Bollettino_Salesiano_202108

Bollettino_Salesiano_202108

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Le nostre
guide
Don Ivo
Coelho
Le case
di don Bosco
Mužlja
Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
SETTEMBRE 2021
La nostra storia
Don Enrico Pozzoli
Tempo dello spirito
10 regole per
disinnescare
i conflitti
RICOMINCIAMO!
La nostra storia
Salvo D’Acquisto

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I FIORETTI DI DON BOSCO
B.F.
Valdocco fast food
N ei primi dieci anni, la casa
di don Bosco era un alveare.
Dopo la Messa, i giovani
ospitati sciamavano verso i rispettivi
padroni: sarti, calzolai, falegnami,
legatori, muratori ecc.
A mezzogiorno tornavano a casa
per il pranzo. Ognuno munito di
scodella di terracotta, si accostava al
pentolone che fumava sul focolare o
sopra uno sgabello presso la porta.
Mamma Margherita, Giuseppe
Buzzetti e ogni tanto don Bosco,
con il mestolo distribuivano la
minestra. Questa consisteva solita­
mente in riso e patate, talora pasta
e fagioli e, più sovente, castagne
bianche cotte con la polenta, che era
di gran lunga il piatto più gettonato.
Nelle feste, sulla polenta si faceva
passare (!) un pezzettino di salsiccia
o di merluzzo.
«Tutto spirava la più schietta allegria
in quella poverissima casa» ha scritto
un testimone «e quando don Bosco,
data la benedizione al cibo, augurava
ai suoi figli il buon appetito, scop­
piava una delle più gioviali risate,
perché vedevano da sé di non aver
bisogno di simile augurio».
La sala da pranzo era quanto mai
raffinata: «Nelle belle giornate, di­
spersi qua e colà nel cortile, a gruppi
di tre o quattro, alcuni soli, seduti
quale sopra una trave, quale sopra un
sasso o un ceppo d’albero, questi su
di una panca, quelli sulla nuda terra,
davano fondo a quel ben di Dio, che
loro somministrava la industriosa
carità di don Bosco».
Terminato il pranzo, ciascuno lavava
la propria scodella.
Il vero tesoro di ognuno però era
il cucchiaio. Perderlo significava
ricomprarlo a proprie spese. Quasi
tutti se lo mettevano in tasca.
Un certo Paolo Conti, durante una
lezione a scuola, lasciò cadere a terra
il preziosissimo cucchiaio. Tutta
la classe scoppiò in un unanime:
«Oh! un cucchiaio!» e tutti si mise­
ro a beffeggiare il buon giovane, il
quale, come se portare il cucchiaio
fosse la cosa più naturale ed ovvia
del mondo, senza scomporsi rispo­
se: «Oh! Volete che io venga a scuola
senza cucchiaio?» e con tutta serietà lo
rimise in tasca.
A cena, il menu non variava. Spesso
dovevano condividere il cibo con le
galline di Mamma Margherita che
salivano audacemente sulla tavo­
la. Guai a chi le toccava. I ragazzi
dicevano che quelle galline erano
inviolabili come i deputati al Parla­
mento.
Quanto al pane, invece di metter­
lo a tavola, don Bosco, ogni sera,
distribuiva a ciascuno 25 centesimi
affinché potessero comprarlo fresco
giorno per giorno. «Nei suoi occhi»
diceva don Felice Reviglio: «Egli
soleva dirci “La Divina Provvidenza
li dà a me, ed io li dò a voi”».
Don Bosco, con il grembiule e il
cappello da cuoco, parlava con tutti,
incoraggiava o raccontava storielle.
Diceva il teologo Vola: «Sebbene
gran parte di essi fossero poveri
orfanelli nondimeno pareva a tutti
di trovarsi tra le gioie della famiglia.
Tanta era la bontà del padre adotti­
vo!».
LA STORIA
Questa storia si può leggere nelle
Memorie Biografiche volume III,
pagina 350 e seguenti.
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SETTEMBRE 2021

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Le nostre
guide
Don Ivo
Coelho
Le case
di don Bosco
Mužlja
Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
SETTEMBRE 2021
La nostra storia
Don Enrico Pozzoli
Tempo dello spirito
10 regole per
disinnescare
i conflitti
RICOMINCIAMO!
La nostra storia
Salvo D’Acquisto
SETTEMBRE 2021
ANNO CXLV
NUMERO 08
Mensile di informazione e cultura
religiosa edito dalla Congregazione
Salesiana di San Giovanni Bosco
La copertina: Si ricomincia: ce la metteremo
tutta! (Foto di Rido / Shutterstock).
2 I FIORETTI DI DON BOSCO
4 IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
6 DON BOSCO NEL MONDO
Guinea Equatoriale
10 TEMPO DELLO SPIRITO
12 LE NOSTRE GUIDE
Ivo Coelho
16 IN PRIMA LINEA
Migranti haitiani a Tijuana
20 LE CASE DI DON BOSCO
Mužlja
24 FMA
Repubblica Democratica
del Congo
26 L’INVITATO
Giampietro Pettenon
30 LA NOSTRA STORIA
Don Pozzoli
34 COME DON BOSCO
36 LA LINEA D’OMBRA
38 LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
40 I NOSTRI SANTI
41 IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
42 RELAX
43 LA BUONANOTTE
6
12
26
Il BOLLETTINO SALESIANO
si stampa nel mondo in 66
edizioni, 31 lingue diverse
e raggiunge 132 Nazioni.
Direttore Responsabile:
Bruno Ferrero
Segreteria: Fabiana Di Bello
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Il Bollettino Salesiano
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Hanno collaborato a questo
numero: Agenzia Ans, Joaquim
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Desiderati, Ángel Fernández Artime,
Carmen Laval, Cesare Lo Monaco,
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Giampietro Pettenon, O. Pori Mecoi,
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Giampietro Pettenon (Roma)
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IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
Don Ángel Fernández Artime
Fino a dare la vita
Rendendosi conto che non poteva fermarlo, il giovane
volontario salesiano lo abbracciò strettamente dicendo:
“Morirò, ma non ti farò entrare in chiesa”.
Così il giovane e il kamikaze morirono insieme.
C ari lettori del Bollettino Salesiano, mi
piace molto raccontare fatti di vita che mi
hanno toccato il cuore. Per questo oggi, di
fronte a tanti progetti, sogni e prospettive
del nuovo anno accademico, voglio raccontarvi la
storia di un giovane, simile ai tanti giovani delle
nostre case; giovani volontari o giovani in servizio
civile; animatori degli oratori e dei centri giovanili
amati della vita come i loro coetanei.
Questo giovane di cui vi parlerò è un ex studen­
te salesiano del Pakistan che si è “semplicemente”
sacrificato come martire per salvare decine di vite.
Perché i giovani sono capaci di tutto, anche del più
grande eroismo.
La storia di Akash Bashir
La vita di Akash Bashir è sorprendentemente or­
dinaria. Un alunno salesiano, un giovane cattolico
nato in una famiglia umile,
ma con una fede profonda e
sincera. Ha studiato in uno
dei nostri istituti in Paki­
stan, nella città di Lahore,
nel quartiere cristiano di
Youhanabad.
Akash Bashir vive la sua vita
normalmente come qualsia­
si altro giovane di questo
mondo, tra la sua famiglia,
gli amici, la scuola, il lavoro,
lo sport, la preghiera. Certo,
in un paese come il Pakistan, in cui prevale una fede
musulmana conservatrice, essere un giovane catto­
lico non è cosa da poco. Qui la fede non è solo un
titolo o una tradizione familiare, è un’identità.
Il semplice ma significativo filo conduttore che
ha reso diversa la sua esistenza è stato il “servizio”.
Ogni momento della vita di Akash è stato un atto
di servizio, ed è morto servendo la comunità del
suo quartiere, è morto servendo fino a dare la sua
stessa vita.
Il 15 marzo 2015, mentre si stava celebrando la San­
ta Messa nella parrocchia di San Giovanni, il grup­
po di guardie di sicurezza composto da giovani vo­
lontari, di cui Akash Bashir faceva parte, sorvegliava
fedelmente l’ingresso. Quel giorno accadde qualcosa
di insolito. Akash notò che una persona con dell’e­
splosivo sotto i vestiti stava cercando di entrare in
chiesa per farsi esplodere all’interno; lo trattenne,
gli parlò e gli impedì di continuare, ma rendendosi
conto che non poteva fermarlo lo abbracciò stretta­
mente dicendo: “Morirò, ma non ti farò entrare in
chiesa”. Così il giovane e il kamikaze morirono insie­
me. Il nostro giovane offrì la sua vita salvando quella
di centinaia di persone, ragazzi, ragazze, mamme,
adolescenti e uomini adulti che stavano pregando in
quel momento dentro la Chiesa.
Akash aveva 20 anni.
Questo fatto ha lasciato una profonda impressione
in noi come salesiani e famiglia salesiana e natu­
ralmente non possiamo e non vogliamo perdere il
ricordo del giovane Akash. La sua vita semplice e
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normale fu senza dubbio un esempio molto signifi­
cativo e importante per i giovani cristiani di Laho­
re, di tutto il Pakistan e del mondo salesiano.
La sua mamma ha detto: “Akash faceva parte del
mio cuore. Ma la nostra felicità è più grande del
nostro dolore, perché non è morto per tossicodipen­
denza o per un incidente. Era un giovane semplice
che è morto sulla strada del Signore, salvando il sa­
cerdote e i parrocchiani. Akash è già il nostro santo”.
Oggi, è il fratello minore di Akash, Arsalan, che
aiuta la squadra di sicurezza della Chiesa. “Non
l’abbiamo fermato perché non vogliamo impedire
ai nostri figli di servire la Chiesa” dice la mamma.
Giovani martiri di oggi
«Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà,
e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la
troverà» ha detto Gesù.
Akash Bashir ne è l’esempio vivente. È un esempio
di santità per ogni cristiano, un esempio per tutti
i giovani cristiani del mondo. Essere santo oggi è
possibile! Ed è senza dubbio il segno carismatico
più evidente del sistema educativo salesiano. Ogni
studente dei nostri istituti sa che per raggiungere la
santità è necessario trovare la felicità amando pro­
fondamente Dio e le persone care; prendersi cura
e badare a coloro che conosciamo appena; essere
responsabili nei doveri ordinari, servire e pregare.
Ma in modo particolare Akash rappresenta i giova­
ni cristiani pakistani, rappresenta le minoranze reli­
giose. Akash Bashir è la bandiera, il segno, la voce
di tanti cristiani che vengono attaccati, perseguitati,
umiliati e martirizzati nei paesi non cattolici. Akash
è la voce di tanti giovani coraggiosi che riescono a
dare la loro vita per la fede nonostante le difficoltà
della vita, la povertà, l’estremismo religioso, l’indiffe­
renza, la disuguaglianza sociale, la discriminazione.
Con lo spirito di altri giovani santi o beati, come
san Domenico Savio († 1857), santa Maria Goret­
ti († 1902), il beato Pier Giorgio Frassati († 1925), il
giovane santo José Sanchez del Rio († 1928) o il gio­
vane beatificato recentemente Carlo Acutis († 2006).
La vita di Akash è la forte testimonianza della
Chiesa cattolica di oggi che ci ricorda le prime co­
munità cristiane del passato, che vivevano immerse
in culture e filosofie opposte alla fede di Gesù. An­
che quelle comunità negli Atti degli Apostoli erano
una minoranza, ma con una fede incommensura­
bile in Dio. La vita e il martirio di questo giovane
pakistano, di soli 20 anni, ci fa riconoscere la po­
tenza dello Spirito Santo di Dio, vivo, presente nei
luoghi meno attesi, negli umili, nei perseguitati, nei
giovani, nei piccoli di Dio.
Akash Bashir, il nostro ex studente salesiano del
Pakistan è una testimonianza del nostro Sistema
Preventivo, un esempio per i nostri giovani e una
benedizione per le nostre minoranze religiose.
Auguro a tutti voi un meraviglioso inizio dell’anno
accademico e una speciale benedizione per le vostre
famiglie, comunità e istituzioni.
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DON BOSCO NEL MONDO
Marcella Orsini
Anche loro sono
figlie di don Bosco
Nel mondo, le ragazze che diventano
madri prima di aver compiuto i 15 anni
sono circa 2 milioni, 5500 ogni giorno.
In molti paesi sono espulse da scuola
ed emarginate. In Guinea Equatoriale
una comunità di salesiani lotta anche
per loro.
Le donne,
le ragazze,
i bambini
sono le
prime vittime
delle crisi
internazionali.
L a Guinea Equatoriale è un Paese a reddito
medio basso, le cui condizioni socioeconomi­
che sono state influenzate in maniera deter­
minante dalla scoperta di grandi giacimenti
petroliferi nel 1996. La scarsa partecipazione alle
elezioni della maggior parte dei partiti, nel 2002,
ha portato all’elezione dell’unico candidato, Obiang
Nguema, più che un Presidente di un paese demo­
cratico, un dittatore contro il quale nel 2004 e poi
nel 2017 sono stati tentati colpi di stato poi falliti,
ma che hanno visto l’appoggio anche dell’Europa,
interessata alle questioni politiche ed economiche
in Guinea Equatoriale per lo sfruttamento delle ri­
sorse petrolifere.
Con il boom petrolifero della fine degli anni No­
vanta del secolo scorso è stato possibile investire
nello sviluppo e nelle infrastrutture, ma con un
forte deficit negli investimenti per l’istruzione e la
formazione professionale.
Oggi il Paese vive una crisi economica a causa della
diminuzione del petrolio e del crollo dei prezzi su
scala mondiale e la povertà continua a colpire buona
parte della popolazione. Inoltre, sono state abban­
donate altre importanti attività come l’agricoltura,
la pesca, la silvicoltura, nel frattempo indebolite
come fonti di reddito e come sapere produttivo.
Povertà, fame, morte. Non sono cavalieri dell’a­
pocalisse: è la vita quotidiana di un decimo della
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SETTEMBRE 2021

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popolazione dell’Africa e di un quinto del genere
femminile, che nel 2020 ancora subisce comporta­
menti che si sarebbero dovuti già cancellare decen­
ni addietro. Tuttavia, non abbastanza è stato fatto
dalle istituzioni: non soltanto in fase di controllo e
di condanna ma soprattutto di prevenzione, edu­
cando a differenti abitudini che contribuirebbero in
modo essenziale al limitarsi del fenomeno.
I Salesiani non si voltano dall’altra parte. E agi­
scono.
Mamme bambine
Nell’Ispettoria salesiana dell’Africa Tropicale Equa­
toriale, a Malabo, capitale delle Guinea Equatoriale,
nel quartiere di Elá Nguema, opera una piccola co­
munità salesiana di cinque missionari alla guida del­
la parrocchia, con il suo servizio pastorale ai villaggi,
dell’oratorio, del centro giovanile, di due scuole, ele­
mentare e secondaria e del centro professionale.
Oltre al contesto della crisi economica, la missione
salesiana in Guinea Equatoriale si trova ad operare
in uno scenario particolarmente discriminante nei
confronti delle ragazze, soprattutto delle tante tra
loro che si ritrovano ad affrontare una gravidanza
precoce o che sono madri, seppur in giovanissima
età.
In Africa, il fenomeno delle gravidanze precoci
raggiunge un livello tale di diffusione da richiedere
l’intervento da parte dei governi e delle organizza­
zioni della società civile per la sua gestione, tuttavia
l’intervento governativo si traduce, piuttosto, nella
negazione del diritto all’istruzione per le ragazze
incinte o che hanno appena partorito. Insieme alla
Sierra Leone e alla Tanzania, la Guinea Equato­
riale è uno dei paesi africani che vietano esplicita­
mente alle ragazze incinte o giovani madri di pro­
seguire gli studi.
Elin Martínez, ricercatrice per i diritti dei bambi­
ni presso Human Rights Watch, afferma: “Mentre
alcuni progressi sono stati fatti, l’Unione Africana
ha bisogno di lavorare a stretto contatto con tutti
i suoi Paesi membri, per garantire che a nessuna
ragazza venga negato il diritto all’istruzione perché
rimane incinta”.
Tuttavia, il diritto allo studio anche durante le crisi
umanitarie viene violato, non solo perché i governi
africani non hanno tutti un sistema strutturato di
continuità, ma anche perché le ragazze, trovandosi
ancora più esposte alle peggiori forme di violenza
basata sul genere, soprattutto durante i conflitti ar­
mati, restano traumatizzate e troppo spesso sole ad
affrontare gravidanze indesiderate.
Molte sono le implicazioni e le resistenze che inter­
vengono nella negazione del diritto allo studio per
le ragazze in gravidanza. Le adolescenti vengono
doppiamente rese vulnerabili dal sistema giuridico
nazionale e dallo stigma della comunità stessa, che
le rifiuta, le allontana, con serie ripercussioni sulla
possibilità di creare condizioni di vita dignitose per
sé e per la figlia o il figlio.
Spesso il tempo del rientro a scuola dopo il parto,
anch’esso soggetto a una normativa che cambia da
paese a paese, si allunga fino ai due anni. Per molte
madri adolescenti il rientro a scuola diventa impos­
I Salesiani
ascoltano il
grido muto di
tanta dignità
calpestata.
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DON BOSCO NEL MONDO
In Guinea
Equatoriale,
le ragazze
sono
fortemente
discriminate.
sibile. La formazione professionale è spesso l’unico
modo per consentire loro di integrarsi nella società
e di accedere a un lavoro dignitoso.
Formazione e sostegno
La comunità salesiana di Malabo, consapevole di
quanto sia difficile per le adolescenti incinte o di­
ventate madri uscire dalla fragilità in cui il siste­
ma paese e le consuetudini della comunità le co­
stringe, avvia programmi specifici di formazione
tecnico-professionale per queste ragazze, aventi
come obiettivo la creazione e il potenziamento di
competenze finalizzate all’inserimento lavorativo e
all’autonomia.
Ogni anno, dalle 30 alle 50 ragazze si rivolgono al
Centro Professionale Don Bosco, unica reale op­
portunità per imparare un mestiere e per ridurre
il rischio di rimanere escluse dalla società. Il Cen­
tro sorge nel quartiere di Elá Nguema, uno dei più
poveri della capitale equatoguineana. Qui vivono
principalmente gli ex lavoratori dei campi di cacao,
prima che i giacimenti di petrolio assorbissero forza
lavoro dalle altre attività produttive del Paese. Gli
abitanti di Elá Nguema, oltre ad avere accesso limi­
tato ai beni e ai servizi, appartengono per la mag­
gior parte all’etnia Bubis, una delle più emarginate
della Guinea Equatoriale.
In particolare, il progetto “Formazione professio­
nale per le ragazze in gravidanza e giovani madri
del Centro Professionale Don Bosco di Malabo”, in
Guinea Equatoriale, coinvolge per un anno come
beneficiarie dirette 30 adolescenti in gravidanza o
con figli neonati, prive di accesso alla salute e alla
sicurezza economica alle quali i missionari salesiani
rivolgono programmi formativi differenziati sulla
base delle esigenze di ogni singola ragazza, fina­
lizzati alla costruzione di condizioni di vita sicure
e dignitose.
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BELLA E MALEDETTA
La Guinea Equatoriale è un bellissimo stato che possie-
de nell’entroterra una fitta foresta dove si possono tro-
vare numerosi villaggi e città, e possiede 2 isole, l’Isola
di Bioko, dove si trova la capitale, e Annobón, un’isola
selvaggia e magica che possiede belle spiagge e una
popolazione molto accogliente: tutto il litorale del pa-
ese è affascinante.
Questo paese possiede diversi giacimenti petroliferi
che lo portano ad essere il paese con il più alto PIL pro
capite africano distribuito in modo totalmente iniquo
a causa di una feroce dittatura. Praticamente gli interi
proventi del petrolio finiscono nei conti bancari ameri-
cani del dittatore assoluto.
Inoltre, beneficiano del progetto le famiglie delle
30 ragazze, così come i rispettivi figli. Attraverso
la formazione socioprofessionale, le adolescenti po­
tranno emanciparsi dalle famiglie d’origine, cosic­
ché per queste non saranno più un carico, ma una
fonte di reddito per tutta la famiglia.
Le attività che accompagnano la formazione pro­
fessionale per l’acquisizione di competenze sono es­
senziali al processo trasformativo che le ragazze av­
viano attraverso il progetto di Malabo e riguardano
soprattutto la sfera del superamento del trauma.
I salesiani di Malabo, insieme all’équipe di proget­
to, hanno individuato come necessarie anche azioni
di mediazione tra le giovani madri, i padri dei loro
figli, giovanissimi anche loro e le famiglie in ge­
nerale.
Quando si parla di formazione di qualità non si
può non fare riferimento alla formazione degli in­
segnanti stessi che all’interno di questo progetto,
in particolare, vengono inseriti in un programma
formativo sulle dinamiche di genere e di lotta alla
discriminazione.
L’accompagnamento per le ragazze assume in que­
sta prospettiva una doppia valenza di supporto
materiale attraverso la fornitura di beni essenziali,
l’erogazione di borse di studio e l’acquisto di kit per
l’avvio di attività generatrici di reddito, ma anche e
soprattutto di sostegno allo sviluppo integrale della
persona.
La durata della formazione varia da uno a tre anni
e l’organizzazione del tempo dedicato ai corsi e ai
laboratori permette di conciliare le esigenze forma­
tive con quelle familiari di cura della neonata o del
neonato.
Operare nel modo più sostenibile possibile e in
completa adesione ai bisogni delle ragazze permet­
te al Centro Professionale Don Bosco di Malabo di
innescare percorsi di uscita da quella condizione di
vulnerabilità e di discriminazione che nega i dirit­
ti delle ragazze, percorsi virtuosi e replicabili che
impattano su tutta la comunità delle giovani e dei
giovani di Elá Nguema.
Obiettivo
generale del
progetto è
ridare dignità
e soprattutto
un futuro
professionale
alle ragazze
madri.
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TEMPO DELLO SPIRITO
Carmen Laval
10 regole per
disinnescare i conflitti
C’è una bomba a orologeria in mezzo a
noi e dentro di noi. È difficile darle un
nome preciso, ma la conosciamo tutti:
rabbia, ira, nervosismo, fastidio, irrita­
zione, invidia e soprattutto sui social vero e proprio
odio. Esistono anche gli “odiatori” di professione.
Tante persone si sentono opprimere da parole of­
fensive sentite durante una giornata qualsiasi. Si
considerano vittime di gente che non le apprezza
come meritano, che le critica, che le guarda male,
che le sbeffeggia.
Un serpente inseguiva una lucciola per divorarla. Il
piccolo insetto faceva l’impossibile per fuggire dal ser-
pente, che la inseguì per giorni. A un certo punto la
lucciola, stanca ed esausta, si fermò e chiese al serpen-
te: «Posso farti una domanda, anzi tre?» «Non sono
abituato a rispondere a nessuno, ma dato che ti devo
mangiare, chiedi pure» «Faccio parte della tua dieta?»
«No». «Ti ho fatto qualcosa di male?» «No». «Allora
perché vuoi mangiarmi?» «Perché non sopporto
vederti brillare».
Purtroppo la rabbia si prende come il morbillo: per
i virus che circolano nell’ambiente dove si vive. E il
nostro è un mondo di arrabbiati. L’ira è ovunque.
Vivere in un’atmosfera aggressiva fa sentire anche i
bambini vulnerabili. Alcuni di loro reagiscono di­
ventando violenti e attaccabrighe, altri si ritirano
nel guscio come chioccioline impaurite. Anche il
rumore continuo causa irritazione, e di solito sono
le minuzie della vita quotidiana che, soprattutto in
famiglia, fanno uscire dai gangheri.
1. L’elemento comune a tutti i litigi è che, di solito,
nessuno dei contendenti ha completamente ragione.
Inoltre, nella maggioranza delle famiglie, si litiga
sempre per gli stessi motivi, trasformando la vita fa­
miliare in un fragile armistizio tra un litigio e l’al­
tro. Il rischio è che tutta l’impostazione familiare
finisca per essere basata sulla legge del più forte.
2. Prima di tutto bisogna partire con la “marcia più
bassa”. Chi parte in quarta, cioè attacca duramente
l’altro o gli altri, criticando e ferendo, non riuscirà a
venirne fuori in modo dignitoso e soprattutto non
risolverà il motivo del conflitto. Un litigio finisce
sempre con la nota con cui è cominciato. Chi parte
urlando finirà urlando e tutti saranno solo più arrab­
biati. È assolutamente lecito lamentarsi e mettere a
fuoco il problema, non lo è partire con l’artiglieria
pesante e accusare «la persona». Le frasi che comin­
ciano con il «tu» sono sempre molto pericolose: «Tu
sei il solito incosciente… Il tuo guaio è che…» È
come premere il pulsante di un lanciamissili.
3. Cercate di descrivere con precisione il nocciolo
del conflitto, che cosa sia in ballo e quali strade
diverse seguano le parti coinvolte. State bene a sen­
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2.1 Page 11

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ne, non facendo compromessi. Se non è in vista al­
cuna soluzione del conflitto, bisognerebbe ammet­
terlo a chiare lettere dicendo: al momento non
abbiamo una soluzione. Bisognerebbe riconoscere il
fallimento del dialogo, sperando però allo stesso
tempo che, in un successivo colloquio da concorda­
re, diventerà possibile una soluzione.
7. Quando avete elaborato una soluzione comune,
mettetela per iscritto e pattuite che tutti vi si devo­
no attenere. Evitate di continuare a riflettere se non
sia meglio un’altra soluzione. Scegliete la soluzione
concordata senza rimpiangere le altre opzioni. Il
rimpianto divorerebbe le vostre energie.
tire come le parti coinvolte presentino la loro posi­
zione. Non interrompete gli altri quando la espon­
gono. Se non capite bene qualcosa, chiedete.
Cercate di ripetere con parole vostre che cosa ha
detto l’altro.
4. Non chiedete mai “di chi è la colpa”. È impor­
tante limitarsi al problema del momento e non isti­
tuire un Processo di Norimberga che riesumi i tor­
ti di una vita. Ciò porterebbe solo a giustificarsi e
ad aggredire.
5. A scuola guida, la prima cosa da imparare è fre­
nare. Bisogna imparare a fare tentativi di riparazio­
ne ed accoglierli. A questo punto è possibile trovare
un compromesso: si deve cercare una soluzione che
soddisfi tutti. La pietra angolare di ogni compro­
messo è che nessuno deve vincere e nessuno deve
essere sconfitto.
6. Ciascuna delle due parti coinvolte è invitata a
proporre un’eventuale soluzione. Non si tratta,
però, di mantenere in piedi la propria testardaggi­
8. È inevitabile che esistano problemi ed è altret­
tanto inevitabile che i problemi facciano esplodere
dei litigi. Quello che conta è volere veramente uscir­
ne in modo onorevole per tutti. Una giovane signora
invece di bombardare marito e figli con osservazio­
ni sgradevoli, la mattina, intanto che si preparano
ad uscire, ha preso l’abitudine di mettere per iscritto
le cose che non le vanno bene e poi discutere l’elenco
con tutta la famiglia il venerdì sera. «Ma prima eli­
mino io stessa un po’ di voci dicendo “Ma no, que­
sto non è importante”, oppure “Probabilmente qui la
colpa è mia”. E poi parliamo del resto».
9. In ogni caso, il segreto è sempre rispettarsi. Il
litigio non servirà mai a cambiare le persone: lo può
fare invece la negoziazione, la ricerca di un terreno
comune e i modi in cui riuscire ad adattarsi gli uni
agli altri.
10. Tenendo sempre a mente il consiglio della
Bibbia: «Non lasciare che il sole tramonti sulla tua
ira». Ogni conflitto dovrebbe terminare all’ora di
cena. Per i piccoli conflitti quotidiani è sufficiente
recitare insieme il Padre nostro. Mettendo l’accento,
a voce alta, su «Rimetti a noi i nostri debiti come
anche noi li rimettiamo ai nostri debitori». È un
ottimo rituale di riconciliazione.
SETTEMBRE 2021
11

2.2 Page 12

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LE NOSTRE GUIDE
Joaquim Antunes
Don Ivo Coelho
Consigliere del Rettor Maggiore per la Formazione
accomp aDgonbarbeiaimgiooveasnsei.rLeepnreupoaveravtiopcearzioni
sorgono a ritmi diversi, ma ci sono principi
e norme generali che sono necessari.
La fedeltà al carisma, l’investimento
nella formazione, la pastorale giovanile
e la promozione vocazionale sono la via.
Lei è stato uno dei pochi consiglieri
generali rieletti. Come valuta il suo
primo mandato?
Il servizio è stato un privilegio, un’occasione di “im­
mersione totale” nella salesianità, un grande mo­
mento di formazione permanente per me. Visitare
e interagire con confratelli di tutto il mondo è stato
molto arricchente. Sono stato anche benedetto da
una squadra meravigliosa: possiamo arricchirci a vi­
cenda e fare un grande lavoro. L’esperienza ci dice
che il cambiamento avviene solo attraverso le rela­
zioni. Un modo di lavorare sinodale, che sceglie di
camminare con tutti, di ascoltare e discernere insie­
me, è spesso lento e complesso, ma sempre fruttuo­
so. Tuttavia, questo non è niente di nuovo per noi.
È una nuova variante del “Cerca di farti amare”. Il
Sistema Preventivo è uno stile di vita per noi.
Lei viene dall’India. Vuol raccontarci
qualcosa di sé?
Vengo dalla provincia di Mumbai, sono nato ed edu­
cato nella città di Mumbai. I miei genitori venivano
da Goa, la prima generazione di immigrati in città.
Mio padre lavorava nel Bombay Port Trust e mia
madre era una casalinga. Vivevamo in una parroc­
chia salesiana e frequentavo la scuola salesiana ge­
stita dalla parrocchia. Lì ho trovato la mia vocazione
salesiana. Poi seguirono le tappe della formazione:
prenoviziato a Pune, noviziato a Yercaud nell’India
del sud, quattro anni al Jnana Deepa Vidyapeeth dei
gesuiti a Pune per ottenere una laurea in filosofia,
due anni di formazione pratica con i post-novizi e un
anno con i ragazzi di strada a Mumbai; professio­
ne perpetua e quattro anni di teologia a Bengaluru,
sempre nel sud. Dopo due anni di servizio nel post-
noviziato di Nashik, sono stato inviato all’Università
Gregoriana di Roma per un dottorato in filosofia.
E poi otto anni come direttore e insegnante al post-
noviziato, sei anni come Provinciale e, poco dopo,
tre anni come direttore a Gerusalemme, prima di
essere chiamato, inaspettatamente, al servizio di
Consigliere per la Formazione a Roma.
12
SETTEMBRE 2021

2.3 Page 13

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Quanti salesiani ci sono oggi
in India? Come si spiega questa
crescita vocazionale?
Attualmente abbiamo circa 2900 salesiani nella
regione dell’Asia meridionale, con un’età media di
44,1 anni. Penso che una delle ragioni principali di
questa crescita fenomenale sia la decisione di pio­
nieri come l’amato don José Luis Carreño di andare
attivamente alla ricerca di vocazioni locali.
I numeri continuano a crescere, anche se stiamo
cominciando a vedere una crescita negativa in al­
cune province. È un momento di creatività: abbia­
mo bisogno del coraggio di riesaminare le vecchie
soluzioni e trovarne di nuove. Credo che la via da
seguire sia quella di migliorare la qualità della pa­
storale giovanile e della promozione vocazionale.
Dobbiamo essere pronti ad accompagnare i giovani
e ad aiutarli a discernere la loro vocazione.
quali tàLadveilaladnaossetrgaupiraesètomrailgeligoiroavraenlaile
e l’animazione vocazionale. Dobbiamo
essere pronti ad accompagnare
i giovani e aiutarli a discernere la loro
vocazione”.
Come si può garantire una formazione
omogenea in culture così diverse?
La Congregazione è grande e si muove a varie velo­
cità, ma poiché condividiamo un carisma comune,
abbiamo bisogno di principi e norme generali. Al­
cune cose non sono negoziabili. Non ci può essere,
per esempio, un salesiano che non abbia un cuore
per i giovani poveri, così come non ci può essere un
salesiano per il quale Gesù Cristo non significhi
nulla o uno che non si preoccupa del “Cerca di farti
amare”.
Si tratta di saper distinguere ciò che è essenziale
da ciò che è secondario. Questa è la grande arte del
discernimento, e non c’è una formula o una ricetta
per produrre uomini dalla mente discernente! Ma
questa è la chiave: imparare a discernere, e pre­
parare confratelli che siano buoni discernitori.
Questo deriva da una profonda fedeltà al carisma,
unita al rispetto delle differenze e a una lettura
intelligente delle situazioni particolari.
La Congregazione Salesiana
ha formatori capaci di preparare
le nuove generazioni?
Abbiamo buoni confratelli che sanno accompa­
gnare i confratelli più giovani e li preparano a
portare avanti il carisma di don Bosco. Tuttavia, è
anche vero che siamo più bravi a preparare gli in­
segnanti che i formatori. Investire nella prepara­
zione dei formatori è una delle chiavi. Cosa com­
porta tale preparazione? Certamente, una buona
conoscenza del carisma salesiano e una solida
esperienza pastorale. Inoltre, la volontà di lavorare
su se stessi e di imparare ad ascoltare e accompa­
gnare i confratelli in gruppo e come individui. Il
corso per formatori dell’Università Pontificia Sa­
lesiana è molto utile, e siamo in procinto di
aggiungervi una componente salesiana.
La Scuola di Accompagnamento Sa­
lesiano è un’altra importante iniziati­
va che speriamo di iniziare a proporre
quest’anno a Valdocco e al Colle. Ma
ci sono anche molte esperienze utili a
livello locale e regionale.
I giovani salesiani si
stanno formando per
guidare le strutture
nei 134 paesi in
cui si è stabilita la
Congregazione?
Lo spero. Le Ispettorie sono
attente a qualificare i con­
fratelli per questo servizio
che è un modo di rivelare,
come Gesù, il volto mise­
ricordioso del Padre: essere
SETTEMBRE 2021
13

2.4 Page 14

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LE NOSTRE GUIDE
A Roma, con
i giovani
salesiani in
formazione.
Nell’ottobre 2019 don Ivo Coelho ha incontrato i membri della Commissione Regionale per la Formazione della Regione
Mediterranea nella Casa Provinciale di Lisbona.
segni e portatori del suo amore. Credo che il no­
stro posto nella Chiesa sia quello di stare con gli
ultimi e gli esclusi, i giovani ai margini, e questo
è centrale nel nostro carisma. Questi giovani sono
la ragione della nostra esistenza, e quindi dobbia­
mo essere flessibili, lenti a giudicare, pazienti, ca­
paci di ascoltare.
In tutto il mondo, in questo anno
pandemico, ci sono stati lunghi
periodi di chiusura delle scuole.
Quali effetti negativi può avere
questo sugli educatori?
Sono sicuro che le lezioni online sono faticose per
studenti e insegnanti. E molti non hanno le con­
dizioni necessarie. Le lezioni online non sono la
panacea per tutti i problemi. Potremmo vedere la
crisi attuale come un’opportunità per riesamina­
re il nostro attuale sistema di apprendimento in
classe.
14
SETTEMBRE 2021
dei
sal eSsoiannoi
totalmente dalla parte
di don Bosco in maniche
di camicia! Credo che il nostro posto
nella Chiesa sia quello di stare con
gli ultimi e gli esclusi, i giovani
ai margini, e questo è centrale
nel nostro carisma”.

2.5 Page 15

▲back to top
Quali strategie saranno rafforzate
riguardo alla formazione dei laici?
Anche se la CG28 si è conclusa prima di discutere
della “missione condivisa”, si stanno facendo sforzi
in questa direzione. Implica l’ascolto e il dialogo per
andare verso il pieno riconoscimento del posto dei
laici nella Chiesa e nella missione salesiana. Non
si tratta di avere un numero sufficiente di salesiani
per fare ciò che è necessario; si tratta della convin­
zione che Dio chiama molte persone a condividere
la missione.
PADRE IVO COELHO
È nato il 15 ottobre 1958 a Mumbai, in India. Entrò nel
noviziato nel 1976, emise i primi voti nel 1977 e prese i
voti perpetui sette anni dopo a Mumbai. È stato ordinato
sacerdote a Panjim il 27 dicembre 1987. Tra gli altri inca-
richi, è stato Provinciale dell’India-Mumbai (2002-2008).
È stato eletto dal GC27 consigliere generale per la forma-
zione nel 2014. Il GC28 lo ha confermato per un secondo
mandato.
suoi salesiani pur essendo impegnato in mille cose,
questo dovrebbe essere possibile anche per noi!
Oggi la missione è affidata a salesiani
e laici. L’esperienza a livello mondiale
è stata positiva?
La Congregazione si muove a varie velocità, per
cui ci sono grandi aree dove questa convinzione
non ha ancora messo radici, e ci sono vere difficol­
tà su come i non cristiani possono condividere la
missione. Tuttavia, sono convinto che anche nelle
province con un gran numero di confratelli, è non
solo corretto ma necessario permettere ai laici di
prendere il loro posto nella missione.
Visita alla casa per bambini a rischio “Margaret Bosco Bal Sadan” a Paliem,
Goa, il 18 agosto 2017.
Sotto, padre Ivo con i post-novizi di Campo Grande in Brasile.
Quali sono i criteri fondamentali per
affidare i settori primari ai laici?
Competenza e capacità di animare e governare, ma
anche amore alla missione salesiana e formazione
al carisma. Ovviamente, troveremo persone anche
di fede diversa con i primi due requisiti. La sfida
è investire nella formazione e trovare il modo che
questa sia reciproca e “insieme”, con i Salesiani e la
Famiglia Salesiana.
La formazione è un “lavoro
artigianale”, com’è possibile
in strutture complesse?
Se i membri, specialmente del nucleo animatore,
sono veramente salesiani, con l’arte di saper toccare
il cuore dei giovani, si faranno cose buone anche
in opere molto complesse. Se don Bosco ha potu­
to dare un’attenzione personale ai suoi ragazzi e ai
SETTEMBRE 2021
15

2.6 Page 16

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IN PRIMA LINEA
Michael Pace
La tragedia nascosta dei
migranti haitiani a Tijuana
Cronaca da un centro di aiuto
dei Salesiani per migranti.
Molto prima che l’uragano Matthew si
abbattesse sulla vita di questo popolo,
circa cinquantamila haitiani erano già
fuggiti dalla loro patria in cerca di una
nuova speranza in Brasile. Dopo la devastazione
determinata dal terremoto del 2010, la promessa di
trovare occupazione in Bra­
sile aprì nuovi orizzonti per
un popolo abbattuto. Pur­
troppo quegli orizzonti non
si sono mai aperti. I proble­
mi politici ed economici del
Brasile hanno trasformato
bruscamente gli Haitiani
da ospiti invitati a persone
non gradite.
Molti Haitiani, abituati a
sopravvivere a un disastro
dopo l’altro, trovarono il
coraggio di fidarsi della
promessa che il Presidente
Obama aveva fatto loro nel
2010 di non abbandonarli.
Folla debordante. Quattro uomini
hanno dormito nel nostro furgone,
altri trenta sotto una tenda di vinile,
cinquanta sotto la struttura in legno.
Quaranta donne con bambini si
sono sistemate all’interno, al piano
di sopra.
Non è garantito che quella promessa venga mante­
nuta. Con una tenacia che la maggior parte di noi,
nella comodità del primo mondo, non avrebbe mai
trovato in sé, migliaia di Haitiani hanno intrapreso
un viaggio di tre mesi, una vera odissea, dal Brasile
a Tijuana, in Messico, per cercare di entrare negli
Stati Uniti.
Il loro percorso fino al confine con gli Stati Uniti
dura in genere tre mesi. Si snoda attraverso il Bra­
sile fino all’Ecuador o al Perù, poi in Colombia,
Panama, Costa Rica, Nicaragua, Honduras, Gua­
temala e infine in Messico. Solo la parte del loro
viaggio che si compie in Messico è pari a tremila­
novecento chilometri, duemilaquattrocento miglia.
Queste persone viaggiano come possono: in auto­
bus, in camion e a piedi, attraverso città, foreste
e fiumi. Viaggiano con il favore della notte, con i
bambini, si mettono in cammino anche donne in
stato interessante o persone sole, lasciando dietro
di sé il ricordo dei loro cari da cui sono partiti. In­
traprendono il viaggio consapevoli dei pericoli che
li attendono in ogni momento e con l’eventualità di
essere rifiutati e rimandati a casa.
Da maggio 2016 questi coraggiosi migranti haitia­
ni arrivano al Desayunador (mensa gratuita) Sa­
lesiano di Tijuana. Questo rifugio per migranti si
trova a pochi passi dal confine tra Messico e Stati
Uniti. Vi prestano servizio un sacerdote salesiano
e un esercito di volontari che si impegnano qui
con dedizione e sacrificio. I nostri fratelli e sorelle
haitiani trovano una casa sicura sotto questo tet­
to salesiano, in attesa del permesso tutt’altro che
scontato di passare negli Stati Uniti. Con loro sto
imparando a conoscere il Vangelo della misericor­
dia in azione.
16
SETTEMBRE 2021

2.7 Page 17

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La politica sull’immigrazione.
Una questione di vita o di morte
Sono migranti haitiani. Il loro obiettivo è entra­
re negli Stati Uniti con un visto umanitario. Sono
sopravvissuti a un viaggio di tre mesi partendo dal
Brasile e rischiando la morte. Sono rimasti in me­
dia tre mesi a Tijuana in attesa dell’udienza per
l’immigrazione da parte degli Stati Uniti, vivendo
per strada, in un rifugio, o, nel caso di pochi pri­
vilegiati, in uno squallido albergo. Non è garantito
che l’ingresso negli Stati Uniti avvenga rapidamen­
te. Molti sono paralizzati dalla paura della depor­
tazione.
Un giovane padre lamenta: «Ho due bambine in
una scuola privata ad Haiti. L’insegnante della
scuola pubblica viene nel villaggio solo una volta
la settimana. Le mie figlie meritano di meglio. L’i­
struzione privata però è costosa. Mia moglie non
riesce a trovare lavoro. Non mando denaro a casa
da cinque mesi. Sono un uomo adulto e patisco i
morsi della fame. Ma in che modo mia moglie può
spiegare alle nostre bambine perché papà non man­
di denaro a casa per dar loro da mangiare?»
Una signora abbassa lo sguardo e sorride, imba­
razzata, quando le chiedo perché non si presenterà
all’udienza per l’immigrazione. Le chiedo se ab­
bia paura di essere deportata. La signora
mi guarda e i suoi occhi si riempiono di la­
crime. «Dopo tutto quello che ho già sacrificato,
dove tornerò? Mia madre ha venduto il suo ultimo
pezzo di sicurezza finanziaria, la sua casetta, per
permettermi di arrivare qui. È morta il mese scor­
so perché non ho potuto mandarle denaro per le
medicine. Ad Haiti non mi è rimasto più nulla.
Devo realizzare questo sogno in memoria di mia
madre». Un uomo che in passato aveva avuto un
fisico possente, crollato sotto il peso della preoccu­
pazione, condivide i suoi sentimenti di vergogna.
«Voglio lavorare. Mi piace lavorare. Sono un inge­
gnere civile. Tutti a casa contano su di me per ri­
cevere denaro. Tutti hanno sacrificato il poco che
avevano per aiutarmi ad arrivare così lontano. Ora
non posso deluderli».
Tutti concludono allo stesso modo: «Mais, comme
Dieu veut. Dieu est grand». Sia fatta la volontà di
Dio. Dio è grande.
«Mi scusi, che lingua parla?»
È uscito dalla fila formata per la colazione in cui
si trovava per chiedermelo. Era uno delle centinaia
di migranti messicani che vengono al Desayuna­
dor per ricevere il pasto quotidiano. I suoi occhi
brillavano di interesse e il suo sorriso era gentile,
sebbene le sue gengive fossero grigiastre e avesse
solo pochi denti guasti.
«Francese», ho risposto. L’uomo era incuriosito
mentre parlavo con una famiglia haitiana appena
arrivata a Tijuana. Mi ha detto che era molto or­
Alcuni dei nostri
ospiti haitiani più
giovani al centro
per migranti.
È arrivato qui un
bambino di soli
17 giorni. È nato
durante il viaggio di
tre mesi compiuto
per giungere a
Tijuana. I suoi
genitori sono stati
coraggiosi e forti.
Non si sa perché.
Questo è il mio
nuovo amico, Kevin.
Ha dieci anni. Kevin,
i suoi genitori e
due sue sorelle
sono arrivati ieri
al Desayunador.
Quando stamattina
ho lodato Kevin per
il suo coraggio per
aver intrapreso un
viaggio così difficile,
ha sorriso. Quando
gli ho chiesto perché
la sua famiglia
avesse compiuto
questo viaggio,
ha aggrottato
le sopracciglia
e ha detto che
non lo sapeva.
Immaginiamo di
avere dieci anni
e di affrontare le
traversie di un
migrante senza
capire perché.
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2.8 Page 18

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IN PRIMA LINEA
Ingegno
fraterno.
Uomini
haitiani del
nostro rifugio
salesiano
per migranti
a Tijuana
(Desayunador
Salesiano)
si tagliano
i capelli
a vicenda
collegando
una lama di
rasoio a un
pettine. Sono
stati felici
di essere
fotografati.
goglioso degli Haitiani per il coraggio che avevano
manifestato. Voleva esprimere la sua ammirazione
e incoraggiarli, ma non conosceva la loro lingua.
Mi ha chiesto se potessi dirlo io. Ho accondisceso.
I genitori haitiani lo hanno ringraziato, mostrando
di apprezzare molto le sue parole. Si sono stretti la
mano. L’uomo ha giocato un po’ con i due bambini
piccoli, poi è tornato a mettersi in fila per la cola­
zione. Dopo la colazione, il padre ha finalmente ri­
cevuto cure mediche per l’infezione al dito del pie­
de di cui soffriva da due mesi. Durante la traversata
dalla Colombia a Panama hanno guadato fiumi per
ore. Le scarpe da tennis bagnate che l’uomo calzava
hanno sfregato la punta del piede ed è sopraggiun­
ta l’infezione. È trascorso un altro mese prima che
potesse avere un altro paio di scarpe. E tra l’altro
questa famiglia non può rimanere nel nostro rifu­
gio. Non c’è posto. Dopo colazione la famiglia sarà
per strada. Con due bambini e problemi di salute
urgenti, i genitori trascorreranno la giornata alla
ricerca di un posto in cui stare. Senza denaro per
pagare.
Le cicatrici che vediamo
e quelle che non vediamo
Marie è una graziosa signora haitiana di circa
trent’anni. È una moglie e una madre. È una mi­
grante. Ha una cicatrice fresca sull’intera lunghez­
za della fronte, dall’attaccatura dei capelli all’orbita
oculare. È il ricordo duraturo di una caduta su una
roccia tagliente avvenuta mentre attraversava l’ac­
qua alta fino al petto di un fiume a Panama nel
suo viaggio dal Brasile al Mes­
sico, compiuto in gran parte a
piedi. Ha un’altra cicatrice. Sul
cuore. Il cuore di madre. Quan­
do è caduta, portava in braccio
il figlio di quindici mesi, Nie.
Il bambino cadde nella corren­
te inesorabile. Marie rimase a
guardare impotente mentre Nie
scompariva dalla sua vista, tra­
scinato dalla corrente. Nie non è mai più stato visto.
Questa è la storia vera di una delle migranti che
arrivano qui al Desayunador Salesiano, a Tijuana.
Le sue cicatrici sono autentiche. La signora le por­
ta con dignità. Giovedì celebreremo una Messa in
suffragio per un bambino non battezzato.
I Santi Innocenti
Uno dei due grandi raduni della durata di tre ore
organizzati presso il nostro rifugio per migranti
questa settimana. Il Desayunador Salesiano è stato
progettato per l’ospitalità di ottanta persone. Ora
ce ne sono 437. Non è prevista una riduzione del
loro numero. La risposta del governo messicano è
simbolica. L’arcidiocesi di Tijuana sta valutando le
modalità per un maggior impegno. È un processo
lento e laborioso. Non c’è posto nella locanda e la
nostra stalla è così affollata che sta per diventare
instabile. Allontanare le persone è straziante. Chie­
dono un posto dove stare e i loro occhi si riempiono
di lacrime, quando la realtà si manifesta: non pos­
sono entrare.
Fuori dal Desayunador Salesiano, ogni giorno
continuano ad arrivare nuovi Haitiani. All’interno
del Desayunador la situazione è consueta, ma non
necessariamente più facile. Vari uomini e anche
alcuni bambini dormono fuori perché tutti i po­
sti di cui disponiamo all’interno sono occupati. Il
nostro cortile è più sicuro e più caldo delle strade
e ovviamente è gratuito. All’interno della struttura
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SETTEMBRE 2021

2.9 Page 19

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offriamo i nostri vari servizi sia ai migranti mes­
sicani, sia a quelli haitiani. Le donne trascorrono
pazientemente lunghi periodi di tempo pettinan­
dosi e accudendo i bambini. Questa settimana si
sono verificati vari eventi di pertinenza medica:
infezioni della pelle, gravidanze a termine, febbre...
Nonostante tutto, l’umore è generalmente positivo
e allegro.
Un’altra notte piena
di mamme e bambini
Gli interminabili turni mattutini e notturni met­
tono a dura prova le riserve di energia dei nostri
volontari, ma la bellezza dei bambini ravviva l’am­
biente. Pablo, l’uomo che nel video guida i bam­
bini, è il nostro psicologo interno e anche lui è un
po’ bambino, grazie a Dio. Tutti questi piccoli e le
loro mamme stasera erano come Cenerentola, che
provava le scarpe finché non trovava quelle che le
andavano bene. Per mia fortuna... Devo passare in
rassegna i contenitori delle scarpe usate per trovare
l’abbinamento giusto.
Ogni sera circa centocinquanta migranti haitiani
arrivano al Desayunador dopo l’ultima tappa del
loro viaggio, un percorso in autobus della durata di
cinque giorni. Hanno viaggiato e dormito sull’au­
tobus per 125 ore. Facciamo del nostro meglio per
accoglierli, dare loro modo di trascorrere bene la
notte e offrire loro un pasto. In teoria entro il gior­
no successivo il servizio di immigrazione dovreb­
be trovare una sistemazione più stabile per loro.
I nostri “migranti residenti” desiderano entrare a
far parte del gruppo di accoglienza, servire pasti e
tradurre in creolo. Alcuni uomini devono dormire
fuori sotto una grande struttura di legno. Di notte
la temperatura scende regolarmente a 9 o 10° C.
Il flusso inarrestabile di migranti sta mettendo a
dura prova l’energia dei Salesiani locali e dei nostri
volontari, ma siamo molto determinati.
Freddo e pioggia. Cinquanta nuovi migranti hai­
tiani erano stati sotto la pioggia e tremavano fuori
del Desayunador Salesiano. Li abbiamo accolti
tutti per la notte, finché il servizio di immigra­
zione non è stato in grado di trovare una sistema­
zione a lungo termine il giorno successivo. I nostri
generosi volontari hanno lavorato a lungo per for­
nire loro abiti caldi puliti, articoli per la doccia,
qualcosa per cena e un materasso, un cuscino e
una coperta per passare la notte. Domani mattina
celebrerò la Messa con loro in francese. Dovranno
poi trasferirsi in un altro rifugio, ma stasera un po’
di animazione e musica in stile salesiano aiutano a
passare il tempo.
Si stanno dunque orientando verso la residenza in
Messico. Il loro obiettivo è ancora lavorare e guada­
gnare abbastanza per mantenere se stessi e inviare
un po’ di denaro ai loro famigliari che sono rimasti
a casa. Sono addolorato per gli Haitiani. E la no­
biltà, la serenità e persino dal senso dell’umorismo
con cui vivono l’ennesimo momento di impotenza
legato alla povertà
che cercano di fuggi­
re, ricalibrando umil­
mente i loro sogni, è
per me un motivo di
riflessione.
Grande
incontro
stasera al
Desayunador
Salesiano.
Funzionari
dell’immigra­
zione spiegano
come i migranti
possano
richiedere
la residenza
in Messico
e trovare
un’occupazione
o seguire un
percorso di
istruzione.
C’è molto
interesse per
l’argomento.
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2.10 Page 20

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LE CASE DI DON BOSCO
Janez Jelen
La casa Salesiana in Mužlja
(Vojvodina, Serbia)
L’ultima volta che ho visitato i
malati, un’anziana donna è uscita
di casa tre volte e mi ha chiamato:
«Dio vi benedica per essere
venuti. Che Dio vi accompagni
nel vostro cammino».
I quattro
confratelli
fondatori
della
comunità.
Il nostro lavoro in Vojvodina iniziò nel 1965.
Su richiesta dell’allora arcivescovo di Belgrado
Gabriel Bukatko, i Salesiani vennero a Mužlja
dalla Slovenia. Quando arrivarono i Salesiani
s­loveni, l’intero consiglio parrocchiale si ritirò in
segno di protesta e le autorità comuniste trasferiro­
no nella parrocchia l’ambulatorio e l’ufficio postale.
Così restava poco spazio per il parroco e l’ufficio
parrocchiale.
Ma la situazione iniziò presto a migliorare. La gen­
te vide che i Salesiani s’interessavano ai bambini e
ai giovani e si avvicinarono. Cominciò l’istruzione
religiosa regolare. In quel tempo, lo stato ateista
faceva ogni sorta di pressione contro i fedeli cat­
tolici. Alcuni insegnanti a scuola ridicolizzavano
gli alunni religiosi, o li punivano con voti bassi o
addirittura li malmenavano se andavano in chiesa o
all’istruzione religiosa. Ma i nostri Salesiani hanno
lavorato coraggiosamente anche nelle circostanze
difficilissime.
In quel periodo c’era un movimento catechistico
molto forte in Slovenia, anche grazie al professore
salesiano Valter Dermota. I confratelli frequenta­
vano i corsi di aggiornamento e la parrocchia go­
deva di un sistema catechistico moderno e attuale.
In Vojvodina, i Salesiani sloveni sono stati i primi
a iniziare una messa nella lingua ungherese che i
fedeli hanno accettato con entusiasmo.
All’inizio c’erano solo due salesiani qui: Jože Tka­
lec e Štefan Zorko. Tkalec conosceva così bene
l’ungherese che tradusse bellissimi sermoni in un­
gherese dallo sloveno. Aranka Palatinus nel suo li­
bro “Sotto la protezione di Madonna”: «I Salesiani
furono inizialmente accolti con diffidenza dalla
comunità ecclesiale; ma quando i fedeli sperimen­
tarono la gentilezza di questi monaci e videro il loro
sacrificio, si innamorarono di loro».
20
SETTEMBRE 2021

3 Pages 21-30

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3.1 Page 21

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LA BABILONIA D’EUROPA
La Vojvodina è una provincia autonoma della Serbia,
grande come la Toscana. La possiamo definire la «Babi-
lonia d’Europa». In essa convivono pacificamente ser-
bi, croati, ungheresi, rumeni, bosniaci, montenegrini,
sloveni, macedoni, slovacchi, albanesi, rom, polacchi,
valacchi, russini (un’etnia poco conosciuta, praticamen-
te gli slavi per eccellenza, la cui lingua è un misto di
tutte le lingue slave) e perfino tedeschi. Tutti protesi
verso un sogno, o meglio verso un’utopia, chiamata
Unione Europea.
La regione è prevalentemente agricola, era il granaio
della ex Jugoslavia.
Importanti sono i soldi inviati da persone emigrate nei
paesi europei, negli USA e in Australia. Tutto sommato
la Vojvodina è una regione benestante e potrà diventa-
re un punto di riferimento per la nazione.
I nostri impegni
Oggi siamo qui tre confratelli: Stojan è il direttore
di Emmaus, la nostra comunità, e parroco, io sono
un cappellano e Stanko è un assistente spirituale
che svolge diligentemente tutti i doveri parroc­
chiali.
Io devo la mia vocazione a mia madre e mia non­
na. Si chiamavano Maria tutte e due e pregavano
tanto. Eravamo nove fratelli e non avevamo nessun
aiuto da parte dello stato comunista perché mio
padre si era rifiutato di entrare nella cooperativa
e nel partito. Mio padre era un vivaista e le tasse
arrivavano inesorabili. Per completare gli studi an­
dai nel Ginnasio Salesiano di Križevci. Durante gli
esercizi spirituali, mi sono sentito vicino a Dio ed
è allora che ho sentito la prima volta una vocazione
salesiana e sacerdotale come un gran valore.
Don Stanko Tratnjek è venuto dai Salesiani da una
parrocchia dove sono nate tante vocazioni spiritua­
li. Anche don Stojan Kalapiš è un frutto degli eser­
cizi spirituali. È l’unico salesiano bulgaro al mondo
che ha frequentato gli esercizi spirituali in Slovenia.
Io visito di più i fedeli malati o anziani. Vale a dire,
quando sono stato a Belgrado come cappellano,
quasi tutti morivano senza sacramenti. Perciò ho
iniziato a visitare i fedeli a casa, nelle case geronto­
logiche e negli ospedali e lentamente la situazione
ha cominciato a migliorare. Così, anche a Mužlja,
la maggior parte va nell’aldilà riconciliata con Dio
Padre. Purtroppo adesso, a causa della pandemia,
non possiamo andare negli ospedali per visitarli,
perciò li visito solo a casa.
Stanko Tratnjek trascorre la maggior parte del suo
tempo con il lavoro d’ufficio, dove è insostituibile.
Don Stojan è il più giovane tra noi e ha anche le
idee più originali. È responsabile dell’internato
di Emmaus, organizza oratori annuali, guida gli
scouts e realizza programmi alla radio e alla rtv e
dirige Radio Maria.
Non ci manca dunque il lavoro. Naturalmente la­
vorano con noi degli ottimi volontari di don Bosco.
Sono molto commosso quando incontro i miei ex
studenti, noto che si ricordano ancora di me, e dei
miei insegnamenti. Uno è venuto di recente dal
carcere e mi ha salutato davanti alla chiesa dicendo:
“Vorrei confessarmi”. Poi un altro, ancora in pri­
gione, che piangeva al telefono: «Non ho una casa,
«La nostra
gioia più
grande è
il cortile e
la chiesa
piena di
persone che
ci vogliono
bene».
SETTEMBRE 2021
21

3.2 Page 22

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LE CASE DI DON BOSCO
non ho genitori, sono solo, lei è come un padre che
mi aiuta e mi dà buone lezioni». Quando sono ar­
rivato a Mužlja nel 1984, c’erano qui molti giovani.
Durante e dopo la sfortunata guerra, giovani e in­
tere famiglie hanno cominciato ad andarsene. Per
lo più vanno a lavorare in Germania. Il numero dei
nostri credenti sta diminuendo. Solo il numero dei
funerali è sempre elevato.
Scene di vita
parrocchiale
intensa e
partecipata.
Difficoltà e sogni
Il problema più grande oggi è l’emigrazione. Re­
centemente abbiamo sofferto molto per la pande­
mia. Non potevamo andare negli ospedali e nelle
case per disabili, molte persone anziane non osa­
vano andare in chiesa e ai sacramenti. La guerra
fratricida ci ha causato molti mali.
Questa guerra civile ha causato la morte di inno­
centi e la distruzione di molte chiese cattoliche;
molti dei nostri fedeli hanno lasciato tutto e sono
andati all’estero. A causa delle condizioni econo­
miche sfavorevoli, i giovani continuano a emigrare.
Se questa tendenza continua, le nostre parrocchie
verranno svuotate, soprattutto nei villaggi.
Ciò che mi rende più felice è quando qualcuno
dopo molto tempo si confessa sinceramente e ri­
22
SETTEMBRE 2021
torna al Padre celeste. Non sono pochi. Siamo tutti
felici di poter lavorare secondo il principio di don
Bosco: “Da mihi animas, coetera tolle!”
La nostra gioia più grande è il cortile pieno di gio­
vani allegri, che vengono nelle chiese anche per la
Messa e i sacramenti.
Il nostro più grande desiderio sono nuove vocazio­
ni. C’è una grave carenza nella nostra diocesi, ma
anche nella nostra ispettoria. Ogni anno, i nuovi
salesiani non riempiono i vuoti di quelli che vanno
in Paradiso.

3.3 Page 23

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La gente ci vuole bene. Tra gli ungheresi vi sono
molti buoni cattolici che amano Maria Ausiliatri­
ce e il Santo Padre. Hanno una mentalità simile
a quella slovena, amano cantare e i fiori. Un loro
proverbio dice: “Chi ama le piante e ha voglia di
cantare, non può essere un uomo cattivo”.
Quando la gente ha visto il nostro amore per le
anime, ci ha amato davvero. Il movimento scout è
iniziato a Mužlja, con più di 400 ragazzi e ragaz­
ze. Abbiamo aperto il collegio maschile Emmaus.
Il lavoro parrocchiale dà i suoi frutti: è alta la fre­
quenza dell’insegnamento religioso parrocchiale,
sono tanti i bambini della prima comunione e della
cresima. Anche l’oratorio estivo è frequentatissimo.
Siamo generalmente molto ben accolti dalla gente
e dalle autorità.
L’ultima volta che ho visitato i malati, un’anziana
donna è uscita di casa tre volte e mi ha chiamato:
“Dio vi benedica per essere venuti a trovarmi no­
nostante la pandemia e per rafforzarmi con i san­
ti sacramenti. Che Dio vi accompagni nel vostro
cammino”.
neanche fra un milione di anni. L’unità dei cristiani
ci sarà solo nel Giorno del Giudizio, e solo al tar­
do pomeriggio”. Qui da parte ortodossa veramente
manca una vera voglia di lavorare in senso ecume­
nico per l’unità dei cristiani.
Che cosa resta? Stabilire contatti amichevoli con
persone di buona volontà, che per adesso è l’unica
forma possibile di ecumenismo. E soprattutto ci re­
sta un mezzo forte: la preghiera e la speranza.
Come
sempre si
ricomincia
dai ragazzi.
L’Ecumenismo difficile
Nell’area dell’ex Jugoslavia i Salesiani hanno tre
vescovi: l’arcivescovo di Belgrado, il metropolita in
Slovenia Peter Štumpf, e Zef Gashi, arcivescovo di
Bar e primate di Serbia.
L’ecumenismo qui è una cosa difficilissima. Al suo
arrivo a Belgrado dalla Slovenia come arcivescovo
nel 1986, il nostro ex professore e arcivescovo Franc
Perko nutriva una grande speranza nel movimento
ecumenico. Grazie a lui, che è stato per molti anni
il decano della Facoltà di Teologia di Lubiana, si
incontravano gli studenti di tre seminari teologici
cattolici e ortodossi: di Belgrado e Lubiana, poi an­
che di Zagabria. Tuttavia, quando è arrivato in Ser­
bia, si è presto reso conto che c’era poco vero ecu­
menismo. Solo discorsi alati e niente di effettivo. A
quel tempo, il nazionalismo serbo era in aumento.
Così, deluso, ha dichiarato al mensile cattolico di
Novi Sad, Agape: “L’ecumenismo qui non arriverà
SETTEMBRE 2021
23

3.4 Page 24

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FMA
Emilia Di Massimo
Ciò che nessuno
può toglierti
Nella Repubblica Democratica del Congo,
le Suore Salesiane celebrano ogni anno,
lontariato Internazionale Donna
in zone differenti, la Giornata Internazionale
Educazione Sviluppo) presente
nella Repubblica Democratica
dei Diritti delle donne con attività,
del Congo celebra ogni anno,
condivisione di tematiche riguardanti
il mondo femminile, dialogo.
in zone differenti, la Giornata
Internazionale dei Diritti delle
donne: attività, condivisione di
tematiche riguardanti il mondo
«Il sentimento
che più
sento sia
personalmente
sia all’interno
del VIDES è
quello della
gioia che
nasce quando
si decide
di esistere
per amare e
servire»
L o sviluppo armonioso della società è impen­
sabile senza la partecipazione attiva del ge­
nere femminile, tanto che nel corso dell’ul­
timo secolo molti territori africani hanno
conosciuto lotte riguardo allo status sociale delle
donne per garantire loro i diritti elementari.
Se oggi la situazione sociale delle donne è cambiata
nel mondo è opportuno non dimenticare le disu­
guaglianze che persistono, l’oblio nelle quali troppe
donne sono relegate. Scrive il magistrato Tom Clark:
“Un diritto non è ciò che ti viene dato da qualcuno; è
ciò che nessuno può toglierti”; con l’obiettivo di con­
ferire dignità alla donna l’associazione vides (Vo­
femminile, dialogo, sono gli ingredienti principali
per rendere consapevoli le giovani del loro valore.
Suor Jeannette Kalume, delegata del vides, con tre
giovani ricordano alle ragazze l’importanza della
cultura, la necessità di acquisire competenze finaliz­
zate alla formazione integrale.
Mediante le attività dell’oratorio si risveglia nelle
giovani il genio femminile così importante per l’in­
novazione, imparano a prendersi cura di se stesse, ad
acquisire risorse che favoriscono la loro crescita an­
che con la possibilità di mettere in campo talenti tea­
trali e musicali. Un’esperienza di formazione com­
pleta che ricorda quanto asseriva la scrittrice Simone
de Beauvoir: “Donna non si nasce, lo si diventa”.
Ma che cosa si sente ad essere
volontario VIDES a 360 gradi?
Lo abbiamo chiesto a Christian Matalatala. “L’as­
sociazione vides mi ha dato molte opportunità di
vivere concretamente un volontariato salesiano. La
donazione di me stesso senza aspettarmi nulla in
cambio è un valore importantissimo che ho impa­
rato da don Bosco e di cui sono molto orgoglioso.
La situazione socio-economica della Repubblica
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SETTEMBRE 2021

3.5 Page 25

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Democratica del Congo ci ha presentato per diver­
si decenni la precarietà della vita, pertanto come
volontario sento le esigenze più profonde delle per­
sone, la speranza che i giovani rappresentano e che
deve germogliare; tramite il volontariato sono di­
ventato sicuramente più empatico.
In occasione della Giornata internazionale dei diritti
della donna mi commuovo guardando molti giovani
impegnati a preparare il momento di convivialità, ad
accogliere le ragazze delle Case famiglia assicurando­
si che ognuna di loro si sentisse a proprio agio.
Durante la Giornata internazionale dei diritti della
donna, tre giovani volontari narrano le loro espe­
rienze di vita e al termine invitano le ragazze a vi­
vere la speranza nel quotidiano. Le domande che le
giovani rivolgono loro mi convincono del desiderio
che hanno di migliorare la loro condizione sociale”.
sc  oLalapsteicrcheendtuealllee
di iscrizioni
bambine
e delle ragazze permane di gran lunga
inferiore rispetto alla percentuale
dei maschi.
“Il sentimento che più sento sia personalmente sia
all’interno del vides è quello della gioia che na­
sce quando si decide di esistere per amare e servire,
vivendo ogni giorno che ci viene regalato come la
possibilità di condividere la felicità ponendo gesti
di amore e di condivisione che fanno apportare a
ciascuno l’umanità di cui è portatore”.
L’arma più potente
Il vides inventa anche svariati progetti per le gio­
vani, tra questi il “Sostegno alle ragazze studentesse
di Ruashi attraverso la costruzione di un dormitorio-
centro educativo” che ha contribuito a migliorare le
condizioni di vita di circa 80 studentesse provenienti
dai villaggi più poveri della zona offrendo loro un luo­
go in cui poter soggiornare e studiare, ma soprattutto
socializzare e vivere momenti formativi a livello indi­
viduale e di gruppo, in quanto la donna vive ancora
troppo frequentemente in una situazione di esclusio­
ne dal circuito scolastico: nella Repubblica Democra­
tica del Congo la percentuale di iscrizioni scolastiche
delle bambine e delle ragazze permane di gran lunga
inferiore rispetto alla percentuale dei maschi.
È fondamentale per lo sviluppo di un paese l’e­
liminazione della discriminazione nei confronti
della donna favorendone l’accesso all’istruzione
che fornisce le conoscenze e la fiducia necessarie
per prendere decisioni sul proprio futuro sia a li­
vello locale sia a livello nazionale. L’istruzione è
fondamentale anche nella lotta contro
l’hiv/aids in quanto fornisce gli
strumenti idonei a proteggersi
e rendersi consapevoli del
fatto di essere a rischio.
Il processo culturale è
condotto dalle suore e
dai laici del vides nel­
la convinzione che per
cambiare il mondo l’ar­
ma più potente è vera­
mente l’istruzione, come
sosteneva il celebre Nelson
Mandela.
Affermava l’accademica Rita Levi
Montalcini: “Se istruisci un bambino,
avrai un uomo istruito. Se istruisci una donna,
avrai una donna, una famiglia e una società istrui­
ta”. Ci sembra che sia proprio quanto si sta rea­
lizzando nella Repubblica Democratica del Congo
con autentica e tenace speranza.
Suore e laici
del VIDES
operano
nella
convinzione
che per
cambiare
il mondo
l’arma più
potente è
veramente
l’istruzione.
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3.6 Page 26

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L’INVITATO
ANS
Giampietro Pettenon
Dalle Missioni
alla Sede Centrale
«L’essenziale è prendersi cura».
«Il servizio
che ho svolto
in Missioni
Don Bosco è
stato molto
bello, e
particolare,
nell’ambito
della
Congrega­
zione
Salesiana.
È consistito
essenzial­
mente in
un vivere
di continui
incontri fra
persone».
Come ha conosciuto i salesiani?
Ho conosciuto i salesiani quando avevo 14 anni
all’inizio della suola superiore, a Castello di Gode­
go (TV) l’opera salesiana che è vicina al mio paese.
Fino ad allora non avevo mai sentito parlare di don
Bosco.
È stato il mio parroco, monsignor Liessi, a veni­
re direttamente a casa mia, chiedermi di salire in
macchina, e a portarmi a conoscere i salesiani. Non
che la cosa mi interessasse particolarmente, solo
che a quella figura imponente e autorevole con la
lunga veste nera e il tricorno col fiocco rosso, non
avevo il coraggio di disobbedire.
Com’è nata la sua vocazione?
Durante i cinque anni della scuola superiore ho vis­
suto – assieme ad altri giovani – in comunità con i
salesiani, prima a Castello di Godego e poi nella
Comunità Proposta a Mogliano Veneto. Ora che
mi guardo indietro ho un ricordo bello di quel tem­
po, ma quando lo stavo vivendo non era sempre così
facile. Non capivo cosa avrei potuto fare, non avevo
assolutamente le idee chiare.
È stato comunque un cammino regolare e progres­
sivo nel quale ho maturato la consapevolezza che la
vita salesiana poteva essere per me la scelta di vita
definitiva. E per questo, dopo l’esame di maturità,
sono entrato nel Noviziato per diventare salesiano
di don Bosco.
Come ha reagito la sua famiglia?
Sono il più piccolo di quattro figli e, naturalmen­
te, ero il “cocco di mamma”. I miei genitori, sem­
plici contadini, mi hanno sempre lasciato libero di
scegliere senza alcun condizionamento, né ricatto
affettivo. Da loro ho ricevuto appoggio e condivi­
sione piena alle mie scelte.
Quali sono stati i suoi primi incarichi?
Nei primi anni di vita salesiana, io che avevo cono­
sciuto don Bosco attraverso il percorso scolastico,
sono stato inviato a lavorare in oratorio: un mondo
a me sconosciuto, una impegnativa e difficile sfida
e un bel tirocinio pratico, senza dubbio! Sono poi
ritornato nell’ambito scolastico insegnando nella
formazione professionale, nella scuola superiore e
infine anche all’Università.
Avendo compiuto gli studi superiori e quelli uni­
versitari in ambito economico, ho anche sempre
svolto il compito di economo nelle comunità sale­
siane in cui mi trovavo.
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SETTEMBRE 2021

3.7 Page 27

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Oltre all’impegno per “Missioni
don Bosco”, lei ha il merito della
progettazione, della riorganizzazione
e dell’allestimento della parte storica
di Valdocco. In che cosa consiste?
Valdocco, a Torino, è la nostra “terra santa salesia­
na”. È qui che il nostro padre don Bosco ha dato
origine a quel vasto movimento di persone, consa­
crati e laici, che ancora oggi cresce nel mondo e si
dedica all’educazione umana e cristiana dei giova­
ni, specialmente i più poveri.
Valorizzare e rendere accessibili a quante più perso­
ne possibili le reliquie che Valdocco custodisce del
nostro caro don Bosco e dei suoi primi collaboratori
e figli spirituali è stata un’impresa ardua e al tem­
po stesso affascinante. Al pellegrino che giunge a
Valdocco per conoscere i luoghi delle origini, oggi
viene offerta una vera esperienza di itinerario spi­
rituale che dalla Cappella Pinardi, passando per la
Chiesa di San Francesco di Sales giunge alla gran­
diosa Basilica di Maria Ausiliatrice.
Il complesso museale è vario e tutto affacciato sul
cortile storico: il nuovo gioiello è il museo Casa Don
Bosco e di fronte c’è il piccolo ma suggestivo museo
etnografico di Missioni Don Bosco, una finestra
aperta sul mondo. A testimonianza dell’importan­
za che per i salesiani riveste la comunicazione e il
lavoro manuale si può visitare il museo della prima
tipografia, costruita da don Bosco. E per chi ama
le emozioni forti c’è anche il percorso di salita alla
grande cupola della Basilica da cui la vista spazia
sui tetti di Torino fino alla Mole antonelliana e in
fondo, sulla collina, alla Basilica di Superga.
Abbiamo poi rinnovato gli ambienti dedicati all’ac­
coglienza (sale da pranzo, camere, luoghi di incon­
tro per gruppi e comitive di passaggio) con i servizi
tipici di un luogo turistico-religioso: un negozio di
souvenir, la libreria, il bar e i servizi igienici.
Visitare la casa di don Bocco a Valdocco oggi è una
esperienza nuova che merita di essere vissuta da
grandi e piccini, da famiglie e gruppi di giovani,
da cultori dell’arte e della storia, insomma da tutti.
Il compito che deve affrontare adesso
nella Sede Centrale di Roma non è
altrettanto impegnativo?
La sede centrale della Congregazione salesiana a
Roma dove risiede oggi il Successore di don Bo­
sco e il Consiglio Generale, che hanno il compito
di animare e governare la Congregazione Salesia­
na, si trova proprio accanto alla Stazione Termini,
in quell’edificio addossato alla Basilica del Sacro
Cuore di Gesù che lo stesso don Bosco ha costruito
per volere del Papa.
Anche qui sono stato chiamato a prendermi cura
di questo luogo storico e ricco di storia salesiana.
Necessita di un restauro conservativo e di una ri­
strutturazione che lo rendano adatto ai tempi e ai
bisogni di una congregazione davvero con un respi­
ro mondiale, diffusa in 134 paesi del mondo.
Mi sono poi state affidate altre attività di supporto
indiretto alla missione salesiana che sono chiamato
a coordinare, non sono un granché entusiasmanti,
ma nella vita adulta ci si deve far carico anche di
qualche incombenza un po’ gravosa.
«Coordinare
la Procura
Missionaria
non è stato
per me
un lavoro,
ma una
“missione” da
vivere ogni
giorno, con
le sorprese
belle e
difficili che la
vita riserva a
ciascuno».
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3.8 Page 28

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L’INVITATO
«Ho
conosciuto
tanti
confratelli
salesiani e
li ho visti
operare
sul campo.
La loro
testimonianza
di donazione
totale è
commovente:
stanno
facendo
autentici
miracoli!»
Negli ultimi sette anni è stato
responsabile della Procura
Missionaria “Missioni Don Bosco”
di Torino. In cosa è consistito il suo
lavoro?
Il servizio che ho svolto in Missioni Don Bosco è
stato molto bello, e particolare, nell’ambito della
Congregazione Salesiana. È consistito essenzial­
mente in un vivere di continui incontri fra persone.
Incontri con i missionari che venivano a Torino-
Valdocco, dove ha sede la Procura Missionaria, per
presentare i bisogni dei più poveri e chiedere aiuto.
Ed incontri con i nostri sostenitori, i benefattori
delle opere salesiane, per far conoscere i bisogni
della missione e tendere la mano per… “domanda­
re la carità”.
Dopo sette anni, quale ritiene sia il
risultato più importante conseguito
alla guida di MDB? E quali sfide lascia
a don Antúnez?
Faccio fatica ad individuare un risultato preciso,
come se il servizio in Missioni Don Bosco fosse una
gara con un traguardo da raggiungere. Coordinare
la Procura Missionaria non è stato per me un lavo­
ro, ma una “missione” da vivere ogni giorno, con le
sorprese belle e difficili che la vita riserva a ciascu­
no. Riconosco comunque che sono stati anni di vita
bellissimi, seppur difficili in alcuni passaggi cruciali.
A don Daniel Antúnez cedo il testimone di un’at­
tività in corsa, proiettata verso un orizzonte di rela­
zioni intense con i nostri benefattori, relazioni che
necessitano di essere sempre più personalizzate e
sempre meno massive. È nella relazione personale,
caratterizzata dallo Spirito di Famiglia che ci ha
insegnato don Bosco, che dovrà misurarsi il mio
successore.
Durante il suo mandato a MDB ha
avuto modo di visitare in prima
persona tante missioni e tante realtà
di grande povertà, ma anche di
speranza. C’è qualche episodio che
l’ha più colpita?
Un po’ per necessità, un po’ per passione, ho cono­
sciuto tanti confratelli salesiani e li ho visti operare
sul campo. La loro testimonianza di donazione tota­
le è commovente: stanno facendo autentici miracoli!
Ho sempre ritenuto la formazione professionale
strategica per educare ed evangelizzare i giova­
ni, specialmente i più poveri, ed avviarli alla vita
in maniera dignitosa. Tra le opere che mi hanno
più colpito, e che cito spesso, c’è stato un incon­
tro, in un nostro centro di formazione professionale
in Vietnam situato nella zona del delta del grande
fiume Mekong. Il dirigente di una impresa com­
merciale di import-export che opera sulle banchine
del porto ha detto di assumere volentieri i ragazzi
qualificati alla scuola di don Bosco perché hanno
tre caratteristiche: 1. Non rubano, 2. Obbediscono
al capo, 3. Sanno lavorare in squadra. Penso che
un complimento più bello, rivolto al nostro servizio
educativo, non potevamo riceverlo.
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SETTEMBRE 2021

3.9 Page 29

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Don Bosco stesso fu un grande
fundraiser. Oggi quali sono “i segreti”
per svolgere con successo questa
missione?
Raccogliere fondi per sostenere le opere salesiane
in terra di missione è dare una mano alla Prov­
videnza affinché la cura di Dio per l’umanità
trovi concretezza. Più che di “segreti” io parlerei
di “atteggiamenti” da curare e vivere ogni giorno
nell’incontro con l’altro, sia esso il missionario o
il benefattore.
Anzitutto bisogna essere umili e riconoscere che
quello che stai facendo è opera di Dio. Poi è im­
portante essere sinceri e trasparenti, presentando
i reali bisogni dei più poveri, e non quello che a te
fa più piacere. Infine essere riconoscenti per tutto
l’aiuto ricevuto gratuitamente da tanti benefatto­
ri e che sei chiamato ad amministrare, in pieno
accordo con i Superiori della Congregazione sa­
lesiana, affinché sia distribuito e condiviso con i
più bisognosi.
Quanto è importante il ruolo dei laici
nel settore della raccolta fondi? E
quanto è contato, d’altra parte, il suo
essere consacrato e salesiano nella
gestione di una realtà come MDB?
In Missioni Don Bosco opera una bella squadra di
laici che credono molto nel servizio che portano
avanti con dedizione e tanta competenza. Sono loro
il motore dell’attività. Senza di loro non ci sarebbe
la Procura Missionaria. Io, come salesiano consa­
crato, ho cercato di entrare in questa organizzazio­
ne ben collaudata con il compito di essere l’olio che
lubrifica il motore. L’olio del motore non si nota e
non si percepisce che c’è. Ma senza olio il motore si
surriscalda e brucia in fretta.
Vivo questo avvicendamento fra me e il mio suc­
cessore, don Daniel Antúnez, come un cambio
dell’olio, il tagliando periodico per mantenere in
buona salute la macchina della Procura Missio­
naria.
Da quello che ha potuto vedere, la
pandemia ha fiaccato o riacceso la
generosità?
La pandemia da covid ci ha spaventati e prova­
ti molto, tutti: salesiani, giovani e benefattori, ma
non ci ha travolti, anzi! La generosità non è venuta
meno. Al contrario. Proprio perché abbiamo speri­
mentato in diversi modi la paura e l’impotenza di
fronte a questa catastrofe, ci siamo sentiti più “uma­
ni” e solidali gli uni con gli altri. In particolare i
nostri benefattori si sono fatti presenti in maniera
forte e spesso commovente. Di questo dobbiamo
rendere lode a Dio.
C’è qualche altro spunto che vuole
condividere con i nostri lettori?
Desidero ringraziare. È molto più quello che ho ri­
cevuto da questa esperienza di quello che ho potuto
modestamente donare. E concludo usando le parole
del nostro caro padre don Bosco: “Dio benedica e
ricompensi tutti i nostri benefattori”.
SETTEMBRE 2021
29

3.10 Page 30

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LA NOSTRA STORIA
Ferruccio Palavera
Don Enrico Pozzoli
«Jorge Mario, io ti battezzo nel nome
del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo»:
quando il salesiano don Enrico Pozzoli
pronunciò queste parole, mai avrebbe
immaginato che quel neonato un giorno
sarebbe diventato Papa, con il nome
di Francesco. Era il Natale del 1936,
nella Basilica di Maria Ausiliatrice
a Buenos Aires.
Don Michele
Rua, il primo
successore di
don Bosco,
presentò così
don Pozzoli:
«Eccovi un
campione,
formate molti
secondo
il suo
esempio».
Il piccolo nacque in casa, a Buenos Aires, la sera
del 17 dicembre 1936, in un caseggiato situa­
to nel quartiere di Flores. Mario Bergoglio
aveva atteso con trepidazione l’arrivo del suo
primogenito e l’indomani si precipitò nella basili­
ca di Maria Ausiliatrice, alla ricerca del sacerdote
salesiano che lo aveva sposato. Trovò don Enrico
Pozzoli nel confessionale dove era solito trascorrere
giornate intere. Gli comunicò, con una felicità in­
contenibile, che Maria Regina aveva partorito un
maschietto e che volevano che fosse lui, don Enri­
co, a battezzarlo.
Il salesiano gli rispose sorridendo che pochi gior­
ni dopo sarebbe stato Natale e che una ricorrenza
migliore non poteva esserci per quell’evento. E così
il bimbo fu battezzato il 25 dicembre 1936 nella
basilica di Maria Ausiliatrice: la stessa dove l’anno
precedente, a fine dicembre, si erano sposati i suoi
genitori. Lo chiamarono Jorge Mario. Il salesiano
in tutti quegli anni aveva amministrato il battesimo
a un nugolo di bambini e bambine i cui genitori
frequentavano la parrocchia di San Carlo. Non po­
teva immaginare che quel neonato, figlio di poveri
emigrati arrivati dall’Italia, un giorno si sarebbe
fatto prete e 77 anni dopo sarebbe stato eletto Papa,
il primo pontefice argentino della storia.
Enrico Pozzoli era nato nel 1880 a Senna Lodi­
giana, un piccolo paese arroccato sopra l’alta riva
che si affaccia sulle terre del Po. Di qua le campa­
gne del contado di Lodi, di là, oltre il fiume, quelle
di Piacenza. Una manciata di povere case strette
attorno all’unica strada che attraversava il paese. I
suoi genitori conducevano una vita agiata grazie a
un’avviata osteria che portava il nome altisonante
di albergo dell’angelo. Avevano avuto nove figli,
quando nel 1891 morì il capofamiglia. La vedova
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SETTEMBRE 2021

4 Pages 31-40

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4.1 Page 31

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assunse la guida dell’osteria e quando si accorse che
Enrico era intelligente e capace di costruirsi un fu­
turo, lo mandò in un collegio gestito dai salesiani,
dove avrebbe frequentato una scuola professionale.
Ma la sua strada era un’altra. Decise di farsi prete
e a diciotto anni entrò nel noviziato di Foglizzo,
tra Ivrea e Torino. Il 29 novembre 1903 fu ordi­
nato prete dal vescovo Cagliero, che nel 1875 era
stato inviato da don Bosco in America latina, alla
testa della prima spedizione missionaria salesiana.
L’arcivescovo di Torino quel giorno consegnò il
crocifisso a una quarantina di giovani, sacerdoti e
suore di Maria Ausiliatrice. Don Pozzoli fu desti­
nato all’Argentina. Celebrò il Natale sulla nave e ai
primi di gennaio del 1904 sbarcò a Buenos Aires.
Mai avrebbe immaginato che vi avrebbe trascorso
il resto della sua vita.
Portava in tasca una lettera di presentazione, da
consegnare al superiore dei salesiani d’Argentina.
Ignorava che l’avesse scritta di pugno don Michele
Rua, il primo successore di don Bosco. La frase era
lapidaria: «Eccovi un campione, formate molti se­
condo il suo esempio».
Come primo incarico fu inviato nello studentato di
Bernal, una cittadina vicina a Buenos Aires, dove
imparò la lingua spagnola. «Padre Pozzoli era un
uomo generoso, pacifico – ha ricordato papa Fran­
cesco a Ferruccio Pallavera in un’intervista rila­
sciatagli nel luglio 2020 – e per tutta la sua vita
perseguì la pace. Sapeva dialogare con i giovani,
era molto benvoluto da tutti. In Argentina diventò
un punto di riferimento per tante famiglie emigrate
dall’Italia, era il padre spirituale della nostra fami­
glia. Aveva una grande cura delle persone. A lui
ricorrevano tutti coloro che vivevano un problema
particolare, nella certezza che avrebbe fatto di tutto
per fornire un aiuto. Ci si rivolgeva a padre Pozzoli
anche quando si aveva bisogno di un consiglio. Tra­
scorreva ore e ore in confessionale e come tale era
diventato il punto di riferimento non solo dei sale­
siani, ma di tanti sacerdoti diocesani e delle suore
di Maria Ausiliatrice. Era un grande confessore».
Possedeva la capacità inna­
ta di sistemare gli orologi, dai
più piccoli ai più grandi. Entrò
nella storia la riparazione che
eseguì al grande orologio della
cattedrale di Rio Grande, che
era bloccato da anni.
Nel giugno 1922 fu nominato
responsabile della comunità sa­
lesiana di Uribelarrea, una cit­
tadina a 90 chilometri da Bue­
nos Aires, dove era stata aperta una scuola d’agraria
innovativa. Vi rimase fino al maggio 1927, lascian­
do un ricordo marcato, tanto che la municipalità in
epoca recente gli ha voluto rendere omaggio dedi­
candogli una strada.
Tornato a Buenos Aires, gli affidarono l’infermeria
di San Carlo, situata nella “Casa madre” salesia­
na. Vi sarebbe rimasto ininterrottamente dal 1927
all’ottobre 1961, quando morì. In quella infermeria
poverissima morirono poveramente tanti sacerdoti.
Quel minuscolo presidio sanitario sperimentò per
34 anni la carità e le nozioni intuitive di padre Poz­
zoli. Venne richiesto anche per alcuni anni come
cappellano dell’ospedale italiano di Buenos Aires.
Non rimase per sempre in città. Seguendo l’atti­
vità dei numerosi confratelli che operavano nelle
terre più inospitali dell’Argentina, nel corso della
sua vita e in brevi periodi vi si trasferì spesso per
lavorare al loro fianco. Nel 1938, ad esempio, rag­
giunse Ushuaia, capoluogo della Terra del Fuoco,
dove c’era una comunità salesiana.
Ritratti
giovanili
di Papa
Francesco.
In tutte
le grandi
decisioni
della vita,
don Pozzoli
gli fu vicino.
SETTEMBRE 2021
31

4.2 Page 32

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LA NOSTRA STORIA
Papa
Francesco
davanti al
monumento
ai migranti.
Come era
stata la sua
famiglia.
A Buenos Aires don Pozzoli diventò il punto di
riferimento per i numerosi italiani che si erano tra­
sferiti in Argentina. Conobbe così il giovane Mario
Bergoglio. La sua famiglia, originaria della provin­
cia di Asti, dopo alcune vicissitudini aveva lasciato
l’Italia per raggiungere i parenti che si trovavano
in Argentina dal 1922: a Paranà avevano fondato
un’impresa che realizzava pavimentazioni e l’atti­
vità proseguiva con successo. Il giovane, insieme ai
genitori Giovanni Angelo Bergoglio e Rosa Mar­
gherita Vassallo si imbarcò dal porto di Genova il
primo febbraio 1929. A Paranà iniziò a lavorare
come contabile nell’azienda degli zii, muovendosi
anche su Buenos Aires. La sua era una famiglia
cattolica praticante e gli era rimasta dentro la testi­
monianza che gli avevano fornito i salesiani nella
casa madre di Torino. Fu naturale per lui prendere
contatto con quelli di Buenos Aires. Tra essi incon­
trò don Enrico Pozzoli.
Nell’ottobre 1929 crollò la borsa di New York, dan­
do inizio a una recessione che scosse il mondo. An­
che l’azienda dei Bergoglio ne fu travolta. Dovet­
tero vendere tutto: i macchinari, lo stabilimento, la
casa dove abitavano. Il giovane Mario, non sapendo
a chi rivolgersi, si recò da don Pozzoli, al quale il­
lustrò il dramma che stavano vivendo. Il salesiano
gli promise un aiuto concreto, lo mise in contatto
con un suo conoscente che si dichiarò disponibile
a prestargli duemila pesos. I Bergoglio si trasferi­
rono da Paranà a Buenos Aires e con quei soldi ac­
quistarono un negozietto ottenendo una licenza di
“dulces y licores”; gli affari decollarono, le vendite
si incrementarono e in breve riuscirono a restituire
i soldi ricevuti.
Mario Bergoglio frequentava l’oratorio dei sale­
siani, strinse amicizia con due giovani di origine
italiana, che di cognome facevano Sivori: in casa
loro conobbe la sorella, Maria Regina, e se ne in­
namorò. La sposò il 12 dicembre 1935 nella basilica
di Maria Ausiliatrice, e a unirli in matrimonio fu
don Pozzoli, che rimase legatissimo ad essi. Il loro
amore sarebbe stato coronato dalla nascita di cin­
que figli. Tre bambini e due bambine: Jorge Mario
nato nel 1936, Oscar Adrián nel 1938, Marta Re­
gina nel 1940, Alberto Horacio nel 1942 e Maria
Elena nel 1948. Il missionario di Senna ne battezzò
quattro, fuorché Oscar Adrián, perché si trovava
nella Terra del Fuoco.
Don Pozzoli era spesso invitato a pranzo nelle case
dei Sivori e dei Bergoglio, questi ultimi lo avevano
scelto come proprio padre spirituale. Il compleanno
e l’onomastico del missionario salesiano venivano
festeggiati nella loro abitazione.
Nel febbraio 1948 Regina Sivori ebbe il suo ulti­
mo parto, nacque Maria Elena. Ne uscì seriamente
prostrata, tanto che non riuscì a recuperare le forze.
Era impossibilitata ad accudire la famiglia. Don
Pozzoli trovò una soluzione immediata: i primi tre
bambini della coppia furono messi temporanea­
mente in collegio, in attesa che si riprendesse.
Il futuro Papa nel 1955 si diplomò in chimica e si
iscrisse all’università. Ma a diciassette anni decise
che sarebbe diventato sacerdote. Ne parlò a suo pa­
dre, che ne fu entusiasta. La madre, invece, gli rispo­
se che avrebbe dovuto rifletterci e che sarebbe stato
meglio laurearsi. A quel punto il ragazzo domandò
aiuto a don Pozzoli: questi lo interrogò a lungo e lo
congedò raccomandandogli di pregare e di affidarsi
nelle mani di Dio. Fu il sacerdote salesiano a con­
vincere Regina Maria Sivori ad assecondare la scelta
32
SETTEMBRE 2021

4.3 Page 33

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del figlio. Jeorge Bergoglio entrò così nel Seminario
di Buenos Aires, accompagnato da don Pozzoli. Di
lì a poco incappò in un grave problema di salute. I
medici assunsero la decisione di asportargli parte del
polmone destro. Si riprese a fatica. Rimise in discus­
sione le sue scelte future, iniziò a maturare la deci­
sione di lasciare il seminario diocesano per entrare
in una congregazione religiosa. Nella lunga convale­
scenza gli fu sempre vicino il sacerdote salesiano, al
quale confidò di voler diventare gesuita. Sognava di
diffondere la fede in Giappone.
«Padre Pozzoli condivise questa mia volontà – ri­
corda il Papa – e mi disse che i gesuiti mi avrebbero
accolto nel loro seminario nel mese di marzo. Era­
vamo a novembre. Non era conveniente che io ri­
manessi a casa per quei quattro mesi. Avevo anche
la necessità di riprendermi fisicamente, perché l’o­
perazione che avevo subito era stata molto pesante. La scoperta del valore unico e infinito
della persona umana è uno dei grandi con-
tributi culturali del cristianesimo, dovunque
Ancora una volta mi venne in aiuto: espose la mia abbia messo piede come fede personale
all’interno di relazioni comunitarie. Ogni
persona è un volto, un unicum, una dignità
senza misura, perché amata in un modo irri-
situazione all’ispettore salesiano di Buenos Aires e petibileeinfinitodalPadreche,nelsuoSpi-
rito-Amore, tutti vuole accogliere nel suo
abbraccio in Gesù nostro Signore e fratello.
Volti non è così semplicemente una collana
ottenne che mi ospitassero per quattro mesi con i dibiografie,malospazioculturaleaffinché,
dalle parole che raccontano i fatti, emer-
gano le persone, le loro vicende, i loro
ideali, le loro relazioni, il loro essere-dono
loro chierici a Tandil».
per la vita della Chiesa e del mondo.
VOLUMI PUBBLICATI
Jorge Bergoglio l’11 marzo 1958 entrò nel noviziato V. Di NarDo, Seme di gloria. L’itinerario
di fede di Giacomo Gaglione, 2019
V. De Carli, Come seme che germoglia.
della Compagnia di Gesù. Sarebbe diventato sacer­ Sacerdoti nella malattia, 2019
S. Torre eT al., a cura di A. B. Ferrera,
Atonement. Storia di un prigioniero e
degli altri, 2019
dote il 13 dicembre 1969, ma Enrico Pozzoli non U. PareNTe, Unire la soavità alla fortezza.
Biografia di Madre Margherita Piazza, 2020
D. FabiaNi, (a cura di) Gli “squilli” di
Francesco. Il Papa e il pellegrinaggio a pie-
di Macerata-Loreto, 2020
V. De Carli, C’è una veste bianca anche
per noi., 2020
o. PePe, Imparate da me che sono
mite. Vita e opere del Venerabile Fortunato
Maria Farina, 2021
F. PallaVera, Ho fatto cristiano il Papa.
Don Enrico Pozzoli, il missionario salesiano
che ha battezzato papa Francesco, 2021
avrebbe preso parte a quel giorno di festa, perché
morì otto anni prima, nel 1961, dopo aver visitato
per l’ultima volta la sua famiglia in Italia.
«Quale fu la traccia – scrisse nel 1990 il futuro
Papa – che lasciò in me padre Pozzoli? Se nella
mia famiglia oggi si vive seriamente da cristiani è
grazie a lui, perché ha saputo porre e far crescere i
fondamenti della vita cristiana. Noi cinque fratelli
abbiamo una vita di fede, e questa fede fu coltivata
da padre Pozzoli attraverso i consigli e gli orienta­
menti forniti ai miei genitori. Quando noi fratelli ci
riuniamo, parliamo sempre di padre Pozzoli. Alla
mia età uno comincia a ricordare le persone che
lo hanno aiutato a vivere, a crescere, a essere cri­
stiano, sacerdote, religioso… E, nel riconoscere il
bene che mi hanno fatto tante
persone, vado gustando ogni
FERRUCCIO PALLAVERA
giorno di più la gioia di essere « Jorge Mario, io ti battezzo nel nome del Padre, del Fi-
glio, dello Spirito Santo... »: quando don Enrico Pozzoli
pronunciò queste parole, mai avrebbe immaginato che
loro riconoscente. Con padre quel neonato un giorno sarebbe diventato Papa, pren-
dendo il nome di Francesco. Era il Natale del 1936, la
basilica di San Carlo Borromeo e Maria Ausiliatrice a
Buenos Aires era piena di fedeli e a chiedergli di bat-
Pozzoli mi succede proprio tezzare il loro primogenito erano stati Mario Bergoglio
e Regina Sivori, appartenenti a due famiglie che ave-
vano lasciato l’Italia in cerca di fortuna. Don Pozzoli
questo. Tutti i giorni lo ricor­ voleva bene a quei due giovani: fu infatti lui a sposar-
li nel dicembre del 1935 e a battezzare quattro dei
loro cinque bambini. Il primo di questi, Jorge Mario,
crescendo, scelse proprio il sacerdote come modello
do nell’ufficio divino quando di riferimento. Fu don Pozzoli a convincere la mamma
perché lo lasciasse entrare in seminario, a seguirne la
vocazione religiosa, ad assecondare il suo desiderio di
farsi gesuita. «Se nella mia famiglia oggi si vive vera-
prego per i defunti. E gioisco mente come cristiani ha scritto papa Francesco lo si
deve a lui, a Enrico Pozzoli». Il libro ripercorre per la
prima volta la vita di questo missionario, nato a Senna
Lodigiana in Lombardia nel novembre 1880, diventato
per questo sentimento di gra­ salesiano nel 1903, emigrato in Argentina e deceduto
a Buenos Aires nell’ottobre 1961. Numerosi particolari
della figura e dell’opera di don Pozzoli che emergo-
no dalla lettura, sono stati raccontati dallo stesso papa
titudine». Francesco, durante un colloquio concesso all’autore, il
17 luglio 2020.
HO FATTO
CRISTIANO
IL PAPA
Don Enrico Pozzoli
il missionario salesiano
che ha battezzato
papa Francesco
Prefazione
Maurizio Malvestiti
ISBN 978-88-266-0538-8
ISBN 978-88-266-0538-8
9 788826 605388
9 788826 605388
tore e poi di direttor
l’“Archivio Storico Lod
ta dal 1882 a cura de
digiana. L’attività pub
inoltre, oltre 100 fra v
tere storico, soprattutt
Lodigiano, oltre a num
di altri autori.
In copertina:
La biografia
di don
Pozzoli scritta
da Ferruccio
Palavera.
«Se nella
mia famiglia
oggi si vive
veramente
come
cristiani –
scrive papa
Francesco
– lo si deve a
lui, a Enrico
Pozzoli».
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4.4 Page 34

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COME DON BOSCO
Pino Pellegrino
Autogrill per educatori
8
Autorevole,
non autoritario
Tutti sognano una famiglia
perfetta, unita e sorridente.
La realtà è molto più caotica.
Se i genitori non sono Mary
Poppins e neanche Super Tata
che cosa possono fare? Tanta
dolcezza, sperando che funzioni,
o un po’ di ottimi scapaccioni
alla “qui comando io!”?
Il genitore patentato è autorevole, non autorita­
rio. Autorevole è chi aiuta il figlio a maturare,
a crescere. Lo dice la parola stessa che deriva
dal verbo latino augeo, cioè aumento, faccio cre­
scere, tiro su. Autoritario è colui che impone il suo
punto di vista, chi schiaccia l’altro.
Sono autoritari, ad esempio, i genitori che esigo­
no che il bambino resti per lungo tempo immobile
a tavola; quelli che lo obbligano ad indossare abiti
che lo soffocano…
È chiaro: l’autorevolezza è un valore, l’autoritari­
smo è un disvalore.
Come si diventa genitori autorevoli? Ebbene, ci
pare che per essere tali si richiedono sette condi-
zioni base.
1. Mantenere le promesse
Chi fa promesse e poi non le mantiene, imbroglia.
Ora, chi imbroglia perde la faccia, perde autorevo­
lezza. Dunque è sempre meglio promettere poco, ma
una volta promesso, dobbiamo mantenere l’impegno.
2. Essere coerenti
Coloro che sono banderuole che cambiano opinione
a seconda dello spirare del vento, non possono essere
presi sul serio. Pensare, ad esempio, a quale auto­
revolezza può avere un insegnante che davanti agli
alunni dice una cosa e davanti al dirigente un’altra!
3. Non perdere troppe volte
il controllo
Diciamo ‘troppe volte’, perché può succedere a tut­
ti di perdere le staffe. È successo persino a Gesù
quando ha cacciato con rabbia i mercanti dal Tem­
pio di Gerusalemme (Mc 11,15-19): con tutto ciò
non ha perso autorevolezza!
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SETTEMBRE 2021

4.5 Page 35

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SCONFIGGETE LA SINDROME DA TUTTI GLI ALTRI
Un esempio:
VOSTRO FIGLIO DICE...
NON REPLICATE...
RISPONDETE...
“Le altre mamme permettono ai figli di “Io non sono la mamma degli altri bam- “In casa nostra la TV rimane spenta fino a
guardare la TV dopo la scuola.”
bini. Fino a quando vivrai in questa casa quando non avrai completato i compiti.”
dovrai ubbidire alle mie regole.”
“Ho bisogno di quelle scarpe. Devo “È ridicolo. Non devi avere tutto quello “Capisco perché ti piacciono quelle scarpe.
averle. Tutti i miei amici le hanno.” che hanno i tuoi amici.“
Vorresti che non fossero così care. Teniamo
gli occhi aperti fino ai prossimi sconti.”
“La mamma di Luca gli permette di “Tu non sei Luca. Forse lui non è scon- “Nei giorni di scuola hai bisogno di dormi-
rimanere sveglio fino alle 9 e mezzo. troso come te quando si sveglia”.
re più ore.
Perché io non posso?”
Puoi rimanere alzato un po’ più a lungo nel
fine settimana.”
“La mamma di Giulia è più brava di te. “Perché non vai a vivere da Giulia, se la “Sono certa che ti piacerebbe, ma a casa
Le permette di mangiare i biscotti in pensi così?”
nostra i biscotti si mangiano dopo cena.”
qual­sia­si momento.”
“Sono l’unico a non potere vedere quel “Non mi interessa come la pensano gli “Capisco la tua delusione. Possiamo fare
film.”
altri genitori. È troppo violento.”
qualche altra cosa?”
Passi, dunque, qualche sfuriata, ma l’uso dell’urlo
come strumento educativo, no!
I genitori dall’urlo facile non possono avere au­
torevolezza in quanto il figlio può pensare che i
comandi, i rimproveri dipendano dal loro umore,
dalla loro digestione. Giustamente è stato detto che
le urla sono le ragioni di coloro che hanno torto.
Insomma, più si alza la voce, più si abbassa la forza
delle parole, più si abbassa l’autorevolezza.
4. Ammettere d’aver sbagliato
L’ammissione dei propri sbagli, oltre a renderci più
graditi ai figli, ci rende anche più credibili. Non
può essere credibile un genitore, un educatore che
dice di non sbagliare mai, di essere infallibile.
5. Resistere alle provocazioni
Succede che il bambino metta alla prova i genitori.
Cambio mamma”; “Ho un papà cattivo”.
Queste frasi non rivelano i sentimenti veri del pic­
colo, ma hanno lo scopo di verificare quanto mam­
ma e papà sono forti, autorevoli. È dunque da saggi
non cedere.
Alla provocazione “cambio mamma”, la madre auto­
revole risponde: “Cambiala pure, ma io non cambierò
mai te: ti voglio troppo bene!”.
6. Essere sempre sinceri
Se facciamo credere al bambino di tre anni che la
puntura della vaccinazione non fa male, con quale
autorevolezza potremo, poi, dirgli che la marijuana,
gli alcolici e marinare la scuola fanno male?
7. Un gradino più alto del figlio
Questa è, forse, la condizione principale per avere
autorevolezza. Chi si pone sullo stesso piano del fi­
glio, chi vuole esserne l’amico, il camerata, non può
avere autorità nei suoi confronti. I competenti dicono
che il cameratismo è un errore addirittura più grave
dello stesso autoritarismo. Il cameratismo non può
formare grandi personalità. Non si può crescere se
non si vedono persone più ‘alte’ di noi.
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4.6 Page 36

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LA LINEA D’OMBRA
Alessandra Mastrodonato
Trasformati dal viaggio
Anche quando il viaggio ha una
durata limitata e rappresenta
una breve parentesi nel proprio
percorso di vita, l’impronta
che lascia su chi ne è stato
protagonista permane nel
tempo e, non di rado, costituisce
un’eredità incancellabile, un
bagaglio culturale ed emotivo che
ci portiamo dietro per sempre.
Ad apparire per ultimo
è sempre il numero del binario,
tra poco passa il treno per Milano
che risale la penisola,
la piuma in testa è di gabbiano:
Freccia Bianca, lo spirito di un capo indiano.
Che entra dentro le bocche spalancate
delle montagne in Liguria,
come se fossimo una gomma americana,
il buio ci mastica e ci sputa.
Sentirsi soli in una grande città
fa più male che dalle mie parti,
mi tagliano la gola queste armi bianche,
le punte delle Alpi.
Sentirsi soli in una grande città
è più duro che nella mia terra,
ci sono troppe pareti, troppi muri
dove sbattere la testa...
Nella storia dell’umanità ci sono sempre
state diverse tipologie di viaggio e oggi,
nella società contemporanea, le motiva­
zioni che ci spingono a partire si sono
letteralmente moltiplicate. Si viaggia per esplorare
luoghi sconosciuti e confrontarsi con culture diver­
se dalla propria, per evadere da una quotidianità
monotona e non di rado stressante, per reincontra­
re famigliari e amici lontani, per consolidare e rin­
novare antiche relazioni e tesserne di nuove. Ma,
soprattutto, sempre più spesso si viaggia per ragioni
di studio e di lavoro, per cercare altrove – all’estero
o in altre città – esperienze e opportunità che non si
è riusciti a trovare nella propria terra di origine, per
inseguire un sogno o realizzare un progetto coltiva­
to da tempo, ma anche per sfuggire a situazioni di
deprivazione sociale e materiale o per lasciarsi alle
spalle un passato che si vuole archiviare.
Lo sanno bene i giovani adulti che, oggi più di ieri,
sono protagonisti di una accresciuta mobilità terri­
toriale, novelli viandanti per le strade del mondo,
sempre più abituati a macinare chilometri e ad ol­
trepassare confini, fino a fare del nomadismo quasi
un modus vivendi, una condizione esistenziale in
parte scelta e in parte subita, nel quadro di una più
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SETTEMBRE 2021

4.7 Page 37

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generale precarietà che non risparmia neppure la
dimensione dello “spazio”.
Che si tratti di viaggi di piacere o di spostamenti
dettati dalla necessità, ciò che sembra accomunare
ogni partenza è il senso del distacco, la nostalgia per
ciò che si abbandona, il dolore della separazione –
breve o lunga che sia – dagli affetti e dai luoghi del
cuore, che, anche quando è cercata e a lungo deside­
rata, rappresenta inevitabilmente uno “strappo” nella
propria quotidianità e nel proprio vissuto esperien­
ziale. Decidere di partire significa infatti, prima di
ogni altra cosa, allontanarsi da tutto ciò cui si appar­
tiene, da una realtà conosciuta e familiare che, per
quanto non sempre all’altezza delle nostre aspetta­
tive e aspirazioni, rappresenta pur sempre le nostre
radici, il terreno di coltura della nostra identità, il
luogo dove più di ogni altro ci sentiamo “a casa”.
Di fronte a noi si staglia, invece, l’ignoto: un orizzon­
te incerto e avvolto da una fitta coltre di nebbia che,
se da un lato ci attrae, esercitando su di noi il fascino
potente dell’avventura e della promessa, dall’altro ci
fa paura, poiché nessuno sa fino in fondo che cosa
lo attende una volta giunto a destinazione. La ma­
linconia per ciò che si lascia si mischia, così, con la
curiosità per ciò che ancora non si conosce: una cu­
riosità che genera in noi emozioni contrastanti, che
ci fa sentire come divisi a metà tra il passato e il fu­
turo, instabilmente in bilico tra il già e il non ancora.
Ogni viaggio comporta, infatti, di per sé un cambia­
Trovare un posto alle valigie
è sempre uno dei miei problemi,
per non farle rimanere
tutto il viaggio in piedi.
Sta risalendo la penisola
il vecchio spirito di un pellerossa,
dividendo in due le città che incontra.
Poi entra dentro le bocche spalancate
delle montagne in Liguria,
per poi sparire nel manto bianco
della pianura.
Sentirsi soli in una grande città
fa più male che dalle mie parti,
mi tagliano la gola queste armi bianche,
le punte delle Alpi.
Sentirsi soli in una grande città
è più duro che nella mia terra,
ci sono troppe pareti, troppi muri
dove sbattere la testa...
(Lucio Corsi, Freccia Bianca, 2020)
mento, che non riguarda soltanto le condizioni di con­
testo, il mutare repentino dello scenario in cui si snoda
la nostra vita e che fa da sfondo al nostro agire. A
cambiare radicalmente attraverso il viaggio è soprat­
tutto colui che viaggia, che proprio come una gomma
americana viene letteralmente masticato e rimodellato
dai luoghi che attraversa, dagli eventi di cui fa espe­
rienza, dalle relazioni che man mano costruisce.
E, anche quando il viaggio ha una durata limitata e
rappresenta una breve parentesi nel proprio percorso
di vita, l’impronta che lascia su chi ne è stato prota­
gonista permane nel tempo e, non di rado, costitui­
sce un’eredità incancellabile, un bagaglio culturale ed
emotivo che ci portiamo dietro per sempre. Un baga­
glio al quale dobbiamo imparare a trovare un posto
nella nostra vita, così come alle valigie in cui abbiamo
accuratamente impacchettato il nostro passato, affin­
ché non rappresentino un intralcio ai nostri passi,
bensì una preziosa riserva di senso da cui attingere
energie nei momenti di stanchezza e quando, lontani
da casa, ci capiterà di sentirci un po’ soli.
SETTEMBRE 2021
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4.8 Page 38

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LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
Francesco Motto
Anime e cavalli di forza
Don Bosco scriveva di notte
al lume di candela, dopo una
giornata trascorsa tra preghiere,
colloqui, riunioni, studio, parlate,
visite di cortesia. Sempre pratico,
tenace, con una prodigiosa
visione del futuro.
Da mihi animas, cetera tolle” è il motto
che ha ispirato tutta la vita e l’azio­
ne di don Bosco a partire dall’ora­
torio voltante di Torino (1844) fino
alle ultime iniziative sul letto di morte (gennaio
1888) per l’andata dei salesiani in Inghilterra e in
Ecuador. Ma per lui le anime non erano disgiunte
dai corpi, tant’è che fin dagli anni cinquanta si era
proposto di consacrare la vita perché i giovani fos­
sero “felici in terra come poi in cielo”. Felicità che,
in terra, per i suoi giovani
“poveri ed abbandonati”
consisteva nell’avere un tet­
to, una famiglia, la scuola,
un cortile, amicizie e attivi­
tà piacevoli (gioco, musica
teatro, gite…) e soprattutto
una professione che garan­
tisse loro un sereno futuro.
Si spiegano così i laboratori
di “arti e mestieri” di Valdocco – le future scuole
professionali – che don Bosco ha creato dal nul­
la: un’autentica startup, per dirla in termini attuali.
Si era proposto lui stesso inizialmente come primo
istruttore di sartoria, legatoria, calzoleria… ma il
progresso non si fermava e don Bosco voleva essere
all’avanguardia.
La disponibilità di forza motrice
A partire dal 1868, per iniziativa del sindaco di To­
rino, Giovanni Filippo Galvagno, una parte delle
acque del torrente Ceronda, che nasceva a 1350 m
di quota, vennero captate dal Canale Ceronda per
essere distribuite a varie industrie che sorgevano
nell’area nord del capoluogo piemontese, quella di
Valdocco per intendersi. Suddiviso poi il canale in
due rami all’altezza del quartiere di Lucento, quello
di destra, ultimato nel 1873, dopo aver superato con
un ponte-canale la Dora Riparia, proseguiva cor­
rendo parallelo agli attuali corso Regina Margherita
e via San Donato per andare poi a scaricarsi nel Po.
Don Bosco, sempre vigile a quanto avveniva in cit­
tà, immediatamente chiese al Municipio “la con­
cessione di almeno 20 cavalli di forza d’acqua” del
canale che sarebbe passato appunto a lato di Valdoc­
co. Accolta la domanda, fece costruire a sue spese
le due bocche di presa e di restituzione dell’acqua,
dispose le macchine nei laboratori in modo da poter
ricevere facilmente la forza motrice e fece studia­
re da un ingegnere i motori necessari allo scopo.
Quando tutto era pronto, il 4 luglio 1874 chiese alle
autorità di procedere, a proprie spese, all’allaccia­
mento. Per vari mesi non ebbe risposta, per cui il
7 novembre rinnovò la richiesta. La risposta questa
volta pervenne abbastanza celermente. Sembrava
positiva, ma chiedeva prima alcune precisazioni.
Don Bosco rispose nei seguenti termini:
“Illustrissimo Sig. Sindaco,
Mi affretto di trasmettere a V. S. Ill.ma gli schia-
rimenti che compiacquesi dimandare colla sua lette-
ra del 19 andante mese, ed ho l’onore di notificarle
che l’industria cui verrà applicata la forza motrice
dell’acqua della Ceronda sono:
1° La tipografia per cui sono impiegati operai non
meno di numero 100.
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SETTEMBRE 2021

4.9 Page 39

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2° Fabbrica di paste con operai non meno di 26.
3° Fondaria di caratteri tipografici, estortili, calco-
grafia con operai oltre 30.
4° Labo[rato]rio in ferro mercé un martinetto con
operai non meno di 30.
5° Falegnami, ebanisti, tornitori con una sega
idraulica: operai non meno di 40.
Totale degli operai oltre a 220”.
Il numero comprendeva istruttori e giovani allievi.
Stante la situazione, essi, oltre ad essere soggetti a
inutili fatiche fisiche, non avrebbero potuto reggere
la concorrenza. Infatti don Bosco aggiungeva: Questi
lavori ora si compiono mercé il dispendio di una macchina
a vapore per la tipografia, ma per gli altri laboratorii si
fanno a forza di braccia, in guisa che non si potrebbe so-
stenere la concorrenza di chi usa l’acqua motrice”.
E per evitare possibili ritardi e timori da parte del­
le pubbliche autorità offriva immediatamente una
cauzione: “Non si dissente di depositare una cartella del
debito pubblico per cauzione, appena si possa conoscere
di quale ventura essa debba essere”.
Pensava sempre in grande…
ma si accontentava del possibile
Si doveva pensare al futuro, a nuovi laboratori, a
nuove macchine e dunque la richiesta di energia
elettrica sarebbe necessariamente aumentata. Don
Bosco allora alzò la richiesta e ne addusse le ragioni
esistenziali e congiunturali:
“Ma mentre accetto la forza teorica di dieci cavalli,
mi trovo nella necessità di osservare che tale forza è
affatto insufficiente al mio bisogno, giacché il pro-
getto di esecuzione, che si sta effettuando, basava
sopra la forza di 30 [?] come ebbi l’onore di esporre
nella lettera del novembre u. s. Per questo la prego
di prendere in considerazione i lavori di costruzione
già in corso, la natura di questo istituto, che vive
di sola beneficienza, il numero degli operai che si
occupano, l’essere noi stati dei primi ad iscriversi,
e quindi volerci concedere, se non la forza di 30 ca-
valli promessa, almeno quella maggiore quantità di
forza che fosse ancora disponibile…”.
“A buon intenditor poche parole” si direbbe.
Un imprenditore di successo
Non ci è pervenuta la quantità di acque concesse
all’Oratorio in quella occasione. Resta il fatto che
don Bosco dimostra ancora una volta quelle doti di
capace imprenditore che tutti all’epoca gli hanno
riconosciuto e che gli riconoscono tuttora: una sto­
ria di integrità morale, un giusto mix tra umiltà e
fiducia in se stesso, determinazione e coraggio, ca­
pacità comunicative e fiuto del futuro. Ovviamente
quale carburante di tutte le sue ambizioni e aspira­
zioni stava una sola passione: quella per le anime.
Aveva sì molti collaboratori, ma, in qualche modo,
tutto cadeva sulle sue spalle. Ne sono la prova
tangibile le migliaia di lettere, di cui abbiamo
qui pubblicato una inedita, corretta e ricorretta
più volte: lettere che solitamente scriveva di sera
o di notte al lume di candela, dopo una giornata
trascorsa tra preghiere, colloqui, riunioni, studio,
parlate, visite di cortesia. Se di giorno architettava
il suo progetto, di notte era poi capace di sognar­
ne gli sviluppi. E questi sarebbero poi venuti nei
decenni seguenti, con le centinaia di scuole pro­
fessionali salesiane sparse nel mondo, con decine
di migliaia di ragazzi (e poi di ragazze) che in esse
avrebbero trovato un trampolino per un futuro ca­
rico di speranza.
La tipografia
di Valdocco.
Per azionare
le macchine
aveva
bisogno
dell’acqua
motrice dei
canali della
città.
SETTEMBRE 2021
39

4.10 Page 40

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I NOSTRI SANTI
A cura di Pierluigi Cameroni  postulatore generale
 Coloro che ricevessero grazie o favori per intercessione
dei nostri beati, venerabili e servi di Dio, sono pregati
di segnalarlo a postulatore@sdb.org
 Per la pubblicazione non si tiene conto delle lettere
non firmate e senza recapito. Su richiesta si potrà
omettere l’indicazione del nome.
IL SANTO DEL MESE
In questo mese di settembre preghiamo per la Canonizza-
zione del Beato Alberto Marvelli, exallievo salesiano di don
Bosco e di cui il 5 ottobre ricorre il 75° della morte.
Alberto Marvelli nacque a Fer-
rara il 21 marzo 1918, da una
famiglia che era una vera chie-
sa domestica; visse e crebbe a
Rimini, dove la sua famiglia si
era trasferita. Il suo è stato uno
sforzo continuo per adeguare la
propria condotta ai valori cristia-
ni. In questo gli fu di grande aiu-
to l’Oratorio salesiano. Il Diario,
scritto tra il 1933 ed il 1946, ci
rivela le motivazioni più profon-
de dell’animo di Marvelli: “La via
della perfezione è difficile, lo so,
ma con l’aiuto di Gesù nulla è
impossibile”. Quest’intimità con
Dio, raggiunta attraverso l’Eu-
caristia, fa sì che Alberto si apra
agli altri, avvertendo le profonde
ingiustizie e le miserie del suo
tempo. Il suo impegno è straor­
dinario e non conosce soste. Tra-
spare un fervore di carità, che si
manifesta con un’attenzione ai
problemi della gente. Durante
la seconda guerra mondiale è
sempre in prima linea per aiuta-
re i bisognosi, gli sfollati. È attivo
protagonista della vita ecclesia-
le, sociale e politica della sua
città. Servì Cristo nei poveri con
fervido amore. Esercitò un attivo
apostolato in molteplici campi.
Investito da un veicolo militare,
morì il 5 ottobre 1946. È stato
beatificato da Giovanni Paolo II il
5 settembre 2004, a Loreto.
Preghiera
O Dio, Padre onnipotente, ricco di misericordia,
ti ringraziamo per averci donato in Alberto Marvelli
un segno del tuo amore per noi.
Noi contempliamo le meraviglie che hai operato nella sua vita:
la solida vita di preghiera, il generoso impegno sociale e politico,
l’amore ardente per i poveri.
In ogni ambito della sua vita ha praticato eroicamente
la fede, la speranza e la carità.
Ti chiediamo, Padre, per intercessione del Beato Alberto:
concedici di imitarne le virtù e diventare come lui
testimoni del tuo amore nel mondo.
Ti chiediamo anche ogni grazia spirituale e materiale.
Ti chiediamo pace e salvezza per la tua Chiesa,
che Alberto ha amato e servito.
Fa’ che Alberto sia conosciuto in tutta la Chiesa
a gloria e onore del tuo nome. Amen.
CRONACA DELLA POSTULAZIONE
Il 22 maggio 2021 il Santo Padre Francesco ha autorizzato
la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il De-
creto riguardante le virtù eroiche del Servo di Dio Felice
Canelli (1880-1977), Sacerdote della Diocesi di San Severo
(Foggia-Italia), Salesiano cooperatore.
Ringraziano
Era il marzo del 2013 e avevo
assistito all’elezione del nostro
papa Francesco. Ero già mam-
ma di due magnifiche bambine.
Quella notte con il cuore colmo
di gioia chiesi a san Domenico
Savio di farmi la grazia e di do-
narmi un altro figlio. Ogni gior-
no, da quando avevo scoperto
di essere incinta, recitavo la
novena di san Domenico Savio,
tenendo sempre tra le mie mani
il suo abitino. La notte tenevo
l’abitino sotto il mio cuscino
sempre stretto nella mano. Il
13 dicembre 2013 nacque il
mio meraviglioso Leone Maria.
Nonostante la prematurità stava
bene e aveva un buon peso.
Francesca Monzone
Nel 2017, all’età di 78 anni, co-
minciai a sentirmi male; non ri-
uscivo a mangiare niente, avevo
perso completamente l’appeti-
to e in poco tempo dimagrii di
20 chili. Dalle analisi risultò che
avevo un tumore nel sangue.
Iniziai subito la cura con la che-
mio; ero molto serena, poiché
avevo una grande fiducia in Dio.
Una mattina, svegliandomi, mi
venne in mente don Andrea
Beltrami (Venerabile); e come
se lo vedessi gli dissi: “Può fare
qualche cosa per me, perché
io stia bene?” Cominciai a pre-
garlo con fede. Al terzo giorno
della mia preghiera mi sentii
subito guarita; riconquistai le
forze; l’appetito mi tornò subito
ed ebbi una grande voglia di
lavorare come prima. I dottori
constatarono la mia guarigio-
ne e sospesero la cura della
chemioterapia appena iniziata.
Io, grazie a Don Beltrami, sono
sempre stata bene fino ad oggi:
ho 82 anni, lavoro molto con for-
za grande ed entusiasmo, piena
di tanta energia.
Sr. Cesarina Mercati, FMA, Livorno
Attilio Giordani (Venerabile)
invocato quotidianamente mi
ha aiutato nel concludere posi-
tivamente una pratica burocra-
tica finanziaria molto importan-
te per la mia famiglia.
F.M.L. - Rivarolo Mantovano
Sono italiano, vivo a Barcellona
(Spagna) da 26 anni, sono ar-
chitetto. Ero da quasi tre anni
senza un lavoro stabile. Un
giorno di gennaio dell’anno
2018 andai al Santuario di Ma-
ria Ausiliatrice di Barcellona qui
in Spagna, sempre aperto, e
trovai un’immagine del Servo
di Dio monsignor Giuseppe
Cognata, dei Salesiani di don
Bosco e fondatore delle suore
Salesiane Oblate del Sacro Cuo-
re. Davanti al Signore la lessi e
mi misi a pregare insieme con il
Padre fondatore per chiedere al
Signore la Grazia del dono del
lavoro. Al finire lasciai il fogliet-
to. Uscendo dalla chiesa mi ar-
rivò una telefonata per fare un
colloquio. Lavoro dal giovedì 1°
febbraio di quell’anno.
Mauro Gentile, Barcellona – Spagna
40
SETTEMBRE 2021

5 Pages 41-50

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5.1 Page 41

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IL LORO RICORDO E` BENEDIZIONE
Sadba
Jan Med
(1916-2011)
“Se non fosse per don Med, non
sarei salesiano oggi”, abbiamo
sentito più volte queste parole,
o molto simili, da vari salesia-
ni durante la nostra visita nel
nord-est dell’India. Abbiamo
appreso gradualmente che
il profondo solco che padre
Jan Med (per gli indiani don
John Med) ha tracciato qui
tocca personalmente non solo
i Salesiani, ma anche molte
persone del luogo, scuole e
interi villaggi. Fu in questi
luoghi che operò nella seconda
fase della sua vita salesiana
(1970-2011) e a quel tempo
era già cittadino indiano. Solo
grazie a lui i bambini dei villag-
gi remoti e isolati hanno avuto
una possibilità di educazione
generale e religiosa, ha formato
insegnanti e catechisti e ha con-
tribuito a fondare scuole rurali.
Jan Med, nativo di Jihlava, nac-
que in una famiglia povera ma
molto numerosa (aveva sette
fratelli) nel 1916. Fu mandato
a scuola a Fryšták dai salesiani,
che lo influenzarono così tanto
che nel 1933 andò al noviziato in
Slovacchia e un anno dopo fece
i primi voti religiosi. Ma sentiva
che la sua vocazione lo chiamava
altrove. Nel 1935 andò in Italia e
poi partì per l’India a bordo di
un piroscafo a lunga percorren-
za. All’inizio John pensava che
le sue missioni sarebbero state
nella lontana Cina, ma Dio de-
cise diversamente e John fu as-
segnato a Madras, una città nel
sud-est dell’India. Si gettò nello
studio dell’italiano e dell’ingle-
se, poiché, a differenza degli
altri confratelli, non sapeva par-
lare una parola di inglese. Erano
una compagnia allegra e anche
molto rumorosa.
Lavorò prima nelle province del
sud e in tempi difficili di guerra
fu ordinato sacerdote e inviato
in varie parti dell’India meridio-
nale e centrale. Fondò la Scuola
Don Bosco a Tirumpattur, Tamil-
nadu, che ora è una nota scuola
autonoma. Lavorò per stabilire
l’Università Teologica a Banga-
lore e l’Università Don Bosco
a Maram. Intanto scriveva libri
di spiritualità e canti spirituali
che hanno venduto centinaia di
migliaia di copie. Nelle chiese e
nelle scuole salesiane i suoi can-
ti sono ancora cantati.
Negli anni ’70 gli fu or-
dinato di trasferirsi nel
nord-est.
Caricò la cosa più pre-
ziosa che aveva – una
macchina da scrivere –
sul suo scooter e partì
per un lungo viaggio
di 630 km. Nella co-
munità di Manipur,
imparò le lingue indigene, vi-
sitò remoti villaggi rurali dove
istituì scuole e insegnò ai figli
dei poveri contadini che non
potevano permettersi di man-
dare i loro figli nelle scuole
delle città.
Una volontaria confida: «Quanti
posti meravigliosi, scuole, con-
vitti e soprattutto bambini ho
visto. Bambini felici che erano
felici di andare a scuola. Felice
e sorridente. In ogni scuola con
un’uniforme diversa, ma rico-
noscente e ospitale. Vedere con
i miei occhi ciò che padre Jan
Med ha fatto con l’aiuto dei be-
nefattori cechi è stupefacente!
Ho davanti a me il libro di canzo-
ni All You Hills, che ha composto
e che i “suoi” figli non solo canta-
no magnificamente, ma prega-
no anche regolarmente. Il canto
era la sua passione. Durante la
visita all’ospedale, ricordo padre
Jan come un uomo calmo (rifiu-
tava gli antidolorifici) e un uomo
gioioso. Teneva molto all’unità
di tutti i fratelli e le sorelle di
tutte le fedi. Ha anche parlato
di quanto sia importante per noi
continuare il suo lavoro. Sono
andata a trovarlo tre volte e ho
avuto l’opportunità di tenergli
la mano e di dire anche qualche
parola. Ero molto commossa per
essere vicino a una persona così
grande».
Un programma della televisione
ceca ha sintetizzato così la vita di
questo grandissimo figlio di don
Bosco: «Più di 80 anni fa, l’allora
giovane salesiano Jan Med si
recò in India. Venne in un paese
devastato dalla guerra e dalla
grande povertà come missiona-
rio entusiasta. Le sue straordina-
rie capacità sono testimoniate
dal suo lavoro sul libro dei canti,
che è ancora utilizzato in tutti
i templi cattolici e protestanti
dell’India, nonché dal suo ruolo
di ispettore salesiano, incaricato
di gestire tutte le case dell’India.
Ha cresciuto diverse generazioni
di Salesiani, alcuni dei quali oggi
sono vescovi. Le sue attività nel
campo dell’ecumenismo e del
dialogo interreligioso sono vive
ancora oggi. Jan Med è morto in
India nel 2011 all’età di 95 anni».
John Med è morto nel 2011 e
ha lasciato una grande speran-
za di istruzione nella gente del
posto che ancora dice che era
un sant’uomo.
SETTEMBRE 2021
41

5.2 Page 42

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IL CRUCIVERBA
Roberto Desiderati
Scoprendo don Bosco
La soluzione nel prossimo numero.
UN TERRIBILE MESTIERE... A MISURA DI BAMBINO!
Don Bosco era consapevole della realtà drammatica che esisteva nel-
la società italiana del suo tempo, dove la miseria e la disperazione dei
più poveri portavano ad emarginare i giovani, che vagavano in città
vivendo di espedienti, senza regole e soggetti ad ogni sopruso. Uno
dei mestieri più emblematici per quanto concerneva fatica fisica, pri-
vazioni e condizioni disumane di vita e lavoro era quello dei pulitori
di canne fumarie, mestiere arrivato ai nostri giorni come se fosse un lavoro romantico e persino
piacevole. Ma in realtà era un lavoro meticoloso e sfiancante, e questi “manovali” erano quasi
sempre bambini, tra i 6 e i 12 anni che i genitori in ristrettezze economiche affidavano nei mesi
invernali ai cosiddetti padroni. Costretti all’obbedienza per evitare di morire di fame, speravano
nell’aiuto dei clienti, che talvolta donavano loro pasti caldi e qualche abito. Il caposquadra li
faceva salire sul tetto, li legava con una corda sotto le ascelle e li faceva infilare nello stretto buco
del camino. I XXX lavoravano muovendosi nel buio, spostandosi a forza di gomiti, di schiena e
di ginocchia, pochi centimetri per volta, ma più il camino era stretto, più c’era da soffocare, con
la fuliggine che arrivava addosso a mucchi, con un sacco in testa per protezione e senza poter
risalire o scendere perché c’era il padrone. Gli attrezzi erano spazzoloni, raschietti, ferri ricurvi,
bastoni e soprattutto il tipico “riccio” che andava infilato
Soluzione del numero precedente nell’imboccatura del comignolo. Queste durissime con-
dizioni erano note e nell’Ottocento nacquero a Milano
e a Torino delle Società laiche di patronato e Opere reli-
giose di carità con lo scopo di migliorare la loro vita, for-
nendo vitto e riparo a quei piccoli sfortunati. Don Bosco,
come sappiamo, era in prima linea e si operò moltissimo
in loro aiuto, sottraendone quanti più poté a questa for-
ma di schiavitù senza futuro.
DEFINIZIONI
ORIZZONTALI. 1. Lo coltiva il contadi-
no - 5. La Rai d’anteguerra - 9. Linea di
contorno di persona o cosa - 15. Sorte,
rischio - 16. Il fiume che bagna la città di
New York - 17. Dispositivo per l’avvista-
mento di aerei e ostacoli - 18. Travestiti
con costumi carnevaleschi - 21. Oppo-
sto di molta - 22. XXX - 23. Cadauno
(abbr.) - 25. Nome generico del popolo
degli zingari - 26. Farina di buona quali-
- 27. XXX - 29. Dentro il - 31. Devoti,
religiosi - 32. Gli animali che gracidano
? - 33. Dirigente Scolastico - 34. L’intesti-
no tra il “digiuno” e il “cieco” - 36. Non
Dichiarato (sigla) - 37. Tirato fuori come
un numero della lotteria - 40. Sono pari
nell’alibi - 41. Il gioco con la scala reale -
44. Recipiente per l’infuso delle cinque
- 46. Vitrei come minerali trasparenti e
incolori - 47. Andato in poesia - 48. Es-
sere gigantesco e malvagio delle fiabe.
VERTICALI. 1. Svettano accanto alla
chiesa - 2. La Jai … o gioco della “ce-
sta punta” - 3. Amalgami proporzionati
di ingredienti - 4. Imballo, collo - 5.
Uno dei massimi poeti tragici greci che
scrisse Medea - 6. Nome di donna - 7.
Scaltrezze, furbizie - 8. Il re francese - 10.
Andata/Ritorno (sigla) - 11. Scarto, diva-
rio come quello generazionale - 12. Li
percepisce l’olfatto - 13. La città utopica
descritta da Gabriel García Márquez - 14.
Il moschettiere azzimato - 16. Capitale
della Finlandia - 19. Concorrenziale ge-
store di telefonia - 20. Un famoso Ermi-
nio della rivista - 23. Un mazzo di quelle
francesi ne ha 54 - 24. La principessa di
Argo che fondò Ardea - 28. È lungo 100
centimetri - 30. Vi fu relegato Napoleo-
ne - 35. La dea romana dell’abbondan-
za - 38. Così si firmava Sergio Tofano,
creatore del sig. Bonaventura - 39. Il
Tribunale regionale che esamina i ricorsi
- 42. Onorevole (abbr.) - 43. L’inizio del
ritornello - 45. La Occhini attrice (iniz.).
42
SETTEMBRE 2021

5.3 Page 43

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LA BUONANOTTE
B.F.Disegno di Fabrizio Zubani
Il bullo
I
“grandi” della scuola superio­
re sanno essere crudeli e
certamente lo erano nei
confronti di un giovane della mia
classe che si chiamava Matteo. Gli
facevano il verso, lo deridevano e lo
beffeggiavano a causa della sua taglia.
Era di almeno venti chili sovrappeso.
Soffriva di essere sempre l’ultimo a
essere scelto per giocare a basket, a
baseball o a football. Matteo ricorderà
sempre gli infiniti dispetti che gli ve­
nivano fatti, come riempire di spazza­
tura il suo armadietto, impilare i libri
della biblioteca sul suo banco durante
la pausa pranzo o innaffiarlo di acqua
gelata dopo la lezione di ginnastica.
Un giorno era seduto vicino a me
durante la lezione in palestra. Qual­
cuno lo spinse e lui mi cadde addosso
e mi pestò malamente un piede. Il
ragazzo che lo aveva spinto disse che
era colpa di Matteo. Sotto gli occhi
di tutta la classe, potevo solo passarci
sopra o fare a botte con Matteo.
Io scelsi di fare a botte per non perde­
re la faccia. Urlai: «Coraggio, Matteo.
Fatti sotto!» Disse che non voleva. Ma
la pressione dei compagni lo costrinse
a combattere, volente o nolente.
Venne verso di me con i pugni
sollevati. Ma non era Mike Tyson.
Con un pugno gli feci sanguinare
il naso e la classe andò in delirio.
Proprio mentre l’insegnante entrava
in palestra.
Vide che stavamo facendo a botte e
ci spedì in cortile. Ci seguì con un
sorriso stampato sulla faccia e disse:
«Adesso voi due andate in pista e
correte per cinquanta giri del cortile
tenendovi per mano».
Tutti scoppiarono a ridere, mentre
noi due eravamo imbarazzati all’in­
verosimile. Ma andammo in pista e
percorremmo di corsa cinquanta giri
di cortile, mano nella mano.
A un certo punto, mentre stavamo
correndo, ricordo che lo guardai, con
il naso che perdeva ancora sangue e
il suo peso che lo rallentava. Mi colpì
che fosse una persona non molto di­
versa da me. Ci guardammo in faccia
e cominciammo a ridere tutti e due.
Da allora diventammo buoni amici.
Percorrendo la pista tenendogli la
mano non vedevo più Matteo come
grasso o lento. Era un essere umano
che aveva un valore intrinseco che
andava molto al di là dell’aspetto
esteriore.
È sorprendente quello che puoi
imparare se sei costretto a percorrere
cinquanta giri di cortile tenendo per
mano qualcuno.
Per il resto della mia vita, non ho
mai più alzato una mano contro
un’altra persona.
SETTEMBRE 2021
43

5.4 Page 44

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