Bollettino_Salesiano_201103

Bollettino_Salesiano_201103

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IL
MARZO
2011
L’invitato
Monsignor
Luc Van Looy
Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
Salesiani nel mondo
L’oratorio di Fambul
Le nostre case
Beitgemal
Uno sguardo
salesiano
Sognando
Drogba

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LE COSE DI DON BOSCO
JOSÉ J. GÓMEZ PALACIOS
La bacchetta
La storia
Quando Giovanni Bosco era studente a Chieri fondò la
Società dell’Allegria. Lui stesso racconta in modo viva-
ce e avvincente la storia della sfida al saltimbanco nelle
Memorie dell’Oratorio.
magica
Sono una bacchetta da
giocoliere e abito in un
sacchetto di tela verde. Anche
se ho il cuore di legno, osservo
la vita con occhi d’artista. Io e
il mio padrone siamo giocolieri
professionisti. Il mio padrone è
un uomo abile, smilzo e induri-
to dalla vita. Non ce la passiamo
troppo bene. Campiamo grazie
agli spettacoli e alle sfide che
organizziamo per i poveracci dei
paesi in cui vagabondiamo. La
giornata finisce sempre all’oste-
ria, per festeggiare e mitigare
la noia di passare di piazza in
piazza ripetendo sempre la
stessa commedia.
Tra i miei ricordi ne ho
uno incancellabile.
Era il giorno della grande
fiera di Chieri. Il mio padrone
cominciò lo spettacolo, con i
consueti giochi di prestidigita-
zione e le sfide agli spettatori.
Ero tranquilla, qualunque fosse
la sfida, il mio padrone aveva
sempre vinto.
Cominciò con alcuni giochi,
poi percorse la città da un capo
all’altro in due minuti e mezzo,
cioè alla velocità di un treno. Io
pazientemente aspettavo il mio
turno, nella custodia verde. Im-
provvisamente alcuni ragazzotti
si piazzarono davanti al mio
padrone: uno di loro accettava
la sfida. Il loro campione si chia-
mava Giovanni. Il mio padrone
lo squadrò con arroganza e fissò
la posta a venti lire, una discreta
somma. Per arrivarci, i ragazzi,
tutti insieme svuotarono le ta-
sche. Appena si seppe della sfida
si ammassò una gran folla.
Il mio padrone era veloce, ma
quello studente era una vera
saetta. Il mio padrone a metà
corsa si fermò e gli diede partita
vinta. Era un suo vecchio trucco:
così poteva richiedere la rivinci-
ta con il raddoppio della posta.
Per quaranta lire, la sfida fu sul
salto del fosso. Il mio padrone e
lo studente fecero pari, anche se
lo studente terminò con un’arti-
stica piroetta, che gli guadagnò
gli applausi della folla.
«Scegli qualunque gioco di
destrezza, ma con ottanta lire di
posta!» propose il mio padrone.
Il giovanotto scelse pro-
prio me, la bacchetta ma-
gica. Il gioco preferito del mio
padrone. Avrebbe certamente
vinto lui. Giovanni mi prese in
mano con una stretta gentile.
Mi pervase un calore che non
avevo mai provato. Mise un
cappello su una delle mie estre-
mità e con dolcezza cominciò a
farmi volteggiare sulla punta del
mignolo, dell’anulare, del pollice
e poi danzai con leggerezza sul
dorso della mano, sul gomito,
sulla spalla, sul mento, sulle
labbra, sul naso, sulla fronte. Poi
rifacendo lo stesso cammino,
tornai sul palmo della sua mano.
Gli spettatori applaudirono.
Fu il turno del mio padrone.
Mentre saltavo veloce sulle
sue abili dita, cercavo il modo
di aiutare quel ragazzo così
simpatico. Così quando arrivai
sul naso, vacillai e caddi.
Giovanni aveva vinto. I suoi
amici lo portarono in trionfo.
Il mio padrone mi rimise nella
custodia di tela verde. Non mi
rimproverò. E io vidi un lampo
di ammirazione nei suoi occhi.
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Marzo 2011

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IL
MARZO 2011
ANNO CXXXV
Numero 3
2 LE COSE DI DON BOSCO
La bacchetta magica
4 STRENNA 2011
6 LETTERE
8 SALESIANI NEL MONDO
L’oratorio di Fambul
10 UNO SGUARDO SALESIANO
Sognando Drogba
12 FINO AI CONFINI DEL MONDO
14 L’INVITATO
Monsignor Luc Van Looy
17 MESSAGGIO A UN GIOVANE
18 FMA
Formazione formato futuro
20 NOTE DI SPIRITUALITÀ SALESIANA
22 MISSIONI
Il padre degli Achuar
24 GIOVANI
TeenStar
26 I SALESIANI E L’UNITÀ D’ITALIA
28 LE CASE DI DON BOSCO
Beitgemal
32 VIAGGI
34 COME DON BOSCO
Insegnare a scrivere
36 NOI & LORO
38 IL LIBRO
40 A TU PER TU
Belfi ore
41 I NOSTRI SANTI
42 CI HANNO LASCIATO
43 LA BUONANOTTE
14
34
38
Mensile di
informazione e
cultura religiosa
edito dalla
Congregazione
Salesiana di San
Giovanni Bosco
In copertina:
Un ragazzino
africano e il suo
pallone, simbolo di
un bellissimo gioco
e di un pericoloso
miraggio. L’articolo
è a pagina 10. (Foto
Shutterstock)
Il BOLLETTINO SALESIANO
si stampa nel mondo in 57
edizioni, 29 lingue diverse e
raggiunge 131 Nazioni.
Direttore Responsabile:
Bruno Ferrero
Segreteria: Fabiana Di Bello
Redazione:
Il Bollettino Salesiano
Via della Pisana, 1111 - 00163 Roma
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web: http://biesseonline.sdb.org
Hanno collaborato a questo
numero: Agenzia Ans, Pierluigi
Cameroni, Maria Antonia Chinello,
Walter Fajardo, Cesare Lo Monaco,
Giancarlo Manieri, Alessandra
Mastrodonato, Francesco Motto,
Marianna Pacucci, José J. Gomez
Palacios, O. Pori Mecoi, Alberto
Riccadonna, Mario Scudu, Carlo
Terraneo, Luigi Zonta, Fabrizio
Zubani.
Diffusione e Amministrazione:
Luciano Alloisio (Roma)
Fondazione
DON BOSCO NEL MONDO ONLUS
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- Torino
Stampa: Mediagraf s.p.a. - Padova
Registrazione: Tribunale di Torino
n. 403 del 16.2.1949
Associato alla Unione Stampa
Periodica Italiana

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VENITE E VEDRETE
PASCUAL CHÁVEZ VILLANUEVA
Beata Alexandrina
Maria da Costa (1904-1955)
La fecondità del “... cetera tollen sabato santo,in una frazione chiamata
“Calvario” nel comune di Balasar (Porto-
gallo), segna la vita di questa donna stra-
ordinaria che rifulge tra le più grandi ani-
Ume mistiche della storia della Chiesa del
riescono a forzare le porte ed entrano. Alexandri-
na, per salvare la sua purezza minacciata e la sua
dignità di donna e di figlia di Dio, non esita a get-
tarsi dalla finestra, da un’altezza di quattro me-
tri. Le conseguenze sono terribili, anche se non
immediate. Infatti le varie visite mediche a cui è
sottoposta diagnosticano con sempre maggiore
chiarezza un fatto irreversibile. Fino a diciannove
nostro tempo. Quel giorno Alexandrina, anni può ancora trascinarsi in chiesa, dove, tutta
la sorella Deolinda e una ragazza apprendista rattrappita, sosta volentieri, con grande meravi-
sono intente nel loro lavoro di cucito, quando si glia della gente. Poi la paralisi va progredendo
accorgono che tre uomini tentano di entrare nella sempre di più, finché i dolori diventano fortis-
loro stanza. Nonostante le porte siano chiuse, i tre simi, le articolazioni perdono i loro movimenti
L’icona della beata
Alexandrina Maria
da Costa, salesiana
cooperatrice, è stata
realizzata
dall’iconografa
Domenica Ghidotti
nell’anno 2007 ed è
custodita presso la
cappella
dell’istituto salesiano
di Nave (Brescia).
Il progetto iconogra-
fico vuole presentare
la storia di un’anima
che rivive nella pro-
pria carne il mistero
pasquale di Cristo.
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ed essa resta completamente paralizzata. Quando
Alexandrina si mette a letto per non rialzarsi più,
per i restanti trent’anni della sua vita, è il 14 aprile
1925. Fino al 1928 essa non smette di chiedere al
Signore, mediante l’intercessione della Madonna,
la grazia della guarigione, promettendo che, se
fosse guarita, sarebbe andata missionaria. Ma, ap-
pena capisce che la sofferenza è la sua vocazione,
l’abbraccia con prontezza: “Nostra Signora mi ha
fatto una grazia ancora maggiore. Prima la rasse- la consacrazione del mondo al mio Cuore divino, così
gnazione, poi la conformità completa alla volontà di io chiedo a te che sia consacrato al Cuore della mia
Dio, ed infine il desiderio di soffrire”.
Madre santissima”. Il segno dato dal Signore per
avvalorare l’origine divina di questa richiesta è la
Risalgono a questo periodo i primi fenomeni sua Passione rivissuta in Alexandrina dal venerdì
mistici, quando Alexandrina inizia una vita di 3 ottobre 1938 al 24 marzo 1942, ossia per 182
grande unione con Gesù nei Tabernacoli, per volte. Alexandrina, superando lo stato abituale di
mezzo di Maria Santissima. Un giorno in cui si paralisi, scende dal letto e con movimenti e gesti
trova sola, le viene improvvisamente questo pen- accompagnati da angosciosi dolori, riproduce i di-
siero: “Gesù, tu sei prigioniero nel Tabernacolo ed io versi momenti della Via Crucis, per tre ore e mezzo.
nel mio letto per la tua volontà. Ci faremo compa- Amare, soffrire, riparare” è il programma che le
gnia”. Da allora comincia la prima missione: esse- indica il Signore.
re come la lampada del Tabernacolo. Passa le sue
notti come pellegrinando di Tabernacolo in Ta- Dopo che Pio XII consacra il mondo al Cuore
bernacolo. In ogni Messa si offre all’Eterno Padre Immacolato di Maria, cessa in Alexandrina la Pas-
come vittima per i peccatori, insieme a Gesù e sione di Gesù in forma visibile, che continua inte-
secondo le sue intenzioni. Cresce in lei sempre riormente per tutta la vita. Nella settimana santa
più l’amore alla sofferenza, a mano a mano che la dello stesso anno, 1942, inizia il digiuno totale che
vocazione di vittima si fa sentire in maniera più si protrae fino alla sua morte, avvenuta il 13 ottobre
chiara. Emette il voto di fare sempre quello che 1955. La sua vita è un miracolo eucaristico viven-
fosse più perfetto.
te. Gesù le dice: “... Faccio che tu viva solo di Me, per
provare al mondo ciò che vale l’Eucaristia, e ciò che è la
mia vita nelle anime: luce e salvezza per l’umanità.
SaleLsaiavnoacCaozioopneerdaitruincaeA partire dal 1935, con il gesuita padre Mariano
Nel 1944 il nuovo direttore spirituale, il salesiano
don Umberto Pasquale, la iscrive all’Unione dei
Salesiani Cooperatori ed ella fa collocare il suo
diploma di Cooperatrice “in luogo da poterlo avere
Pinho, suo primo direttore spirituale, è la portavo- sempre sotto gli occhi”, per collaborare con il suo
ce di Gesù presso il Santo Padre affinché il mondo, dolore e con le sue preghiere alla salvezza delle
minacciato dalla seconda guerra mondiale e dal anime, soprattutto giovanili. I compaesani alla
diffondersi dell’ateismo, venga consacrato alla Ver- sua morte vestirono a lutto per un mese e com-
gine Madre. “Come io chiesi a S. Margherita Maria mentavano: “È morta la mamma di Balasar!”.
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LA POSTA
I NOSTRI ESPERTI RISPONDONO
Il più forte
Caro direttore, […] mi doman-
do: che cosa c’è di più forte e
resistente nel mondo? […] Qui
sembra che tutto si sbriciola, si
sfonda. […] A che cosa appel-
larsi? Non gli sto a raccontare i
disastri in famiglia. […] Ecco,
non mi risponda che è Dio il
più forte. Lo so! Anche se non
capisco perché non interviene.
Voglio dire: qui sulla terra chi o
che cosa devo considerare più
forte, dal momento che vedo che
si precipita verso la disgrega-
zione di ogni cosa. Sono un po’
leopardiana: niente più certez-
ze, nella vita che “è male”, anzi
niente più speranze […]
dorina@...
Cara signora, sono anda-
to a ripescare una carto-
lina dimenticata da anni
in qualche libro… L’ho
ritrovata per puro caso
(o è la Provvidenza?).
Le rispondo con quel che c’è scrit-
to a commento di un disegno che
raffigura uno splendido mazzetto
di fiori rossi.
Il ferro è forte,
ma il fuoco lo fonde.
Il fuoco è forte,
ma l’acqua lo spegne.
L’acqua è forte,
ma il sole la evapora.
Il sole è forte,
ma la nube lo nasconde.
La nube è forte,
ma il vento la spazza via.
Il vento è forte,
ma la montagna lo arresta.
La montagna è forte,
ma l’uomo la domina.
L’uomo è forte,
ma la morte lo doma.
La morte è forte,
ma la “Bontà” è più forte della
morte e dura in eterno.
Don Giancarlo Manieri
Noi sì, i nostri figli
no. Perché?
Ho tre figli e per lavoro sono a
contatto con giovani dai 14 ai
19 anni (scuola superiore).
Io sarei molto contenta se la
‘buona riuscita’ di un figlio di-
pendesse da un corretto uso
della pedagogia, con qualche
spruzzatina di psicologia, tan-
to amore e dedizione e tanto
esempio pratico.
Io e mio marito siamo cattolici
praticanti non per abitudine ma
come compimento di un percor-
so anche molto sofferto. Abbia-
mo educato i nostri figli in una
visuale di rispetto e gratuità, ab-
biamo cercato con gli insegna-
menti ma soprattutto con il no-
stro comportamento di far capire
(cosa non facile) cosa significhi
essere cristiani, nei limiti delle
nostre capacità e possibilità.
Ma…
La prima dopo un periodo con
il Sidamo durato due anni si è
allontanata definitivamente dalla
chiesa. Poi è stata la volta della
secondogenita. È stata catechi-
OGNI MESE
DON BOSCO
A CASA TUA
Il Bollettino Salesiano vie-
ne inviato gratuitamente a
chi ne fa richiesta.
Dal 1877 è un dono di don
Bosco a chi segue con sim-
patia il lavoro salesiano tra
i giovani e le missioni.
Diffondetelo tra i parenti e
gli amici. Comunicate su-
bito il cambio di indirizzo.
sta fino a pochi mesi or sono.
Tutte le estati fa volontariato con
bambini orfani all’estero con or-
ganizzazioni religiose. Anche lei
cinque mesi fa, a diciotto anni
e tre mesi, mi ha annunciato di
aver “saltato il fosso” con il suo
ragazzo, ‘bravo’ credente e di
famiglia seria e devota. Epilogo:
volontariato ancora sì, messa e
chiesa non più. E il terzo? È di
pochi giorni fa l’annuncio che lui
non ha più intenzione di venire a
messa perché dopo approfondi-
te indagini (?) non crede più. Ha
quindici anni.
Di contro a scuola vedo casi,
moltissimi, di ragazzi che han-
no famiglie disastrate alle spal-
le, nessun richiamo religioso e
nessuna “induzione”. Ragazzi
che dovrebbero essere persi e
che invece sono piccoli gioielli
di responsabilità e generosità.
Allora? Mi chiedo cos’è quel
‘quibus’ che fa la differenza?
T.F.
L a signora che si firma
T.F. esprime un sen-
timento che è di tanti
genitori delusi come lei
dalle scelte dei propri
figli. Lo sfogo amareg-
giato ha un finale obbligato: «in
che cosa abbiamo sbagliato?».
Sarebbe bello avere una risposta
chiara e sicura come l’oroscopo
del mattino! Purtroppo non è così.
Perché figli cresciuti in una stessa
famiglia convintamente cristiana
prendono altre strade? “Forse” –
e il forse è d’obbligo – i genitori,
senza volerlo, hanno forzato un
po’ la mano nel volere i propri
figli come loro: cristiani, impe-
gnati, seri e via elencando. Ma
si può educare senza trasmettere
le cose belle della propria vita?
Crescendo e confrontandosi con
altri coetanei e con altre esperien-
ze questi figli avvertono un clima,
“forse”, più libero, più respirabile,
più per loro. È solo un “forse”,
ma può rivelare un filo di verità.
E tuttavia non basta. Non dimen-
tichiamo il contesto culturale in
cui crescono questi nostri ragazzi.
Che cosa respirano fin dal primo
vagito? Che una scelta vale non
perché è importante e vera in se
stessa. Vale solo se conta per me!
Diversamente è solo imposizione!
Allora, tra le tante scelte possibi-
li, quale sarà quella giusta? Una
sola: quella che «io “sento” im-
portante per me». È un ragionare
che sconcerta tanti genitori.
Rimproverare ai nostri giovani
la mancanza di punti fermi, di
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responsabilità e via criticando
serve poco. Anzi scava un solco
di incomprensione. Crescono in
un mondo – il nostro – che ha
un piede sull’acceleratore della
“libertà di scelta” e uno sul freno
della “verità delle scelte”. Gran-
de confusione: infatti una libertà
senza verità intruppa sul così fan
tutti ben più di quanto si voglia
ammettere.
Quand’è che l’esperienza di fede
dei genitori può diventare anche
l’esperienza dei figli? Probabil-
mente quando il modo di vive-
re dei genitori viene sentito più
interessante, più significativo e
più convincente di altri al punto
da farlo proprio. È una convin-
zione interiore. E le convinzioni
non si insegnano. Maturano dal
di dentro. È un sentirsi crescere
dentro la certezza che vivendo
quell’esperienza dei genitori è
un qualcosa di grande, di bello
di cui fidarsi oggi e domani.
Se questo è vero, “forse” si può
capire perché non tutti i figli se-
guano le vie dei genitori. “Forse”
lo stile di vita dei genitori non è
sentito più significativo di altri.
“Forse” manca il coraggio di fi-
darsi di un modo di vivere che,
pur bello e significativo, è però
impegnativo, esigente: e fa pau-
ra. E tanti altri “forse”: non ulti-
mo la superficialità e la banalità
di rincorrere solo esperienze ed
emozioni.
Nonostante tutto, non sono po-
chi quelli che divenuti adulti e
scontrandosi con le delusioni
della vita “riscoprono” i valori
di papà e di mamma. Anche solo
per questa piccola speranza vale
la pena educare cristianamente
i propri figli e accompagnarli
anche quando percorrono altre
strade. L’amore sa aspettare!
Sabino Frigato
Docente di Teologia Morale
Perché tanto livore
contro Gesù?
Caro Bollettino, ti scrivo per cer-
care di capire cosa può spingere
l’umanità ad odiare così tanto la
figura e l’operato di Gesù Cristo.
Da laico sento di dover ammettere
che si può non credere ai miracoli
o ad una vita ultraterrena… Ciò
che non capisco è come si possa
disconoscere la vita di colui che
ha diffuso una religione che può
tranquillamente essere definita to-
talmente libertaria e pacifista.
Biagio Astore
Gentile signore, innan-
zitutto mi preme pre-
cisare che Gesù non
ha, cito le sue parole,
“diffuso una religione
che può tranquilla-
mente essere definita libertaria
e pacifista”. Non è venuto a fon-
dare nessuna nuova religione;
piuttosto ha testimoniato una
nuova spiritualità, cioè un nuo-
vo modo di rapportarsi con Dio.
Nella sua vita non c’è il minimo
spazio per il magismo o il mi-
racolismo. Non è un illusionista
IO SONO
CREDENTE,
MA NON CREDO
AL PARADISO
Forse non è che non credi al
paradiso: non credi al paradiso
che ti hanno dipinto. Tu pensi
che un paradiso di quel genere
non può esistere per sempre.
Il paradiso, ognuno se lo im-
magina a modo suo, cercando
di mettere insieme tutto ciò
che può rendere felice la vita:
una famiglia che si ama mol-
tissimo, un grande pomeriggio
in cui giocare senza fine sulla
spiaggia del mare, racconti
stupendi... Anche la Bibbia è
piena di immagini per darci
un’idea di quella vita promessa
da Dio: una sorgente di acqua
freschissima quando si è nel
deserto, un banchetto squisito,
una festa meravigliosa...
Noi possiamo immaginarlo
come il giorno in cui vivremo
totalmente con Dio, ricolmi
di gioia nel sentirci vivi e
amati. È questo il paradiso in
cui credono i cristiani: come
un bellissimo ritrovarsi con
Dio e con tutti coloro che ab-
biamo amato. Talvolta anche
quaggiù gustiamo «momenti
di paradiso». E vorremmo
che non finissero mai.
Mamma Margherita
o un veggente. I suoi miracoli
non sono finalizzati a forzare le
leggi della fisica, ma unicamen-
te a fare del bene ai peccatori,
agli ammalati, a tutti i sofferenti
che riescono ad avvicinarlo. Tut-
to questo gratuitamente, senza
nessuna contropartita con il solo
invito a riconoscere Dio median-
te il cambio del cuore e, di con-
seguenza, del modo di vivere.
Il Figlio di Dio non fu né liber-
tario, né pacifista. Predicò il Re-
gno di Dio in cui i grandi sono
al servizio degli ultimi, le pro-
stitute ed i peccatori occupano
i primi posti nel cuore di Dio,
la condivisione è la regola del
relazionarsi, il perdono sgonfia
vendette e rancori.
Gesù ha testimoniato delle virtù
che non sono molto apprezzate
oggi: la parresia e la xeniteia.
Due termini un po’ reboanti, ma
di facile comprensione. La par-
resia è il parlare chiaro e diretto.
La xeniteia è il non portare il cer-
vello all’ammasso ma ragionare
liberamente con forte capacità
critica.
In un mondo massificato e
perbenista, preoccupato più
dell’apparire che dell’essere,
questo modo di essere disturba
e spiazza. Tuttavia quello che
maggiormente turba è la sua
Resurrezione. Vincere la morte
è qualcosa di inconcepibile ed
incomprensibile. Questa verità
risulta essere indigesta per lo
scientismo ed il nihilismo do-
minanti e facilmente scatena
delle reazioni scomposte spes-
so venate da odio, disprezzo e
sarcasmo. Tutto questo era stato
da Lui chiaramente previsto: “Se
hanno perseguitato me, perse-
guiteranno anche voi…”.
Don Ermete Tessore
Docente di Filosofia
e di Religione
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SALESIANI NEL MONDO
LOTHAR WAGNER SDB
Don Bosco Fambul
Vivere insieme si può
Fambul significa “famiglia” in Krio,
la lingua locale, e il Don Bosco
è il più grande istituto in Sierra
Leone che si occupa di ragazzi
di strada e giovani disoccupati.
Ogni anno assiste circa 1500
bambini e ragazzi in uno dei paesi
più poveri al mondo.
I sogni degli ex
ragazzi di strada
finiscono anche
sul muro del Don
Bosco: qui hanno
trovato una casa.
John Kargbo aveva 12 anni quando
scappò via di casa perché non poteva
più sopportarne l’estrema povertà. Lui
e le sue due sorelle andavano spesso a
scuola affamati, e ancora affamati anda-
vano a letto la sera. Aveva appena finito
la scuola elementare quando i suoi genitori non
poterono più pagare la sua retta scolastica. Suo
padre, un muratore qualificato, era disoccupato;
sua madre poteva muoversi con fatica solamente
sulle stampelle a causa della poliomielite e chie-
deva l’elemosina al traghetto. John voleva guada-
gnarsi da solo di che vivere e lasciò la famiglia.
Durante il primo anno continuò a far visita ai
genitori una volta al mese, ma in seguito smi-
se di farlo. Il ragazzo cercava una vita migliore
nella capitale, Freetown. Per quasi tre anni visse,
mangiò, lavorò e dormì per strada. È stato fortu-
nato nonostante tutto, perché non fu mai vittima
di violenza fisica o sessuale. Fiero di sé racconta
che non ha mai rubato nulla e che è sempre riu-
scito a cavarsela. Per strada il ragazzo sentì par-
lare di Don Bosco Fambul e chiese aiuto là: “Mi
dissero che potevi trovare tutto da loro, un posto
sicuro per dormire, cibo a sufficienza, una scuola
e gente che ti ascolta” racconta. Ora il ragazzo
sedicenne siede in un ufficio raccontando della
sua “vita di strada e del seguito”.
Le ferite profonde
della guerra civile
All’incirca 4000 bambini, come John, vivono per
le strade della Sierra Leone. Essi non sanno leg-
gere né scrivere e vivono in permanente pericolo
di essere sfruttati ed abusati. La mortalità infanti-
le nel paese è la più alta del mondo; inoltre molte
donne muoiono di parto o subito dopo, a causa di
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UN ANGOLO DI PARADISO
La Sierra Leone è uno degli stati africani con la più alta
densità di popolazione, le stime parlano di sei milioni di
abitanti; la cifra è approssimativa a causa dell’alto nume-
ro di profughi della guerra civile. La religione dominante
è l’islamismo che copre circa il 60% della popolazione,
i cristiani sono il 30%. La Sierra Leone possiede una
natura fantastica. Una vegetazione tropicale verdissima
domina i panorami. Si dice tra le genti del luogo che se
non fosse per le guerre e per i governi Sierra Leone sa-
rebbe un piccolo angolo di paradiso terrestre.
un servizio medico che è rimasto arretrato. Tutto
ciò ha le sue radici nella crudele guerra civile che
ha infuriato in Sierra Leone per undici anni, e
nella incapacità del Governo – unita ad un inim-
maginabile livello di corruzione. La popolazione
ha sopportato sofferenze inaudite e ora deve fare
i conti con i traumi della guerra. Gli ex-bambini
soldato sono ora alla guida dei moto-taxi; la gen-
te, violentata o mutilata, cerca di tirare avanti in
qualche modo. Le infrastrutture sono andate in
gran parte distrutte. La guerra è ufficialmente fi-
nita da otto anni in questo paese dell’Africa oc-
cidentale, appena più grande della Baviera con i
suoi 71.000 km quadrati. La situazione politica,
economica e sociale tuttavia è rimasta delicata.
Circa il 90% della popolazione vive al di sotto
della soglia di povertà. È la generazione dei gio-
vani ad essere colpita in modo particolarmente
duro poiché essi non riescono a vedere alcuna
prospettiva per se stessi, e la loro disperazione è
una fonte latente di fermento nel paese.
sue tasse scolastiche e finanzia un progetto di ge-
nerazione di reddito per la madre come fonte del
sostentamento familiare. Non solo i senza tetto
sono accolti nella Don Bosco Fambul, ma anche
i giovani disoccupati: l’istituto procura degli stage
all’interno o al di fuori di Freetown per 250 ra-
gazzi tra i 18 e i 28 anni, ed offre loro l’accompa-
gnamento di assistenti sociali.
Di conseguenza, istituti come Don Bosco Fam-
bul possono risultare estremamente preziosi per il
paese, poiché presentano un altro modo di vivere
insieme. Ogni giorno provano la loro credibilità
attraverso l’esempio dell’assistenza, della non vio-
lenza e della tolleranza. La loro attiva carità, la loro
fede e spiritualità impegnata possono servire come
un modello laddove la comunicazione e la coesi-
stenza sono divenute difficili se non impossibili.
La musica è la
lingua che mette
d’accordo tutti.
Consiglio, formazione
e supporto ai giovani
Don Bosco Fambul è impegnata a dare ai ragazzi
di strada delle prospettive per il futuro e a raf-
forzare le loro famiglie nella difficile situazione
del dopoguerra. Grazie all’aiuto dell’istituto an-
che John Kargbo ha trovato la sua via: è tornato
dai genitori e riceve regolarmente la visita di un
assistente sociale della Don Bosco Fambul che
verifica che tutto vada bene in casa e che John
non ritorni per strada. Don Bosco Fambul paga le
Qui i ragazzi
trovano un
ascoltatore
comprensivo
per ogni gene-
re di problemi.
Marzo 2011
9

1.10 Page 10

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UNO SGUARDO SALESIANO
O. PORI MECOI
Sognando
Didier Drogba
L’incredibile nell’indifferenza
generale: la tratta dei piccoli
schiavi del pallone
«Ciao, ti piacerebbe fare il calcia-
tore professionista da grande?»
«Ti piacerebbe giocare in una
grande squadra come il Man-
chester o il Barcellona?»
Questo è più o meno quello che
accade a migliaia di ragazzini africani. Un agente
che li approccia promettendo un provino per una
grande squadra europea, un viaggio il cui costo è
totalmente sulle spalle dei genitori del ragazzo e
poi se il provino non va bene migliaia di giova-
ni promesse del calcio dispersi, abbandonati a se
stessi, senza soldi, senza documenti regolari senza
alcuna possibilità di ritorno a casa. Questo accade
in Inghilterra, in Francia, in Spagna e anche qui
in Italia. Il problema dei giovani calciatori scom-
parsi è un problema che riguarda tutta l’Europa,
ma riguarda soprattutto quei paesi d’Europa che
hanno squadre note che per fama e ricchezza fan-
no particolarmente gola a questi agenti.
In realtà siamo di fronte ad una vera e propria trat-
ta di schiavi che oggi conta oltre ventimila dispersi.
Alcuni rimangono bloccati nei porti nordafricani,
altri muoiono durante la traversata, altri sono sì da
questa parte del Mediterraneo, ma senza nessun
permesso di soggiorno, sicuramente senza nessun
contratto, e senza una casa dove vivere.
Continuano a coltivare il loro sogno di diventa-
re dei grandi professionisti, dei grandi calciatori
europei, nella speranza a volte assurda di essere
notati da qualcuno. Capire perché non riescono
mai più a tornare indietro.
«Voglio essere come Didier»
L’inchiesta comincia nel Marocco, a Rabat.
«Nel mio paese, i genitori tendono a farti gioca-
re a calcio perché credono che con questo sport,
una volta famoso, la famiglia non sarà più povera.
Spesso capita che i ragazzi rinuncino persino al
cibo pur di diventare dei grandi calciatori», chi
parla è Francis Standa, ha diciassette anni e viene
dalla Guinea Conakry nell’Africa Occidentale,
«Io ho deciso che nella vita farò ciò che amo: so-
gno di diventare come Didier Drogba che gioca
nel Chelsea. Voglio essere come lui».
Lui è il sogno. Nato in Costa d’Avorio, Didier
Drogba oggi è una macchina da gol per il Chel-
sea, in Inghilterra, è una superstar mondiale, non-
ché multimiliardario. Il suo successo ha fomenta-
10
Marzo 2011

2 Pages 11-20

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2.1 Page 11

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to l’ambizione di un’intera generazione di giovani
africani, compreso Francis.
Sei mesi fa, Francis pensava di entrare nel sogno.
Mentre si allenava in Guinea, un agente si avvici-
nò dicendo di aver visto in lui un talento e che gli
avrebbe fatto fare un provino con l’Atletico Madrid.
«Mi disse di andare in Marocco per poi lasciare il
nostro continente visto che da lì la Spagna non è
lontana.» Francis dice che quello è stato il giorno
più bello della sua vita, ma c’era una trappola. L’a-
gente chiede una somma di quattromila dollari per
il viaggio e altre spese. Riponendo tutte le speranze
della famiglia su Francis, suo padre si impegna a
pagare. «Mio padre non aveva molti soldi, ha ven-
duto anche la sua macchina per aiutarmi. Per colpa
mia i miei fratelli e le mie sorelle non potranno
andare a scuola. Pensavano che se avessi viaggiato e
fatto fortuna, la mia famiglia sarebbe stata felice.»
Ma quando Francis arriva in Marocco, l’agente è
svanito nel nulla.
Una vita per trecento dollari
Accra, Ghana. In un campetto di terra battuta
tanti ragazzini giocano. «Li osservo mentre gio-
cano. Cerco di capire chi di loro ha del vero talen-
to»: Danny Smith è uno dei tanti allenatori delle
squadre minorili che spuntano come funghi. Ne
chiama uno e dice: «Questo ragazzino è unico, ha
qualcosa di speciale. Fra cinque o sei anni emer-
gerà ne sono sicuro, la base è ottima».
Dieci giocatori sono andati in Europa, ma sol-
tanto uno è riuscito a diventare famoso.
Soltanto uno.
«Che cosa è successo agli altri
nove?»
«Gli altri erano stati contat-
tati da agenti che avevano
promesso di portarli in Eu-
ropa. Sono lì ormai da anni.»
Il viaggio dei ragazzi comin-
cia da una scheda che è in
mano ad un allenatore che
li rivenderà. «Io ho comprato questo ragazzo per
trecento dollari, una cifra molto alta. Non sono
ancora riuscito a venderlo: è ancora sulla piazza.»
Questi ragazzi sono giovanissimi, quattordi-
ci, quindici anni. «Noi aumentiamo un po’ l’età,
perché se l’agente dice, mi serve un giocatore di
diciassette anni, noi ritocchiamo i documenti. È
molto facile.»
«Quindi quello che era uno sport è diventato un
business.»
«Sì e soprattutto in Ghana si fanno molti affari.»
Negli ultimi vent’anni le rendite delle principali
squadre d’Europa sono salite alle stelle, la ricer-
ca di calciatori si è fatta spasmodica. Nel 1989,
il Campionato inglese ospitava quattro giocatori
africani tutti bianchi. Nel 2009, ospitava sessanta
giocatori africani quasi tutti neri.
Il signor Obdala è il padre di Uzo, uno dei calcia-
tori più dotati del coach Smith.
«Mio figlio? Giocava veramente bene.»
«Le manca?»
«Sì mi manca moltissimo, penso sempre a lui.»
Il signor Obdala ha venduto tutti i suoi beni per
pagare un agente affinché portasse suo figlio ad
un evento sportivo in Danimarca. L’agente, non
essendo riuscito a trovare un acquirente, lo ha ab-
bandonato.
Questo è successo sette anni fa e il Signor Obdala
non vede suo figlio da allora. «Mi sono
chiesto se Dio ce l’avesse con me, quan-
do senti quanti ragazzi si trovano in
queste condizioni. Deve esserci qual-
cuno che può riportare mio figlio.»
Non c’è.
Coloro che dirigono il mondo del
calcio non si interessano più di
tanto. Sono solo un po’ di bam-
bini che piangono. Lo spettaco-
lo deve andare avanti.
«Non voglio tornare a mani vuote» dice
Francis. «Non voglio deludere mio
padre. Lui si è fidato di me.»
Marzo 2011
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2.2 Page 12

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FINO AI CONFINI DEL MONDO
A CURA DELL’ANS – WWW.INFOANS.ORG
FILIPPINE
La Famiglia
Salesiana
celebra
don Bosco
INDIA
“Boscoree
2010”
Durante il passaggio dell’urna con le
reliquie di don Bosco nelle Filippine dal 5
dicembre al 15 gennaio 2011, i vari gruppi
della Famiglia Salesiana hanno dato vita
ad interessanti e particolari iniziative.
A Canlubang gli studenti della scuola
“Mary Help of Christians School” delle
Figlie di Maria Ausiliatrice hanno eseguito
brani musicali suonando con bambù, tam-
buri e cetre. Il gruppo giovanile “Juventus”
ha documentato le attività svolte pubbli-
cando i rapporti su un apposito profilo del
social network Twitter. I seminaristi sale-
siani, oltre a dedicare un numero speciale
della loro rivista – InsideOut – alla visita
dell’urna, hanno animato un incontro di
preghiera ecumenica secondo lo stile della
fraternità di Taizé e realizzato una ripro-
duzione di Casa Becchi, l’abitazione nella
quale don Bosco nacque, strutturandola
come un museo.
ITALIA
“Kami, la
missione
dell’energia”
Grazie all’impegno di nu-
merosi volontari dell’ONG
“Coopi”, dei lavoratori
dell’azienda Terna e alla te-
nacia di don Serafino Chie-
sa, missionario salesiano in
Bolivia, il piccolo villaggio
di Kami, situato sulle Ande
a 4000 metri d’altezza, è
stato collegato alla linea
elettrica nazionale. Il lavoro
è consistito nel riattivare
le centrali idroelettriche in
disuso di Quehata e Chinata
e di collegarle attraverso
una nuova linea elettrica
lunga 37 km al resto della
rete, rendendo così possi-
bile uno sviluppo proficuo
e sostenibile nell’intera area
di Kami e del suo distretto
minerario. Quest’esperienza
di solidarietà è stata raccol-
ta anche in un libro, “Kami,
la missione dell’energia”.
A cavallo del Capo-
danno 2011 presso
Dimapur si è svolta
l’XI edizione del
Boscoree, evento a
cadenza triennale
nel quale i giovani indiani che vivono il
carisma salesiano nella forma propria dello
scoutismo si ritrovano e si confrontano.
Oltre 1850 scout e guide provenienti da
varie parti dell’India hanno dato vita a
giochi, laboratori, escursioni, concorsi, gare
di canto e di ballo ed eventi culturali. Il 1°
dell’anno, Giornata Mondiale per la Pace, i
ragazzi hanno attraversato la città indossan-
do i loro costumi tipici e hanno sventolato
cartelloni e manifesti inneggianti alla pace
al ritmo dei tamburi e dei canti tradizionali.
L’incontro ha permesso ai ragazzi di cre-
scere nell’amicizia e nella condivisione e di
approfondire il messaggio di don Bosco e di
Baden Powell.
12
Marzo 2011

2.3 Page 13

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STATI UNITI
Voci di
una Nuova
Generazione
Nel mese di dicem-
bre i 15 membri del
Consiglio di Sicurezza dell’ONU hanno
ospitato un gruppo di giovani (di età com-
presa tra i 13 e i 21 anni) di tutti i conti-
nenti per discutere con loro sui temi della
pace e della sicurezza internazionale. “Per-
ché si compiono spese così eccessive per
guerre ed armi? Come si può garantire una
pace duratura? Come pensate di affrontare
il terrorismo in tutte le sue forme, compre-
sa quella del cyber-terrorismo?” sono state
le domande portate al dibattito dai ragazzi.
Il Segretario Generale, Ban Ki-moon, ha
condiviso con i ragazzi la preoccupazione
per le spese militari e li ha incoraggiati a
perseguire la pace e la giustizia come obiet-
tivi paritari, investire nelle persone, lavora-
re per uno sviluppo sostenibile e affrontare
le cause profonde della povertà, in partico-
lare le violazioni dei diritti umani.
BRASILE
1° Incontro
Nazionale dei
Movimenti
giovanili (ACS)
Il Dipartimento per la
Gioventù della Conferenza
Nazionale dei Vescovi
del Brasile (CNBB) ha
organizzato presso il Centro
Mariápolis Ginetta di Var-
gem Grande Paulista, il 1º
Incontro Nazionale dei Mo-
vimenti Giovanili, al quale
hanno partecipato oltre 270
giovani in rappresentanza di
28 gruppi giovanili. Dopo la
messa d’apertura dell’evento,
i giovani hanno condiviso le
proprie esperienze e le sfide
che nascono dall’impegno
giovanile. Monsignor Odilo
Pedro Scherer, arcivescovo
di San Paolo, ha invitato
i giovani a far proprio
lo slogan dell’incontro
“Giovani discepoli, vite unite
nella missione”. I ragazzi
partecipanti hanno inoltre
parlato in videoconferenza
con due giovani impegnati
nell’organizzazione della
Giornata Mondiale della
Gioventù.
SIERRA LEONE
Un autobus
per i bambini
di strada
(AFM)
I salesiani di Freetown, in collaborazione
con la ONG “Don Bosco Fambul”, hanno
lanciato il progetto “Don Bosco Mobil”.
L’iniziativa mira a fornire una capillare
assistenza ai ragazzi di strada e delle zone
più difficili della città grazie anche alla col-
laborazione di professionisti delle attività
sociali, membri della Pastorale giovanile,
infermieri e difensori legali per i bambini.
L’autobus è equipaggiato con vari materiali,
kit per il pronto soccorso, strumenti per lo
svago e giochi ed è anche attrezzato per la
proiezione, così da presentare film educati-
vi ai giovani. L’attuazione del progetto darà
ai bambini e ai giovani a rischio l’accesso
a cure e assistenza sanitaria, informazio-
ni sulle pratiche igieniche, di tutela della
salute (HIV/AIDS…), sociali e pastorali.
L’autobus ha anche ricevuto la benedizio-
ne di monsignor Edward Tamba Charles,
arcivescovo di Freetown.
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2.4 Page 14

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L’INVITATO
MARIA ANTONIA CHINELLO
Sette lingue Incontro con monsignor Luc Van Looy
salesiano vescovo di Gent
in chiave di sol Lasuavocazionelehafatto
a Medellín in un incontro i ragazzi
fare il giro del mondo. Quali della casa don Bosco raccontavano la
sono i ricordi più cari che porta loro esperienza di ex ragazzi di strada.
nell’anima?
Chiesi a uno di loro quale era il suo
I ricordi sono tanti: dovrei scrivere sogno per la vita, ora che stava così Una piccola indiscrezione:
un libro sui miei vent’anni nel Con- bene nell’opera salesiana, e lui rispose: quante lingue parla e quanti
siglio Generale, con tanti contatti con “Ritornare sulla strada”. Dopo la con- strumenti musicali sa
confratelli e consorelle, con giovani, ferenza dei vescovi a Santo Domingo, suonare?
in raduni vari in tutti i continenti. con madre Georgina McPake, supe- Musica e lingue vanno a braccetto, di-
In volo con il Rettor Maggiore don riora per la pastorale giovanile delle cono. Ho avuto la fortuna di imparare
Viganò verso l’Australia, ricordo che Fma, e un gruppo di collaboratori un po’ di lingue, a partire dal coreano.
commentava la grandez-
abbiamo percorso tutta l’America Ancora adesso mi trovo a mio agio in
za della Congregazione,
Latina per approfondire il do- sette lingue, e le uso regolarmente tut-
la straordinaria visione
cumento dei Vescovi. È forse te. In quanto alla musica, ho qui al mio
di don Bosco che aveva
stato il periodo più fecondo fianco in ufficio un pianoforte regalo
visto i suoi salesiani arri-
del mio servizio al dicaste- dal Rettor Maggiore alla mia ordina-
vare ai confini del mondo.
ro per la pastora- zione episcopale. Suono regolarmente
Ho anche ricordi curiosi:
le giovanile. l’organo, anche perché in caso di be-
nedizione di organi nelle parrocchie
della diocesi mi chiedono sempre di
«La mia casa è una specie
di oratorio: la gente viene
tranquillamente a parlare
suonare. Poi c’è la fisarmonica che ten-
go sempre in auto per suonare quando
è il caso, con la gente, negli ospedali,
con il vescovo».
negli incontri con i giovani.
Che cosa c’è di salesiano nel
suo modo di essere vescovo?
La vicinanza con la gente e la spon-
taneità con i giovani. E tenere la casa
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Marzo 2011

2.5 Page 15

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aperta a tutti. La mia casa è una specie
di oratorio: la gente viene tranquilla-
mente a parlare con il vescovo. An-
che la porta della cappella è sempre
aperta e invito i collaboratori a fare la
“visita”.
Che cosa sognava il piccolo
Luc? Com’è nata la sua
vocazione? E l’ideale
missionario?
Da piccolo sognavo di diventare mis-
sionario. La mia era una famiglia di
comunione quotidiana. Qualche volta
veniva uno zio, fratello della mamma,
sacerdote e parroco, che era stato in
Cina e nelle Filippine come missiona-
rio. I racconti di mio zio mi facevano
sognare. È morto quindici giorni prima
della mia prima partenza per la Corea,
dopo avermi regalato il suo calice.
Forse il periodo
più intenso è stato
quello della malat-
tia di don Vecchi.
Che uomo forte
interiormente! Ho
avuto la grandissi-
ma fortuna di poter
stare vicino a lui
negli ultimi mesi.
È stato Superiore in molti
modi e Consigliere generale
per le Missioni, la Pastorale
Giovanile e Vicario del Rettor
Maggiore: che cosa ricorda di
quel periodo così importante
per la Congregazione?
Forse il periodo più intenso è stato
quello della malattia di don Vecchi.
Non posso dimenticare il momento
della chiusura della visita d’insieme
all’UPS. Don Vecchi si assopiva in
parte durante i dialoghi. Cominciavo
a preoccuparmi. Nella messa finale, mi
accorsi che usava l’omelia di un paio di
anni prima. Il giorno dopo sono anda-
to da lui per esprimere la preoccupa-
zione per la sua salute, ma invano. Che
uomo forte interiormente! Ho avuto la
grandissima fortuna di poter stare vici-
no a lui negli ultimi mesi. Penso anche
alle giornate passate con i missionari
nella loro missione, ascoltando le loro
storie e preoccupazioni. Ancora oggi
sono in contatto con alcuni di loro.
Com’è la sua diocesi?
La diocesi di Gent ha 1.300.000 abi-
tanti. La maggior parte di loro sono
cristiani. C’è un buon gruppo di
musulmani, turchi e marocchini. La
scuola cattolica è molto importante,
ne abbiamo più o meno 800 in dio-
cesi. Le parrocchie sono 427 e i sa-
cerdoti 450, dei quali un gran numero
supera i 75 anni, i diaconi permanenti
sono 84. In questi ultimi anni abbia-
mo dovuto accorpare le parrocchie
per mancanza di sacerdoti. La forza
della diocesi sta nell’équipe centrale.
La formazione dei laici è il punto fo-
cale della nostra visione.
Scambio di doni con il Rettor Maggiore.
«Mi ha regalato un pianoforte».
Quali sono le difficoltà più
grosse?
La difficoltà maggiore è quella delle
vocazioni. Investiamo molto nei gio-
vani, abbiamo un’équipe forte di pa-
storale giovanile, organizziamo delle
belle esperienze per loro, eppure non
nascono vocazioni. Il Signore le su-
sciterà certamente un giorno. A volte
chiedo al Signore che male ho fatto
perché non mi dà le vocazioni di cui
ho bisogno.
Anche sui “media” italiani
si è parlato di questioni tra i
vescovi del Belgio, la giustizia
statale, le perquisizioni, la
pedofilia. Si può fare il punto?
I problemi della chiesa che è in Bel-
gio sono duri in questo momento. Lo
scoppiare di scandali morali non ci
lascia tranquilli. La giustizia, il parla-
mento, i media non ci lasciano lavo-
rare in serenità. È vero che dobbiamo
diventare una chiesa trasparente, visi-
bile, e rendere giustizia dove necessa-
rio. Sono convinto che sia un periodo
propizio per rivedere il nostro modo
di funzionare, per diventare una chie-
Marzo 2011
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2.6 Page 16

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L’INVITATO
LUC VAN LOOY
Luc Van Looy è nato a Tielen, in Belgio, il 28 settembre 1941. Dal 1961 è
sa umile, vicina alla gente che soffre.
Purificati, potremmo operare meglio
seguendo il modello di Cristo Signore.
salesiano. Ha studiato filosofia a Groot-Bijgaarden, poi ha chiesto di
partire per la Corea. Si laureò in pedagogia, musica, con specia-
lizzazione in pianoforte, e in teologia. Il 12 settembre 1970, fu
ordinato sacerdote a Oud-Heverlee. Nel 1972, all’Università
Cattolica di Lovanio si specializzò in missiologia.
Com’è il rapporto tra giovani
e Chiesa in Belgio?
In Corea è stato insegnante di morale e di religione tra gli
studenti delle scuole superiori, responsabile della pastorale
giovanile per l’Arcidiocesi di Seul, coordinatore pastorale per
Il primo giorno che sono arrivato in
diocesi, un sacerdote, aprendo la porta
della curia, mi chiedeva se ero disposto
gli studenti in tutta l’Asia orientale, Ispettore dei Salesiani in Corea.
Nel 1984 fu eletto nel Consiglio Superiore prima per il Dicastero
delle Missioni, poi in quello di Pastorale Giovanile e nel 1996
Vicario del Rettor Maggiore. Dal 2004 è vescovo di Gent (Belgio).
a celebrare l’eucaristia quella sera con i
giovani. L’ho fatto, e di tanto in tanto
mi trovo con questi giovani nel semi- Sint-Baaf, è il protettore della dioce- 19.00 alle 22.00, cantando, mangian-
nario per celebrare e passare la serata si). È una giornata per i ragazzi che do e festeggiando. È un’esperienza
con loro. Ogni giovedì sera alle 19.00 si si preparano alla cresima. Ci saranno bellissima che ripetiamo quest’anno
raduna un gruppo di una sessantina di anche quest’anno 4500 giovani con per la quinta volta.
loro per l’eucaristia e la convivenza.Ab- i loro catechisti, per una giornata di
biamo regolarmente dei grandi incon- catechesi, preghiera e festa. Nello Come vede la Congregazione
tri sullo stile di Taizé. Particolarmente stesso tempo, e in parte insieme, c’è dal suo punto di vista?
forte è la celebrazione del Venerdì San- pure la giornata per gli adulti. Così la La Congregazione salesiana è la ma-
to con i giovani, con la cattedrale piena città si accorge che la Chiesa è viva. dre dei giovani. Leggendo quanto ora
per ore in adorazione della croce.
L’elemento più bello sono i volontari. si muove, in tema di spiritualità, di
L’anno scorso erano 170. Questi, alla attenzione ai poveri, di sviluppo del
La sua esperienza più bella? fine della giornata, sono invitati a ce- progetto Europa dico: cari Salesiani,
L’esperienza più bella forse è la nare con il vescovo a casa sua. Si ri- siete forti!
“Giornata Bavone” (San Bavone, empie la casa in tutti gli angoli dalle
Che cosa ci vorrebbe per
I problemi della chiesa che è in Belgio l’Europa?
Per l’Europa ci vuole solo uno spi-
sono duri in questo momento. Lo scop- rito cristiano. Anche se le forze po-
litiche non ne vogliono sapere, è il
piare di scandali morali non ci lascia cristianesimo che ha fatto l’Europa.
Per arrivare a questo mi pare che sia
tranquilli. La giustizia, il parlamento, importante intensificare informa-
zione e cooperazione tra paesi nella
i media non ci lasciano lavorare in se- Chiesa. Abbiamo tanto da offrire.
Lo dico per esperienza quotidiana,
renità. È vero che dobbiamo diventare il pericolo è che siamo molto fram-
mentati, anche come Chiesa. E poi,
una chiesa trasparente, visibile, e ren- pregare e pregare, una chiesa che
prega ha futuro, e mai smettere di
dere giustizia dove necessario.
invitare la gente a pregare con la Sa-
cra Scrittura.
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2.7 Page 17

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MESSAGGIO A UN GIOVANE
DI CARLO TERRANEO - carloterraneo@libero.it
Laureato =
disoccupato?
N on ho risposte facili o pron-
te per l’uso.
Vivo con te pensieri e
paure.
Sul mio tavolo ho il tuo bi-
glietto di saluti, all’indoma-
ni dell’esame di laurea in ingegneria
aeronautica. L’ho messo in una corni-
ce d’argento. È sulla mia scrivania.
“Oggi laureato = domani disoccupato”.
La tua è una Pgeneration: una gene-
razione precaria, una generazione di
piazza perché l’isola che non c’è, è il
lavoro.
Non ho le chiavi per aprirti le porte
di un futuro sicuro e ben remunerato.
Però ti assicuro la mia vicinanza e la
mia solidarietà e impegno per quanto
serve.
Non aspettarti la luna nel pozzo,
o la manna dal cielo.
La speranza è l’ultima dea.
Non demordere.
Non tradire la tua giovinezza. Spe-
rare è il primo compito da eseguire e
portare a termine. Diamoci sei mesi
e mi darai ragione. Prima di correre
dobbiamo imparare a camminare e,
prima ancora, a gattonare.
A quante porte dovrai bussare, quan-
ti colloqui dovrai sostenere, quanti
profili professionali dovrai spedire
zigzagando tra decine di indirizzi?
Se immaginassi che tutto questo non
esistesse sarei un sognatore e se ti
dicessi che il lavoro è fuori dalla porta
sarei un utopista. La posta in palio non
è un posto di lavoro, ma non smettere
di lavorare per accedere ad una occupa-
zione, a una professionalità.
La speranza fa da volano e da bussola.
Ti orienta e ti dà forza.
Non aspettare che le cose succedano,
falle succedere (A. Schweitzer).
Non sognare di diventare uno Zio
Paperone, perché hai un titolo tra le
mani.
Fotografia Shutterstock
Non essere capriccioso come Pape-
rino, perché non trovi occupazione
subito.
Io appartengo alla generazione di
Walt Disney dell’ happy end, ma an-
che tu con i tuoi 30 anni appartieni a
quella di “Imagine” di John Lennon,
il suo canto del cigno prima di morire.
Le generazioni si assomigliano per-
ché sperano, amano e credono.
La speranza è per tutti la nuova fron-
tiera necessaria, perché potresti aver
più paura di vivere che di morire.
Il futuro si avvicina di giorno in
giorno e potresti non amarlo o farne
senza per partito preso, perché vivi
contro tutto e tutti.
L’amore non è una moneta fuori
corso, un ornamento. Ci sia o non ci
sia fa lo stesso.
È una scelta, è una decisione.
Scommettiamo?
Questa è l’unica certezza che non
metto in discussione.
La vita è vita se amo e spero. L’amore
e la speranza sono i due occhi della
tua giovane età. Ti faranno vedere
come affrontare il futuro e la tua
esistenza.
Marzo 2011
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2.8 Page 18

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FMA
MARIA ANTONIA CHINELLO
Ffoorrmmaatzoiofnue turo
Un Istituto superiore per la formazione
degli educatori nel cuore della laguna
di Cotonou, dove vivono le FMA.
Fiore all’occhiello per contrastare l’abuso
delle bambine in Benin, un paese pacifico,
con una notevole esperienza di democrazia
interna, ma che, purtroppo, è ancora oggi
il crocevia del traffico dei minori.
C otonou è adagiata lungo uno
scampolo di costa dell’Ocea-
no Atlantico. In lingua fon
il nome significa “presso il
lago dei morti” e allude a una
laguna adiacente all’abitato.
Si narra che quando fu fondata, le
luci del villaggio lacustre di Ganvié
si riflettessero nelle acque, sugge-
rendo l’idea delle stelle cadenti. Per
questo, ancora oggi, si crede che le
stelle cadenti siano le anime dei morti
precipitati negli inferi.
In una propaggine della laguna,
a Zogbo, dal 1992 vivono le FMA.
Poco dopo il loro arrivo, hanno aperto
un Centro dedicandolo a Laura
Vicuña, perché qui, più che in ogni
altro paese, la vita della donna vale
poco meno di niente. Negli anni,
con coraggio, tenacia e lungimiranza,
hanno dato vita a opere in linea con
la vocazione educativa dell’Istituto,
facendosi conoscere sul territorio per
la qualità degli interventi. Fino all’ul-
timo, inesistente sul territorio nazio-
nale, e avviato in collaborazione con le
Università di Abomey e Calavi.
Un sogno realizzato
«L’Institut Supérieur de Formation
des Educateurs Spécialisés ha circa un
anno di vita – racconta suor Maria
Antonietta Marchese, missionaria
italiana –. È stato creato per rispon-
dere ad una grave carenza: in Benin ci
sono molti sociologi, alcuni assistenti
sociali, ma non ci sono educatori. Le
strutture di accoglienza di bambini e
giovani sono molte, ma purtroppo il
livello educativo è scarso. Con questo
gesto, intendiamo offrire un contribu-
to al miglioramento dell’educazione».
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2.9 Page 19

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Suor Maria Antonietta al mercato: qui i “minori
schiavi” dai 6 agli 8 anni sono numerosissimi.
Le radici nel mercato
Il sogno della scuola affonda le sue
radici… nel mercato. In Africa, il
mercato è un luogo di incontro, si
vende e si compra, si tessono rela-
zioni.
A Cotonou esiste il grand marché di
Dantopka, il secondo come dimen-
sioni in Africa: 32 chilometri di
lunghezza, 50 mila punti di vendita
e oltre 200 mila persone impiegate.
Una “città nella città”, dove nume-
rosissimi sono i “minori schiavi”
dai 6 agli 8 anni. I maschi lavorano
come apprendisti nei cantieri, nelle
officine, sottoposti a lavori pesantis-
simi; le ragazze vengono impiegate
nella vendita dei prodotti, e passano
la giornata girando il mercato con
il cesto in testa ed alla sera devono
tornare dal padrone con l’importo
di quanto venduto.
Le chiamano Vidomegon, vivono
spesso senza alcuna protezione,
soggette a maltrattamenti e abusi di
ogni tipo, affidate a gente senza scru-
poli. Tradizionalmente, le famiglie
più povere e dei villaggi affidavano i
propri figli a famiglie più agiate della
città per la loro formazione, in cam-
bio di piccole prestazioni familiari.
Un gesto di solidarietà. Ma oggi non
è più così. Si parla a ragione di forme
di schiavitù, di “traffico di minori”,
per il fatto che i genitori dei villaggi
cedono effettivamente i figli a dei
mediatori per somme che vanno dai
15 ai 30 euro. Le conseguenze per i
bambini, com’è facile immaginarsi,
sono devastanti.
La baracca della speranza
Dopo l’apertura del Foyer, che
registra oggi un’accoglienza annua di
350/400, dove le bambine e le ragaz-
ze vittime di violenza sono accudite,
mentre si cerca di reinserirle nelle
famiglie, oppure ci si occupa della
loro formazione e istruzione, le suore
comprendono che questo non basta.
Nel 2001, decidono di aprire proprio
nel cuore del grande mercato una
Baracca rossa, che possa fare da centro
di sosta e di raccolta per le bambine
del mercato: «Oggi, oltre alla pri-
ma Baraque, abbiamo altri 3 piccoli
centri dove al mattino accogliamo
bambine dai 3 ai 5 anni per una
specie di scuola materna e per evitare
che vaghino nel mercato e comincino
a vendere e ad essere sfruttate. Qui
animatori formati in pedagogia sa-
lesiana ascoltano, aiutano, sensibiliz-
zano e danno consigli sulla vita. Alla
fine di ogni anno, molte sono inviate
a scuola, dopo aver coinvolto nella
decisione i parenti o le tutrici».
Ma anche questo non basta. Nel
quartiere adiacente il mercato, dal
2007, vi è la Maison de l’Espérance,
che accoglie di notte le venditrici che
dormivano all’aperto nel mercato. È
un centro di formazione professiona-
le gratuita, con atelier di panetteria,
pasticceria, cucina e saponeria. I corsi
sono svolti in collaborazione con gli
artigiani del Benin. In due anni e
mezzo, molti delle ragazze e dei ra-
gazzi che sono passati hanno trovato
un lavoro ben retribuito.
Adulti a scuola: le suore hanno compreso che è
necessario “risalire alla sorgente”.
Marzo 2011
19

2.10 Page 20

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NOTE DI SPIRITUALITÀ SALESIANA
B.F.
cuLcoonstirpmoaineodicpmaesroitdeirlurnaetsogànatore cco il tuo campo, ecco dove
devi lavorare. Cresci umile,
forte e robusto». Questo il
consiglio di Maria a Giovannino
nel sogno dei nove anni. Gio-
«E vanni lo prenderà molto sul serio
e queste tre qualità diventeranno le dimensioni
Ufondamentali della sua persona. A incominciare
«Eh no, bimbo mio. Se fosse così, i rami sarebbero bei
dritti. Guarda invece come sono contorti e deformati
dallo sforzo. Cercano e faticano. Fanno tentativi tor-
mentosi più delle radici.»
«Ma chi è che fa fare loro tutta questa faticaccia?»
«È il vento. Il vento vorrebbe separare il cielo dal-
la terra. Ma gli alberi tengono duro. Per ora stanno
vincendo loro.»
dall’umiltà, che non è una qualità innata, ma una Don Bosco è stato un tronco poderoso ben radica-
conquista faticosa.
to nel terreno per tenere il cielo attaccato alla terra.
Un nonno teneva per mano il nipotino e indicava i E per questo ha consumato la sua vita. L’umiltà è
poderosi alberi del viale. Raccontava che niente è più sentire le radici umane che affondano nella terra.
bello di un albero.
La parola umiltà richiama il latino humus, terra.
«Guarda, guarda gli alberi come lavorano!».
«Ma che cosa fanno, nonno?»
L’umiltà è la prima beatitudine. L’uomo
«Tengono la terra attaccata al cielo! Ed è una cosa che riesce a fare il vuoto in se stesso diviene una
molto difficile. Osserva questo tronco rugoso. È come coppa che si riempie di cielo. In un certo senso si
una grossa corda. Ci sono anche dei nodi. Alle due riempie di Dio.
estremità i fili della corda si dividono e si allarga-
no per attaccare terra e cielo. Li chiamiamo rami in L’umiltà è l’altro nome dell’autostima.
alto e radici in basso. Sono la stessa cosa. Le radici si Non significa sentirsi un verme spregevole, ma
aprono la strada nel terreno e allo stesso modo i rami possedere il giusto rispetto per se stessi. Signifi-
si aprono una strada nel cielo. In entrambi i casi è un ca conoscere le proprie forze e i propri limiti. E
duro lavoro!»
soprattutto essere grati per quanto si ha e ricono-
«Ma, nonno, è più difficile penetrare nel terreno che scenti verso il Creatore che lo ha donato.
nel cielo!»
Don Bosco scrive il suo personale Magnificat, la
20
Marzo 2011

3 Pages 21-30

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3.1 Page 21

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sera della prima Messa: «La sera di quel giorno
tornai alla mia casa. Quando fui vicino ai luoghi
dove avevo vissuto da ragazzo, e rividi il posto
dove avevo avuto il sogno dei nove anni, non po-
tei frenare la commozione. Dissi: “Quanto sono
meravigliose le strade della Provvidenza! Dio ha
veramente sollevato da terra un povero fanciullo,
per collocarlo tra i suoi prediletti”».
Chi è umile si sente uno strumento nel-
le mani di Dio e percepisce la vita come
missione, come un magnifico compito da porta-
re a termine. Per questo gode il piacere e la sempli-
ce bellezza del fare, e affronta la fatica che ci vuole,
senza farsi illusioni. Non si sente affatto speciale.
Chi è umile si prepara di più e lavora me-
glio. Impara di più, perché i superbi pensano di
sapere già tutto. Fin da piccolo, don Bosco è una
“spugna”, che assorbe e impara da tutti: il latino
dal vecchio parroco, i giochi di prestigio dai gio-
colieri delle fiere, ripete pronomi e verbi mentre
zappa, impara la musica, a cucire e confezionare
giubbotti, pantaloni e panciotti da Giovanni Ro-
berto, la santità da Comollo, impara a confezio-
nare dolci e liquori.
Chi è umile non è competitivo, lascia spa-
zio agli altri e sa collaborare. Non ha l’ansia
di prevalere e non si sente programmato per trion-
fare. È aperto, collabora, non si sente una prima-
donna e ha sempre rispetto per gli altri, ma non di-
pende dalla loro approvazione. Per questo gli umili
sono benevoli, innocui, semplici, moderati.
Sente di avere bisogno degli altri e sa vedere le
gioie disseminate in una giornata, anche se pic-
cole. In tutta la sua vita, don Bosco non
si vergognò mai di chiedere l’elemosina.
Quante volte il Santo fu udito ripetere: «Io ebbi
sempre bisogno di tutti».
è la porta dell’amore verso i più piccoli, gli indife-
si, i feriti dalla vita.
L’umiltà permette di accettare le imperfezioni
dell’esistenza e regala all’esistenza una serenità di
base, perché anche humor viene da humus. Don
Bosco era sempre di buonumore.
Gesù spiega concretamente ai suoi il senso dell’u-
miltà con la “lavanda dei piedi”. Anche don Bosco:
«Don Bosco in questi primi anni, facendo vita co-
mune coi giovani, allorché non si muoveva di casa
era pronto ad ogni servigio. Al mattino insisteva
perché i giovani si lavassero le mani e la faccia; ed
egli a pettinare i più piccoli, a tagliare loro i capelli,
a pulirne i vestiti, assettarne i letti scomposti, sco-
pare le stanze e la chiesuola. Sua madre accendeva
il fuoco ed egli andava ad attingere l’acqua, stac-
ciava la farina di meliga o sceverava la mondiglia
dal riso. Talora sgranava i fagiuoli e sbucciava pomi
di terra. Egli ancora preparava sovente la mensa
per i suoi pensionarii e rigovernava le stoviglie ed
anche le pentole di rame che in certi giorni facevasi
imprestare da qualche benevolo vicino. Secondo il
bisogno fabbricava o riattava qualche panca per-
ché i giovani potessero sedersi; e spaccava legna.
Per risparmiare spese di sartoria tagliava e cuciva
i calzoni, le mutande, i giubbetti e coll’aiuto della
madre in due ore un vestito era fatto».
Ecco la “lavanda dei piedi” in salsa salesiana.
Solo chi è umile può essere gentile perché
riesce a godere della presenza degli altri. L’umiltà
Marzo 2011
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3.2 Page 22

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MISSIONI
WALTER FAJARDO
Il padre degli
Arrivò in un tempo di
guerra tribale. Lo volevano
uccidere. Padre Luigi
Achuar
Bolla li conquistò con un
inequivocabile stile
salesiano e ora difende la
loro storia e la loro cultura.
Padre Luigi Bolla ricorda con
nostalgia il momento in cui la
nave lasciò il porto di Venezia
per il Sud America. Aveva
appena 20 anni e realizzava il
suo sogno: essere missionario.
«Il momento in cui mi imbarcai fu
duro perché sentivo come se fossi
morto. Lasciavo tutto. A quel tempo
bisognava essere pronti a non tornare
più per rivedere i genitori, gli amici,
i compagni, le montagne, le persone.
Quello fu il momento in cui dissi al
Signore: metto tutto nelle tue mani.
Solo con te c’è vita. Sono morto per
risorgere di nuovo».
Dio non lo abbandonò mai e fece di
lui il perno di un importante lavoro
con le comunità dell’Amazzonia, in
Ecuador e in Perù.
È passato più di mezzo secolo e
don Bolla ha fatto storia nel mondo
indigeno amazzonico.
Cominciò la sua azione con la
comunità Shuar in Ecuador, di cui
aveva sentito parlare quando era
seminarista. Nel 1959 fu ordinato
sacerdote salesiano. «Cominciai a
lavorare praticamente da solo, senza
l’aiuto di nessuno, visitandoli e stan-
do con loro. Era una zona abbastan-
za difficile ed io ero isolato soltanto
con l’aiuto di Dio».
Durante un viaggio inaspettato
verso l’est dell’Ecuador venne in
contatto per la prima volta con la
comunità Achuar, un popolo indige-
no con tradizione bellicosa, che vive
nelle montagne Condor ai confini
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Marzo 2011

3.3 Page 23

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tra l’Ecuador e il Perù. Questa gente
vive in armonia con la natura e
hanno accumulato una considerevo-
le esperienza ancestrale della foresta
Amazzonica.
Nel 1971, iniziò ufficialmente la
missione presso gli Achuar sul lato
Ecuadoriano del confine. A quel
tempo erano un popolo tribale quasi
interamente sconosciuto. Gli inizi
furono duri. Arrivò in un tempo di
guerra. Lo volevano uccidere.
«Tutte le tribù erano in uno stato di
guerra e mi minacciavano con le loro
armi; c’era molta tensione. Pratica-
mente non c’era nessuna comunica-
zione tra le tribù, era tutto bloccato»,
ricorda Padre Bolla. Questo non
scoraggiò il missionario, che riuscì a
conoscere e a capire questo popolo
e a vivere con loro per molti anni,
seminando i semi del Vangelo.
La zona Achuar nell’Ecuador è
enorme, ma lo scopo di Padre Bolla
era di intraprendere l’evangelizzazio-
ne dell’area Peruviana, che è ancora
più grande e include due terzi della
popolazione Achuar. Nel 1984 rice-
vette dai Superiori l’autorizzazione a
lavorare tra gli Achuar del Perù.
«Non c’era nessuna tradizione cristia-
na. Il lavoro missionario era molto
più difficile, perché la zona Peruviana
era più grande e più isolata e c’erano
grandi distanze tra un gruppo e l’altro
e ci volevano parecchi giorni sia a pie-
di che in canoa. Era una vera sfida».
Padre Bolla cominciò con molto
rispetto per questo popolo, per la loro
cultura e la loro esperienza storica
e li evangelizzò senza forzarli alla
conversione.
Cinque diaconi
e molte minacce
«Cercavo di lavorare nello stile di
questa gente, il loro modo di vestire,
le tradizioni, il cibo, il bere, l’abita-
zione, rispettando il loro stile, per far
loro capire che apprezzavo la loro
cultura. E li aiutavo a prendere il fu-
turo nelle loro mani, in modo umano,
nell’organizzazione e nel campo reli-
gioso, come un missionario; un lungo
percorso che fu coronato l’anno
scorso con cinque diaconi, ordinati
dal Vescovo di Yurimaguas».
Padre Bolla portò avanti il suo
grande lavoro con gli Achuar supe-
rando grandi difficoltà, accuse che
includevano minacce mortali dai
trafficanti di droga, dai mercanti di
legname o dai militari, con l’unica
motivazione di costruire comunità
Achuar e aiutarli a preservare la
loro cultura con migliaia di anni di
tradizioni, facendo conoscere questo
popolo e apprezzarlo nel mondo
occidentale.
Oltre che promuovere la fede cristia-
na, uno dei compiti più importanti di
don Bolla è stato quello di tradurre
la lingua achuar in spagnolo, un’opera
di anni di studio e di raccolta di te-
stimonianze orali, che egli ha messo
insieme nella pubblicazione di una
serie di libri Mundo Achuar, che tra-
duce la storia, le tradizioni, i costumi,
la lingua, i miti, le canzoni e la vera
natura di questo popolo. Ha anche
scritto testi di catechesi. Di recente
ha completato il Nuovo Testamento.
Diventa un patrimonio ereditario per
la cultura Achuar, che ha solo forme
Il nome di Padre Bolla è leggenda: ha
portato Gesù agli Achuar nella loro lin-
gua, rispettando sempre la loro cultura
e la loro dignità.
orali per tramandare il suo passato
alle future generazioni.
Come dice Padre Bolla: «Un popolo
senza storia non è un popolo. Così
diventa molto importante scrivere la
loro storia, così non perderanno le
loro radici».
Il missionario è conosciuto da
molte comunità amazzoniche, che
riconoscono l’aiuto da lui ricevuto.
Tutto ciò che il mondo sa del popolo
Achuar lo deve a questo salesiano,
che ha portato nella foresta il cuore
di don Bosco.
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3.4 Page 24

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CGHIIOEVSAANI
ARLBMEARNTODORIMCCATATDEOONNA
TeenStar I cinque petali
della vita affettiva
Schiacciati dalla pressione ambientale
e mediatica, adolescenti e giovani si augurano un
discorso autentico sulla loro formazione personale
e sessuale. Il metodo TeenStar
è nato per iniziativa di una suora missionaria
Se per guidare l’auto non basta sapere come
si allacciano le cinture di sicurezza, per vi-
vere una sessualità equilibrata non basta
avere imparato come si usa il preservativo.
È il paragone crudo ma efficace che don
Angelo Zucchi, parroco a Grugliasco, pe-
riferia di Torino, sceglie per illustrare l’impegno
dell’associazione internazionale «TeenStar», attiva
in Italia dal 2004 per formare educatori capaci di
affiancare gli adolescenti negli anni più delicati
dello sviluppo fisico e affettivo.
A dispetto di tanti slogan pubblicitari, il preser-
vativo – cioè la «tecnica» sessuale – non è il se-
greto della felicità. Senza scomodare la morale,
basterebbe il buon senso per capire… Ma oggi
quello che manca a tanti giovani è proprio il buon
senso, la capacità di riflettere su se stessi, la pa-
zienza di ascoltarsi e interpretare il significato dei
sentimenti, il linguaggio del corpo.
Il metodo «TeenStar» arriva dagli Stati Uniti pro-
prio per aiutare i giovanissimi a riflettere su se stes-
si, corpo e psiche, affetti, dimensione spirituale. Ha
mosso i primi passi negli anni Ottanta su iniziati-
va di una suora missionaria, la ginecologa Hanna
Klaus, che rientrava in Occidente dopo decenni
di missione quando si rese conto della profonda
crisi dei giovani, un nuovo «terreno di missione»:
giovani con una vita affettiva sempre più disorien-
tata. Per raggiungere gli adolescenti l’associazione
TeenStar (www.teenstar.it), ormai diffusa in 40
Paesi del mondo, investe sulla formazione degli
educatori e degli insegnanti. Dal 2004 ha tenuto in
Italia i primi apprezzati corsi in provincia di Na-
poli, Varese, Torino, Milano. Da un corso tenuto
a Torino nel 2008 è nata una squadra di giovani
educatori che recentemente hanno attivato gruppi
di educazione affettiva per adolescenti presso una
scuola di Grugliasco e presso la vicina parrocchia
di Santa Maria, retta da don Zucchi. Esperienze
analoghe sono sorte in altre zone d’Italia.
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Marzo 2011

3.5 Page 25

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PUNTI DI RIFERIMENTO
«Eravamo convinti che un corso del genere fosse
utile – osserva il parroco di Santa Maria – ma ne
abbiamo avuto conferma soprattutto sul campo,
vedendo come si comportano 15 ragazzi di terza
media e prima superiore: non è vero, come pen-
sano i genitori, che i giovani su queste tematiche
sanno tutto, in realtà c’è un’ignoranza spaventosa.
Se l’informazione è il primo livello da soddisfare,
il metodo TeenStar va oltre, perché fa educazio-
ne, ossia lavora sul significato, sui valori fondanti
che stanno alla base di tali temi, che di solito nella
nostra società vengono taciuti per parlare diretta-
mente degli aspetti tecnici, quali la contraccezione,
senza che nessuno o quasi si preoccupi del resto.»
Gli educatori formati con il metodo TeenStar
aiutano i giovani a decidere in modo libero e re-
sponsabile circa i comportamenti da assumere nei
rapporti interpersonali. La durata del corso che
li prepara a questo servizio dura 4 giorni, 8 ore
al giorno; il costo si aggira attorno ai 200 euro, a
copertura delle spese organizzative.
Circa metà degli argomenti proposti ai
futuri educatori è di carattere antropo-
logico-filosofico: riguarda il rapporto tra ani-
ma e corpo così come è stato studiato nelle varie
epoche e culture, da Platone ai giorni nostri, con
espliciti riferimenti al Magistero della Chiesa.
Per il 20% si parla di fisiologia, dovendo spiegare
com’è fatto il corpo umano; per un altro 20% si toc-
cano argomenti di endocrinologia, visto il ruolo che
hanno gli ormoni nel determinare la natura uma-
na; per un ultimo 10% vengono esaminati i me-
todi contraccettivi. Questo l’elenco dettagliato dei
temi: inizio della vita umana; anatomia e fisiologia
dell’apparato riproduttivo; sviluppo fisico ed emo-
zionale dell’adolescente; significato della sessualità
nell’amore umano; educazione all’assertività e la
volontà; l’intimità; il ciclo mestruale; riconoscimen-
to della fertilità; significato della relazione sessuale;
metodi di pianificazione familiare (azione, effetti,
aspetti etici); malattie a trasmissione sessuale.
La TV è la fonte di informazione più qualificata sulla sessualità per oltre 300 mila
teenager italiani. Secondo una recente indagine internazionale è infatti ritenuta il
punto di riferimento da ben il 10% di essi, la stessa percentuale di chi si rivolge in
primo luogo a insegnanti, fratelli o sorelle. Ed è il primato europeo. Una responsa-
bilità educativa che grava su conduttori, speaker e volti noti, spesso impreparati
ad affrontare con competenza questi temi. «Quando si toccano argomenti che
riguardano l’educazione sessuale vanno utilizzate grandi prudenza e professio-
nalità – spiega Giorgio Vittori, presidente della Società Italiana di Ginecologia e
Ostetricia (Sigo). – Nel nostro Paese le esperienze sono a macchia di leopardo e
probabilmente richiedono una strategia illuminata. Nelle scuole non viene sempre
insegnata, anche se il 64% degli studenti lo chiede e il 44% auspica più dialogo
su questi temi a casa. In mancanza di punti di riferimento gli adolescenti – spiega
Vittori – si rivolgono a Internet, radio e piccolo schermo: gli idoli dello spettacolo
possono quindi influenzarli con comportamenti e messaggi».
«Da esperto del mondo della scuola – spiega Ni-
cola Coccia, dirigente scolastico presso l’Istituto
Romero di Rivoli e vicepresidente del TeenStar
in Italia –– ritengo che sia utile formare persone
in grado di padroneggiare i temi collegati alla sfe-
ra affettiva in modo completo e diverso da quello
proposto abitualmente dalla nostra società: l’idea
di fondo è quella di fornire gli strumenti per rea-
lizzare nel modo giusto il precetto di sant’Agosti-
no: ‘Ama e fai quello che vuoi’».
Il sistema didattico di TeenStar (l’espressione in-
glese «star», «stella», rimanda alla composizione
poliedrica dell’essere umano: sentimenti, corpo-
reità, intelletto, relazioni sociali) è marcatamente
americano. Non si limita all’erogazione di confe-
renze sui vari temi, ma esige il coinvolgimento
dei partecipanti, chiamati a mettere in scena gli
argomenti via via trattati, secondo la consuetudi-
ne dei workshop d’oltreoceano.
«I monitoraggi compiuti sui giovani
che seguono il percorso TeenStar –
conclude il prof. Coccia – rivelano
che una percentuale significativa
di essi decide di rinviare l’attività
sessuale a tempi più maturi».
Spiegare le cose è più
faticoso che igno-
rarle. Ma il ri-
sultato merita:
si formano le
coscienze.
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3.6 Page 26

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I SALESIANI E L’ UNITÀ D’ITALIA
FRANCESCO MOTTO
150 anni di educazione
salesiana in Italia
Una storia tutta da conoscere
Si è appena spento l’eco del
150° della fondazione dei sa-
lesiani (18 dicembre 1859)
che già si apre un altro 150°,
quello dell’Unità d’Italia (17
marzo 1861), vale a dire l’U-
nità politica del “bel paese” che in tale
lasso di tempo ha visto oltre 15 mila
salesiani impegnarsi, spesso 24 ore su
24, per fare di vari milioni di giovani
(ed adulti), avvicinati da loro in cir-
ca 400 città e paesi di tutte le regioni
d’Italia, degli “onesti cittadini e buoni
cristiani”. Si può dire altrettanto per le
Figlie di Maria Ausiliatrice.
Una storia italiana, questa dei salesia-
ni, che certamente non confluirà nelle
pagine di storici, studiosi, giornalisti,
politici, poeti che spunteranno nel
2011, stando almeno a quanto è dato
da vedere in libreria oggi (4 dicem-
bre 2010) per ciò che concerne il per-
sonaggio don Bosco. Nel più grosso
volume sul 150° in arrivo (oltre 1100
pagine) vedo che il suo nome è citato
due volte, una per riferire una idiozia
(stando alle dicerie anticomuniste del
secondo dopoguerra, avrebbe profe-
tizzato che i cosacchi avrebbero ab-
beverato i loro cavalli alla fontana di
S. Pietro) ed una, all’interno delle 11
pagine dedicate alla Chiesa, per indi-
carlo come rilanciatore degli Oratori
risalenti a San Filippo Neri (!).
Non possiamo certo pensare né a ma-
lafede né a ignoranza degli storici circa
un soggetto storico come don Bosco,
dopo gli studi di altri rinomati storici,
salesiani e non, e dopo le edizioni cri-
tiche curate dall’Istituto Storico Sale-
siano. Si è più vicino al vero se si pen-
sa, semplicemente, che non si può dire
tutto in un testo per quanto volumi-
noso, per cui a fronte della moltepli-
cità delle scelte possibili per dare voce
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Marzo 2011

3.7 Page 27

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PER RICORDARE
“La nostra memoria è la nostra coerenza,
la ragione, l’azione, il sentimento. Senza
di lei, siamo niente”. ll BS però “farà me-
moria” di un vissuto non solo per sentirsi
qualcuno, non solo “per non dimenticare”
un’avventura passata, ma per dotare la Fa-
miglia Salesiana, e chi crede al messaggio
di don Bosco, di uno strumento in più che
aiuti e stimoli ad affrontare le sfide che l’e-
mergenza educativa di oggi pone davanti
agli occhi… prima che sia troppo tardi.
Inserire don Bosco e i Salesiani tra i “padri della
patria” è il minimo che si può fare.
ad un passato di 150 anni, si fanno
necessariamente delle selezioni (se-
condo i propri intendimenti e gusti)
e si raccontano per forza di cose solo
alcuni spaccati della storia di un Paese
(secondo le proprie precomprensioni, i
propri interessi, le proprie ideologie).
E così la storiografia accademica le-
gittimamente preferisce per lo più
raccontare una “certa” storia d’Ita-
lia Unita, e non un’“altra”, preferisce
quella delle “istituzioni dall’alto” e
non “dal basso”, quella delle struttu-
re e non tanto quella delle persone,
guarda caso, proprio quella di cui si
è interessato don Bosco: i ragazzi, i
poveri, il ceto popolare, gli emigrati
abbandonati a loro stessi…
La parola ai numeri
Apro il computer, su Google digito
“don Bosco” e mi appaiono 3.260.000
riferimenti. Digito Camillo Cavour,
Giuseppe Mazzini, Giuseppe Gari-
baldi, Vittorio Emanuele II: non su-
perano i 300 mila, eccetto il re che ne
ha 716 mila. Rattazzi, Ricasoli, Lan-
za, Crispi poi sono ridotti a poche
migliaia di riferimenti.
Si dirà che don Bosco è una figura co-
nosciutissima internazionalmente – ma
lo dovrebbero essere e lo sono anche gli
altri, a dire il vero – grazie ai salesiani
presenti oggi in 132 Paesi. Bene. Re-
stringo allora la ricerca al campo ita-
liano, al <site:it>; le proporzioni cam-
biano, ma i 559 mila riferimenti a don
Bosco distanziano ancora di molto i
343 mila per Vittorio Emanuele II, i
233 mila per Garibaldi, i 158 mila per
Cavour ed i 155 mila per Mazzini.
Dunque su internet a 150 anni di di-
stanza dalla nascita del regno d’Italia i
nomi dei “padri della patria” stanno or-
mai diventando un retaggio storico, se
non fosse per la continua contesa poli-
tica, culturale e sociale per come hanno
fatto l’Italia. Al contrario sulle stesse
pagine web il povero prete contadino
di Torino, che non voleva l’Italia pro-
prio così come si stava realizzando (ar-
tigianale, antireligiosa, piena di difetti
anche se reale e forse all’epoca l’unica
possibile), sembra tuttora una figura
di forte richiamo, quasi “viva”, a livello
nazionale ed internazionale.
L’attualità degli obiettivi
salesiani
Giuliano Amato, giurista costituzio-
nalista, presidente della Enciclopedia
Treccani e del Comitato dei garanti
del 150° anniversario dell’Unità d’I-
talia, nel ripercorrere la storia unitaria
sottolineava che “è implicito ed es-
senziale che il cittadino ed il credente
sono la stessa cosa” perché “il cittadi-
no deve portare con sé il bagaglio dei
valori e dei principi che vengono dalla
sua religione”; e affermava altresì che
nella sfera pubblica è importante “dare
spazio alla religione, uno spazio che
essa riempie di un propellente essen-
ziale per la società del nostro tempo”.
Detto così, non siamo molto lontani
dal pensiero educativo di don Bosco
e dei salesiani. Ecco allora che il BS
non farà mancare la sua voce per ar-
ricchire la storia d’Italia in occasione
delle celebrazioni dell’Unità.
Marzo 2011
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3.8 Page 28

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LE CASE DI DON BOSCO
MARIO SCUDU
Beitgemal,
Israele
Qui c’è la tomba di santo
Stefano e quella del venerabile
Simone Srugi, vino buono,
olio profumato, miele squisito,
aria buona e un bel panorama.
Una meta assolutamente
da inserire nei pellegrinaggi
in Terrasanta. Qui arrivano
ogni anno migliaia di
visitatori, per lo più ebrei.
«Cercavo un po’ di silenzio
per la mia anima. L’ho trovato!»
ha dichiarato uno di loro.
Bet Jimal, Beitgemal, Bayt Jamal… vari
nomi per indicare lo stesso posto. Se-
coli fa doveva chiamarsi Kphar Gama-
la, ossia Villaggio di Gamaliele, perché
secondo un’antica tradizione questa era
la residenza in campagna del famoso
rabbi Gamaliele (Atti 5,33), lo stimato Maestro
di San Paolo, quando non si trovava a Gerusa-
lemme, che infatti dista solamente una trentina
di chilometri. Ad ovest della città, quindi giusto
una giornata di cam-
mino.
Ma perché da più di cento anni ci sono i Salesiani
di Don Bosco? Facciamo un po’ di storia. All’ini-
zio della costruzione in pietra bianca che si am-
mira ancora oggi, c’è stato un sacerdote italiano,
che apparteneva al Patriarcato Latino di Gerusa-
lemme. Si chiamava don Antonio Belloni (1831-
1903). Una persona molto sensibile che non ri-
mase indifferente davanti alla situazione di tanti
bambini abbandonati, orfani e senza istruzione.
Si diede molto da fare girando l’Europa per tro-
vare benefattori che finanziassero l’opera
che egli voleva iniziare per questi
Da una grande
vetrata, don Bosco
veglia sulla sua
casa.
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Marzo 2011
Fotografia P. Lanotte

3.9 Page 29

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IL VINO BUONO (Giovanni 2,10)
ragazzi. Acquistò così terreni a Betlemme (dove
iniziò la sua opera), a Cremisan, a Beitgemal e a
Nazaret. Fondò anche la Congregazione dei Fra-
telli della Sacra Famiglia. In uno di questi viaggi,
a Torino, don Belloni conobbe anche don Bosco
e i salesiani, e vista l’opera che il santo faceva per
i ragazzi (educandoli cristianamente e dando loro
un mestiere per inserirli nella società, come vo-
leva fare lui stesso in Palestina) maturò l’idea di
diventare salesiano. Questo avvenne nel 1891.
Don Belloni portò ‘in dote’ alla Congregazione
salesiana le sue opere a favore dei ragazzi biso-
gnosi. Tra queste anche Beitgemal, che funziona-
va già (1878) come Scuola Agricola. Lo sarà fino
al 1968, una Scuola aperta sempre per ragazzi bi-
sognosi ‘poveri e abbandonati’, molti di essi orfa-
ni, provenienti dai villaggi arabi vicini, ma anche
da altre parti della Palestina. A essi si offrivano
una casa, l’educazione e un mestiere. Cambiata la
situazione politica e sociale, diventerà una scuola
elementare e media fino al 1981.
«Questo è il messaggio che cerchiamo,
tra tante difficoltà, di trasmettere alle
migliaia di nostri visitatori: in altre pa-
role lavoriamo con pazienza a creare una
“cultura del perdono” tra questi popoli
che non la conoscono per niente».
Oggi non c’è più la Scuola Agricola, ma l’attivi-
tà in campagna, che ne testimonia il passato, c’è
ancora, attraverso un uliveto, che produce dell’ot-
timo olio d’oliva, e soprattutto una vigna. Si può
ammirare anche un ulivo millenario.
Principale anima, mente e braccia di questa vigna
è il salesiano coadiutore signor Adelino Rosset-
to, presente a Beitgemal dal 1964, quindi la vera
‘memoria storica’ per quanto riguarda il lavoro di
campagna.
«Signor Adelino – gli chiedo – che cosa mi dice
di questa vigna che lei accudisce con tanto sacrifi-
cio, con tanta competenza e da tanti anni?».
Il prodotto finale, cioè il vino ‘che rallegra il cuore dell’uomo’,
come dice la Bibbia, è fatto nella Cantina presso la Casa Sale-
siana di Cremisan, e viene poi venduto con l’etichetta ‘Cremi-
san Wines’, anche se buona parte dell’uva proviene proprio da
questa vigna di Beitgemal.
«Sì, ormai è parecchio tempo che me ne occu-
po sempre con la stessa passione, come nei pri-
mi tempi. Posso dire anch’io di essere un umile
lavoratore della vigna di Beitgemal e del… Si-
gnore. L’estensione del terreno adibito a questo
scopo è più di 10 ettari, con circa 18.000 viti.
È importante sapere che non si tratta di una
monocoltura: coltiviamo infatti e produciamo
vari tipi di uva e quindi di vino quali Chardon-
nay, Cabernet, Merlot, Riesling, Moscatone e il
Balady. Ognuno richiede cure speciali e atten-
zioni di lavoro particolari. L’ultimo, il Balady, è
un vitigno autoctono, quindi proprio del posto,
infatti il nome significa ‘il mio paese’, e produce
grappoli consistenti come grandezza, carichi di
acini grossi. Qualche volta questi grappoli belli
e grossi sono uno spettacolo a vedersi, e ispirano
proprio una preghiera di ringraziamento a Dio
per così tanta abbondanza e generosità della ter-
ra. Il prodotto finale, cioè il vino ‘che rallegra
il cuore dell’uomo’, come dice la Bibbia, è fatto
nella Cantina presso la Casa Salesiana di Cre-
misan, e viene poi venduto con l’etichetta Cre-
misan, anche se buona parte dell’uva proviene
proprio da questa vigna di Beitgemal».
Una casa immersa
nel verde e nella
pace, su cui veglia
Maria.
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3.10 Page 30

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LE CASE DI DON BOSCO
La bella chiesa di
Santo Stefano Pro-
tomartire costruita
sul luogo del suo
martirio.
Da Santo Stefano
al venerabile Simone Srugi
Una visita a Beitgemal è consigliabile non solo
per l’ottimo vino, olio e miele prodotti in zona…
ma anche per un interesse prettamente religioso e
cristiano. Certo bisogna nutrire non solo il corpo
ma anche lo spirito, rafforzarsi non solo fisicamen-
te ma anche approfondire le radici storiche della
propria fede. E l’archeologia può aiutare in questo.
Tutti abbiamo sentito parlare di santo Stefano e
della sua attività descritta negli Atti degli Apo-
stoli (At 7). Non si possono dimenticare né il
martirio né le sue famose parole di perdono per
i lapidatori.
Già, ma la tomba dove si trovava? E la risposta ven-
ne. Sicura e documentata. Grazie agli scavi (1999)
fatti nella località Kirbhet Fattir (Beitgemal) e gui-
dati dal salesiano polacco don Andrej Strus, e all’o-
pera dell’esperto di epigrafia dell’Ecole Biblique di
Gerusalemme, padre Emile Puech. Questi, dopo
aver decifrato una ‘tabula anseata’ trovata negli
scavi, dichiarò che il luogo delle reliquie (il “Dia-
konikon”) di santo Stefano protomartire era sicu-
ramente lì. Poneva così fine, con la sua autorità di
epigrafo, alla lunga ricerca e a tutte le altre ipotesi.
I salesiani già negli anni 1930 avevano costruito
una chiesetta dedicata proprio a santo Stefano.
Per i Figli di don Bosco ma anche per tutta la
Famiglia Salesiana, una visita da fare è alla cripta
sotto la chiesetta di Santo Stefano. Qui si tro-
va la tomba di Simone Srugi (1877-1943), e di
altri due stimati salesiani, protagonisti santi del-
la presenza a Beitgemal e cioè di don Eugenio
Bianchi e di don Mario Rosin. Dei tre quello più
famoso rimane il salesiano coadiutore Srugi, che
è venerabile dal 1993. Questi arrivò a Beitgemal
nel 1894 e vi rimase fino alla morte nel 1943. Fu
un vero ‘buon samaritano’ per tutti, passò ‘facendo
del bene’ a tutti, cristiani e musulmani, piccoli e
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Marzo 2011

4 Pages 31-40

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4.1 Page 31

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grandi. Per lui tutti erano ‘suo prossimo’ da soc-
correre, aiutare, curare (faceva anche l’infermiere),
e sopportare con tanta pazienza. Quando il bea-
to Michele Rua, primo successore di don Bosco,
visitò Beitgemal (1908), e lo conobbe personal-
mente affermò: “Seguite questo confratello… è
un autentico santo”. E non si sbagliava. Quan-
do morì venne portato in trionfo specialmente
dai musulmani che aveva aiutato. Questi dissero
in segno di grandissima stima e riconoscenza:
“Dopo Allah… c’è Srugi!”.
“Shabbat Shalom”
Specialmente in primavera e inizio estate arriva-
no migliaia di visitatori, per lo più ebrei.
Sono due i salesiani, don Domenico Dezzutto e
don Attilio Cervesato, che accolgono, intratten-
gono, informano, guidano e consigliano questi vi-
sitatori. Gli amici e visitatori ebrei salgono qui a
Beitgemal per tanti motivi. Eccone uno.
Un sabato è capitato proprio a me di vedere ar-
rivare un signore distinto. All’inizio l’ho solo sa-
lutato. Ma l’ho rivisto, mentre andava via, dopo
circa un’ora e gli ho chiesto se aveva ‘visitato’ tutto.
La sua risposta: “Sì, certamente. Cercavo un po’ di
silenzio per la mia anima. L’ho trovato!”. Anche
questo è Beitgemal.
Chiedo a don Domenico, il veterano tra i salesia-
ni per la presenza in Terra Santa dal 1937, qual-
che informazione sulla sua attività. «Accogliamo
meglio che possiamo tutti i visitatori che arrivano
qui… sono circa 70-80.000 all’anno. Pellegrini da
tutto il mondo, molti dall’Italia; la maggior par-
te di questi visitatori però sono ebrei, che vivono
in Israele. Molti di questi sono di recente immi-
grazione dall’est europeo, dopo la caduta del co-
munismo: quindi ebrei russi (più di un milione),
ucraini, romeni, o anche dall’ex Germania comu-
nista. Alcuni di questi, pochi, sono anche cristia-
ni. Molti di essi non hanno mai sentito parlare di
Gesù Cristo. Quindi qui facciamo qualche volta
una prima evangelizzazione o forse, per meglio
dire, diamo una prima informazione cristiana. A
quelli che desiderano, diamo anche una Bibbia o
semplicemente il Nuovo Testamento nella loro
lingua, o qualche altro libro di istruzione religio-
sa. Grazie ai nostri benefattori riusciamo a fare un
autentico apostolato della buona stampa, regalan-
do questi libri religiosi. Agli ebrei che lo desidera-
no diamo anche il Nuovo Testamento in ebraico
moderno. E rispondiamo alle loro domande.»
«A tutti parliamo di Santo Stefano, diciamo loro
che era un ebreo, di quello che ha fatto e del mar-
tirio che ha subito. E soprattutto spieghiamo le
sue parole durante il martirio, che sono sopra l’al-
tare: “Pater, dimitte illis”… cioè “Padre, perdona
loro”. E facciamo anche una piccola catechesi sul
perdono reciproco che dobbiamo avere. Perché
tutti, assolutamente tutti, siamo bisognosi del
perdono di Dio in questo paese, non solo gli ara-
bi ma anche gli ebrei. Questo è il messaggio che
cerchiamo, tra tante difficoltà, di trasmettere alle
migliaia di nostri visitatori: in altre parole lavo-
riamo con pazienza a creare una “cultura del per-
dono” tra questi popoli che non la conoscono per
niente. E di questo perdono reciproco in queste
terre, tra questi popoli, c’è bisogno quanto il pane.
Sono dei piccoli semi che noi gettiamo, piccoli
messaggi lanciati a tutti.»
La tomba del
Venerabile Simone
Srugi, il santo co-
adiutore salesiano.
I musulmani della
zona dicevano:
«Dopo Allah, c’è
Srugi!»
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VIAGGI
GIANCARLO MANIERI
Ragaz..z.ie libri
Visitata la scuola segue la visita all’oratorio,
e l’indomani la grande “Biblioteca Alexandrina”
vanto della città, dell’Egitto e del mondo.
Studentesse, debitamente velate, all’interno della
Biblioteca.
L a sorpresa mi attendeva anche
all’oratorio di Alessandria,
frequentato nella stragrande
maggioranza da musulmani.
Tant’è che don Bashir si è
inventato un vicedirettore di
religione islamica. Proprio con lui mi
ha procurato un’intervista. Così all’ora
stabilita mi sono incontrato con il
“vicedirettore”, un laico musulmano
che era accompagnato dal figlio, un
bambino di 8/10 anni. “Com’è finito
all’oratorio salesiano?”. “Mi ha incu-
riosito e attirato il motto che don Bashir
faceva girare tra gli alunni della scuola e
quelli che venivano all’oratorio per gio-
care”. “E qual era questo motto?”. “Qui
si accettano tutti, senza precondizioni.
Allora… ciò mi ha provocato. Ho voluto
toccare con mano se rispondeva a verità.
Ho sentito parlare di don Bosco e mi pia-
ceva ogni giorno di più la sua passione
per i ragazzi, soprattutto quelli senza af-
fetti. Anche a me piaceva fare l’educatore,
sentivo che anch’io sarei stato disposto a
qualunque servizio, pur di preparare i
giovani ad essere domani i protagonisti
laboriosi e onesti della nostra patria”.
Così ha iniziato a lavorare per loro
all’oratorio?”. “Esatto. Ho organizzato
corsi di computer per i più giovani, ho
fatto assistenza, sono diventato allena-
tore sportivo, e… più mi impegnavo
più mi piaceva, più scoprivo l’utilità
di questo metodo e di questo oratorio”.
Con i ragazzi ci sono problemi?”.
Il “vicedirettore”, un laico musulma-
no, accompagnato dal figlio e don
Bashir.
Naturalmente. Andasse tutto liscio
non sarebbero ragazzi ma mummie!”.
Immagino che ci siano anche conflitti
a livello di religione”. “Forse meno di
quanto crede. C’è un unico spirito che ci
anima, uno spirito di collaborazione che
supera anche le barriere religiose. E c’è un
unico metodo che ci unisce, il metodo di
don Bosco che sembra fatto apposta per i
giovani, per crescerli rispettosi di tutti,
educati con tutti, onesti e buoni”. Ho
pensato che l’oratorio di Alessandria
fosse un “unicum” più che una rarità!
Valori comuni
C’è stata una breve pausa poi, prima
che formulassi un’altra domanda,
l’uomo continuò: “Una volta che uno
si innamora di don Bosco, non lo lascia
più, a qualunque religione appartenga”.
È quasi sbalorditivo quanto mi dice…
stento a crederlo!”. “Perché mai?”.
Perché… ecco, in che rapporto siete
voi musulmani oratoriani e i salesiani
che di certo musulmani non sono?”. “Il
legame che si è instaurato tra i salesiani
e noi è stato paritario. Proprio questo
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Marzo 2011

4.3 Page 33

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mi ha fatto amare questa istituzione e
don Bosco. Abbiamo fatto e continuato a
fare molti incontri formativi, abbia-
mo addirittura momenti di preghiera
comune nello spirito della fratellanza
universale. Il direttore ha donato a noi
animatori e dirigenti oratoriani le mas-
sime di don Bosco e le strenne del Rettor
Maggiore. Le abbiamo lette e abbiamo
constatato che ci sono valori condivi-
sibili”. “Potete accennare ad alcuni di
questi valori che trovate condivisibili?”.
Certamente. La giustizia, la pace,
l’onestà, i diritti umani, la fraternità,
la preghiera, la carità, la tolleranza
e molti altri. I valori universali sono
l’impalcatura che regge il nostro ora-
torio, è proprio per questo che possiamo
frequentare anche noi musulmani con
pieni diritti. Da quando è stato aperto
a tutti, cioè dal 1978, non abbiamo mai
sentito o subìto o messo in atto discri-
minazioni di sorta. Anche noi crediamo
che questa sia una esperienza unica e a
quanto ci consta, finora inimitabile. Di
questo siamo orgogliosi”. “Quanti sono
gli oratoriani?”. “I tesserati sono oltre
700, e solo loro possono frequentare.
Prima di ricevere la tessera si fa una
prova, una specie di tirocinio, di due
settimane”. “È bello sapere che si fanno
le cose molto seriamente”. “Grazie!”.
In questo istituto scolastico nel 1899
risulta iscritto alla quarta classe ele-
mentare il padre dell’ermetismo,
il grande poeta Giuseppe Ungaret-
ti… il più amato dei poeti ai tempi
della mia scuola media… solo perché
ha scritto la più corta poesia di tutti
i tempi: “M’illumino d’immenso”. A
fronte degli inni sacri del Manzoni,
di “Davanti s. Guido” del Carducci,
dei “Sepolcri” del Foscolo, ecc. che
non finivano mai, quella dell’antico
alunno salesiano l’imparavano anche
gli scolari che non avevano un bricio-
lo di memoria.
Il 26 ottobre l’exallievo Egidio Sam-
pieri, più tardi vescovo, celebra la sua
prima messa.
La grande biblioteca
La visita “d’obbligo” è stata quella
alla famosa Biblioteca che è stata la
più grande e la più ricca dell’antichi-
tà, andata distrutta a più riprese in
circostanze mai chiarite.
La nuova grande biblioteca fu ini-
ziata solo nel 1995 dopo oltre 1700
anni di vuoto. Il complesso centrale
ha la forma di un sole illuminato che
sorge dal mare. Sulle mura esterne,
nella parete sud, di granito, pietra dei
faraoni, sono stati incisi quattromila
caratteri che rappresentano tutti gli
alfabeti del mondo. Donazioni arri-
vate da ogni parte del globo hanno
finanziato la superba costruzione
che contiene oggi un milione di testi
scientifici, ma può arrivare comoda-
mente a stiparne otto milioni. I volu-
mi sono disposti su undici piani per
una superficie di 45 mila m2. L’intero
edificio copre un’area di circa 80 mila
m2 e include sale di lettura attrezzate
di computer, un laboratorio per il
restauro dei libri, sale di riunioni e
due musei. Indubbiamente affascina
il visitatore che si aggira ammirato
attraverso i corridoi di separazione
delle interminabili scaffalature o
i ripiani attrezzati dove decine di
studenti e studentesse – debitamente
velate queste ultime alla maniera
musulmana, chi con il niqab, chi
con l’hijab, e qualcuna perfino con il
burqa – studiano e consultano libri
attraverso il computer, in religioso
silenzio. Dei due musei ospitati nel
complesso, il primo è costituito dai
quindici reperti archeologici venuti
alla luce durante i lavori di scavo, per
preparare il posto alle fondazioni. Il
secondo è quello dedicato alle scien-
ze moderne.
La grande biblioteca. L’intero edificio copre un’area
di circa 80 mila m2.
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4.4 Page 34

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COME DON BOSCO
BRUNO FERRERO
Insegnare a scrivere:
vi sembra
poco?
Come lubrificare gli
ingranaggi del cervello
e sviluppare una
mentalità progettuale
I nostri figli abitano nella
possibilità. Ma è necessario dare
loro gli strumenti per accorgersene e
il vigore mentale per approfittarne. Il
secolo appena iniziato appartiene alle
persone che sono in grado di pensare
in modo audacemente creativo e chi
non è in grado di sviluppare queste
capacità è destinato a soccombere,
professionalmente e socialmente, in
un mondo sovrabbondante di infor-
mazioni, dove per fare la scelta giusta
occorre farsi guidare da capacità di
sintesi o da intuito ben allenato.
Per “sopravvivere”, secondo la
nota teoria di Gardner, occor-
re essere rigorosi e creativi allo
stesso tempo.
Quando un bambino scrive è come se,
senza rendersene conto, lubrificasse
gli ingranaggi del suo cervello. Scrive-
re rinforza la memoria, il linguaggio,
l’attenzione ai dettagli, la capacità di
risolvere problemi e altre importanti
funzioni cerebrali, armonizzandole
tra loro. È quindi più che giustificato
insistere perché un bambino impari a
scrivere con disinvoltura. Sembra una
cosa da poco e invece serve a raffor-
zare funzioni neuroevolutive utili in
tutta la vita, e non solo per scrivere.
Avere una mentalità progettuale si-
gnifica credere, dopo averlo sperimen-
tato, che è possibile ottenere risultati
utili e gratificanti pianificando bene e
a lungo termine le proprie azioni. Oc-
corre pensare alla scrittura come a un
processo di costante levigatura e rifi-
nitura dei propri pensieri e del modo
in cui li si esprime. Spesso invece i
ragazzi la vedono come un’operazione
da portare a termine velocemente,
per non sforare il limite di tempo
fissato dagli insegnanti. Rispondere a
un questionario, svolgere una verifi-
ca, prendere appunti li abituano a
considerare la scrittura come una gara
di velocità intellettuale. La associano
nella loro mente a frasi tipo: «Sbrigati!
È quasi ora di consegnare!». È chiaro
perciò che non riescano a vederla
come un paziente lavoro di cesello.
Ci sono casi, in particolare il pren-
dere appunti, in cui la rapidità è
effettivamente importante, ma temi
e componimenti vanno elabora-
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Marzo 2011

4.5 Page 35

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ti e rielaborati: in questa forma la
scrittura aiuta ad acquisire abitudini
e metodi che si dimostreranno utili
anche in attività di altro tipo, come
la ricostruzione di un’auto d’epoca,
l’arredo di una camera da letto, la
compilazione di una richiesta di
finanziamento e la redazione di un
business plan.
In tutti questi casi la fase prepara-
toria e quella di pianificazione sono
fondamentali e il grosso del lavoro
va svolto lentamente, con numerose
pause di riflessione. Si tratta di impa-
rare a concentrarsi e a “pensarci su”.
Insegnare a scrivere prevede diverse
fasi successive:
1. Pianificazione strategica.
Esistono diverse strategie per facilita-
re questo processo, che comportano la
risposta alle seguenti domande: Che
cosa mi viene richiesto? Che tipo di
testo l’insegnante vuole da me? In
che misura devo rimanere aderente
al tema e quanto posso inventare?
Che tipo di approccio mi conviene
utilizzare: ironico, serio, concreto o
interpretativo? Come posso fare per
rendere più efficace il mio processo
di scrittura? È meglio suddividere
il lavoro in fasi o cercare di portarlo
a termine tutto in una volta? Devo
prepararmi una scaletta? Buttare giù
una prima stesura? In quale ordine
devo procedere? Ci sono ragazzi
dotati di grande intuito strategico che
si chiedono istintivamente: «Qual è
il modo migliore per fare questo
lavoro?». Altri si limitano a
svolgerlo, magari senza riflet-
tere e scegliendo la strada più
difficile.
2. Redazione di un piano di
lavoro e di una tabella dei
tempi di esecuzione. Ci sono ra-
gazzi che nella fase di pianificazione
strategica stabiliscono una tabella
dei tempi e si danno una scadenza
entro cui completare il lavoro. È utile
mettere per iscritto il piano e sotto-
porlo all’insegnante prima di iniziare.
I ragazzi dovrebbero abituarsi a dedi-
care tempo e cura alla pianificazione
dei progetti impegnativi. Lo stesso
vale per gli adulti.
3. Brainstorming. È vitale
insegnare ai figli a “generare idee”.
Molti preferiscono dedicare una
fase del lavoro allo sviluppo di idee,
senza preoccuparsi di ortografia,
punteggiatura, regole grammaticali o
altre necessità pratiche. Le idee che
nascono dal brainstorming possono
essere registrate su cassetta, annotate
su un foglio o scritte al computer. In
questa fase, che è la più adatta a dare
spazio alla creatività e al pensiero
analitico, intervengono vari processi
di generazione delle idee.
4. Ricerca. È la fase in cui si
raccolgono i dati necessari per
sostenere e arricchire la tesi che si
andrà a esporre consultando libri e
riviste, navigando in Internet oppure
parlando con amici, parenti o altre
persone affidabili. Dovrebbe essere
un momento di appagamento della
curiosità, entusiasmante, piacevole.
5. Bozza. È un altro momento.
Idee e dati vengono passati al vaglio
una prima volta, scartando quelli che
appaiono meno utili e importanti e
conservando solo il materiale miglio-
re, che può essere schedato su carta o
al computer. Questa fase preliminare
può prevedere anche la stesura di una
scaletta, eventualmente comprensiva
di una lista di sottosezioni.
6. Prima stesura. È la versione
preliminare del testo; è cruciale, ma
può essere disordinata e piena di
errori di ortografia e grammatica.
7. Versione corretta. La prima
stesura del testo viene riveduta e cor-
retta e quindi eventualmente riletta
da persone competenti (per esempio
un insegnante o un genitore, ma
anche un coetaneo volenteroso) in
grado di esprimere un giudizio criti-
co. È l’ultima occasione per rileggere
e valutare il risultato, magari con
l’aiuto di una checklist. In questa fase
si apportano le correzioni dell’ultimo
minuto. I ragazzi devono abituarsi a
imparare dagli errori. E soprattutto
che chi fa notare i loro sbagli è un
amico.
8. Versione definitiva. A
questo punto il testo è corret-
to, completo e rifinito, pronto
per essere letto e ammirato.
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NOI & LORO
MARIANNA PACUCCI E ALESSANDRA MASTRODONATO
LAFIGLIA Generazione
reality
“Mamma, voglio andare al Grande Fratello!”.
A dieci anni compiuti dallo sbarco in Italia
del genere reality cresce ogni giorno di più
il numero dei giovani e dei giovanissimi il cui
unico sogno nel cassetto è quello di partecipare
al Grande Fratello, ad Amici, a Uomini e donne
o a qualunque altro programma televisivo che
possa garantire loro successo e notorietà.
Gli psicologi la chiamano “sindrome dei
non-famosi”, un misto di ammirazione
incondizionata per i concorrenti di tur-
no dei reality show, per chi ce l’ha fatta
a ritagliarsi uno spazio anche minimo di
visibilità sul piccolo schermo, e di profon-
da insicurezza e frustrazione derivanti dal fatto di
sentirsi estromessi, esclusi – al-
meno per il momento – da
quel mondo dorato e
scintillante, dove tutto
sembra semplice e ogni
traguardo a portata di
mano, quasi che da un
capo all’altro dell’etere
risuoni imperioso il
monito: “se non sei fa-
moso, non sei nessuno!”.
Sempre più spesso,
infatti, gli ado-
lescenti italiani,
cresciuti a pane e reality, elevano a modelli di vita
e ad esempi da seguire i “famosi” o presunti tali
del momento, assolutizzano i valori veicolati dalla
TV e ne riproducono le logiche e le dinamiche
nella propria quotidianità: dal trionfo dell’appa-
rire e dell’ostentare che prevale sull’essere, ad una
competizione sempre più esasperata e senza scru-
poli che trova il suo paradigma e, insieme, il suo
corrispettivo mediatico nel meccanismo delle no-
minations; dall’esibizione portata agli eccessi delle
emozioni, dei sentimenti, perfino dei particolari
più intimi e privati della propria vita, alla con-
vinzione che la faccia tosta, la furbizia, la capacità
di mettere in campo strategie di gioco vincenti
paghino più delle capacità personali, della lealtà
verso gli altri e dell’impegno.
Non sono pochi i giovani che si illudono che ba-
sti superare un provino o partecipare anche solo
ad una puntata di un qualunque reality show per
sfondare nel mondo luccicante della televisione,
per fare i soldi facili, per essere riconosciuti per
strada: come se tutto ciò fosse sufficiente per sen-
tirsi realizzati, per poter dire di aver fatto qualco-
sa di significativo e di importante nella propria
vita, per poter essere felici. Una celebrità a buon
mercato che, anche quando viene finalmente rag-
giunta e conquistata a forza di sgomitare tra le
migliaia di giovani che ogni anno affollano i ca-
sting televisivi, si rivela poi, nella maggior parte
dei casi, effimera e passeggera, capace di rigettarti
nell’anonimato con la stessa velocità con cui ti ha
portato alle stelle.
Eppure tantissimi ragazzi e ragazze continuano a
sognare ad occhi aperti di poter essere loro, in un
futuro non troppo lontano, a varcare la porta rossa
del Grande Fratello o a sedere sul trono di Maria
De Filippi. Una vita vissuta aspettando la pros-
sima puntata del proprio programma preferito e
magari anche rinunciando ad uscire con i propri
amici in carne ed ossa per seguire in TV i successi
e le lacrime di altri Amici. Quando il falso diventa
più vero del vero…
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Marzo 2011

4.7 Page 37

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Ma due cose non possono non apparire
sconcertanti: la prima è che molti ge-
nitori sono veri e propri fiancheggia-
tori di questi desideri e sono pronti a
trasformarsi in talent scout e press agent
per favorire l’accesso dei figli a questo
mondo patinato; la seconda è che il mercato dei
media moltiplica all’infinito queste opportunità,
come se il futuro delle persone e della società fosse
davvero garantito e qualificato da questa esplosio-
ne di lavori legati all’effimero.
Quando l’ambiente educativo in cui i ragazzi vi-
vono quotidianamente crea tali e tante occasio-
ni di contatto e di protagonismo con le logiche
dell’apparire e, soprattutto, rende lo stare in vetri-
na più appetibile di tante altre carriere professio-
nali che richiedono impegno, applicazione, rigore,
è facile e quasi inevitabile che determinati lavori
vengano privilegiati e ricercati a tutti i costi.
Peraltro, quando si ragiona così e si opera in modo
da lasciare libero spazio a forme di realizzazione
superficialmente legate al mondo mediatico, si
esaspera e si falsifica la competizione già oggi fin
troppo dominante nel mondo giovanile, legando-
la ad atteggiamenti e comportamenti sempre più
lontani da una dimensione etica o anche soltanto
umanizzante della persona.
L’effimero come mestiere è la grande illusione
della postmodernità, che porta con sé tante di-
storsioni della realtà e dell’esperienza della cresci-
ta: che si possa diventare adulti senza necessaria-
mente approdare alla maturità personale; che ci si
possa affermare nel mondo del lavoro senza per-
correre la strada dell’acquisizione di conoscenze e
competenze adeguate; che si possa raggiungere la
notorietà senza aver compiuto qualcosa di gran-
de; che i soldi siano a portata di mano.
Vi è, in tutto questo, un approccio distorto alla
vita, che non fa bene agli adolescenti, ma neppure
alle loro famiglie e alla stessa convivenza sociale:
tutto appare confuso, indeterminato, approssima-
tivo; l’unico modo per uscire dalla nebbia della
L’effimero LAMADRE
come mestiere
Un popolo di partecipanti ai reality show:
questo abita i sogni di molti bambini e
adolescenti italiani. E fin qui non ci sarebbe
molto di male: si sa che ai ragazzi piace
sognare ad occhi aperti un mondo dorato
a portata di mano, un successo e guadagni
strepitosi e poco faticosi.
normalità, dell’anonimato è quello di poter stare
in TV o sui giornali di gossip; il successo si tra-
sforma il più delle volte in una trappola in cui la
persona è ridotta a personaggio.
Non è un caso che tanti protagoni-
sti dei programmi spazzatura spes-
so si ritrovino con un pugno di
mosche in mano, senza identità e
senza futuro, derubati di desideri
e progetti che potrebbero dare
una svolta positiva alla loro
esistenza. Ed è una gran
fatica risalire la scala che
porta a dare il giusto va-
lore ai sentimenti e alle
relazioni interpersonali,
alla disponibilità a stare
nel mondo con un compi-
to che autentica la vita, allo
stesso bisogno di attribui-
re dignità alla propria at-
tività professionale.
Marzo 2011
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4.8 Page 38

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IL LIBRO
Fabio Geda
NEL MARE CI SONO
I COCCODRILLI
Storia vera di Enaiatollah Akbari
(B.C. Dalai editore)
L’autore
Fabio Geda è nato nel 1972 a Torino,
dove vive. Si occupa di disagio minorile
e animazione culturale. Scrive su «li-
nus» e su «La Stampa» circa i temi del
crescere e dell’educare. Collabora stabil-
mente con la Scuola Holden, il Circolo
dei Lettori di Torino e la Fondazione per
il Libro, la Musica e la Cultura. Ha pub-
blicato i romanzi Per il resto del viaggio
ho sparato agli indiani (selezionato per il
Premio Strega, Miglior Esordio 2007 per
la redazione di Fahrenheit, vincitore del
Premio Marisa Rusconi e, in Francia, del
Prix Jean Monnet des Jeunes Européens)
e L’esatta sequenza dei gesti (vincitore del
Premio dei Lettori di Lucca).
SAREI POTUTO ESSERE IO
Ricordo che il primo anno mi sono trovato
male con i compagni, perché a me pia-
ceva parecchio andare a scuola. Per me
era un privilegio. Studiavo tantissimo e
se prendevo un brutto voto andavo subito
dall’insegnante a dire che volevo recupera-
re e agli altri dava un sacco fastidio questa
cosa, e anche quelli più piccoli di me dice-
vano che ero un secchione.
Poi è andata meglio. Ho fatto amicizia. Ho
imparato molte cose che mi hanno co-
stretto a guardare la vita con occhi diversi,
come quando ti metti un paio di occhiali da
sole con le lenti colorate. Quando studiavo
igiene ero stupito da quello che mi diceva-
no, perché lo paragonavo al mio passato,
alle condizioni in cui avevo vissuto, al cibo
che avevo mangiato eccetera: mi sono
chiesto com’era possibile che fossi ancora
tutto integro.
Ero alla fine della seconda quando è arrivata
una lettera, a casa, che diceva che dovevo
presentarmi a Roma per incontrare la com-
missione che avrebbe stabilito se potevo
ottenere il permesso di soggiorno come ri-
fugiato politico. La aspettavo, quella lettera.
È la storia vera, stupenda e commovente, di un ragazzino afghano e
dell’incredibile forza che lo porta in Italia, passando per l’Iran, la
Turchia e la Grecia. Un’odissea che l’ha messo in contatto con la mi-
seria e la nobiltà degli uomini e che, nonostante tutto, non è riuscita
a fargli perdere l’ironia né a cancellargli dal volto il suo formidabile
sorriso.
«Tanti pensano che i talebani siano afghani, Fabio, ma non è così. Ci sono
afghani tra di loro, ovvio, ma non solo: sono ignoranti, ignoranti di tutto il
mondo che impediscono ai bambini di studiare perché temono che possano
capire che non fanno ciò che fanno nel nome di Dio, ma per i loro affari».
38
Marzo 2011

4.9 Page 39

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La aspettavo perché al Ctp Parini avevo co-
nosciuto un ragazzo afghano che era arrivato
in Italia poco prima di me e che aveva una
storia molto simile alla mia. Così tutto quello
che capitava a lui, be’, dopo poco capitava
anche a me, tipo essere chiamato per i do-
cumenti e cose del genere. Lui aveva rice-
vuto la lettera alcuni mesi prima, era andato
a Roma, aveva incontrato la commissione e
la risposta era stata: niente rifugiato politico.
Ricordo la sua disperazione quand’era torna-
to e me lo aveva detto. Non riuscivo a capire.
Perché non glielo avevano concesso? Se
non lo avevano concesso a lui, non lo avreb-
bero concesso neppure a me. Ricordo che
si prendeva la testa tra le mani, questo mio
amico, piangendo, ma senza lacrime, pian-
gendo con la voce e con le spalle, e diceva:
Ora dove posso andare?
Un giorno sono partito in treno con Marco
e Danila e ho fatto al contrario la strada che
avevo fatto per arrivare da Roma a Torino.
Ci siamo presentati puntuali in questo pa-
lazzo, in una zona che ora non ricordo,
abbiamo atteso un pochetto, poi hanno
chiamato il mio nome, che è rimbombato
per tutto il corridoio. Marco e Danila sono
rimasti lì. Io sono entrato.
Siediti, mi hanno detto.
Mi sono seduto.
Quello è il tuo interprete, hanno detto, indi-
cando un ragazzo vicino alla porta.
Ho detto che avrei preferito fare senza.
Grazie.
Parli bene l’italiano quindi, hanno detto.
Ho risposto che sì, lo parlavo abbastanza
bene. Ma non era solo quello. Se parli diret-
tamente con le persone trasmetti un’emo-
zione più intensa, anche se le parole sono
incerte e la cadenza è diversa; in ogni caso,
il messaggio che arriva assomiglia di più a
quello che hai in testa, rispetto a quello che
potrebbe ripetere un interprete - o no? - per-
ché dalla bocca dell’interprete non escono
emozioni, escono parole, e le parole sono
solo un guscio. Abbiamo chiacchierato per
quarantacinque minuti. Ho raccontato tutto,
ogni cosa. Ho raccontato di Nava, di mio
padre e di mia madre, del viaggio, di quan-
do dormivo, lì, a Torino, a casa di Marco e
Danila, e degli incubi che agitavano le mie
notti, quasi come il vento aveva agitato il
mare tra la Turchia e la Grecia, e che in que-
gli incubi fuggivo e, fuggendo, cadevo dal
letto, spesso, oppure mi alzavo, strappavo
via la coperta, me la avvolgevo attorno alle
spalle, scendevo le scale, aprivo la porta del
cortile e andavo a dormire in macchina, e
tutto questo senza rendermene conto, op-
pure piegavo i vestiti da una parte, ordinati,
e mi sdraiavo in bagno, in un angolino. Ho
raccontato che cercavo sempre gli angoli-
ni, per dormire. Ero – come si dice? – un
sonnambulo. Ho raccontato tutto questo e
a un certo punto lui, il commissario, mi ha
detto che non capiva perché dovevo fare il
rifugiato politico dato che in Afghanistan
non c’era una situazione così pericolosa per
gli afghani, in fondo; che io sarei benissimo
potuto restare a casa mia.
Allora ho tirato fuori il giornale. Era un
quotidiano di pochi giorni prima. Ho indi-
cato un articolo.
Il titolo era: Afghanistan, bimbo-talebano
sgozza una spia.
Il giornalista raccontava di un ragazzino sen-
za nome che era stato ripreso dalle teleca-
mere mentre tagliava la gola a un prigioniero
urlando Allah Akbar. La sequenza era stata
diffusa dalla propaganda talebana nelle zone
di confine pakistane. Nel video si vedeva il
prigioniero, un uomo afghano, ammettere le
proprie colpe davanti a un gruppo di militan-
ti, fra cui c’erano molti adolescenti. Quindi la
parola passava al boia, un ragazzino, davve-
ro, piccolissimo, con addosso una giacca mi-
metica di alcune taglie troppo grande. È una
spia americana, diceva il ragazzino armato
di coltellaccio rivolto alla telecamera. Gente
come questa merita la morte. A quel punto
un talebano sollevava la barba del condan-
nato mentre tutti urlavano Allah Akbar, Allah
Akbar, Dio è grande, e il ragazzino affondava
la lama e sgozzava l’uomo.
Ho indicato l’articolo. Ho detto: Sarei potu-
to essere io, quel ragazzino.
Che il permesso di soggiorno come rifu-
giato politico mi era stato concesso, be’,
me lo hanno detto qualche giorno dopo.
Marzo 2011
39

4.10 Page 40

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A TU PER TU
Don Claudio Belfiore
presidente nazionale del Cnos Sport
Ti senti un “salesiano da
cortile”?
La mia vita da salesiano è caratte-
rizzata dal servizio come incaricato
dell’Oratorio: dal ’92 al 2000 presso
l’Oratorio San Paolo di Torino e dal
2000 al 2008 a Cuneo, dove gli ul-
timi 6 anni sono stato anche Diret-
tore dell’Opera. Dal settembre 2008
mi trovo a Roma nella comunità San
Lorenzo Cnos per alcuni incarichi di
coordinamento a livello nazionale.
Qual è esattamente il tuo
compito?
Nel settembre 2008, alcuni mesi dopo
l’uscita dei Salesiani dalla PGS, mi è
stato affidato il compito di animare la
presenza salesiana nell’ambito sportivo.
Dal mese di ottobre 2009 sono presi-
dente nazionale del Cnos Sport, Centro
Nazionale Opere Salesiane per lo sport.
Com’è l’organizzazione attuale
dello sport per le opere
salesiane in Italia?
Ogni società e gruppo sportivo si or-
ganizza sul proprio territorio e sceglie
quali attività e campionati svolgere.
Come Salesiani chiediamo che que-
ste realtà aggregative partecipino in
modo significativo alla vita della Casa
a cui sono legate: celebrazione dome-
nicale, appuntamenti comunitari, par-
tecipazione e formazione nella CEP
sono gli elementi qualificanti. Priori-
tari sono i rapporti tra queste realtà e
la Casa salesiana. A livello nazionale
il Cnos Sport cura gli aspetti forma-
tivi, sostenendo l’azione e il coor-
dinamento delle ispettorie.
Il cortile è ancora il segno
distintivo dei Salesiani?
Le Costituzioni Salesiane parlano di
cortile per incontrarsi da amici e vivere
in allegria”. Nel nostro tempo esisto-
no nuovi “cortili”, in cui i giovani si
radunano e in cui cercano l’allegria.
L’immagine del cortile evoca gli ele-
menti distintivi della missione sale-
siana, ovunque siano vissuti: relazioni
di amicizia e di confidenza, clima di
serenità e di allegria, atteggiamenti di
stima e rispetto.
Gioco o sport?
Molto semplicemente gioco e sport.
Non si identificano, non bisogna con-
fonderli, ma neanche contrapporli.
Oggi lo sport ha bisogno del gioco,
per ritrovare la propria bontà e digni-
tà. La forza di coinvolgimento e di
attrazione dello sport non può esse-
re solo la competitività, che spinge al
risultato e al miglior rendimento, ma
che facilmente scivola verso i concetti
di rendimento e di produttività. Sport
è bello quando diverte, piace e aggre-
ga, specialmente nell’età giovanile.
Le famose PGS esistono ancora?
Esistono e hanno la loro autonomia
di gestione e animazione. La diffe-
renza tra prima e dopo la scelta dei
superiori nel maggio 2008, è che ora
le PGS non sono promosse dai Sale-
siani: non esiste più la figura del dele-
gato salesiano e non abbiamo alcuna
responsabilità negli organi decisionali
della PGS. Il collegamento cercato e
voluto è quello con le eventuali PGS
presenti nelle nostre case.
Avete avviato una campagna?
Con il mese di gennaio ha preso avvio
La partita educativa nello sport, campa-
gna sociale per uno sport che educa.
Maggiori informazioni sul sito
www.salesianiperlosport.org
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Marzo 2011

5 Pages 41-50

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5.1 Page 41

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I NOSTRI SANTI
A CURA DI PIERLUIGI CAMERONI postulatore generale
Guarito da solo
Letizia e Fabio: siamo i genitori di
tre maschietti: Pietro, Sebastia-
no e Alessio. Per questo ultimo
io come mamma ritengo d’aver
ricevuto una grazia. Alla ventu-
nesima settimana di gravidanza
mi è stato comunicato che Ales-
sio era affetto da spina bifida a
livello sacrale. Si trattava di una
situazione tale da creare difficol-
tà per il controllo degli sfinteri
e per la deambulazione. Anche
se non abbiamo mai pensato
di abortire, inizialmente non è
stato facile dire il nostro sì alla
volontà che Dio aveva su Ales-
sio e sulla nostra famiglia. Ma
da quando ho potuto conoscere
san Domenico Savio, l’ho prega-
to e ne ho portato l’abitino. Nei
giorni successivi è passato dalla
terapia post-intensiva, all’incu-
batrice, alla patologia neonatale
e quindi alla culla. Da qui, per la
prima volta, ho potuto prenderlo
in braccio e allattarlo. Giunse il
19 giugno, giorno antecedente la
nostra dimissione dall’ospedale.
La mattina non riuscii a vedere
Alessio, perché era sottoposto
ad elettroencefalogramma. Si
scoprì che, a causa di una ferita
infetta, aveva preso la meningite.
Fu messo di nuovo in terapia in-
tensiva in isolamento e a digiuno.
Trascorsi giorni di buio spiri-
tuale, in cui mi era difficile aver
fiducia in Dio, finché mi ritrovai
in chiesa al colmo del dolore:
soffrivo con lui. I neurochirurghi
erano decisi di procedere ad una
seconda operazione, prevista per
Per la pubblicazione
non si tiene conto delle
lettere non firmate e
senza recapito. Su
richiesta si potrà
omettere l’indicazione
del nome.
l’8 luglio ma poi rimandata al 15
luglio. Alla vigilia dell’operazione,
nel rimettere mio figlio nell’incu-
batrice, sapendo che per un paio
di settimane non avrei più potuto
prenderlo in braccio, fra le lacri-
me ho gridato: ”Basta, Signore!”,
e ho litigato con san Domenico
Savio, dicendogli che non ero
certa che lui si meritasse il nome
accanto a quello di Alessio al bat-
tesimo, dato che il bambino si era
preso tutte le complicazioni e an-
cora aveva un percorso in salita.
Dopo questo sfogo sono andata
a casa. Il 15 luglio, giunti presto
in ospedale, abbiamo trovato
Alessio disperato: digiuno dalla
mezzanotte, voleva mangiare ed
era agitato. Ma appena ci sentì
arrivare si calmò e addormentò
in braccio a suo papà. Alle ore 11
entrò in sala operatoria. L’attesa
fu molto lunga. Alle ore 13, quan-
do uscì il primario con tutta la sua
équipe, ci disse che Alessio non
era stato operato, perché inspie-
gabilmente era guarito da solo.
Lì per lì non abbiamo capito, ma
poi abbiamo compreso che c’era
stata una grazia e siamo rimasti
felicissimi. Forse san Domenico
Savio voleva dimostrarmi che si
meritava il nome accanto a quel-
lo di Alessio? Attualmente ad un
mese dalla dimissione, la situa-
zione è stabile.
Polti Letizia e Fabio, Como
Potenza operativa
dei santi
A quale santo o santa del cielo
attribuire la grazia del supera-
mento di un profondo disagio e
l’acquisizione quasi improvvisa
di serenità spirituale? A Maria
Ausiliatrice?, a don Bosco?, a
san Domenico Savio? Per me
è certo che tra loro non c’è ge-
losia: essi, vedendomi sempre
più tentato dal dubbio, afflitto
da problemi di salute e da di-
sagi economici, si sono rivolti
tutti insieme alla misericordia
Segnalano grazie rice-
vute per l’intercessione
di san Domenico Sa-
vio, valorizzando l’abi-
tino e la novena:
– Chiara e Marco di
Roma per la nascita del
piccolo Gianmarco (3
gennaio 2009)
– Sandra Gremmo di
Biella
– Lucrezia Pellegrini
di Roma per la nascita
del nipote Federico (17
maggio 2010)
– Pina Cilia di Ragusa
– Rossella e Francesco
Baietto di Rivoli (Torino)
– Maria Adriana Gioè di Palermo, per la nascita di Emanuele
– Alessandra Zaghis per la nascita della nipotina Maria (28 maggio
2009)
– Marilena Rossi di Pesaro per la nascita della nipotina Chiara (2
settembre 2010)
– Elga Careddu per la nascita dei due figli Salvatore Domenico e
Emanuela Carmen
– Elisa e Nicola Maggio di Rivalta Torinese per la nascita di Matteo
(10 aprile 2010)
– Tania Rosato di Palermo per il figlio Francesco
– Leonardo e Angela, Roma per il figlio Antonio Maria
– Leali Cristina, Domaso (CO) per il figlio Nicolas
di Dio, intercedendo a mio fa-
vore. Nonostante le mie deboli
e meschine preghiere, mi hanno
sostenuto, guarendomi da tutto
il mio malessere.
Angelo, Legnano MI
Il progetto di Dio:
l’esistenza
Mi chiamo Letizia e ho 30 anni.
Sono rimasta molto tempo lon-
tana dalla fede, ma l’anno scor-
so (2009) quando sono rimasta
incinta, qualcosa è cambiato
in me. Lo sbocciare di una vita
dentro di me mi ha indotto a
riflettere e ad interrogarmi sul
senso della vita. Si è radicata
in me la consapevolezza del
complesso progetto di Dio che
è l’esistenza. Intendo ora sotto-
lineare l’importanza che ha per
me la figura di san Domenico
Savio. Quand’ero in dolce at-
tesa, affinché tutto procedesse
per il meglio, mi sono procurata
l’abitino di san Domenico Savio
e una medaglietta che ancora
porto al collo. Al secondo mese
di gravidanza fui ricoverata d’ur-
genza per appendicite. Se mi
avessero operata avrei perso il
bambino. Fra i dolori, pregavo
san Domenico Savio e padre Pio
e stringevo l’abitino. Sono gua-
rita con una cura antibiotica. Il
mio bambino ora ha 10 mesi e
sempre continuo a pregare san
Domenico Savio, affinché lo
protegga. Questo santo straordi-
nario mi è stato molto vicino an-
che durante l’allattamento. Sono
certa che se ancora oggi allatto,
è grazie al suo aiuto.
Giannini Letizia, Soci AR
Marzo 2011
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5.2 Page 42

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IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
DON CARLO FIORE
(31.12.1920 - 08.08.2010)
Nasce a Pezzana (VC) l’ultimo
giorno di dicembre 1920. Pochi
anni dopo la famiglia si trasferi-
sce a Torino, in Borgo San Paolo,
un quartiere tipicamente operaio.
In quel lembo di Torino i salesia-
ni erano presenti, anche se non
in forma ufficiale, sin dal 1918.
Papà Tommaso lavora alla fab-
brica automobilistica Lancia; la
mamma, Teresa Moglia, diviene
ben presto parte integrante della
famiglia salesiana. Con accenti
commossi, lo ricorderà spesso
don Carlo: tenendolo per mano,
sale e scende le scale di quelle
case operaie con un mazzo di co-
pie del Bollettino Salesiano che
distribuisce a tutti, simpatizzanti
e non, con un sorriso.
«Ci parlavano molto di don Bo-
sco, si organizzavano mini-pel-
legrinaggi a Valdocco, Basilica,
Camerette, ecc. Don Bosco era
il pane quotidiano e si impa-
rava ad amarlo e seguirlo».
Novizio a Monte Oliveto, fa la sua
professione il 1º gennaio 1937.
Vive l’ascesa al sacerdozio (24
agosto 1947) come un’autentica
Via Crucis. Certi segreti di cui si
aveva sentore ci sono rivelati dallo
stesso festeggiato. Ce li descrive
con semplicità don Carlo per oc-
casione del suo 60º anniversario
di presbiterato, il 22 settembre
2007. «60 anni fa, nel piccolo
oscuro presbiterio della casa di
Piossasco, io venivo ordinato sa-
cerdote. Ero seduto su una poltro-
na nel presbiterio e non mi sono
mai mosso per il semplice motivo
che non ce la facevo a reggermi in
piedi. Ero distrutto dalla tbc milia-
re, pesavo poco più di 40 kg: ero
l’ombra di me stesso. Venivo or-
dinato prete “ad consolationem”,
un conforto prima di morire. Mia
madre pregava come una disperata
invocando san Giuseppe Cafasso
[era stato canonizzato tre mesi pri-
ma, il 22 giugno, da Pio XII]. Poi,
la risurrezione, che io ritengo dono
delle preghiere di mia madre e per
l’arrivo a Piossasco di una confe-
zione di streptomicina, mandata
dagli Stati Uniti da don Giovannini
per il coadiutore Floriani (ulcera
tbc). Ma a lui non serviva. Il dott.
Losano, cercando di decifrare l’in-
glese del bugiardino, propose di
provarla su di me. Se non funzio-
nava era comunque la fine. Avevo
26 anni. Funzionò benissimo. Poi
seguirono tre interventi chirurgici
molto pesanti: asportazione di 6
costole per comprimere il polmo-
ne bucato dalla tbc e asportazione
di un rene». Don Fiore inizia la sua
vita sacerdotale pienamente as-
sociato alla Passione di Gesù. La
casa di Piossasco era tristemen-
te celebre poiché là confluivano
i salesiani ammalati, molti solo
per morire: don Carlo vi rimane
ancora per 7 anni. In questo pe-
riodo muoiono tanti confratelli; la
maggioranza sono giovanissimi,
praticamente consunti dalla tisi!
Nel 1954 arriva a Valdocco ove,
salvo l’interruzione di un anno, ri-
mane sino al 1983. Si rivela scrit-
tore sodo, dallo stile avvincente
che sa parlare il linguaggio dei
giovani. L’allora Catechista Gene-
rale, don Tirone, gli affida l’inca-
rico di «inventare qualcosa» per
dare nuovo impulso alle attività
associative salesiane. Un compito
ampio che don Carlo affronta con
notevole coraggio. «La prima cosa
che fece fu rifare il glorioso ma ve-
tusto “Giovane Provveduto” che,
scritto da don Bosco cent’anni pri-
ma, era ancora il “libro di preghie-
re” dei ragazzi delle case salesiane.
Nacque “In preghiera”, un agile
manuale che tracciò un nuovo stile
di “pregare giovane”» (don Tere-
sio Bosco). Fonda una piccola e
preziosa rivista, «Compagnie in
azione»: da queste pagine limpi-
de come una sorgente e impetuo-
se come il fuoco, nascono i futuri
dirigenti delle Compagnie, una
indovinata forma di associazio-
nismo ideata da don Bosco e dai
primi salesiani. Migliaia di giovani
impareranno il cammino di una
robusta e simpatica santità vissuta
sulla scia di san Domenico Savio,
canonizzato proprio in quegli anni.
Don Fiore ha l’anima del poeta e la
passione dell’apostolo.
La sua stanzetta-ufficio situata
al quarto piano si trasforma nel
«Centro Gioventù Salesiana». La
rivista «Compagnie in azione»
si muta in «Ragazzi in azione».
Poi, l’orizzonte si apre a ven-
taglio. Con la rivista «Dimen-
sioni», don Fiore non è più a
contatto solo con adolescenti. I
suoi lettori sono cresciuti, sono
all’università, sono entrati nella
politica. Nell’editoriale che apre il
primo numero (aprile 1962) don
Fiore traccia quella che sarà la
linea programmatica della nuo-
va rivista, una linea coraggiosa,
controcorrente.
Nell’ultimo suo libro pochi mesi
prima di morire aveva scritto:
«Siamo diventati aridi, freddi. “Io
sono il freddo”, disse Satana in
visione ad una celebre mistica. Il
non-amore, il rifiuto sdegnoso di
amare, di lasciarsi amare, il freddo
dell’anima. Vita eterna è la totale,
piena, perfetta comunione con Dio
Padre, con il Figlio, con lo Spirito
Santo e, in loro, con tutti gli elet-
ti, con il cosmo intero trasfigurato
anch’esso dall’“onda lunga” della
risurrezione di Cristo. Vita eterna
è entrare e vivere e partecipare al
rapporto più intimo e profondo
con la Trinità, all’immenso fluire
dell’Essere e dell’amore che circola
all’interno della Trinità. È un affac-
ciarsi sull’orlo del diventare Dio noi
stessi, tanto siamo presi e ingranati
in questo sfolgorante dinamismo
trinitario. Amare ed essere amati
da Dio per sempre: questa è la vita
eterna, il paradiso. Non è la pro-
spettiva di un futuro lontano. È un
cielo, il paradiso, di autentica vita,
di dialogo, di intima e profonda co-
munione, di esaltante adorazione».
42
Marzo 2011

5.3 Page 43

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LA BUONANOTTE
B.F.
La rana
C’era una volta una rana
che saltellava lieta tra
fossi, risaie e fresche fo-
glie di ninfea. Inseguen-
do un paio di ronzanti
insetti volanti, arrivò
balzo dopo balzo nell’aia di un casci-
nale. In un angolo discreto e riparato,
la rana curiosa scoprì un pentolone.
Saltò sull’orlo e vide che era pieno di
acqua limpida e fresca.
«Una magnifica piscina tutta per
me!» pensò.
Si tuffò con una elegante piroetta e,
alternando tutti gli stili di nuoto in
cui eccelleva, cominciò a sguazzare
allegra e spensierata.
Ma una mano distratta accese il fuo-
co sotto la pentola. L’acqua si riscaldò
pian piano. Presto divenne tiepida.
La rana trovò la situazione piacevole:
«Di bene in meglio! La piscina
è riscaldata» e continuò a nuotare.
La temperatura cominciò a salire.
L’acqua era calda, un po’ più calda di
quanto piacesse alla rana, ma per il
momento non se ne preoccupava più
di tanto, soprattutto perché il calore
tendeva a stancarla e stordirla.
L’acqua ora era davvero calda. La rana
cominciò a trovarla sgradevole ma era
talmente indebolita che sopportava, si
sforzava di adattarsi e non fece nulla.
La temperatura dell’acqua continuò
a salire progressivamente, senza bru-
schi cambiamenti, fino al momento
in cui la rana finì per
cuocere e morire senza
mai essersi tirata fuori
dalla pentola.
Immersa di colpo in
una pentola d’acqua a
cinquanta gradi, la stessa
rana sarebbe schizzata
fuori con un salutare sal-
to da record olimpico.
Stiamo facendo la
fine della rana? La
gran legge della materia
lasciata a se stessa è l’entropia. Ciò
di cui non ci si cura, ciò che viene
lasciato all’abbandono deperisce,
declina, si degrada, che si tratti di
un corpo, di una relazione, di un
giardino, dell’organizzazione sociale
di un paese ecc. Tutto richiede cura,
vigilanza, sforzo. Abbrutita da un
eccesso di stimoli sensoriali, la nostra
coscienza si addormenta; satura di
informazioni inutili la memoria si
ottunde; privati di parametri non
abbiamo più punti di riferimento
stabili; asfissiati dal materialismo
e dal consumismo, i nostri ideali
avvizziscono e muoiono. E senza
accorgercene siamo cotti.
Alcune patologie impiegano anche
dieci, venti o trent’anni a svilupparsi,
il tempo che corpo e psiche impiega-
no a saturarsi di tossine, di tensioni,
di blocchi, di non detti, di rimozioni.
La nostra abitudine ad alcune con-
trarietà minori, aggiunta alla perdita
di sensibilità e di vitalità, ci induce
a non reagire di fronte a questo
impercettibile indebolimento della
salute se non quando si manifestano
patologie più gravi e più difficili da
curare.
Le relazioni di coppia si deterio-
rano altrettanto progressivamente.
Chi potrebbe affermare: «La no-
stra relazione ha cominciato a non
funzionare il 28 marzo alle ore 15»?
È gradualmente che la qualità delle
relazioni, senza l’adeguata cura, si
incrina.
Le omissioni, le incomprensioni e i
rancori si accumulano senza che vi
si presti attenzione, senza che se ne
parli o che si cerchino delle soluzioni
insieme.
«State svegli e vigilate!» è l’ordine di
Gesù nel Vangelo.
Svegliatevi! L’acqua sta diventando
pericolosamente calda…
Marzo 2011
43

5.4 Page 44

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TAXE PERÇUE
tassa riscossa
PADOVA c.m.p.
In caso di mancato
recapito restituire a:
ufficio di PADOVA
cmp – Il mittente si
impegna a corrispon-
dere la prevista tariffa.
Nel prossimo numero
Venite e vedrete
Attilio Giordani
Un laico “alla
don Bosco”
L’invitato
Jean Paul Muller
Economo generale
della Congregazione
Salesiani nel mondo
Una nuova vita per
i bambini soldato
I nostri “grandi”
Don Carlo Braga
Pioniere del
Regno di Dio
FMA
Tenersi stretti
i sogni
Senza di voi
Dal testamento di don Bosco
per i benefattori
non possiamo
Senza la vostra carità io
avrei potuto fare poco
o nulla; con la vostra
carità abbiamo invece
fare nulla!
cooperato con la grazia di Dio
ad asciugare molte lagrime e
a salvare molte anime.
PER SOSTENERE LE OPERE SALESIANE
Notifichiamo che l’Istituto Salesiano per le Missioni con sede in Torino, avente persona-
lità giuridica per Regio Decreto 13-01-1924 n. 22, e la Fondazione Don Bosco nel mondo
(per il sostegno in particolare delle missioni salesiane), con sede in Roma, riconosciuta con
D.M. del 06-08-2002, possono ricevere Legati ed Eredità.
Queste le formule
Se si tratta di un Legato
a)
Di beni mobili
“… Lascio all’Istituto Salesiano per le Missioni con sede in Torino (o alla Fondazione
Don Bosco nel mondo con sede in Roma) a titolo di legato la somma di ……………..,
o titoli, ecc., per i fini istituzionali dell’Ente”.
b)
Di beni immobili
“… Lascio all’Istituto Salesiano per le Missioni con sede in Torino (o alla Fondazione
Don Bosco nel mondo con sede in Roma), a titolo di legato, l’immobile sito in… per i fini
istituzionali dell’Ente”.
Se si tratta invece di nominare erede di ogni sostanza l’uno o l’altro dei due enti
sopraindicati
“… Annullo ogni mia precedente disposizione testamentaria. Nomino mio erede universale
l’Istituto Salesiano per le Missioni con sede in Torino (o la Fondazione Don Bosco
nel mondo con sede in Roma) lasciando a esso/a quanto mi appartiene a qualsiasi titolo,
per i fini istituzionali dell’Ente”.
(Luogo e data)
(firma per esteso e leggibile)
N.B. Il testamento deve essere scritto per intero di mano propria dal testatore.
INDIRIZZI
Istituto Salesiano per le Missioni
Via Maria Ausiliatrice, 32
10152 Torino
Tel. 011.5224247-8 - Fax 011.5224760
Fondazione Don Bosco nel mondo
Via della Pisana, 1111
00163 Roma - Bravetta
Tel. 06.656121 - 06.65612658
e-mail:donbosconelmondo@sdb.org
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