi il cielo e pregavano.
L’aspetto loro era gentile e sorridente, e pregavano
ad alta voce».
A un ordine dei pirati, i Missionari s’incammina-
rono per la stradetta che segue il corso del Shiu-
pin. Li guardavano alcuni curiosi dei vicini casola-
ri. Uno di loro sentì il Vescovo dire ai briganti: «Io
sono vecchio, ammazzatemi pure. Ma lui è giova-
ne. Risparmiatelo!».
Le donne, mentre erano spinte verso una piccola
pagoda bianca, sentirono cinque fucilate. Maria
testimonia: «Circa dieci minuti dopo gli esecutori
tornarono e dissero ai compagni di aver loro spara-
to cinque colpi di fucile». «Sono cose inspiegabili
– dissero –. Ne abbiamo visti tanti... Tutti temono
la morte. Questi due invece sono morti contenti, e
queste ragazze non desiderano altro che morire...».
Era il primo pomeriggio del 25 febbraio.
I Martiri
Frattanto don Cavada e don Lareno (segretario del
vescovo Versiglia), accompagnati dal capo della po-
lizia di Shiu-pin, avevano ritrovato i resti dei mar-
tiri. Entrambi avevano la testa sfracellata.
La sera di domenica 2 marzo, le tre ragazze liberate
dalla prigionia s’inginocchiarono a pregare davanti
alle spoglie mortali dei due Missionari che avevano
dato la vita per difenderle.
Monsignor Luigi Versiglia, nato a Oliva Gessi (Pa-
via), era entrato da ragazzino nell’Oratorio di don
Bosco, nel lontano 1873. Affascinato da una spedi-
zione di Missionari a cui assistette nella Basilica di
Maria Ausiliatrice, aveva deciso di essere missio-
nario anche lui. Nel 1906 aveva guidato la prima
spedizione missionaria salesiana in Cina.
Don Callisto Caravario, nato a Cuorgnè, si era
trasferito a Torino che aveva solo quattro anni. Il
papà, il fratello, la sorella, e specialmente la sua
dolcissima mamma Rosa, gli avevano permesso di
partire appena ventunenne per le Missioni della
Cina.
La lettera che don Callisto aveva scritto alla mam-
ma il 13 febbraio (dodici giorni prima di essere
ucciso), mamma Rosa la ricevette dopo che i Sale-
siani, con la massima delicatezza possibile, le ave-
vano comunicato il martirio di suo figlio. Quella
lettera, che conserviamo con venerazione, ha le pa-
role leggermente confuse dalle lacrime di mamma
Rosa. Don Callisto le diceva: «Fatti coraggio, mia
buona mamma! Passerà la vita e finiranno i dolori:
in paradiso saremo felici. Nulla ti turbi, mia buo-
na mamma; se porti la tua croce in compagnia di
Gesù, sarà molto più leggera e piacevole...».
Papa Paolo VI nel 1976 dichiarò «martiri» mon­
signor Versiglia e don Caravario. Papa Giovanni
Pao­lo II, nel 1983, li dichiarò «beati». Lo stesso
Papa il 1° ottobre 2000 li dichiarò «santi».
La banda
musicale
della scuola
salesiana di
Shiu-chow,
con i santi
Versiglia e
Caravario.
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4.4 Page 34

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COME DON BOSCO
Pino Pellegrino
Le malattie dell’educazione 3
L’anemia
Lo psicologo americano John
Powell afferma: “In certi casi può
sembrare spaventoso, ma il nostro
destino è nelle mani dei genitori.
Noi siamo, tutti quanti, il prodotto
di coloro che ci hanno amati
o che si sono rifiutati di amarci!”.
shutterstock.com
Dire ‘anemia’ è dire ‘mancanza’: mancanza
di forze, mancanza di brio, mancanza
di calore. Anche l’anemia pedagogica è
mancanza: mancanza di slancio, di pas-
sione, di interessi... L’anemia pedagogica porta ad
un’educazione piatta, sbiadita, bassa, rassegnata.
L’educatore affetto da tale malattia, infatti, ha un
carattere inadatto alla crescita di un uomo. È mol-
liccio, debole, privo di grinta. Pur di non avere fa-
stidi, educa (meglio: ‘alleva’) a caramelle e zucchero
filato. L’educatore anemico non accende fuochi, ma
getta acqua.
È soggetto a depressioni, a frustrazioni. Invece di
dare carezze di prima mano, dà carezze sostitutive
di seconda mano quali sono i doni, i regali, i giochi,
i vestiti. Ne abbiamo abbastanza per concludere che
è da saggi prendere le debite distanze dall’anemia
pedagogica. Stare alla larga, perché tale malattia è
così grave da rendere impossibile l’educazione stessa!
Le strategie
Possiamo tranquillamente creare strategie tut-
te nostre, o fare ciò che funziona. Non importa
realmente quali strategie accumuliamo. Il problema
principale è avere la volontà di svolgere il nostro la-
voro, di porre dei sani limiti ai nostri figli, limiti
all’interno dei quali possono svilupparsi, imparare,
crescere e sbocciare alla vita. Ma, forse, l’aspetto
più importante, è la volontà di usare il buon senso.
Strategia 1 • I genitori sono il segreto del-
la felicità futura dei figli. Si tratta di essere
semplicemente persone serie che riflettono un at-
timo su ciò che sono. Essere genitore non è uno
spasso, non è cosa per gente pigra! Ne era convinto
l’autorevole pediatra Marcello Bernardi: “Diventa-
re genitore non è obbligatorio. Ma quando uno lo
diventa, deve darsi una bella regolata e stare atten-
to a quello che fa!”.
“Una bella regolata!”, certo, perché la sorte di un
uomo è nelle mani di chi lo mette al mondo! A
proposito è molto esplicito lo psicologo americano
John Powell: “In certi casi può sembrare spavento-
so, ma il nostro destino è nelle mani dei genitori.
Noi siamo, tutti quanti, il prodotto di coloro che
ci hanno amati o che si sono rifiutati di amarci!”
I genitori, lo vogliano o non lo vogliano, ci pensi-
no o non ci pensino, lasciano una traccia: educano
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4.5 Page 35

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o rovinano il figlio che non può sottrarsi ad essi,
soprattutto nei primi anni della vita che formano
lo zoccolo duro della nostra personalità.
Il contesto familiare è la base che ha il potere di
costruire o demolire, in modo indelebile, l’io
del bambino e quindi l’uomo di domani!
Ecco: prendere coscienza del nostro ruolo
dovrebbe sconfiggere l’anemia pedagogica! È
meglio, infatti, non generare che rovinare!
Strategia 2 • Fortificare, il più pos-
sibile, la passione educativa che
muove tutto! Ebbene, la molla che dà for-
za ad ogni passione è un sogno, una meta,
un ideale. Un uomo con un sogno è più
forte di cento che abbiano solo interessi!
Non solo più forte, ma anche più grande in
base all’altezza del sogno, dell’ideale. Ebbene,
si trovi un ideale più grande di quello di regalare
al mondo un Uomo nuovo! Non ci stanchiamo di
sottolinearlo: costruire un calcolatore elettronico
è geniale, andare sulla Luna è meraviglioso,
educare un Uomo è immenso! Ciò detto, possiamo
chiudere il ragionamento: l’anemia pedagogica la si
distrugge se si prende consapevolezza dell’altezza e
della grandezza del compito del genitore!
Strategia 3 • Decidere che cosa vogliamo
e insegnarlo davvero. In genere ai bambini si
deve insegnare a diventare autonomi e ad assumersi
la responsabilità delle proprie scelte e delle proprie
azioni. A loro non piace affatto che venga detto che
cosa fare. Possiamo insegnar loro anche che, a vol-
te, ci tocca fare cose che non ci piacciono. È meglio
puntare su comportamenti semplici e concreti che,
una volta insegnati, innescheranno altri cambia-
menti positivi.
SECONDO PIERO ANGELA
Piero Angela il quale raramente scrive con tanta partecipa­
zione come in questo caso, parlando della mamma: “Im­
mersa nei pannolini, nelle pappe, nei rigurgiti, la mamma
si sente spesso frustrata intellettualmente, ma può ritro­
vare una diversa prospettiva, se è consapevole che la sua
intelligenza, il suo talento, la sua sensibilità sono pratica­
mente le sole cose che permettono a quel batuffolo uma­
no di emergere dalla notte animale e di diventare un esse­
re pensante. Tocca a lei plasmare, modellare, stimolare la
nascita dell’intelligenza, della creatività, della personalità.
Il suo compito è molto simile a quello di uno scultore, di
un pittore, di un musicista. Il figlio è buona parte sua ‘com­
posizione‘ per la quale occorre altrettanto talento quanto
può occorrerne ad un artista per realizzare una creazione.
E, forse, di più!”.
in fuori, tenere la testa alta e camminare con passo
deciso. Possiamo imparare a girare sui tacchi, non
più ad arretrare – oppure possiamo restare fermi, in
silenzio di protesta. Possiamo abbassarci al livello
del bambino per guardarlo negli occhi. Possiamo
imparare ad abbassare la voce quando siamo arrab-
biati, anziché alzarla. Possiamo guadagnare tempo
per programmare ciò che vogliamo dire o per pren-
dere decisioni.
Possiamo prendere atto delle cose belle presenti
nella nostra vita. Possiamo cercare ispirazione den-
tro di noi o negli altri. Possiamo dedicare il nostro
tempo e la nostra energia agli altri. E, come ab-
biamo visto così tante volte, possiamo dire ciò che
intendiamo e intendere ciò che diciamo.
Strategia 4 • Il modello siete voi. Possiamo
esercitarci ad agire con convinzione e con fidu-
cia, anche se, in tutta onestà, non proviamo questi
sentimenti. Possiamo raddrizzarci, buttare il petto
MARZO 2022
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4.6 Page 36

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LA LINEA D’OMBRA
Alessandra Mastrodonato
Padroni di niente,
custodi della Terra
Si impone una vera e propria “conversione ecologica”,
un ripensamento profondo che superi le resistenze e lo
scetticismo di quanti credono che «non cambierà mai niente».
Un atavico retaggio, che è possibile far ri-
salire addirittura agli albori del pensiero
occidentale, ha contribuito nel corso dei
secoli a delineare e consolidare l’imma-
gine dell’uomo come dominatore incontrastato
dell’ambiente in cui vive, padrone dispotico di una
natura da sfruttare, plasmare e depredare a proprio
piacimento. L’avvento della modernità, con l’incal-
zante sviluppo tecnologico cui stiamo assistendo
negli ultimi decenni e la conseguente diffusione di
stili di vita, di produzione e di consumo indifferen-
ti ai delicati equilibri del Creato, ha fatto il resto,
generando una vera e propria “crisi ecologica” che
ha ricadute allarmanti anche sul piano della giu-
stizia sociale e dell’equa distribuzione delle risorse.
Una «utopia di onnipotenza» – come l’ha definita sul
finire del secolo scorso il filosofo tedesco Hans Jo-
nas – che, scatenando a dismisura le potenzialità di
trasformazione della natura insite nell’azione uma-
na ed esaltate dalla tecnica, rischia di compromet-
tere le capacità di rigenerazione degli ecosistemi e,
infine, di distruggere la vita stessa sulla Terra.
Di fronte a un simile scenario dai tratti a dir poco
inquietanti, appaiono quanto mai attuali gli acco-
Passa, certo che passa,
il tempo cammina e lascia la sua traccia,
disegna una riga sopra la mia fronte,
come se fosse la linea di un nuovo orizzonte.
Cambia, la mia faccia cambia,
cambia la mia testa, il mio punto di vista,
la mia opinione sulle cose e sulla gente,
cambia del tutto o non cambia per niente...
Passa, certo che passa,
l'uomo cammina e lascia la sua traccia,
costruisce muri sopra gli orizzonti,
stabilisce i confini, le leggi, le sorti.
Sbaglia, sbaglia chi non cambia,
chi genera paura, chi alimenta rabbia.
La convinzione che non cambierà mai niente
è solo un pensiero che inquina la mente...
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MARZO 2022
shutterstock.com

4.7 Page 37

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rati appelli di papa Francesco in direzione di una
collettiva presa di coscienza delle responsabilità
umane nei confronti della salvaguardia del Creato
e della ormai non più derogabile costruzione di una
nuova “etica ambientale” che prenda le mosse dal
riconoscimento che «facciamo parte di un’unica
famiglia, chiamata a vivere in una casa comune»,
che abbiamo il dovere di proteggere e di custodire.
Un invito, questo, che è al tempo stesso un ammo-
nimento e che, se riguarda necessariamente tutti e
ciascuno, sembra interpellare in modo particolare
i giovani adulti, sollecitati a farsi carico di scelte
impegnative e di una radicale revisione degli attua-
li modelli di sviluppo, da cui dipenderanno in un
prossimo futuro la salvezza dell’umanità e la salute
del pianeta.
Mai come oggi le generazioni più giovani sono
chiamate a farsi promotrici e protagoniste attive
del cambiamento, gettando le basi per politiche di
gestione delle risorse più sostenibili, ma soprattut-
to disegnando gli orizzonti di un nuovo modo di
pensare la natura e il posto dell’uomo all’interno
del mondo.
C'è che siamo padroni di tutto e di niente,
c'è che l'uomo non vede, non parla e non sente.
Qui c'è gente che spera in mezzo a gente che spara
e dispera l'amore,
qui c'è chi non capisce che prima di tutto
la vita è un valore...
E se fosse che stiamo davvero sbagliando
e facendo il più brutto dei sogni mai fatti,
e se fosse che stiamo soltanto giocando
una partita di scacchi tra il nero ed il bianco,
il nero ed il bianco...
E poi, e poi, e poi,
sarà che quando penso di voler cambiare il mondo,
poi succede che è lui che invece cambia me!
E poi, e poi, e poi,
sarà che quando sento di voler salvare il mondo,
poi succede che è lui che invece salva me!
C'è che siamo padroni di tutto e di niente,
c'è che l'uomo non vede, non parla e non sente.
Qui c'è gente che spera in mezzo a gente che spara
e dispera l'amore,
qui c'è chi non capisce che prima di tutto
la vita è un valore,
la vita è un valore...
(Fiorella Mannoia, Padroni di niente, 2020)
Il grido di allarme che si leva dal nostro pianeta
martoriato e dagli ultimi della Terra, la cui dignità
e la cui stessa sopravvivenza sono gravemente com-
promesse dall’inopinata distruzione dell’ambiente
e dal crescere degli squilibri economici tra Nord e
Sud del mondo, impone infatti una vera e propria
“conversione ecologica”. Un ripensamento profondo
che, superando le resistenze e lo scetticismo di quan-
ti credono che «non cambierà mai niente», permetta di
sostituire l’arrogante convinzione di essere “signori”
e “padroni” della natura con un sollecito impegno
di “cura” nei confronti del Creato, proprio di chi si
riconosce “abitante a tempo determinato” di questa
casa comune che è la Terra e, come tale, investito del
compito prioritario di «coltivarla e custodirla», come
si legge nella Genesi. Il che significa, prima di tutto,
imparare ad abitare il proprio essere creatura, nella
misura in cui non è pensabile costruire una nuova re-
lazione con la natura senza prima edificare un essere
umano radicalmente nuovo.
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4.8 Page 38

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LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
Francesco Motto
Dal “padre” sognatore
al “figlio” scopritore
Don Alberto De Agostini:
il salesiano leggendario esploratore
della “fine del mondo”.
Ritratto
di don De
Agostini
anziano. Era
un uomo
gentile e
amabile.
A prite una cartina
geografica dell’A-
merica meridiona-
le e fissate la zona
al di là e al di qua dello stretto
di Magellano, comunemente
detta “Fin del Mundo”: tro-
verete monti, ghiacciai, laghi,
lagune, parchi che porta-
no nomi di luoghi italiani (Aosta, Biella, Novara,
Pollone, Torino, Italia), di italiani famosi (Negri,
Marconi, Spegazzini, Schiaparelli, Sella, Pio IX,
De Gasperi), oltre a quelli di salesiani pure ben
noti: don Bosco, Cagliero, Milanesio, Vespignani,
Bernabé, Aguilera, Carbajal e anche quello di un
giovane piemontese beatificato poco tempo fa: Pier
Giorgio (Frassati).
Forse non tutti sanno che tale ricchissima topo-
nomastica è dovuta al missionario salesiano, don
Alberto Maria De Agostini (Pollone-Biella 1883
- Torino 1960), di cui portano il nome non solo
un grande parco nazionale e un bellissimo fiordo
della Terra del Fuoco, ma anche la cima più alta
del famosissimo massiccio delle Torri del Paine
fra Cile ed Argentina in Patagonia; oltre a nume-
rose piazze, vie, alberghi, statue, monumenti, di-
pinti nei due paesi sudamericani. Non per nulla è
un personaggio semi-leggendario fra i gauchos
d’America, soprannominato Don Patagonia.
In Italia invece fatica ad essere conosciuto al di fuo-
ri dalla ristretta cerchia di studiosi, mentre molto
più noto è l’Istituto Geografico De Agostini di
Novara, fondato dal fratello Giovanni, che ha lega-
to indissolubilmente il nome alla geografia.
Un salesiano fuori dell’ordinario
Partito missionario ventisettenne alla volta di Punta
Arenas, sullo stretto di Magellano, don De Agostini
passò gli altri 50 anni di vita equamente suddivisi fra
Italia e Argentina-Cile, alternando insegnamento
collegiale ed esplorazioni scientifiche, attività pa-
storale e pubblicazioni, vita comunitaria e solitudi-
ni assolute. Ben diciotto le sue traversate atlantiche.
Sospinto dall’amore per la montagna, dalla passione
per la fotografia, dall’interesse per la scienza, sul-
la scia dei sogni di don Bosco sulla Patagonia don
Alberto calpestò terre e scalò vette mai raggiunte
da uomo, descrisse minuziosamente panorami ter-
restri e marini assolutamente sconosciuti, mostrò al
mondo volti di uomini e donne che sarebbero presto
scomparsi dalla faccia della terra. In una parola con
l’aiuto del fratello Giovanni, mise con grande preci-
sione sulle cartine geografiche, geologiche e antro-
pologiche la fine del mondo in tutte le sue fattezze.
Dimostrò così come infondate alcune teorie diffuse
anche dai grandi della scienza, Charles Darwin in-
cluso, con cui per altro condivise l’assegnazione di
un prestigioso premio internazionale.
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MARZO 2022

4.9 Page 39

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Conquistatore di anime
e di bellezze naturali
Se nel 1977 lo scrittore inglese Bru-
ce Chatwin definiva la Patagonia
terra “sconosciuta e poco esplorata”,
possiamo immaginare quanto lo era
la Patagonia australe – soprattutto
la zona andina, e l’inestricabile ar-
cipelago della Terra del Fuoco – al momento in cui
nel 1910 arrivò don De Agostini. Ebbene egli per-
corse quelle aree semisconosciute del pianeta terra
in lungo e in largo per terra, mare (e cielo) pren-
dendo appunti, fotografandole, facendole conoscere
al mondo intero su carta e su pellicola. Le conqui-
ste di terreni vergini ed acque impervie – l’orrido-
sublime – la raccolta di dati geologici, cartografici
e naturalistici (flora, fauna, minerali) gli richiesero
enormi sacrifici per le aspre difficoltà climatiche,
l’esiguità di mezzi economici, la solitudine asso-
luta, le attese infinite per riuscire nei suoi intenti.
Un nome in assoluto: il mitico monte Sarmiento,
scalato dopo un’attesa di 40 anni. Ovviamente don
Alberto non dimenticò la sua missione principale:
educare i giovani accolti nelle case salesiane, avvi-
cinare ed evangelizzare gli indios dispersi in quelle
terre desolate, ri-evangelizzare gli europei emigrati
laggiù e a rischio di perdere la fede. Dunque un
personaggio che ha saputo conciliare, nel suo esse-
re e nel suo operare, scienza e fede (tanto da farsi
accompagnare quasi sempre nelle esplorazioni da
“uomini di scienza”).
musei italiani e cileni. Prenderan-
no la parola da Roma, da Barilo-
che (Argentina), da Punta Arenas
(Cile) una quindicina di studiosi
di storia salesiana, di geografia, di
letteratura, di cinematografia ma
anche di esperti “ragni di Lecco,
scalatori pure delle Ande Patago-
niche (una loro scalata si è appena conclusa). Tutti
potranno seguire i lavori anche a distanza, on line.
Sarà pure allestita un’esposizione fotografica e bi-
bliografica.
Non è però solo storia di ieri. Se oggi vi è un flus-
so turistico imponente nella Patagonia soprattutto
cilena, ma anche argentina (Ushuaia) è grazie alle
guide turistiche di don De Agostini, ai suoi film,
ai suoi libri. Se oggi abbiamo le ultime foto sugli
indios Alakaluf, Ona, Tehuelche e Yamana, scomparsi
dalla faccia della terra, è soprattutto grazie al suo
lavoro; se oggi sappiamo di quanto si sono ritira-
ti i ghiacciai dalla fine del continente americano è
grazie al confronto fra le foto del satellite e quelle
che lui fece cento anni fa. Insomma un figlio di don
Bosco che ha fatto e continua a far storia.
In alto:
Uno dei suoi
innumerevoli
libri.
Sotto: don
De Agostini
con Pa-Chiek,
influente capo
degli Ona, suo
grandissimo
amico.
Un convegno internazionale
Sacerdote per vocazione, missionario per scel-
ta, cartografo per nascita, scalatore appassionato,
esploratore instancabile, fotografo esperto, viaggia-
tore impenitente, ma anche improvvisato natura-
lista, etnologo, scrittore, cineasta: questo don De
Agostini sarà al centro di una tre giorni di studio
(25-27 aprile 2022), organizzata dall’Istituto Stori-
co Salesiano presso l’Università Pontificia Salesia-
na di Roma, in collaborazione con vari enti civili e
MARZO 2022
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4.10 Page 40

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I NOSTRI SANTI
A cura di Pierluigi Cameroni  postulatore generale
 Coloro che ricevessero grazie o favori per intercessione
dei nostri beati, venerabili e servi di Dio, sono pregati
di segnalarlo a postulatore@sdb.org
 Per la pubblicazione non si tiene conto delle lettere
non firmate e senza recapito. Su richiesta si potrà
omettere l’indicazione del nome.
IL SANTO DEL MESE
In questo mese di gennaio preghiamo per Beatificazione
del Servo di Dio Antonino Baglieri (1951-2007),
Volontario con Don Bosco.
Nino Baglieri nasce a Modica il
1° maggio 1951. Dopo aver fre-
quentato le scuole elementari
e aver intrapreso il mestiere di
muratore, a diciassette anni, il
6 maggio 1968, precipita giù
da un’impalcatura alta 17 me-
tri. Ricoverato d’urgenza, Nino
si accorge con amarezza di es-
sere rimasto completamente
paralizzato. Di fronte ad una
situazione molto drammatica
la madre Giuseppina coraggio-
samente e confidando in Dio si
rende disponibile ad accudirlo
personalmente per tutta la vita.
Inizia così il cammino di soffe-
renza di Nino che passa da un
centro ospedaliero all’altro, ma
senza alcun miglioramento. Ri-
tornato nel 1970 al paese natio,
dopo i primi giorni di visite di
amici, iniziano per Nino dieci
lunghi anni oscuri, senza uscire
di casa, in solitudine, sofferen-
za e tanta disperazione.
Il 24 marzo 1978, Venerdì San-
to, alle quattro
del pomeriggio,
un gruppo di per-
sone facenti parte
del Rinnovamen-
to nello Spirito
pregano per lui;
Nino sente in sé
una trasformazio-
ne. Da quel mo-
mento accetta la
Croce e dice il suo
“sì” al Signore.
Incomincia a leg-
gere il Vangelo e
la Bibbia: riscopre
le meraviglie del-
la fede. Aiutando
alcuni ragazzini,
vicini di casa, a
fare i compiti,
impara a scrivere con la bocca.
Redige, così, le sue memorie, le
lettere a persone di ogni cate-
goria in varie parti del mondo,
personalizza immagini-ricordo
che omaggia a quanti vanno a
visitarlo. Grazie a un’asticella,
compone i numeri telefonici e
si mette in contatto diretto con
tante persone ammalate e la
sua parola calma e convincente
li conforta.
Comincia un continuo flusso
di relazioni che non solo lo fa
uscire dall’isolamento, ma lo
porta a testimoniare il Vange-
lo della gioia e della speranza.
Dal 6 maggio 1982 in poi,
Nino festeggia l’Anniversario
della Croce e, lo stesso anno,
entra a far parte della Famiglia
Salesiana come Salesiano Co-
operatore. Il 31 agosto 2004
emette la professione per-
petua tra i Volontari con Don
Bosco (CDB). Il 2 marzo 2007,
alle ore 8, Nino Baglieri, dopo
un periodo di lunga sofferenza
e di prova, rende la sua anima
a Dio. Dopo la morte, viene
vestito con la tuta e le scarpe
da ginnastica, affinché, come
aveva detto, «nel mio ultimo
viaggio verso Dio, potrò cor-
rergli incontro».
Ringraziano
Mi chiamo Gabriella, sono una
volontaria del Museo Casa don
Bosco. Questo privilegio mi ha
portata a conoscere la straor-
dinaria figura del sacerdote il
servo di Dio don Luigi Bolla.
Leggendo che il 27 settembre
scorso è iniziata la Causa di
bea­tificazione, ho pregato il
santo sacerdote per un ragazzo
(situazione delicata e dispera-
ta) vittima di tossicodipenden-
za. Erano ormai inesistenti le
possibilità che lo riprendessero
in comunità (quinta volta) visto
che le ultime due era uscito ri-
nunciando alle cure. Con cuore
semplice e fiducioso ho chiesto
a don Luigi Bolla di intercedere
per questo ragazzo e tra 1000
difficoltà e vicissitudini U. è
entrato in una nuova comunità
(Papa Giovanni XXIII) il 21 otto-
bre scorso con la speranza che
il Signore gli conceda il dono
della guarigione.
Voglio rendere grazie a Maria
Ausiliatrice e a san Dome-
nico Savio per il dono di una
grande grazia operata su una
mia cara amica. Incinta di sei
mesi all’improvviso accusava
dei fortissimi mal di testa. Ri-
coverata d’urgenza in ospedale
dopo vari accertamenti la dia-
gnosi era di emorragia cele-
brale. Abbiamo tanto pregato
per lei e il suo bambino e la
nostra preghiera si è allargata
ed è arrivata fino a Torino dove
l’intera famiglia salesiana ha
chiesto l’intercessione di Maria
Ausiliatrice e san Domenico Sa-
vio. La grazia non ha tardato ad
arrivare, l’emorragia è rientrata
e dopo due mesi, a luglio 2020
è nato uno splendido bambino
di nome Giosuè che oggi, ad un
anno di distanza, cresce sano e
forte ed è la gioia dei genitori
e di tutti i parenti. La mamma
sottoposta ad ulteriori control-
li dopo il parto sta bene e non
ha traccia né cicatrici di quella
emorragia. Voglio ringraziare
pubblicamente Maria Ausilia-
trice e san Domenico Savio e
continuo a chiedere per loro
il dono della loro protezione e
benedizione.
G. A.
Desidero segnalare le grazie
ricevute per intercessione del-
la venerabile Mamma Mar-
gherita. Il mio nipotino, nato
prematuro, ha superato i pro-
blemi di deambulazione cam-
minando in tempi rallentati,
ma tutto sommato recuperan-
do bene. Lo stesso nipotino ha
superato i problemi alimentari
che lo hanno afflitto per il pri-
mo anno e mezzo. L’altra ni-
potina ha superato una brutta
otite che ha destato la nostra
seria preoccupazione. Grazie
Mamma Margherita per la tua
intercessione. Continuerò a
pregarti con fervore, e spero
di assistere alla tua Beatifica-
zione.
Maria Ausilia Musumeci – Catania
40
MARZO 2022

5 Pages 41-50

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5.1 Page 41

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IL LORO RICORDO E` BENEDIZIONE
Mike Mendl
Don Arthur J. Lenti
morto a Downey, California,
il 6 gennaio 2022, a 98 anni
La Congregazione Salesiana
ha perso un gigante
Don Lenti nacque il 31 gennaio
(per inciso, festa di don Bosco),
del 1923 a Bassignana, in Pie-
monte, nello stesso Monferrato
di don Bosco, i genitori di papa
Francesco e tantissimi salesiani.
Entrato nel noviziato del Colle
Don Bosco nel 1939, emise la
prima professione già negli Stati
Uniti, a Newton, il 14 settembre
1940, quella perpetua, sempre
a Newton, il 10 agosto 1946, e
venne ordinato sacerdote a Tori-
no, nella Basilica di Maria Ausi-
liatrice, il 2 luglio del 1950.
Ha vissuto praticamente tutta
la sua vita salesiana in quella
che è diventata la sua patria
d’adozione, gli Stati Uniti
d’America, e ha speso i suoi
talenti impegnandosi soprat-
tutto nell’apostolato dell’inse-
gnamento e della ricerca.
Quando i Salesiani delle due
Ispettorie degli Stati Uniti
decisero di inviare i loro stu-
denti di teologia al Pontificio
Collegio Josephinum (PCJ) di
Worthington, Ohio (un sob-
borgo di Columbus), nel 1967,
padre Arthur fu scelto per unir-
si alla facoltà. Per i successivi 8
anni insegnò i 3 corsi di base
dell’Antico Testamento (Penta-
teuco e storia, profeti, saggez-
za) così come i corsi elettivi. Era
molto richiesto non solo tra i
seminaristi cattolici, ma anche
tra gli studenti delle scuole
luterane e metodiste che for-
mavano un consorzio teologico
con la PCJ.
Nel 1975 la Provincia di San
Francisco richiamò padre Arthur
in California per servire nella
facoltà di teologia per i giovani
confratelli della Provincia nel-
la Don Bosco Hall di Berkeley;
gli studenti si iscrivevano alla
scuola domenicana o a quella
gesuita. Nel giro di pochi anni
l’ispettoria trasformò la Don Bo-
sco Hall nell’Istituto di Studi Sa-
lesiani (1984) per studi avanzati
in don Bosco, storia e spiritualità
salesiana e corsi correlati, aperto
ai confratelli di tutto il mondo di
lingua inglese per un program-
ma di un anno.
Numerosi sono stati i suoi scrit-
ti sul Fondatore della Congre-
gazione. “Don Bosco. His pope
e and his bishop”, ad esempio,
si concentrava sul rapporto del
Santo dei Giovani con Pio IX
e con l’arcivescovo di Torino,
monsignor Lorenzo Gastaldi.
Ma l’opera per cui don Lenti ver-
rà più ricordato è certamente il
suo “Don Bosco. Storia e Spirito”,
della quale lo stesso autore dis-
se: “Ho intitolato questa ricerca
’Don Bosco, History and Spirit’
perché è un ’storia’ della vita e
del lavoro di don Bosco in una
epoca particolare, che ha gene-
rato una nuova realtà religiosa
e politica e quindi ha modellato
anche il suo modo di pensare e
di agire. ’Spirito’ perché attraver-
so il discernimento, l’interpreta-
zione e l’accettazione, don Bosco
ha scoperto il significato di que-
sto nuovo mondo e ha risposto
con coraggio alle sfide che ne
derivavano: la sua vocazione”.
“I primi due capitoli dedicati allo
studio delle fonti e della tradizio-
ne biografica di don Bosco sono
gioielli di inestimabile valore per
storici, scienziati sociali e ricerca-
tori”, dichiara il Professor Rodri-
guez, dell’Università Comillas.
Con un approccio ermeneuti-
co, don Lenti individua, valuta,
confronta e spesso corregge
documenti e interpretazioni su
don Bosco che prima erano con-
siderati indiscutibili. Combatte
con forza e in modo definitivo
miti e visioni superficiali. Padre
Rodriguez conclude: “Si tratta
di un’opera straordinaria, ricca
di argomenti e temi, uno sforzo
eccellente e riuscito che unisce
armoniosamente una visione
realistica della vita e dell’opera
di don Bosco e la sua genuina
motivazione religiosa.”
Il 25 gennaio 2008, la Scuola Do-
menicana di Filosofia e Teologia
di Berkeley ha conferito un dot-
torato onorario a don Arthur J.
Lenti in riconoscimento dell’ec-
cezionale contributo del suo la-
voro scientifico allo studio della
vita di don Bosco, così come in
riconoscimento dei molti anni di
servizio di don Lenti alla Chiesa
e alla Società Salesiana come
educatore e scrittore.
Al di là della sua erudizione,
padre Arthur è stato apprezza-
to da innumerevoli confratelli,
studenti e amici che hanno
apprezzato non solo la sua va-
sta conoscenza (in numerosi
campi al di là della Scrittura e
della Salesianità) ma anche la
sua cordialità e generosità. Don
Tim Ploch, uno dei suoi studen-
ti alla PCJ e poi suo ispettore
in California, si complimenta
per la sua totale dedizione alla
Parola di Dio e a san Giovanni
Bosco e lo paragona a san Fran-
cesco di Sales come studioso e
gentiluomo.
«Come Salesiani» scriveva don
Lenti «possiamo intendere la
‘spiritualità’ come il mezzo nel
quale ci muoviamo e ci rela-
zioniamo con i confratelli della
comunità, con i ragazzi, con
le persone che condividono la
nostra missione di educazione-
evangelizzazione dei giovani;
con la gente in generale.
In sostanza, la spiritualità è
amore, è carità».
MARZO 2022
41

5.2 Page 42

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IL CRUCIVERBA
Roberto Desiderati
Scoprendo don Bosco
La soluzione nel prossimo numero.
DON BOSCO ALL’ANAGRAFE
San Giovanni Bosco nacque il 16 agosto del 1815. Almeno così fu ri­
portata la nascita, andando a verificare nei registri parrocchiali, ma è
quasi certo che nacque il giorno prima, il 15, festa dell’Assunta. Nacque in una modesta casci­
na dove molti anni dopo fu costruita la Basilica di Don Bosco, nella frazione collinare I Becchi
di Castelnuovo d’Asti di recente rinominato in Castelnuovo Don Bosco. Il piccolo Giuanìn era
figlio dei contadini Francesco Bosco e Margherita Occhiena. Il padre, nel 1811, rimasto vedovo
della prima moglie, dalla quale aveva avuto due figli: Antonio e Teresa Maria, morta due gior­
ni dopo la nascita. Da Margherita Occhiena prima di Giovanni aveva avuto Giuseppe e quando
Giovanni aveva solo due anni, il padre morì per una grave polmonite a 33 anni lasciando la
moglie vedova e con tre figli da accudire (Antonio, Giuseppe e Giovanni). All’anagrafe Gio­
vanni Bosco risultava essergli stato apposto, come consuetudine, anche XXX Melchiorre.
Si tratta di un nome di origine semitica, basato probabilmente sulle radici ebraiche melekh
(o melk, “re”, da cui anche Malco e Melchisedech) e or (“luce”), con il significato complessivo
di “re della luce” o “il mio re (cioè Dio) è luce”. Questo nome viene attribuito, nella tradizione
cristiana, a uno dei Magi (che nei Vangeli sono anonimi); grazie a questa figura il nome si
diffuse inizialmente negli ambienti cristiani. In Italia si
Soluzione del numero precedente trova soprattutto al Sud (specie in Sicilia), tranne che
per la forma “Melchiore”, più presente al Nord; la sua
diffusione, comunque, è scarsa. Esistono le versioni al
femminile Melchiorra e Melchiora. L’onomastico si fe­
steggia il 6 gennaio, Epifania, in cui si commemorano
i santi Magi, ma anche in altre date a seconda dei santi
e beati che portarono tale nome.
DEFINIZIONI
ORIZZONTALI. 1. Scoppio o tonfo
prodotto da qualcosa che cade - 6. È
esperto o competente in un determi-
nato campo - 13. Io - 14. Raganelle
arboree - 15. Esaltare, celebrare - 16.
Fatto senza intenzione, senza volere -
19. Grossa fune - 20. Il Robert De...
protagonista de Il Cacciatore - 21. La
fine dei malvagi! - 22. Il Bon dell’edu-
cato - 24. XXX - 27. La Comaneci che
fu una grande ginnasta - 29. Atomi
elettrizzati - 30. Denominazione di
? Origine Protetta (sigla) - 32. Militari
dell’Aeronautica - 34. La Licia presen-
tatrice della tv - 35. Insieme con Pia-
cenza formò un ducato - 37. Il “mortis”
che si verifica dopo il trapasso - 39.
Forza attrattiva e di richiamo - 40. Che
avviene nel giorno del Signore - 41.
La dea romana dell’abbondanza - 42.
Il Moretti regista (iniz.).
VERTICALI. 1. Viene stabilita dal giu-
dice - 2. Una pianura pugliese - 3. Col-
me - 4. Il nome dell’editore Hoepli - 5.
È pari a cento centimetri - 6. Numero
o quantità imprecisati - 7. Poligono
con sei lati - 8. Riscaldano in monta-
gna - 9. Nord-Nord Est - 10. Fiume
tirolese - 11. I “banchi” per i profes-
sori - 12. Apprezzati biscotti color nero
accoppiati con crema di vaniglia - 13.
Gattina - 17. Bramosi, ingordi - 18. Il
mare di Taranto - 23. Miscela per bom-
be incendiarie usate in Vietnam - 25.
Un gas nervino - 26. Non salato - 28.
Benzina per velivoli - 31. Il sultanato
che ha per capitale Mascate - 33. Al
centro della damigiana - 34. Il verso
del corvo - 35. Si ripetono più volte
nel pioppo! - 36. Gli insetti con il pun-
giglione - 38. Antico “sì” provenzale -
39. Aosta (sigla).
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MARZO 2022

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LA BUONANOTTE
B.F.Disegno di Fabrizio Zubani
Il giardino delle tartarughe
U n re dei tempi antichi aveva, intorno al
suo palazzo, un immenso giardino, in cui
viveva e prosperava una popolazione di
grosse tartarughe. Un giorno, nel giardino delle
tartarughe scese un’allodola. Le tartarughe la
trovarono così graziosa che cominciarono a
coprirla di complimenti.
L’allodola, confusa, per ringraziarle cantò la can-
zone più dolce e brillante del suo repertorio. Le
lente tartarughe andarono in visibilio.
Gli applausi si sprecarono. «Chiediamole di fer-
marsi a vivere con noi!», propose una tartaruga.
Al tramonto, quando l’uccello calò giù in picchiata
una furba tartaruga gli disse: «Cara la mia allodo-
la, per tutte noi sei come una figlia, lo sai. Che ne
diresti di non lasciarci più e rinunciare a volare?».
«Poi volare è così faticoso! Tutti gli animali,
tranne voi, non desiderano altro che riposare e
avere la pancia piena. E poi, non hai mai pensato
al falco o ai cacciatori?».
L’allodola, pensierosa, finì per rispondere: «Credo
che tu abbia ragione, amica mia. Che debbo fare
per restare sempre qui con voi?».
La tartaruga, tutta contenta, le suggerì di strap-
parsi ogni giorno una piuma dalle ali.
Da quel giorno, l’allodola badò a strapparsi una
piccola penna ogni mattina e alla fine si ritrovò
con le ali completamente spennate.
Ora non poteva alzarsi in volo, ma in compen-
so che pace, e che belle mangiate! L’allodola
razzolava e becchettava nel terreno come un
pollo, ingrassava e si divertiva a giocare con le
tartarughe.
Erano finite, finalmente, le fatiche mattutine per
volare verso il sole in cerchi concentrici, trillando
come tutte le altre brave allodole. Non inventava
più canzoni nuove, ma alle sue amiche, in fondo,
piacevano anche quelle vecchie.
Finché un giorno, nel giardino capitò una donnola
affamata. Quando vide una grassa allodola che
saltellava tra le tartarughe, non credette ai suoi
occhi e si preparò ad azzannarla.
Le tartarughe, terrorizzate, si nascosero ciascuna
nel proprio guscio.
«Aiutatemi!» gridò l’allodola.
«Cara figlia, la donnola è più veloce di noi, e ha
i denti aguzzi! Non possiamo aiutarti», risposero
quelle, in coro.
«Mi sta bene», disse allora l’allodola.
«Per vanagloria mi sono fatta tartaruga e ho
rinunciato alla mia
unica salvezza,
le ali!».
Nascose la testa
sotto l’ala e si
rassegnò alla sua
sorte.
Dai loro uffici di mogano e cuoio, sulle Rolls-Royce
e le Toyota, con le guardie del corpo e le segretarie bion-
de, con le loro catene di tv, i controllori dell’opinione
pubblica, le tartarughe, stanno vincendo. Ogni giorno
ci strappano una piuma.
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