Bollettino_Salesiano_202009

Bollettino_Salesiano_202009

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Salesiani
nel mondo
India
Le case di
don Bosco
Loreto
Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
SETTEMBRE 2020
L’invitato
Don Mantovani
NON
ABBIATE
MAI
PAURA
Don Bosco

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LE COSE DI DON BOSCO
B.F.
Non si scherza
con i tacchini!
E ro solo l’umile finestra della
casetta Bosco ai Becchi. Le
finestre sono gli occhi delle
case. Io vedevo tutto quello che
capitava sul Colle. E mi ricordo.
I ragazzini Bosco erano vispi e
coraggiosi. Giovanni aveva cinque
anni, Giuseppe sette. Mamma
Margherita li mandava a pascolare
un gruppetto di tacchini che gloglot-
tavano dal mattino alla sera.
Un giorno, un farabutto pensò di
truffare i due bimbetti. Si avvicinò
e disse: «Volete vendermi un tacchi-
no?» Ai due ragazzini sembrò una
fortuna sfacciata. Il furfante conti-
nuò: «Vi do cinque soldi». «Cinque
soldi!» esclamarono. Parve loro che si
trattasse d’una somma enorme; quin-
di senza pensare ad altro accettarono
i cinque soldi, mentre quel farabutto,
preso il tacchino più grosso, s’invo-
lò. I due giovanetti subito corsero
ansanti dalla mamma: «Mamma,
abbiam venduto un tacchino».
«Oh!» rispose la madre, che non
aspettava una simile notizia.
«E lo abbiam fatto pagar bene! Cin-
que soldi!» E li porgevano trionfanti
in palmo di mano!
Mamma Margherita non ci poteva
credere: «Poveretta me! Cinque soldi!
Vi siete fatti truffare. Un tacchino ne
vale più di cento! Quell’uomo era un
imbroglione!».
I due bambini restarono
di sasso a quelle parole,
ma continuarono il loro
compito di custodi dei
tacchini, che portavano nel
prato tutti i giorni. Mentre
gli animali davano la caccia ai grilli,
i fratelli giocavano. A un tratto, con-
tando sulle dita, Giuseppe gridò che
mancava un tacchino.
Cercarono affannati. Niente. Un
tacchino è un affare grosso, non può
sparire così. Girando attorno a una
siepe, Giovanni vide un uomo. Pensò
di colpo: «L’ha rubato lui». Chiamò
Giuseppe e si avvicinò risoluto: «Re-
stituiteci il tacchino». Il forestiero li
guardava meravigliato: «Un tacchino?
E chi l’ha visto?» «L’avete rubato voi.
Tiratelo fuori. Altrimenti grideremo
«al ladro» e vi prenderanno a basto-
nate».
Due bambini si possono far correre
con quattro sculaccioni. Ma la riso-
lutezza di quei due lo mise a disagio.
C’erano contadini che lavoravano
poco lontano, se sentivano urlare, po-
teva capitare di tutto. Rassegnato tirò
fuori un sacco dalla siepe e ne fece
uscire un tacchino mezzo tramortito.
«Volevo soltanto farvi uno scherzo»
biascicò. «Non è uno scherzo da ga-
lantuomo» rimbeccarono i piccoli.
Alla sera, come sempre, rendicon-
to alla madre. «Avete corso un bel
rischio». «E perché?».
«Prima di tutto non eravate sicuri
che fosse lui». «Ma non c’era nessun
altro lì vicino».
«Questo non basta per chiamare uno
ladro. E poi voi siete piccoli, e lui un
uomo. Se vi avesse fatto del male?»
«Allora dovevamo lasciarci prendere
il tacchino?»
«Avere coraggio non è male. Ma me-
glio perdere un tacchino che venire
conciati per le feste».
«Uhm» mormorò Giovannino penso-
so. «Sarà come dite voi, mamma. Ma
era un tacchino bello grosso...».
LA STORIA
Mamma Margherita, rimasta vedova a 29 anni, si trasferì con la famiglia nella
casetta dei Becchi. Con un duro lavoro e tanto sacrificio riuscì a mantenere la fa-
miglia di 5 persone. Crescendo, i bambini contribuirono secondo le loro forze.
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SETTEMBRE 2020

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Perché teniamo a te
e alla tua sicurezza
Con il termine Privacy si intende il diritto alla ri-
servatezza delle informazioni personali e della
propria vita privata, cioè uno strumento posto a sal-
vaguardia e a tutela della sfera privata del singolo in-
dividuo. La tutela di questo diritto è quindi la facoltà di
impedire che le informazioni riguardanti tale sfera siano
divulgate in assenza dell’autorizzazione dell’interessato.
In tal senso la tutela della privacy si configura come il
diritto di scegliere come possono essere utilizzati i
nostri dati in modo che non possano limitare la nostra
vita privata e il nostro modo di vivere futuro.
I tuoi dati personali come il nome e l’indirizzo di casa
sono preziosi e come tali li vogliamo trattare.
Desideriamo tu sappia che adottiamo ogni cura per
gestire correttamente i tuoi dati, nel rispetto della nor-
mativa vigente (GDPR 2016/679). I dati in nostro pos-
sesso a te riferibili sono necessari al recapito posta-
le delle nostre pubblicazioni, non vengono ceduti o
messi a disposizione di terzi e sono custoditi presso il
nostro archivio per il tempo necessario. Inoltre, potrem-
mo contattarti attraverso canali di comunicazione da te
espressamente forniti, quali posta, telefono, e-mail, per
tenerti informato sulle nostre attività e sulle attività del-
le missioni che sostieni.
Potrai segnalarci aggiornamenti o variazioni, oppure
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Il BOLLETTINO SALESIANO si stampa
nel mondo in 66 edizioni, 31 lingue
diverse e raggiunge 132 Nazioni.
Direttore Responsabile: Bruno Ferrero
Segreteria: Fabiana Di Bello
Redazione:
Il Bollettino Salesiano
Via Marsala, 42 - 00185 Roma
Tel./Fax 06.65612643
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La copertina: Il verbo di questi giorni è “ripar-
tire”, con coraggio ed ottimismo (Foto di VaLiza,
Shutterstock).
Hanno collaborato a questo numero:
Agenzia Ans, Pierluigi Cameroni, Roberto
Desiderati, Emilia Di Massimo, Ángel
Fernández Artime, Claudia Gualtieri, Carmen
Laval, Cesare Lo Monaco, Rosa Aguirre Lovaton,
SETTEMBRE 2020
ANNO CXLIV
NUMERO 08
Dalmazio Maggi, Alessandra Mastrodonato,
Francesco Motto, Pino Pellegrino, Giampietro
Pettenon, O. Pori Mecoi, Kirsten Prestin, Luigi
Zonta, Fabrizio Zubani.
Diffusione e Amministrazione:
Tullio Orler (Roma)
Fondazione
DON BOSCO NEL MONDO ONLUS
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le foreste, l’ambiente e i lavoratori.
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Periodica Italiana

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IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
Don Ángel Fernández Artime
Giovani profeti
Senza paura
V i saluto con tutto il cuore, amici lettori
del Bollettino Salesiano, che don Bosco
tanto amava. Voglio condividere con voi
una bella testimonianza giovanile, con le
parole di una ragazza venezuelana.
Quando ho visitato di nuovo il Venezuela, nel
febbraio di quest’anno, ho partecipato all’Encuen-
tro Nacional con jóvenes, un incontro nazionale
con i giovani venezuelani, bello e animato. Quel
giorno, una ragazza di nome Eusibeth lesse un
messaggio che aveva scritto di suo pugno e che le
stava molto a cuore, e lo pronunciò a voce alta in
nome dei giovani venezuelani, generosi, pieni di
speranza e sofferenti per la situazione della loro
bella terra.
Diceva così:
“Carissimo don Ángel, dal profondo del cuore rin-
graziamo il Signore per la sua visita nel nostro Pae-
se e perché ha trovato il tempo per incontrare noi
giovani, che sappiamo quanto le siano cari.
Queste mie parole vogliono esprimere il sentimen-
to di ciascuno di noi che viviamo questa proposta di
Santità e che abbiamo un cuore salesiano.
Siamo tutti rappresentati. Dai ragazzi indigeni
cresciuti nella libertà della giungla amazzonica,
ai fratelli andini pieni di fraternità e gentilezza, ai
giovani della regione centrale che costruiscono con
gioia la civiltà dell’amore, ai guaros, agli orientales,
i corianos, gli zulianos, e tutti noi che abbiamo la
gioia e l’orgoglio di essere venezuelani.
È presente con noi oggi ogni giovane che ha dovuto
lasciare la sua terra, trasformando un suolo stranie-
ro in casa, scuola, parrocchia e cortile.
Siamo uniti da una missione:
«Andare in paradiso e
portare con noi più gente
che possiamo».
Se c’è qualcosa che ci caratterizza come giovani, oltre
alle nostre peculiari personalità e ai diversi modi di
pensare, è che siamo uniti da una missione: «Andare
in paradiso e portare con noi più gente che possia-
mo», come diceva il nostro amato padre don Bosco.
Per nessuno è un segreto quello che dobbiamo vi-
vere ogni giorno: una realtà in cui siamo calpestati
dagli scarponi chiodati di questo mondo che vuole
impedirci di sognare l’impossibile e di scommette-
re su grandi ideali.
La spiritualità salesiana ci ha permesso di cam-
minare nella speranza, rinnovando la nostra fede,
anche quando a volte tutto sembra incerto e irrea-
lizzabile.
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Noi giovani venezuelani siamo dei coraggiosi profeti
e nonostante la paura di essere giudicati o aggrediti,
non permetteremo che la nostra voce venga soffocata.
Siamo giovani che si svegliano ogni mattina, con
niente da mangiare, per andare a scuola o all’univer-
sità, e che perseguono con tenacia e fatica il compito
di conquistare una formazione integrale, con molti
chilometri nelle gambe, impegnati nell’educazione,
perché questo è il migliore strumento che abbiamo
per cambiare la nostra nazione e il mondo.
Siamo giovani che, pur essendo costretti a lavorare
per necessità, mettendo da parte ciò che amano e
sacrificando i loro sogni, osano essere una luce in
mezzo a un popolo così ferito e assetato di Gesù.
Siamo fragili anche noi e spaventati da questo
nostro mondo che cade a pezzi e avremmo voglia
di gettare la spugna, ma lo sguardo amorevole di
Dio e la protezione materna di Maria ci invitano
a continuare a mettere la nostra vita al servizio de-
gli altri, soprattutto dei ragazzi e delle ragazze più
poveri e indifesi. Nessuno può tornare indietro, ma
tutti possono andare avanti.
Essere giovani salesiani ci aiuta a rispondere come
discepoli fedeli e coraggiosi a tutto ciò che stiamo
vivendo. Siamo dei veri chamos, “maghi”, autentici,
audaci, santi di oggi: con jeans, scarpe e magliette,
come dice papa Francesco.
Carissimo don Ángel e tutti i membri della nostra
famiglia salesiana: la vostra presenza ci incoraggia a
fare la differenza, a continuare a lottare per un Ve-
nezuela giusto e santo, scommettendo tutto per il
bene dei giovani. Non smettete di accompagnarci
e di credere in noi. Grazie perché ci siete!»
Così termina questa affettuosa testimonianza gio-
vanile. Ascoltare Eusibeth davanti a 800 giovani in
una calda serata di Caracas mi ha fatto pensare a
come e quanto don Bosco credesse nei suoi giova-
ni, nelle loro capacità, nelle loro potenzialità, nella
bontà che è nel cuore di ogni giovane.
E quello che accadeva con don Bosco 160 anni fa,
accade ancora oggi in tutte le parti del mondo. Non
è vero che i giovani di oggi non hanno un bel cuore.
Certamente ci sono giovani che si trovano su strade
di confusione, di schiavitù, di morte già in vita... Gio-
vani che hanno davvero bisogno di essere “salvati”.
Ma ce ne sono molti altri, milioni e milioni (e i
giovani che ho incontrato con Eusibeth ne sono la
prova) che credono nella vita, nella bellezza dell’A-
more, nella bellezza della condivisione e nella pie-
nezza di significato che Dio dà loro. Sanno che
non siamo sconfitti quando perdiamo, ma quando
desistiamo.
È possibile ancora pensare e parlare così, oggi? Io
affermo che è possibile.
Continuate senza paura a fare il bene, amici miei, e
che il buon Dio vi riempia della sua pace.
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SALESIANI NEL MONDO
Kirsten Prestin - foto: Don Bosco Mission Bonn/Marco Keller
INDIA«IthariPrimessasodeniroetuuutntmo ano»
Tarik, un
bambino di
Nella scala delle caste indù, i Musahar sono in fondo,
otto anni, e i
suoi genitori
addirittura dopo i Dalit, gli “intoccabili”.
vivono in un
villaggio di
Sebbene in India il sistema delle caste sia stato
Musahar. ufficialmente abolito, i Musahar sono socialmente
esclusi e i loro figli in genere non vanno a scuola.
I Salesiani sono convinti che solo l’istruzione possa
rompere questa infame catena.
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SETTEMBRE 2020

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A Tarik , di otto anni, piace andare a scuo-
la; ha anche stretto amicizia con alcuni
bambini. I suoi amici però non possono
andare a trovarlo a casa sua.
La famiglia di Tarik appartiene alla casta dei Mu-
sahar, chiamati anche “mangiatori di topi”. Vive
insieme ai genitori e ai fratelli in una piccola ca-
panna senza elettricità e senza acqua corrente, in
un insediamento alla periferia di Ithari, una piccola
città nel nord dell’India.
«Il sistema delle caste in India è ancora molto forte.
La casta di appartenenza condiziona la vita delle
persone. I Musahar si trovano sul gradino più basso
della struttura delle caste. I loro figli in genere non
vanno a scuola», ha detto don Melchior Tirkey, di-
rettore della scuola Don Bosco di Ithari, nello stato
del Bihar, nel nord del Paese. E se i ragazzi o le
ragazze frequentassero la scuola statale, sarebbero
insultati ed emarginati. Questo accade sebbene dal
1950 nessun Indiano possa essere discriminato a
causa della sua casta. Così è scritto nella Costitu-
zione indiana.
Anche i bambini della casta dei Musahar frequen-
tano la scuola Don Bosco.
«Convincere le famiglie a mandare i figli a scuola
richiede una grande opera di persuasione», ha af-
fermato don Melchior, . Questo è il motivo
per cui gli assistenti sociali andavano ogni giorno
nell’insediamento dei Musahar, a pochi metri di
distanza dalla struttura scolastica. Oggi due ra-
gazzi della comunità dei Musahar frequentano la
scuola Don Bosco.
Uno di loro è Tarik. I suoi quattro fratelli maggiori
non hanno mai frequentato la scuola. «Siamo mol-
to poveri e quindi non possiamo mandare tutti i
nostri figli a scuola», ha detto Deepak Kumar, di
quarantacinque anni, lavoratore a giornata. Ci sono
giorni in cui la famiglia deve andare a letto senza
mangiare.
«Pensiamo sia importante che almeno il nostro fi-
glio minore vada a scuola. E speriamo che in se-
guito trovi un buon lavoro e possa aiutare tutta la
I bambini non possono andare a scuola
perché sono sprovvisti di tutto.
Non hanno abiti, libri, penne
Sonia Meeza Devi, assistente sociale
famiglia. Vogliamo solo vivere come altre persone:
avere un lavoro, una casa e denaro».
Mancanza di sostegno da parte
dello Stato
«I bambini non possono andare a scuola perché sono
sprovvisti di tutto. Non hanno abiti, libri, penne»,
ha spiegato l’assistente sociale Sonia Meeza Devi,
che ogni giorno visita la comunità del villaggio di
Musahar a Ithari.
A volte vengono impartite lezioni scolastiche ai
bambini sulla piazza del villaggio.
La famiglia di Tarik vive in una piccola capanna
senza finestre. Tutti dormono sul pavimento.
Una zanzariera molto piccola è la protezione di cui
dispongono contro le pericolose punture di zanzare
in estate. L’unico lusso della famiglia è una pentola
per cuocere il riso. Non hanno mobili.
Nell’insediamento non ci sono servizi igienici e as-
sistenza medica.
I Musahar si nutrono di rifiuti e avanzi vegetali.
«Quando il grano viene raccolto, queste famiglie di
L’assistente
sociale Sonia
Devi ogni
giorno va
a visitare i
Musahar e
impartisce
anche lezioni
ai bambini
sulla piazza
del villaggio.
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SALESIANI NEL MONDO
Kunti Devi
(a destra) non
si lascia più
intimidire
a causa
della sua
appartenenza
ai Musahar.
Don Melchior
Tirkey con
gli studenti
della scuola
Don Bosco
e alcuni
benefattori.
solito prendono i residui del cereale che rimango-
no sul campo. Non possiedono terra e non posso-
no coltivare nulla. Alcune famiglie devono anche
mangiare topi, perché non hanno nient’altro», ha
confermato don Melchior.
A causa delle precarie condizioni in cui vivono,
molti di loro non superano l’età di 45-50 anni.
Soffrono di malnutrizione e non hanno accesso a
cure mediche. I Musahar non hanno terra o altre
proprietà; sono poverissimi. Gli uomini lavorano
principalmente come operai a giornata o brac-
cianti agricoli. Vivono in insediamenti alla perife-
ria dei villaggi, senza elettricità, senza acqua e in
condizioni disumane. Sono quasi tutti analfabeti.
Neppure i programmi di sostegno organizzati dal
governo sono riusciti a far cambiare la situazione.
Il sistema tradizionale delle caste rafforza ulterior-
mente queste ingiustizie sociali. L’unico modo per
interrompere questo circolo vizioso è l’educazione;
don Melchior ne è convinto. È dunque importante
che almeno Tarik possa andare a scuola. I bambi-
ni ricevono dal centro Don Bosco libri, quaderni,
penne e il pranzo.
In un insediamento di Musahar a Dhansoi, vicino
a Buxar, la Famiglia di Don Bosco lavora in stretta
collaborazione con le Suore Missionarie del Cuore
Immacolato di Maria (Immaculate Heart of Mary
- ).
Le suore tengono lezioni scolastiche ai bambini
nella piazza del villaggio. L’obiettivo è preparare
gli allievi a frequentare la scuola regolare. I bam-
bini studiano con entusiasmo, ma, quando arriva il
momento di passare alle scuole statali, molti di loro
preferiscono rimanere a casa. Là ricevono insulti,
sputi e sono emarginati.
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Recarsi negli uffici competenti -
Rivendicare i diritti
«Il problema principale è che le famiglie non hanno
entrate. Non ricevono alcun sostegno finanziario»,
ha precisato Kunti Devi, che ricopre un ruolo di
responsabilità nell’insediamento. Da tre anni que-
sta signora cinquantenne, sicura di sé, si interessa
della situazione di queste famiglie, che vivono in
una zona umida, circondata da fango. Kunti Devi
non sa leggere e scrivere, ma si reca nei vari uffici
e rivendica i diritti delle famiglie che vivono nel
suo insediamento. Qui riceve un aiuto significativo
dagli assistenti sociali e dalle suore del centro Don
Bosco. Questo le dà coraggio. Ha anche partecipa-
to a corsi di formazione. Le condizioni di vita delle
famiglie dovrebbero migliorare e le loro necessità
di base dovrebbero essere soddisfatte: riguardano
generi alimentari, cure mediche, acqua pulita e
l’accesso all’istruzione. Kunti Devi si assume que-
sto incarico ogni giorno. Non le importa più nulla
della discriminazione quotidiana di chi la definisce
“mangiatrice di topi”. «Ora so che prima di tutto
sono un essere umano. Non importa come mi chia-
mino gli altri».
INFORMAZIONI
I Salesiani di Don Bosco sono in India dal 1906
Il loro lavoro è iniziato nella città di Chennai, nel sud dell’India.
Oggi più di 2500 Salesiani lavorano in oltre 200 località indiane.
La scuola Don Bosco di Ithari è frequentata da 400 tra ragazzi e
ragazze.
Senza lavoro, senza denaro, senza generi
alimentari
Il coronavirus in India ha effetti devastanti, specialmente per i po-
veri.
Circa 300 milioni di Indiani vivono al di sotto della soglia di pover-
tà e riescono a sopravvivere con lavori saltuari. Questa è anche la
situazione del padre di Tarik, che lavora a giornata. A seguito del
lockdown imposto dal governo indiano per arginare il contagio da
coronavirus, non può trovare alcun lavoro e la famiglia rischia di
morire di fame.
Un aiuto da Don Bosco
I Salesiani di Don Bosco hanno cominciato a distribuire pacchi di
aiuto e mascherine protettive alle famiglie povere in tutta l’India.
Questo sostegno è indirizzato principalmente ai bisognosi delle
rispettive comunità.
L’esclusione dei Musahar si manifesta anche a livello geografico:
vivono nelle periferie delle città.
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TEMPO DELLO SPIRITO
Carmen Laval
La magia dell’ordine
Nella sua profonda saggezza,
il libro di Qoelet afferma:
«C’è un tempo per conservare
e un tempo per buttare via».
Ordinare significa mettere
al posto giusto ciò che vale
veramente.
Fare ordine nella vita è essenziale. Il disordine
delle nostre vite è anche un riflesso delle no-
stre menti sopraffatte dalla confusione. I no-
stri armadi sono stracolmi, la nostra agenda
contempla normalmente 32 ore al giorno, abbiamo
758 amici su Facebook (721 dei quali non sappia-
mo più chi siano), la nostra mente è in uno stato di
confusione, il nostro cuore trabocca di emozioni.
Fermi! Mettiamo in ordine, smistiamo, riordinia-
mo, puliamo, strizziamo anche il vuoto: è urgente
riconquistare il tempo e lo spazio per distinguere
ciò che conta da un ciarpame di cose inutili e ve-
dere chiaramente. I tempi sono particolarmente
maturi per questo: il bestseller di Marie Kondo, La
Magia del riordino, ha venduto tre milioni di copie
in pochi mesi e ha avuto decine di imitatori.
Gli strizzacervelli sono d’accordo: anche loro cre-
dono alle virtù terapeutiche del riordino. Mettere
le cose in ordine prima di tutto dà luogo a una be-
nefica introspezione che fa emergere l’essenziale: i
nostri valori, i nostri bisogni, i nostri desideri. E
poi si tratta di assumersi la responsabilità, di usci-
re dalla propria condizione passiva riacquistando il
controllo degli oggetti, delle relazioni e del tempo.
Insomma, semplificare la propria esistenza, qua-
lunque sia il campo scelto, significa liberare spazio
per sistemare al posto giusto ciò che conta davvero.
Cominciamo da cinque settori importanti.
Ordina i tuoi armadi
L’ordine esterno consente di ordinare i nostri spazi
interni. L’idea rivoluzionaria è di Marie Kondo: «Si
tratta di tenere solo ciò che ci dà gioia». Come fare?
«Svuota i tuoi armadi e scaffali, poi tocca ogni og-
getto, aspetta di sentire (o meno) una piccola scin-
tilla, un brivido interiore, e decidi di tenerlo o di
sbarazzartene, dopo averlo ringraziato per l’utile
servizio che ti ha reso. Procedete per categorie:
1. Vestiti e accessori, gioielli, scarpe. Conservate
solo quelli che vi piacciono e riuniteli in un solo po-
sto. Organizzateli (maglioni con maglioni) e ripie-
gateli uno accanto all’altro, in
verticale, in un cassetto, in
modo da avere facile ac-
cesso a ciascuno di essi.
2.I libri. Conservate solo
quelli che vi sono utili e
regalate gli altri, com-
presi quelli che non
avete ancora letto (se
non li avete aperti, ci deve essere un
motivo).
3.I documenti. Buttate via tutto ciò che
non è più utile.
4.Articoli vari. Biancheria per la casa,
utensili da cucina, prodotti di bellezza:
scartate ciò che è obsoleto, rotto, ciò
che non si usa mai, ciò che si ha in
duplicato...
5. Oggetti sentimentali. Foto,
lettere, souvenir... Quando
scegliete di tenerli, cercate
di metterli in evidenza:
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fate un bell’album fotografico invece di lasciar le
fotografie invisibili in un cassetto.
6.Il computer ha un bellissimo nome in spagnolo:
ordenador. Ripulite il vostro computer e anche il vo-
stro telefonino.
7. Tieni ciò che è “bello”: quelle cose di cui valga la
pena prendersi cura.
Metti in ordine il tuo tempo
La nostra lista di cose da fare si allunga, lo stress
aumenta. Siamo così sopraffatti che non sappiamo
nemmeno da dove cominciare. Possiamo adottare
la “matrice di Eisenhower”, che prende il nome
dal trentaquattresimo presidente degli Stati Uniti.
Identificate quattro tipi di compiti.
1. Importante e urgente: dovete occuparvene im-
mediatamente, senza aspettare e senza delegare.
2. Importante ma non urgente: programmatelo rea-
listicamente nella vostra agenda.
3. Urgente ma non importante: pensate a delegare;
chiedete al vostro coniuge, a un collega, a uno dei
vostri figli di farlo per
voi; imparate a dire
“no” o “non subito”.
4. Non è né urgente
né importante: potete
eliminarlo dalla vo-
stra lista per ora;
potete tornarci più
tardi, oppure no.
Questo strumento è efficace per tutte le nostre
attività quotidiane. Ecco alcuni esempi. La
cosa più urgente è cambiare le pastiglie dei
freni dell’auto: andate subito in garage! È
necessario anche un esame del sangue:
prendete il telefono e fissate un appun-
tamento. In terzo luogo, è necessario
acquistare un regalo per il tiroci-
nante: vedi chi dei tuoi colleghi
può venire con te. Infine, rior-
dinate la cantina: ci penserete
domani o tra un mese.
Metti in ordine le tue emozioni
Le emozioni ci aiutano a sopravvivere, ma è im-
portante metterle al posto giusto o scatenano il
caos nella nostra vita interiore. Immaginate di
avere una cassettiera e collocate ognuna delle vo-
stre emozioni secondo l’importanza che volete
darle: paura, ansia, senso di colpa, disgusto, rab-
bia, tristezza, imbarazzo, noia, calma, confusione,
desiderio, disgusto, dolore, timidezza, vergogna,
empatia, invidia, gelosia, ammirazione, gioia, no-
stalgia, amore, tristezza, soddisfazione, desiderio
sessuale, simpatia, trionfo, ecc. Se potessimo met-
tere la paura, la rabbia e la tristezza in un cassetto
chiuderlo e buttare via la chiave, tutto andrebbe
meglio. Imparare a riconoscerle e “metterle a po-
sto” si può fare.
Metti in ordine i tuoi pensieri
Esistono dei “pensieri tossici” che ci rovinano la
vita. Secondo gli studi, il giusto equilibrio sarebbe
un rapporto di tre pensieri piacevoli o positivi per
un pensiero ritenuto negativo. Ricordate soprattut-
to che il perfido «Non ce la farò» è morto.
Una donna che stava morendo di cancro aveva deciso di
dedicare i suoi ultimi giorni a conoscere se stessa.
Scriveva: «Ho cominciato a occuparmi dei pensieri che
penso, degli oggetti che scelgo, delle cose che amo, dei li-
bri che leggo. Ho deciso che erano un mio riflesso e che
avrebbero parlato di me. Così facendo, ho conosciuto
una persona fantastica, me stessa. Ciò che di meglio ho
imparato dopo avere appreso che dovevo abbandonare
tutto, è che l’unica cosa che possedevo veramente ero io;
quello che sono. Sto morendo di cancro, ma non sono
mai stata così viva e così felice».
Metti in ordine le tue relazioni
Quanti numeri di telefono e indirizzi email pos-
sedete! Quanti sono conservati solo per abitudine
o per qualche forma di “non si sa mai”. Tenete ben
vive soprattutto le amicizie vere, le relazioni che vi
fanno del bene e quelle da richiamare ogni tanto. E
fatelo.
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SALESIANI
Rosa Aguirre Lovatón
Una giornata di
Christian Becerra Florez
Salesiano, in arte “palabritas”
«La mia parte umanitaria affianca bene la mia vita religiosa,
Perché consiste nel dare senza ricevere. Diamo ciò che
abbiamo e per me è puro amore».
Il giovane
salesiano
Christian
Becerra
con il suo
programma
di vita:
camminare
insieme,
per portare
amore tra
i piccoli e i
poveri.
«A Pasqua, i miei confratelli e io ab-
biamo deciso di non fare spese
inutili e di donare il denaro rac-
colto a una famiglia in difficoltà
economiche» mi racconta Christian. «Non è molto,
ma è utile per qualcosa». «Dove andiamo?» doman-
dai. «A Carabayllo. Si trova in cima a una collina.
Sono riuscito a mettermi in contatto con la fami-
glia grazie alla direttrice della scuola materna in
cui ho offerto una rappresentazione
come clown alcune settimane fa».
Dopo quasi un’ora di viaggio ar-
riviamo a destinazione. Per un
momento mi domando se l’auto
riesca a procedere lungo quella
strada sempre più ripida.
«Non preoccuparti. Sono venuto qui in auto il gior-
no in cui mi sono esibito come clown e conosco la
strada», dice Christian con sicurezza.
I bambini giocano, urlano, saltano, cantano e alcuni
gli si avvicinano per chiedergli chi sia. «Christian,
è bello averti qui», lo saluta una delle insegnanti
abbracciandolo. «Lui è Christian, il figlio minore
della signora Olga», dice indicando un bambino
con il volto serio, confuso. Nei suoi occhi scuri si
riflette la tristezza che sta vivendo la sua famiglia,
alla sua giovane età.
Christian ha cinque anni. Il suo fratello maggio-
re è morto due settimane fa ad appena quattordici
anni a causa di una leucemia e sua madre, la signo-
ra Olga, sta combattendo contro la stessa malattia.
Carabayllo è un distretto situato a nord di Lima
ed è il più grande dei 43 che costituiscono
la capitale del Perù. Gran
parte dei Peruviani
che sono arrivati
a Lima vive per
inseguire i propri
sogni in cima alle
colline che segnano
la strada. La famiglia di
Olga si è scontrata con una realtà
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SETTEMBRE 2020

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Dopo un breve silenzio dice: «Spero che la signora
Olga metta a frutto i soldi che le ho dato, penso
che l’amore sia l’unica cosa che ha ora da dare ai
suoi figli. L’amore è la forza più grande che esiste».
diversa e Christian sa che non sarà facile trovare le
parole giuste, quando arriverà il momento di parlare
con questa signora che lotta ogni giorno per vivere.
Si sente in lontananza il rumore di un motore che
fa fatica a continuare a salire su quel pendio. È un
mototaxi, che si ferma e fa scendere una signora
bassa, magra, con i capelli tirati indietro, che ci
guarda confusa.
Christian le si avvicina, la saluta e spiega il motivo
della sua visita in questa mattina così fredda. «Sono
qui per darle qualcosa di cui ha bisogno, per lei e
per i suoi figli. Non si offenda: è un aiuto in questo
momento difficile».
Sul viso della signora Olga compare un’espressione
ancora più confusa e sua cognata ci invita a entrare
in una piccola stanza. Christian siede vicino alla
signora Olga e le porge con calma una busta bianca,
che contiene speranza e amore.
Sulla via del ritorno, Christian e io siamo rima-
sti in silenzio per vari minuti. Lo guardo mentre
guida. Non suona il clacson; preferisce usare le luci
lampeggianti. «Quando vivevo in America Centra-
le, gli automobilisti non suonavano il clacson per
paura che il conducente dell’altra automobile tirasse
fuori una pistola e sparasse. I trafficanti di droga lo
fanno spesso» spiega.
La magia di un naso rosso
Ogni sabato, Christian indossa un naso rosso e si
avvia verso un mondo ricco di immaginazione e ri-
sate. La sua destinazione: l’Istituto Nazionale per la
Salute del Bambino, nel distretto di Breña.
«Dobbiamo avere molta energia per andare in
ospedale. Per questo siamo invitati a riposare bene
e, soprattutto, a stare bene con noi stessi. Prima
andiamo alla casa dei Clown di Emergenza, dove
incontriamo i medici clown prima di cominciare il
programma della giornata».
Uno dopo l’altro arrivano i medici clown. «Oggi
saremo solo sei», mi dice Christian. Sembra diver-
so; indossa un cappello arancione a forma di cono,
calze a strisce, pantaloni verdi, una camicia gialla
e, soprattutto, il suo camice bianco con il nome di
“Clown di Emergenza”. E naturalmente il naso a
pallina rosso vivo. Mi tornano in mente le parole
che Christian mi disse
un paio di mesi fa: «La
magia del naso è unica».
Uno dei medici chiama
il gruppo al centro della
casa e formano un cer-
chio. «Entra anche tu»,
mi dice un ragazzo alto,
molto magro, chiama-
to “Dottor Spaghetto”.
«Oggi sarai il nostro
volontario di emergen-
za», mi dice il “Dottor
Spaghetto” con un gran-
de sorriso e un grembiule rosso tra le mani. «Devi
indossarlo, altrimenti non ti lasceranno entrare con
noi», spiega una voce acuta e dolce, che arriva da
“Campanella”, un’altra dottoressa di emergenza, la
quale mi sorride.
«Palabritas»
con il suo
inconfondibile
naso rosso da
clown.
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2.4 Page 14

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SALESIANI
Christian
il giorno
della sua
professione
come
salesiano e,
sotto, con
il Rettor
Maggiore
al Capitolo
Generale.
«Abbiamo solo quindici minuti per giocare. Dob-
biamo rispettare regole che sono state stabilite per
seguire un ordine, perché potremmo continuare il
gioco senza badare al tempo».
«Sono arrivati i clown!», esclama un bambino dalla
porta dell’Ospedale. Una volta arrivati all’interno
dell’Ospedale, Christian-Palabritas (che significa
Paroline) si pone al centro di un piccolo cerchio e
inizia a giocare con i bambini. Si avvicina a un bam-
bino che ha in mano una pallina gialla molto piccola,
ma il piccolo non lo guarda. Guarda solo la pallina.
«La tua pallina è molto bella», dice “Paroline”. «So
a cosa possiamo giocare». Il bambino alza lo sguar-
do e comincia ad ascoltare accennando un sorriso.
«Stiamo partecipando a una gara di ballo e se lanci la
pallina significa che dobbiamo andare via».
Il piccolo annuisce con un cenno del capo e tutti i
clown si dispongono per iniziare lo spettacolo. La
prima a ballare è “Paroline” e si muove a ritmo di
un reggae cantato dai clown, mentre i bambini in-
torno a loro battono le mani e i loro genitori sorri-
dono, pronti a registrare con gli smartphone.
Mi tornano in mente le parole: «La magia del naso
è unica». Osservo come quell’amico che spesso si
è mostrato freddo di fronte a certe emozioni ora si
volti, segua il ritmo dei battimani, rida e continui a
ballare. Quella magia affascina gli spettatori e crea
un mondo di colori al ritmo di ogni passo ballato
da “Paroline”.
Due ore prima Christian mi spiegava che quello
scenario lo aiuta ad abbandonare i suoi timori pro-
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prio grazie alla sua originalità. Vedendolo ballare,
ho capito che le paure interiori che a un certo pun-
to sono sorte in lui erano avvolte in quelle calze
lunghe a strisce larghe e nel cappello arancione che
ora indossa. “Paroline” è questo. Un personaggio
che ha imparato a lasciar andare le sue paure, ha
compreso cosa significhi sentirsi libero e ha capito
il valore della risata attraverso l’autostima.
«Ho una missione come salesiano»
Una sera mi aveva invitato a cena nella sua comu-
nità salesiana. «Così vedrai che siamo normali», mi
disse ridendo. Prima di cena, mentre eravamo se-
duti comodamente, mi ha raccontato dell’inizio di
quella sua attività.
«È avvenuto per puro caso. Uno dei miei confratelli,
don Humberto, mi disse che aveva una borsa di
studio per un laboratorio di clown. Accettai e così
sono arrivato nella scuola». Lo guardai sorpreso;
immaginavo una storia diversa, più sentimentale,
più ricca di fantasia. Fu solo un caso, un avvenimento
non previsto, non programmato.
Nell’angolo della stanza, su una mensola c’era una
statua di don Bosco. Era stato anche lui un giovane
pieno di sogni e di speranze per salvare i giovani
dai pericoli di una società ingiusta.
«Ho una missione come salesiano; siamo portatori
dell’amore di Dio», dice Christian con voce ferma.
«Diamo ciò che abbiamo e per me è puro amore
arricchito dal gioco, in modo che per un momento
le persone dimentichino ciò che accade e si vogliano
bene, comprendendo che ridere è indice di amore,
che guardarci è un gesto amorevole».
Guardando ora la sua danza e quanto susciti il
sorriso, capisco di cosa parlasse quella sera. Non è
imbarazzato, dato che gli piace il rock e da giova-
nissimo per un po’ di tempo aveva portato i capelli
lunghi e arruffati.
Gli applausi mi distolgono dai miei ricordi e mi
rendo conto che la gara è terminata. Il bambino ha
tirato la pallina gialla e i medici clown hanno capi-
to il segnale. Vanno via, accompagnati dalle risate,
disponendosi in fila verso una nuova destinazione.
Visitiamo diversi reparti in cui i bambini, molti
dei quali sono a letto, li accolgono sorridendo e le
infermiere sanno già in cosa consisterà l’incontro.
I clown usano il linguaggio dell’immaginazione,
della fantasia, aiutano i bambini a entrare in questo
mondo. Cantano, ballano, sono in accordo. Le loro
storie sono intrecciate con il filo dell’amore.
«La gente si chiederà perché lo facciamo. La risposta
è l’amore, solo questo», mi ha detto Christian quella
sera. «Arrivare in una stanza in cui si trovano pa-
zienti affetti da e cantare motivi di buon com-
pleanno in tutti i generi musicali possibili, rock,
melodico, metal è divertente, i bambini ricevono
beneficio da questo amore e “Palabritas” lo sa».
Per concludere la giornata torniamo nella casa di
Miraflores. Ci sediamo sul pavimento ed espri-
miamo le impressioni che abbiamo provato duran-
te la visita in ospedale. All’improvviso si diffonde
una melodia dolce, tranquilla e rilassante. Il dottor
“Spaghetto” suona con una chitarra azzurra le note
musicali che diventano parte della tranquillità che
si respira.
Christian e
alcuni ragazzi
dell’oratorio.
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2.6 Page 16

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FMA
Emilia Di Massimo
«Qual è il tuo
canto preferito?»
Suor Malvina Doçi, albanese,
racconta la storia della sua
vocazione: «Non avevo mai visto
suore che correvano, insegnavano,
giocavano, ballavano, suonavano
e parlavano con amorevolezza».
Una vita tranquilla la mia, in una famiglia norma-
lissima: frequentavo la scuola, gli amici, ero im-
pegnata nella parrocchia. Ho conosciuto le suore
Angeliche di san Paolo che, dopo i miei genitori,
mi hanno educata alla fede. In seguito sono andata
al collegio Maria Ausiliatrice, a Scutari, dalle suore
salesiane, perché i miei genitori desideravano per
me una buona formazione. ‘Chi è don Bosco?’, mia
mamma mi rispose: ‘È un prete che ha amato tanto
i giovani e per questo è diventato santo’. Ero felice
di andare da queste suore che amavano tanto i ra-
gazzi ma l’idea di studiare l’inglese non mi piaceva
molto. Ho conosciuto così le Salesiane, definendo-
le strane: non avevo mai visto suore che correva-
no, insegnavano, giocavano, ballavano, suonavano
e parlavano con amorevolezza, coniugandola alla
fermezza.”
Inizia così la testimonianza di suor Malvina Doçi,
albanese, la quale ci regala la sua esperienza voca-
zionale: continuare a leggerla è scoprire il significa-
to della sua vita.
Selfie con
suor Malvina:
il ricordo di
un sorriso.
Nascere da una domanda
“I miei primissimi anni di vita li ho trascorsi sot-
to il regime comunista. Avevo solo 5 anni quando
un giorno, rientrando a casa, papà annunciò che si
erano riaperte le chiese. La prima Messa alla qua-
le ho partecipato era in latino e da quel momento
l’ho identificata con la gioia, con la bellezza, con la
meraviglia: sentimenti che ho visto negli occhi dei
miei genitori.
Non dalle Salesiane
Un giorno come tutti gli altri ho ascoltato la testi-
monianza di un seminarista; ad un certo punto si è
rivolto a noi giovani: “Il Signore ci vuole felici e per
questo ha un progetto per ciascuno di noi, dunque
dobbiamo scoprire qual è il Suo progetto”. Mi sono
detta: “È proprio vero ed io sono contenta di ciò che
sto facendo, di come sto vivendo la mia vita”. Il semi-
narista ha continuato: “Il matrimonio non è l’unica
vocazione, se stimo tanto un prete o una suora potrei
scegliere la vita religiosa, tuttavia ciò che è necessa-
rio è lasciare che Dio parli al nostro cuore”.
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SETTEMBRE 2020

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La realtà che il Signore aveva un disegno da realiz-
zare per me, che mi voleva felice, non mi lasciava in
pace. Da quel momento dovunque andavo e qual-
siasi cosa facessi risuonava nel cuore l’affermazione:
“Dio mi vuole felice e ha un progetto per me”. Avevo
paura di pregare perché temevo che il Signore mi
chiedesse di seguirlo, quindi cominciai a pregare di
meno, a cambiare abbigliamento, a truccarmi per-
ché, pensavo, così il Signore non mi avrebbe chie-
sto niente. Eppure non trovavo pace, non ero serena
ed in me sempre affiorava l’inquietante frase. Dopo
qualche tempo cominciai ad andare in cappella per
pregare da sola, non volevo che qualcuno mi vedesse,
ad andare a messa ogni giorno perché volevo proprio
capire che cosa il Signore volesse da me, qual era il
suo progetto. Sentii forte un invito: Fidati di me e
nel mio cuore presi la decisione di donarmi tutta al
Signore, però non avevo il coraggio di parlarne con
qualcuno. Qual era il posto giusto per me? Avevo
conoscenze e relazioni con tanti gruppi e congrega-
zioni ma di una cosa ero sicura e lo ripetevo sempre:
“Signore, dove tu vuoi, non però dalle Salesiane”.
Era la vigilia della festa di Madre Mazzarello e la
direttrice della casa di Scutari, suor Carolina Costa-
bile, mi chiamò nel suo ufficio, tremavo e pensavo
che volesse mandarmi via dalla scuola e dal colle-
gio perché il mio comportamento e i miei studi non
erano eccellenti, ma mi dicevo che le suore di don
Bosco amano i giovani dunque non avrebbero man-
dato via una ragazza. Sono entrata nell’ ufficio e suor
Carolina stava ascoltando un canto, mi ha invitata a
sedermi e poi mi ha chiesto: qual è il tuo canto prefe-
rito? Sono rimasta meravigliata dalla sua domanda,
dal fatto che mi parlasse e mi ponesse domande che
non avevano alcuna relazione con gli studi, con il
mio comportamento. “Malvina, ultimamente ti vedo
un po’ strana, cosa ti sta succedendo, come ti posso
aiutare?” Ho cominciato a parlare, le ho raccontato
tutto ciò che stavo vivendo e serbavo nel mio cuore.
Lei mi ha ascoltata attentamente, mi ha invitata a
partecipare al campo della Parola di Dio, all’Estate
Ragazzi. Da queste due esperienze cominciai a co-
noscere meglio il carisma salesiano e presi la decisio-
ne di entrare nell’Istituto per vivere concretamente la
vita religiosa. Durante il tempo della formazione ho
scoperto Maria Domenica Mazzarello, Cofondatri-
ce della Congregazione, come una grande donna che
ha vissuto nell’umiltà e nella gioia. Le sue lettere,
lette ed approfondite, mi hanno dato la forza ed il
coraggio di donarmi al Signore, il desiderio di essere
una Figlia di Maria Ausiliatrice che le somigli, che
viva la propria vocazione con passione!
Malvina ha scoperto il significato della sua esi-
stenza ponendosi una domanda che ancora oggi il
Signore continua a rivolgere ai giovani: “Qual è il
progetto che Dio ha per la mia vita?”.
«Sentii forte
un invito:
Fidati di me
e nel mio
cuore presi
la decisione
di donarmi
tutta al
Signore».
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2.8 Page 18

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L’INVITATO
O. Pori Mecoi
Don Mauro Mantovani
Rettore Magnifico
dell’Università
Pontificia Salesiana
A 80 anni dalla fondazione,
l’Università salesiana, attraverso
la sua sede romana, le due sezioni
di Torino e di Gerusalemme e
una rete di 35 Centri di studio
collegati in tutto il mondo, è una
grande realtà internazionale
formativa e culturale.
Puoi auto presentarti?
Sono nato a Moncalieri, in provincia di Torino,
54 anni fa. Mia mamma Germana ha lavorato con
passione nel mondo della scuola, papà Ottorino nel
settore dei veicoli industriali. Da ormai un anno e
mezzo ho una nipotina, Emanuela, figlia di mio
fratello Claudio e di Irene. Una famiglia “normale”,
direi, e unita, molto impegnata nella vita della no-
stra parrocchia.
Gli anni del Liceo per me sono stati molto preziosi,
con diverse amicizie che durano a tutt’oggi; anche
i gruppi e lo sport hanno senz’altro influenzato la
mia crescita. Salesiano dal 1986, sono stato ordina-
to sacerdote il 10 settembre 1994 nella Basilica di
Maria Ausiliatrice a Torino, dunque ormai da più
di 25 anni…
Com’è nata la tua vocazione?
Ho conosciuto i Salesiani attraverso gli studenti di
teologia della nostra sezione di Torino, la “Crocet-
ta”, che venivano il sabato e la domenica ad aiuta-
re in parrocchia per le attività dell’oratorio. La loro
dedizione a noi giovani, la capacità di empatia e di
vicinanza con il nostro mondo, accompagnate da una
profonda vita spirituale e dalla testimonianza del loro
volerci e volersi bene, per me è stata elettrizzante.
Avevo già cominciato l’Università a Torino e stavo
studiando biologia, ma pian piano ho cominciato a
pensare che anche per me poteva esserci una chia-
mata a … dedicarsi a conoscere e a servire la vita in
un modo diverso da quello prima immaginato. E
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SETTEMBRE 2020

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negli anni a seguire mi sono poi fatto accompagna-
re nel discernimento.
Una scoperta per me importante è stata il fatto che
se ci si mette a vivere veramente il Vangelo, e possi-
bilmente lo si fa insieme, la propria esistenza cam-
bia davvero, e si può diventare più felici. L’essere
cristiani non spegne la nostra umanità più autenti-
ca, ma la accende e la fa fiorire.
Che cosa significa essere Rettore
Magnifico dell’Università Pontificia
Salesiana?
Scherzando, quando mi chiamano così, rispondo
subito che lascino pure stare il “magnifico”, perché
già solo il “reggere” bene basterebbe. L’essere rettore
è un onore e insieme una responsabilità, ovviamen-
te possibile grazie al lavoro e al sostegno di tanti
collaboratori e dell’intera comunità accademica.
Quando il 3 maggio 1940 nacque a Torino il no-
stro Ateneo, esso sorgeva per venire incontro alle
necessità della crescente Congregazione salesiana
di formare il proprio personale cominciando anzi-
tutto dagli studi filosofici, teologici e di diritto ca-
nonico. Oggi, attraverso la sua sede romana, le due
sezioni di Torino e di Gerusalemme della Facoltà
di Teologia, e una rete di 35 Centri studio collegati
presenti in tutto il mondo, l’Università Pontificia
Salesiana ( ) ha assunto una fisionomia sempre
più internazionale e indirizzata ad offrire nei diver-
si contesti alla Famiglia Salesiana, alla Chiesa e alla
società una proposta formativa e culturale, fatta di
studio, di ricerca e di divulgazione, del nostro ca-
risma salesiano, consapevoli che don Bosco e il suo
“Sistema preventivo” sono un dono di Dio per tutti
e non solo per noi.
Il rettore di un’Istituzione universitaria della Santa
Sede, come la nostra, ha prima di tutto il compito
di promuovere e accompagnare la realizzazione di
questa missione secondo il Progetto Istituzionale e
Strategico e secondo gli Statuti, ultimamente rin-
novati e approvati dalla Congregazione per l’Edu-
cazione Cattolica.
Quali sono le facoltà “di punta”
dell’UPS?
Le Facoltà dell’ attualmente sono cinque: mi
è difficile indicarne alcune… senza far torto alle
altre. Senz’altro una particolare centralità e im-
portanza va riconosciuta alla Facoltà di Scienze
dell’Educazione, la più numerosa, che presenta una
ricca e variegata offerta formativa, con i curricoli di
psicologia, pedagogia per la scuola e la formazione
professionale, pedagogia sociale, pedagogia per la
formazione delle vocazioni, pedagogia per la for-
mazione della vocazione matrimoniale e familiare,
educazione e religione, catechetica. Alcuni di que-
sti percorsi di studio, recentemente rinnovati, non
si trovano in altre università pontificie romane.
Anche la Facoltà di Scienze della Comunicazione
sociale, attraverso la sua offerta formativa in “Co-
municazione sociale, Media digitali e Cultura”, e
con un indirizzo specifico in “Comunicazione pa-
storale”, promuove la competenza e la professiona-
lità nelle varie forme di comunicazione a servizio
della persona e della società, con un’attenzione
preferenziale alla dimensione educativa e al mondo
giovanile.
Per noi inoltre è indispensabile e fondamentale l’ap-
porto che viene dalle Facoltà di Teologia e di Filoso-
L’Università
Pontificia
Salesiana (UPS)
ha assunto
una fisionomia
sempre più
internazionale
e indirizzata
ad offrire nei
diversi contesti
alla Famiglia
Salesiana,
alla Chiesa e
alla società
una proposta
formativa e
culturale, fatta
di studio, di
ricerca e di
divulgazione.
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L’INVITATO
fia, proprio per la nostra identità e per la necessità di
confrontarsi con le grandi questioni antropologiche,
etiche, pastorali ed educative. La Facoltà di Teolo-
gia offre significative specializzazioni in Teologia
pastorale, Pastorale giovanile, Teologia dogmatica,
Teologia spirituale, Studi salesiani, Formazione dei
formatori e degli animatori vocazionali.
La Facoltà di Filosofia, con i percorsi di specia-
lizzazione in scienze storico-antropologiche e in
scienze umane e sociali, si sta segnalando a livello
internazionale proprio per l’attenzione al rapporto
tra antropologia ed educazione, e la Facoltà di Let-
tere Cristiane e Classiche, come Pontificium Insti-
tutum Altioris Latinitatis, svolge un servizio specia-
listico e molto prezioso in favore di tutta la Chiesa
per quanto riguarda lo studio e la didattica, anche
innovativa, delle lingue classiche.
Oggi, l’UPS è una grande realtà
a livello internazionale. Quali sono
le difficoltà che incontri?
Attualmente, se consideriamo la sede centrale di
Roma e le sezioni di Torino e Gerusalemme della
Facoltà di Teologia, gli studenti sono 1873, dei qua-
li 1066 laici e 807 religiosi, e tra essi 271 salesiani.
Dopo l’Italia i paesi con maggiore rappresentatività
di provenienza sono nell’ordine India, Nigeria, Re-
pubblica Democratica del Congo, Brasile, Croazia,
Messico, Colombia, Ucraina, Polonia, Cina, Mada-
gascar, Vietnam, Kenya, Sri Lanka… Anche il corpo
docente è spiccatamente internazionale, coadiuvato
da oltre una cinquantina di collaboratori del perso-
nale tecnico-amministrativo e bibliotecario. L’
è membro di vari organismi internazionali, come
le Federazioni internazionale ed europea delle Uni-
versità Cattoliche, e le Associazioni internazionale
ed europea delle Università. In questo anno 2020
rinnoveremo la nostra adesione alla Magna Char-
ta Universitatum, l’importante documento siglato a
Bologna, e sosteniamo il Magna Charta Observatory.
Le maggiori difficoltà che incontro, almeno a li-
vello strutturale, sono quelle tipiche delle “grandi”
istituzioni che normalmente tendono ad autocon-
servarsi con una certa refrattarietà al cambiamento
e all’innovazione, dimensioni invece fondamentali
oggi di fronte alle sfide provenienti dallo sviluppo
delle nuove tecnologie, dell’intelligenza artificiale,
dalle crisi ed emergenze ambientali, ecologiche,
educative, sanitarie. Di fronte a questo l’espressione
“… ma si è sempre fatto così!” risulta perdente.
Chi si specializza nello studio e nella ricerca tende
inoltre a coltivare un proprio spazio di autonomia e
se non formato con esperienze positive di lavoro in
équipe può rischiare di isolarsi, con la difficoltà di
Gli insegnanti
dell’UPS
sono scelti
tra i maggiori
esperti
di livello
internazionale.
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SETTEMBRE 2020

3 Pages 21-30

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3.1 Page 21

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non pensare ed agire in termini di “noi”, elemento
fondamentale per la vita e lo sviluppo di una comu-
nità accademica. Di qui l’importanza di richiamare
e favorire delle attività che siano sempre più condi-
vise e convergenti.
Un’ultima difficoltà è legata alla valorizzazione in
Italia, che ritengo ancora insufficiente nonostante
gli Accordi che sono stati siglati, dei titoli e gradi
accademici ottenuti nelle nostre università ponti-
ficie, affinché siano fruibili non solo di diritto ma
anche di fatto in prospettiva professionale.
Sei anche presidente della
Conferenza dei Rettori delle
Università Pontificie Romane.
In che stato di salute si trovano?
Papa Francesco, a fine 2017, con la Costituzione
apostolica Veritatis gaudium, ha richiesto a tutte
le istituzioni accademiche ecclesiastiche del mon-
do un rinnovamento, “sapiente e coraggioso”. E
a Roma ce ne son ben 22, tra Università, Atenei,
Facoltà e Istituti. Nella Conferenza dei Rettori ab-
biamo un clima di reciproca stima e collaborazio-
ne, insieme con la consapevolezza che è importante
lavorare in vista di un’offerta formativa sempre più
sinergica e organizzata in modo che ciascuno possa
offrire a tutti ciò che ha di specifico e si evitino
doppioni e sovrapposizioni.
Il “fare rete” è del resto proprio uno dei quattro criteri
indicati da Veritatis gaudium, insieme con il “dialogo
a tutto campo”, la “transdisciplinarità” e, fondamen-
tale, la “centralità del kerygma”, ossia l’impegno di
trasformare in proposta culturale la “buona novella”
di Gesù Cristo e il suo evento di salvezza universale.
Pur con le nostre fatiche partecipiamo così, ed è
davvero affascinante e coinvolgente, alla trasforma-
zione missionaria di una “Chiesa in uscita” verso
cui ci indirizza il Papa.
Quali sono i tuoi progetti e i tuoi sogni?
L’emergenza del
-19 è stata e continua ad es-
sere per noi, come per tutta la società e la Chiesa,
una bella sfida. Va riconosciuto il fatto che durante
il periodo particolarmente drammatico della crisi
sanitaria non solo abbiamo imparato ad essere “più
uniti a distanza”, ma l’istituzione come tale ha fatto
uno “scatto” che mi auguro irrevocabile verso un
maggiore utilizzo delle piattaforme didattiche e di
alcune modalità di smart-working.
Anzitutto mi auguro di concludere questo anno
accademico con il giusto rilievo le celebrazioni del
nostro ottantesimo dalla fondazione.
In linea con quanto emerso dal Capitolo Gene-
rale XXVIII dei Salesiani, dato che l’attenzione
all’educazione e al mondo dei giovani è proprio la
“trasversalità” che riguarda tutte le nostre attività
di studio e di ricerca, il sogno che coltivo – e che
per questo diventa anche progetto – è che come co-
munità accademica possiamo crescere sempre più
in qualità e specializzarci nel servizio dei giovani,
“specialmente i più poveri”.
Attraverso un lavoro sempre più “a rete”, che bello
sarebbe vedere l’ diventare sempre più un cen-
tro di formazione d’eccellenza, riconosciuto a livel-
lo internazionale, sui temi e le questioni dei gio-
vani! Il nostro “Osservatorio Internazionale della
Gioventù” e varie collaborazioni in corso (come per
esempio il Dottorato in Studi Giovanili recente-
mente istituito) rappresentano dei promettenti se-
gni che non si tratta di utopie irrealizzabili.
L’UPS offre un
suo specifico
contributo,
prezioso e
irrinunciabile,
alla missione
evangelizzatrice
ed educativa
salesiana.
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3.2 Page 22

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LE CASE DI DON BOSCO
Geremia Dalla Nora - Dalmazio Maggi
Vicini di Maria
Istituto Salesiano
“Madonna di Loreto”
Una magnifica Casa per gli
Esercizi Spirituali e gli incontri
immersa in un’area di oltre due
ettari e mezzo, armonicamente
distribuita a orto, frutteto, parco e
piazzole, e intersecata da sentieri
e camminamenti solitari, carica di
sole, avvolta di verde e silenzio.
La statua
di Maria
Ausiliatrice nel
bel parco della
casa, un’area
di oltre due
ettari e mezzo,
intersecata
da sentieri e
camminamenti
solitari, carica
di sole, avvolta
di verde e
silenzio.
Don Bosco, che venerava intensamente la
Madonna, capitò al Santuario di Loreto
per una circostanza fortuita e fortunata.
Nel giugno del 1877 partecipava a Roma
ai festeggiamenti organizzati per il Giubileo Epi-
scopale di Pio IX. Là era arrivato per lo stesso
motivo l’Arcivescovo di Buenos Aires, monsignor
Leone Aneyros, che due anni prima, nel 1875, ave-
va aiutato don Bosco a impiantare la prima casa sa-
lesiana fuori del continente europeo e a dare inizio
alle Missioni.
Don Bosco gli era molto grato e lo invitò a Torino.
Per vari impegni avevano programmato di passare
per Ancona, dove era arcivescovo il cardinale An-
tonio Antonucci, che don Bosco aveva conosciuto
qualche decennio prima a Torino come Nunzio
Apostolico, presso la Corte Sabauda, e con il quale
si era mantenuto sempre in ottimi rapporti. Per in-
teressamento del Cardinale, il giorno dopo del loro
arrivo ad Ancona, il 23 giugno 1877, la comitiva
andò in pellegrinaggio alla S. Casa, andata e ritor-
no in giornata.
Primo periodo (1891-1924)
collegio della madonna
L’iniziativa risale a un cooperatore molto benemeri-
to, don Giuseppe Ridolfi, allora canonico e parroco
della S. Casa. L’anno successivo alla morte di don
Bosco, preoccupato dell’educazione cristiana dei ra-
gazzi loretani che finivano le elementari, chiede aiu-
to alla “Pia Società Salesiana”, e domanda l’apertura
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SETTEMBRE 2020

3.3 Page 23

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di un ginnasio e avanza proposte concrete di locali.
Nell’agosto successivo, confida a don Rua, che avrà
sempre a cuore l’opera di Loreto, che “la Madonna
vuole all’ombra sua i figli di don Bosco”.
Il “Collegio della Madonna” fu aperto il 2 ottobre
1891 e iniziò con la quinta elementare e la prima
ginnasio, con il proposito di completare le cinque
classi di questo entro il quinquennio, come avvenne.
Vivacissimo, partì l’oratorio. Per merito soprattutto
di don Enrico Luciani, che lo diresse per vent’anni,
dal 1904 alla chiusura, 1924.
Don Luciani si dimostrò all’altezza del compito,
secondo lo stile di don Bosco: principi chiari, pri-
mato di stima e azione all’istruzione catechistica e
alla formazione cristiana, risorsa di iniziative, capa-
cità organizzativa.
Con i suoi giovani, 170 frequentanti su 270 iscritti,
vinse gare di cultura religiosa in città, in regione, in
Italia; e mieté allori nelle attività ricreative (canto,
ginnastica, recitazione, sport), ottenendo l’ammi-
razione di Loreto anche sotto questo profilo. Per
questo il Comune, al suo ritorno in città nella nuo-
va opera salesiana, dopo 25 anni di assenza, nel
1953, l’insignì della cittadinanza onoraria.
È bene ricordare due exallievi di risonanza diver-
sissima. Uno s’impone con il solo nome: Ferdinan-
do Palazzi, il notissimo autore del “Dizionario della
Lingua Italiana”. Egli si gloriò sempre dell’amicizia
con il suo maestro don Enrico Luciani.
Il secondo exallievo, nei primi anni del 900, godet-
te di rinomanza di santo. Si chiama Loreto Starace,
nome che ricevette dai genitori a seguito di un voto.
Nacque a Napoli e morì sul fronte di guerra, nel
goriziano, agli inizi del primo conflitto mondiale.
Frequentò il ginnasio qui, dagli 11 ai 16 anni, dopo
esser stato convittore all’Istituto Salesiano Sacro
Cuore di Roma per un anno e per tre a quello di
Trevi. Nutrì sempre grande riconoscenza e fiducia
verso i suoi educatori, nelle molteplici vicende della
sua vita, che, tra l’altro, l’immersero per sette anni
in svariate e avventurose iniziative ed esperienze in
Nord America.
Il “Cristo
delle vette”,
con la “Via
Lucis” un
modo nuovo
e originale
di esprimere
la gioia
pasquale.
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3.4 Page 24

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LE CASE DI DON BOSCO
Una
celebrazione
eucaristica
durante
gli Esercizi
Spirituali.
Dai documenti la sua figura emerge esemplare,
meritevole della avviata introduzione della causa
di beatificazione. Il suo corpo riposa attualmente
nel Santuario del Sacro Cuore in Scanzano di Ca-
stellammare di Stabia accanto a quello della beata
Maria Maddalena della Passione.
Secondo periodo (1949-1965)
il collegio illirico
L’opera fu aperta nel 1949, 25 anni dopo la chiusura
della prima, e fu aperta su invito, come la prece-
dente. Qui, da intermediario ha operato monsignor
Gaetano Malchiodi, Vicario dell’Amministrazione
della S. Casa.
Nel 1949 l’ampio edificio del Collegio Illirico che
aveva avuto una grande storia, era vuoto, monsignor
Malchiodi propose all’ispettore salesiano della Ispet-
toria Adriatica di gestirlo per un’opera giovanile. Egli,
con la cittadinanza, pensava a una Scuola Professio-
nale. Questo indirizzo venne scartato dal sig. Ispet-
tore, che lo dimostrò inattuabile in una “cittadina”
come Loreto. Ci si accordò per un centro giovanile,
però con scuola aperta anche agli esterni. Le pratiche
si svolsero rapidamente; il 23 maggio 1949 fu firma-
ta la convenzione. In giugno presero fervido avvio i
lavori di sistemazione: si provvidero banchi, cattedre,
tavoli, letti; e si allestirono aule, camere, refettorio.
In agosto primo corso di Esercizi Spirituali. In ot-
tobre inizio ufficiale, con 18 salesiani e 130 allievi,
distribuiti nelle 3 classi della media e 2 classi del
ginnasio.
Inizio “alla grande”, pieno di speranza, travolgente
si direbbe. Consolò assai monsignor Malchiodi e
i Superiori salesiani; anche perché l’orientamento
degli alunni alla vita sacerdotale (e salesiana) prose-
guiva lo scopo tradizionale, seminaristico, dell’Il-
lirico, e sintonizzava con le finalità del Santuario.
Quanto però destò risonanza in città fu, anche sta-
volta, l’oratorio. È tradizione salesiana aprirlo, se
possibile, ovunque s’impianti un’opera, per immer-
gere la comunità nell’ambiente e orientarne l’azione
verso la gioventù del luogo.
A Loreto esso fu aperto appena un paio di mesi
dopo l’internato, l’11 dicembre 1949; e l’interessa-
mento suscitato nelle famiglie fu subito entusiasti-
co: proprio come era avvenuto nella prima esperien-
za con don Luciani, quantunque con quel lontano
periodo il nuovo non contrasse legami d’ambiente o
tradizione: germinò autonomo. E crebbe rigoglioso
non solo per le simpatie della gente, ma anche per
la preparazione, l’intraprendenza, l’instancabilità
del giovane personale salesiano, e per il generoso e
valido sostegno del Vicario dell’Amministrazione
Pontificia, monsignor Gaetano Malchiodi, che per
questo e per l’abituale partecipazione agli avveni-
menti oratoriani divenne uno di casa.
Monsignor Malchiodi, il 10 novembre 1959, infor-
mò la comunità salesiana, che la S. Sede intendeva
rientrare nell’uso dell’Illirico per farne un decoroso
ambiente di accoglienza per i malati. Ne era stata
richiesta dall’
, l’organizzazione italiana
che provvede al trasporto degli infermi nei santua-
ri: a Loreto non dovevano più essere alloggiati alla
meglio nei porticati e nei seminterrati del Palazzo
Apostolico. E così fu segnata la sorte dell’Illirico,
nell’ottobre 1965.
I salesiani non rimasero a guardare: decisi a non
lasciare la Città della Madonna, si prodigarono in
una ricerca attenta. E furono fortunati: trovarono
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3.5 Page 25

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VISITARE LA CASA DI MARIA
SANTUARIO DELL’INCARNAZIONE: La Casa di Naza-
reth venerata a Loreto ci ricorda l’annuncio della sal-
vezza e l’incarnazione del Figlio di Dio: qui il misericor-
dioso progetto divino ha trovato accoglienza nel sì di
Maria. Queste pietre consunte dal tempo testimoniano
il passaggio del Figlio di Dio sulla terra.
SANTUARIO DELLO SPIRITO SANTO che è sceso su
Maria come scenderà poi sulla chiesa per realizzare il
disegno di Dio sugli uomini trasformandoli in Cristo e
rendendoli figli di Dio.
SANTUARIO DELLA FAMIGLIA: La famiglia di Na-
zareth è modello di tutte le famiglie cristiane perché
crescano nella fede, nella preghiera e nell’amore san-
tificato dallo Spirito Santo. Qui riscopriamo il valore
dell’amore e della vita, dei rapporti umani e cristiani,
in una santità quotidiana che genera gioia anche nella
sofferenza, nel silenzio e nel lavoro.
SANTUARIO DELLA RICONCILIAZIONE: ha detto san
Giovanni Paolo II l’8-12-1987:
«Il pensiero dell’umile Casa in cui il Verbo Incarnato vis-
se per anni convince il pellegrino che davvero Dio ama
l’uomo così com’è e lo chiama, lo segue, lo illumina, lo
perdona, lo salva. E infatti a Loreto folle innumerevoli,
ogni giorno, da tutto il mondo, si accostano al sacramen-
to della confessione e dell’eucarestia e molti si conver-
tono dall’incredulità alla fede, dal peccato alla grazie».
area ed edificio assai funzionali nel giro di qualche
mese. Per cui quando lasciarono l’Illirico, erano già
in casa propria da tre anni, a Montereale.
Terzo periodo (dal 1963)
casa di esercizi spirituali
L’attuale sede salesiana, la terza della serie, non fu
offerta ma acquistata, e rispetto alle precedenti e
all’ordinaria prassi salesiana, cambiò anche orienta-
mento o tipo di apostolato: non scuola, né, purtrop-
po, oratorio, ma Casa di Esercizi Spirituali e raduni,
per giovani e adulti, uomini e donne, religiosi e laici.
L’edificio si allinea per 90 m su via Montereale
(dal 1976, per interessamento degli exallievi, via
s. Giovanni Bosco, in direzione nord-est sud-ovest).
Consta palesemente di tre costruzioni ineguali per
ampiezza e altezza.
La Casa si presenta funzionale, decorosa, familiare,
ariosa. In camere singole, provviste di servizio com-
pleto, può ospitare cinquanta persone, e altre quaran-
ta in stanze a due (qualcuna a tre) letti. È immerso in
un’area di oltre due ettari e mezzo, armonicamente
distribuita a orto, frutteto, parco e piazzole, e inter-
secata da sentieri e camminamenti solitari, carica di
sole, avvolta di verde e silenzio. È schiusa come fine-
stra su un orizzonte da “infinito leopardiano”, il cui
“ermo colle” dista solo qualche chilometro.
In un sentiero, in salita, sono poste le stazioni del-
la Via Crucis, per contemplare Gesù sofferente e
chiedere perdono con invocazioni “personali”, …
perché ti ho giudicato nei miei fratelli… perché
ho rifiutato di prendere la mia croce… perché ho
cercato l’applauso e la gloria… perché ho lasciato
i miei fratelli a soffrire da soli… perché non ti ho
riconosciuto in tanta gente che soffre…
In un altro sentiero, accanto al campo sportivo, in
zona pianeggiante si possono contemplare le sta-
zioni della Via Lucis: «Incontri con il
. Un
modo nuovo e originale di esprimere la gioia pa-
squale».
L’ingresso
della Casa,
che si
presenta
funzionale,
familiare e
ariosa.
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3.6 Page 26

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STORIE DI GIOVANI
Claudia Gualtieri
I difensori della
foresta pluviale
Sono tutti giovanissimi e
rischiano seriamente la
vita per difendere la loro
“casa”: la foresta pluviale.
Hanno ascoltato la voce
di papa Francesco:
«Sogno un’Amazzonia
che lotti per i diritti dei
più poveri, dei popoli
originari, degli ultimi,
dove la loro voce sia
ascoltata e la loro dignità
sia promossa».
L a foresta Amazzonica, nota anche come
“Polmone verde” della Terra, è una foresta
pluviale che si estende per sei milioni di chi-
lometri quadrati nel Sud America, dei quali
oltre 52 000 chilometri quadrati sono Patrimonio
dell’
. La sua straordinaria biodiversità e
la ricchezza culturale delle numerose popolazio-
ni indigene che la abitano rendono questa foresta
unica nel suo genere. Eppure, la sofferenza che
questa terra e i suoi abitanti sono costretti a so-
stenere, per via della inadeguata gestione e dell’ir-
refrenabile sfruttamento delle sue risorse, risulta
inimmaginabile. Per questo motivo, giovani atti-
visti del luogo hanno deciso di dedicare la propria
vita a difendere la propria “casa”, senza la quale
anche le nostre “case” sarebbero a rischio.
La storia di Ednei
Ednei, a soli 20 anni, appartenente alla comuni-
tà indigena Arapiun, è divenuto a capo del Con-
siglio Indigeno Tapajós-Arapiuns. Il consiglio, in
rappresentanza di 45 villaggi di ben 13 comunità
indigene differenti, si occupa di vigilare i territori
per proteggerli da enti che praticano deforestazio-
ni illegali. Per Ednei, che studia scienze del clima
presso l’università Santarém, proteggere la foresta,
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considerata sacra dalle popolazioni locali, significa
proteggere se stessi.
La storia di Drica
Insegnante in una delle zone più povere dell’Amaz-
zonia, Drica è stata la prima donna eletta rappre-
sentante dell’associazione che riunisce le comuni-
tà del territorio di Trombetas. Una delle battaglie
portate avanti da Drica, una volta ricevuta la sua
carica, è stata quella contro una miniera di bauxite,
presente sul territorio, la cui attività rischia di in-
quinare le acque utilizzate nei villaggi. La sua prio-
rità come insegnante quindi, è quella di trasmettere
ai bambini il rispetto per il territorio.
La storia di Joane
Joane, che ora ha 20 anni, fin da piccola ha avu-
to una passione per la plastica. In particolare, si
divertiva a trasformare vecchi pezzi di plastica in
giocattoli, bigiotteria e altri oggetti utili, in modo
da poterli riutilizzare. La sua missione è diventata
così quella di educare i membri della sua comunità
al riciclo della plastica e ad aumentare la consape-
volezza delle persone sui danni causati all’ambiente
dalla plastica monouso.
La storia di Tupi
Tupi è un esempio di determinazione e coraggio
femminile. Con alle spalle una storia di violenza
sessuale, fisica e psicologica da parte del suo com-
pagno, Tupi ha trovato la forza per ricostruire la sua
vita attraverso la riscoperta delle sue radici, grazie
al legame con la terra e soprattutto a suo figlio. Ora
Tupi vuole aiutare altre donne che come lei subisco-
no violenza e combattere la cultura dell’oppressione
nelle società amazzoniche.
sibile sul territorio. La strada rischia, infatti, di di-
struggere la preziosa vegetazione e i villaggi della
zona. Il sogno di Julián e degli Achuar è quello di
riuscire a garantire che il territorio non venga cor-
rotto dalla fame inarrestabile delle industrie.
La storia di Vero
Come è sacra la foresta, per Vero, sono sacre le
donne. Essere ostetrica in un ambiente come quel-
lo amazzonico non è per nulla facile, ma la salute
delle partorienti e la sicurezza delle donne indigene
per Vero sono priorità. Mentre le donne di que-
ste comunità sono infatti abituate, per tradizione,
a partorire in totale solitudine nella foresta come
prova di forza e resistenza materna, Vero offre loro
aiuto e assistenza pur rispettando la locale cultura
del parto.
La storia di Nantu
Nantu, 31 anni, vede il proprio territorio venire
giorno per giorno distrutto per via della costruzione
di strade e di giacimenti petroliferi. Se le proteste
non bastano, se opporsi non porta a una soluzione,
offrire una proposta potrebbe farlo. Nantu ha, in-
fatti, ideato un progetto di trasporto sostenibile ba-
sato sull’utilizzo di barche a funzionamento solare
in alternativa alle strade la cui costruzione avrebbe
impatti disastrosi sull’ambiente.
Una
dimostrazione
dei “Guardiani
della foresta”.
Hanno molti
nemici e la
loro vita è
minacciata.
La storia di Julián
Julián, uno dei leader della comunità ecuadoriana
Achuar, ha come obiettivo quello di fare in modo
che la costruzione di una strada, volta a favorire il
lavoro dei tagliaboschi, abbia il minor impatto pos-
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CASA MADRE
Giampietro Pettenon
Il forno di Valdocco
È affamato di spazi don Bosco,
e ogni angolo del suo oratorio
è buono per collocare camerate,
refettori, laboratori, aule…
e i forni per il pane.
Sopra:
Un’antica
fotografia
del forno di
Valdocco nei
sotterranei,
oggi
restaurati e
visitabili.
A destra:
La basilica
antica con
una sola
cupola e,
a destra,
il piccolo
camino
bianco della
panetteria.
Da quel primo ragazzo accolto da don Bo-
sco e da mamma Margherita in Casa Pi-
nardi, in una fredda sera d’inverno del
1846, Valdocco fu per tutti gli anni della
vita del Santo dei giovani – e anche negli anni suc-
cessivi – un cantiere in continua crescita, sotto la
spinta di uno stuolo di ragazzi che qui trovavano
una casa che, purtroppo, la vita gli aveva negato.
Negli anni 1865-68 don Bosco costruisce e consa-
cra al culto la grande basilica dedicata a Maria Au-
siliatrice. Come aveva già fatto qualche anno prima
con la costruzione della Chiesa di San Francesco
di Sales, anche questa volta don Bosco vuole che
il grandioso edificio della basilica abbia un piano
interrato. È affamato di spazi don Bosco, e ogni
angolo del suo oratorio è buono per collocare came-
rate, refettori, laboratori, aule…
Ai lati del presbiterio della basilica dove c’è l’altare
di Maria Ausiliatrice, ci sono due sacrestie. E sotto
quella di destra don Bosco fa’ costruire i forni per
il pane. “Questi vennero inaugurati il 19 novembre,
vigilia dei santi martiri Solutore, Avventore ed
Ottavio, venerati nella chiesa sovra-
stante, e furon messi sotto il loro pa-
trocinio” ( Vol. IX, cap. XXX,
p. 391).
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Ma, come detto, gli spazi non sono mai sufficienti.
Ed è così che appena due anni dopo, nel 1870 don
Bosco amplia le sagrestie con altre due sale attigue
alle precedenti al piano terra e dietro al presbiterio
fa costruire un bel coro di forma ellittica. Ovvia-
mente al primo piano sopra le due nuove sacrestie
ci colloca delle camere. Di camere negli spazi na-
scosti fra un altare e l’altro e nei piani ammezza-
ti della basilica ce n’erano davvero tante, e ancora
oggi alcune sono visibili e visitabili salendo le scale
a chiocciola dentro i campanili, che portano alla
grande cupola centrale. Nel piano interrato sotto le
due nuove sagrestie e il coro amplia il laboratorio di
panificazione di Valdocco: “Enorme era la quantità
giornaliera, da seicento a settecento chilogrammi.
Da trentanove anni dura costante tale meravigliosa
produzione, ora agevolata dal forno a vapore e dalla
madia meccanica. Per qualche tempo si aggiunse
anche una macchina per fabbricare le paste” (
Vol. IX, cap. XXX, p. 392).
Il “cripto portico”
Per facilitare il passaggio al coperto nei giorni
di pioggia, dalla Basilica ai locali dell’oratorio e
a fianco della Chiesa di San Francesco di Sales,
viene costruito anche un portico a nord delle nuo-
ve sagrestie e in coincidenza nel piano interrato
anche un “cripto portico”, cioè un portico sotter-
raneo per facilitare il passaggio del pane dalla
zona dei forni alla cucina e ai re-
fettori che in casa Pinardi erano
almeno in tre diversi locali. I
ragazzi mangiavano nel vasto
refettorio ricavato sotto la chiesa di San Francesco
di Sales. I novizi e i coadiutori che facevano i ser-
vizi di cucina (le suore in quegli anni ancora non
c’erano a Valdocco) pranzano in una sala adiacente
la cucina. Questi locali erano nel piano interrato
di Casa Pinardi, sotto il porticato della buonanot-
te. Infine il refettorio dei superiori in cui pranzava
lo stesso don Bosco era nel locale ove in origine
c’era la tettoia della prima Cappella Pinardi. Quel
refettorio nel 1927 in occasione della beatificazio-
ne di don Bosco ridivenne una chiesetta, l’attuale
Cappella Pinardi.
Il pane a Valdocco si continuò a fare fino a metà
degli anni ’30 del Novecento, quando per ampliare
la Basilica di Maria Ausiliatrice vennero demolite
le sacrestie, i locali del piano interrato dove c’erano
i forni, il primo altare di Maria Ausiliatrice ed il
coro retrostante e costruite le attuali nuove grandi
cappelle laterali al grande presbiterio, con la canto-
ria e il matroneo al primo piano e al centro la nuova
cupola dell’Eucaristia.
Gli allievi
dell’attuale
scuola
Cnos per la
lavorazione
e produzione
di pasticceria
e prodotti
da forno
continuano
la tradizione
del pane di
Valdocco.
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3.10 Page 30

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I NOSTRI EROI
Pierluigi Cameroni
Un povero prete ricco di compassione
Il servo di Dio Silvio Galli
Don Silvio è stato un profeta che
ha incarnato con la sua vita la
spiritualità della misericordia e
la scelta degli ultimi tra gli ultimi
– gli emarginati dalla società – e
ha aperto il suo cuore ricco di
compassione a tutte le povertà
spirituali del nostro tempo.
Il sorriso
accogliente
di don
Silvio al San
Bernardino
di Chiari.
Era sempre
pronto alla
“corsa dei
disperati”.
Don Silvio Galli nasce il 10 settembre 1927
a Palazzolo Milanese (Milano) da Giu-
seppe e Carcano Luigia, primo di otto
fratelli. Battezzato il 12 settembre 1927,
viene cresimato il 3 ottobre 1938 dal Beato Card.
Alfredo Ildefonso Schuster. Finite lodevolmente
le elementari, frequenta il ginnasio presso l’Istitu-
to salesiano S. Ambrogio di Milano. Terminato il
noviziato a Montodine (Cremona), emette la prima
professione come salesiano l’11 settembre 1943 e
quella perpetua nel 1949. Dopo gli studi filosofici
a Nave (Brescia), il tirocinio a Varese e gli studi di
teologia, viene ordinato sacerdote il 1° luglio 1953.
Durante il tirocinio pratico a Varese, don Silvio
stringe una profonda amicizia spirituale con Do-
menichino Zamberletti, un ragazzino poi morto in
concetto di santità. Destinato alla casa di Bologna,
consegue la laurea in Lettere e dal 1959 fino al
termine della vita sarà al San Bernardino di Chiari
(Brescia), dedicandosi nei primi anni all’insegna-
mento degli aspiranti alla vita salesiana e poi con il
passare degli anni sempre più al servizio generoso
ai poveri, agli immigrati, ai carcerati, a chi ha fame,
a chi non ha casa, ai tossicodipendenti, agli alcoli-
sti, ai malati di mente, a variegate forme di povertà
materiale, spirituale e morale.
La corsa dei disperati
Alla fine degli anni ’60 e con l’inizio dei difficili
anni ’70, segnati da grandi cambiamenti in campo
sociale, politico, culturale ed ecclesiale, don Silvio
– seguendo le ispirazioni che vengono dall’alto e at-
tento alle situazioni concrete della gente – comincia
infatti a dirigere la propria attenzione e a dedicare
il proprio tempo e la sua stessa vita alle persone se-
gnate da necessità e povertà di diversa natura. Ogni
giorno la fila dei poveri aumenta, si diffonde e in-
fittisce a macchia d’olio la conoscenza di quel luogo
di soccorso, mentre si accresce il numero di quanti
presso don Galli trovano ascolto e aiuto. I poveri
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4 Pages 31-40

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4.1 Page 31

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non vengono solo da Chiari e dai paesi vicini: ma
anche da Brescia. Passa di voce in voce la notizia
che a San Bernardino c’è un posto di nuova ospi-
talità per il povero. Non è solo fame di pane, ma
di ascolto, di comprensione e di aiuto per tornare a
sentirsi uomini: non emarginati, ma amati.
L’accoglienza trova le vie misteriose del cuore. «I
poveri ce li manda la Madonna», dice don Silvio ai
primi collaboratori e volontari, perciò l’accoglienza
è sempre attenta e premurosa. Per lui tutti sono
fratelli e sorelle, mandati da Maria. E il suo tempo
è per tutti e ciascuno. Talvolta don Silvio va incon-
tro all’ospite; quando sono molti, si aspetta invece
il proprio turno fuori dallo studio, un piccolo uffi-
cio che nel tempo diventerà “Betania” che ospita e
accoglie, casa che consola e ridà speranza, casa di
preghiera e di misericordia. Non tutti si aprono al
dialogo, ci vuol tempo e pazienza per abbattere il
muro della diffidenza.
Così un confratello ricorda quei tempi eroici: «Don
Galli mi diceva sempre: “Stai attento alla corsa dei
disperati”. Quasi tutte le mattine, anche negli anni
’60 e ’70, non c’erano ancora extracomunitari, però
c’era quasi sempre un numero molto variabile di
disperati: zingari, abbandonati, gente povera che
magari aveva dormito in stazione, allora la stazione
era aperta, nel locale di attesa. Don Galli mi dice-
va: “Apri in fretta perché c’è la corsa dei disperati”.
E questi disperati correvano verso un angolo del
nostro cortile, dove attualmente c’è l’ufficio del cu-
rato della Chiesa. C’erano un vecchio divano, due
poltrone e qualche sedia, un fornello. Don Galli
era lì a preparare il tè, magari del latte caldo, dei
panini con bresaola o prosciutto. Ma la corsa dei
disperati non era tanto per il mangiare qualcosa: ce
ne era per tutti, ma perché i primi che arrivavano
si sdraiavano sulle due poltrone o sulla specie di
divano che c’era. Più che fame e sete avevano bi-
sogno di sonno, di riposarsi un momento. Non è
che potessero dormire lì, però potevano riposarsi
un momento. Ed erano veramente stanchi: “Apri
perché c’è la corsa dei disperati”. Quante volte, spe-
cialmente negli anni ’70, ci trovavamo insieme a far
colazione al mattino. Metteva in tasca un’arancia,
dei panini, dei cioccolatini, alcune marmellatine.
“Beh! Cosa vuoi… è per i poveri! Ne hanno vera-
mente bisogno”».
Nell’accoglienza di numerosissime persone esercita
il ministero dell’ascolto, della consolazione, della
riconciliazione e dell’esorcismo. Con il passare del
tempo sono sempre più numerose le persone che
da tutta Italia fanno la fila per avere un colloquio
– anche di pochi minuti – con don Silvio e per rice-
verne la benedizione. Intervistato, don Silvio am-
mette: «Io non sono che un povero prete, non ho al-
tro che la veste sacerdotale che indosso. Meraviglia
anche me che tutte le persone afflitte da problemi,
a volte irrisolvibili, si rivolgano a me. Do la mia be-
nedizione anche alle loro famiglie, poi le mando via
con la convinzione che se pregheranno e lo faranno
con fede i loro problemi si risolveranno… Solo con
la preghiera, potentissima arma, con la fede nella
Madonna e in suo figlio Gesù, a volte si risolvono
questi problemi». Nel ricevere la gente non pensa
più alle proprie esigenze: è una serie ininterrotta
La sua vita
è stata
trasfigurata
dalla presenza
di Dio. Chi
assisteva
alle sue
celebrazioni
diceva di aver
respirato aria
di Paradiso.
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I NOSTRI EROI
Don Silvio
con il Rettor
Maggiore
don Viganò,
suo grande
amico.
di persone che riceve per ore senza alzarsi né bere
un goccio d’acqua, anche nei periodi più caldi; una
processione continua di un’umanità sofferente che
va alla sorgente dell’acqua viva e dissetante.
«Don Silvio era il respiro di Dio»
Don Galli incarna in forma eloquente l’amorevo-
lezza salesiana, quell’amore attento e premuroso
che crea corrispondenza. Ha scritto un testimone:
«Le nostre sofferenze diventavano sue, se le carica-
va sulle spalle e con quel peso addosso ci consolava.
Quante volte piangeva come un bambino davanti ai
nostri problemi e questo mi induceva a diradare le
visite; non sopportavo vederlo soffrire in quel modo
per me, non potevo comunque rinunciare alla sua
forza e alla pace che invadeva la mia anima al sem-
plice tocco della sua mano sulla mia testa, era bal-
samo sulle ferite. Sempre sofferente ma accogliente.
Ricordo un caldo giorno d’estate, a Chiari si soffo-
cava, e lui sprofondato nei cuscini a causa del crollo
delle vertebre, con la flebo al braccio, era lì a rice-
vere tutti, nonostante i suoi collaboratori tentassero
di dissuaderlo. Per lui erano tutti fratelli e sorelle,
nessuno era diverso, lui amava tutti indistintamen-
te e accoglieva tutti con lo stesso calore e lo stesso
amore, non mandava mai via nessuno, qualunque
fosse il suo stato di salute o la quantità di persone
che doveva vedere, ed eravamo sempre tanti. Lui
incarnava veramente l’amore di Dio per i fratelli,
era colmo di compassione, di carità, di misericordia
verso chiunque ne avesse avuto bisogno. Don Silvio
era il respiro di Dio».
Anima e cura la formazione dei Salesiani coope-
ratori, dei soci dell’ , degli exallievi e di nu-
merosi volontari che collaborano alla sua opera
caritativa. Con l’aiuto di generosi volontari e be-
nefattori fonda il Centro di accoglienza Auxilium.
Con la vita e la parola insegna a scoprire e a servire
Cristo nei poveri, testimoniando la carità del Buon
Pastore. Sempre a disposizione nell’antico chiostro
quattrocentesco di San Bernardino, è stato fino
all’ultimo assediato da un’umanità dolente in cerca
di conforto, di consiglio e di preghiera: per tutti,
senza tregua, in ogni istante della sua vita ha dona-
to la parola giusta, l’assicurazione della preghiera, la
benedizione di Maria Ausiliatrice, la consolazione
dello Spirito Santo.
Annuncia la Buona Notizia non solo a parole, ma
soprattutto con una vita trasfigurata dalla presenza
di Dio: «Alla sua sola presenza era come trovarsi
dinanzi l’incarnazione del Vangelo. Dalla sua per-
sona si sprigionava una forza benefica e salutare;
il suo volto si trasformava e si illuminava quando
esercitava il suo ministero e amministrava i sa-
cramenti, specialmente quando celebrava la Santa
Messa, che il più delle volte durava due ore e i fede-
li non si stancavano mai di ascoltare le sue omelie
e molti accorrevano da tutte le parti perché, come
si è espresso qualcuno che aveva avuto la grazia di
partecipare alle sue celebrazioni[,] diceva di aver
respirato aria di Paradiso». Don Galli è stato un
autentico seminatore di pace e il San Bernardino un
luogo di pace e di spiritualità dove si respira aria ce-
lestiale e la santa Messa celebrata da don Galli è un
vero gaudio di paradiso. Quando celebra la Messa,
il tempo non esiste. Chi va a leggere le letture, deve
fermarsi a ogni suo cenno, perché la Parola deve es-
sere spiegata, assaporata, vissuta! Le sue benedizio-
ni sono apportatrici di pace e di serenità interiore,
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SETTEMBRE 2020

4.3 Page 33

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soprattutto nei casi più disperati, in situazioni che
sembrano senza via d’uscita. Impressiona per la sua
pace e la percezione di molti è di essere davanti ad
un uomo tutto di Dio e consumato da una vita vis-
suta per gli altri, dedito alla preghiera e all’ascolto
di tutti, malati e sani ma sempre disperati, dispersi.
Don Silvio in ogni situazione porta una pace che
riconcilia il clima delle famiglie, le relazioni spon-
sali tra marito e moglie segnate da distanze e inco-
municabilità, una pace che cura affetti a volte feriti.
Don Silvio è segno di una Chiesa Madre che nel
nome di Gesù e con l’aiuto di Maria sana, libera,
ricolma di vita e pace.
«Mando una cesta piena di grazie»
Conclude la sua vita terrena il 12 giugno 2012,
circondato da una diffusa fama di santità e segni
che con gli anni va crescendo tra persone di ogni
ceto sociale: essi riconoscono in lui un uomo di
Dio, un autentico devoto di Maria Ausiliatrice, un
vero figlio di don Bosco, confermando così la sua
promessa: «Appena giungo in paradiso mando una
cesta piena di grazie a tutti coloro che mi hanno
conosciuto». Un giovane ha testimoniato: «Don
Galli: una guida, un maestro, un amico, un gigante
della fede. Per tutti noi non ha lasciato impronte
sulla sabbia bensì un cammino di luce sulla strada
per l’Eternità». Don Silvio vero esempio d’amore e
di carità fraterna. Una santità costruita nel piccolo,
nelle piccole cose di tutti i giorni. Fare le piccole
cose di tutti i giorni con grande amore. La vera ca-
rità è paziente, sa adattarsi alle molteplici esigenze
e limiti di ognuno.
Presentando il volume Don Galli prete delle Beatitu-
dini, monsignor Pierantonio Tremolada, vescovo di
Brescia, ha affermato: «Don Silvio è modello di san-
tità sacerdotale e di autentica vita consacrata in un
tempo segnato da scandali, abbandoni, mondanità,
un vero mistico dello Spirito ancorato alle colonne
dell’Eucaristia e di Maria Ausiliatrice; esempio di
sacerdote “in uscita”, con l’odore delle pecore, con
una grande singolarità: se è indubbio che egli esce
a cercare chi si era perduto, a visitare gli ammalati,
a confortare i carcerati, ecc., egli è stato soprattutto
un sacerdote da cui la gente accorreva: per così dire,
non aveva bisogno di uscire perché erano gli altri
che venivano a cercarlo; profeta della sacralità della
vita, di ogni vita, soprattutto quella più debole, in-
difesa, ferita, umiliata, sfruttata, emarginata, scar-
tata; testimone e incarnazione di una viva paternità
spirituale, con la carità pastorale e apostolica di un
figlio di san Giovanni Bosco».
Uno dei
suoi tanti
compleanni
circondati
dall’affetto
degli
amici e dei
collaboratori.
Per conoscere il Servo di Dio don Silvio Galli:
G. Zanardini, Don Silvio Galli, segno e portatore dell’amore di
Dio, Velar, Bergamo 2015.
P. Cameroni, Don Silvio Galli. Prete delle Beatitudini, Elledici,
Torino 2020.
Per informazioni, segnalazione di grazie:
Centro di accoglienza Auxilium
Via Palazzolo, 1
25132 – Chiari (BS)
Centroauxilium1997@libero.it
OPPURE:
Postulazione Generale
Sede Centrale Salesiana
Via Marsala, 42
00185 – ROMA
postulatore@sdb.org
SETTEMBRE 2020
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4.4 Page 34

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COME DON BOSCO
Pino Pellegrino
EMERGENZA UOMO
Buone notizie
L’incredibile bellezza della
Creazione di Dio prende carne
ed ossa in forma visiva in mille
Il tempo si è fatto breve: o l’uomo
torna ad essere umano o i dinosauri
torneranno a trotterellare sulla Terra.
Se l’emergenza ecologica è allarmante,
l’emergenza antropologica è drammatica.
Urge fermare lo scardinamento
dell’uomo con proposte concrete
come quelle che, di mese in mese,
offriamo ai lettori.
modi, in mille varianti, tutte nobili,
tutte alte, tutte perle con un solo
In altre 23 famiglie stava avvenendo una scenetta
più o meno simile. Erano i ragazzi della Terza B
profumo: quello dell’umanità.
Dobbiamo dissotterrare tali perle
della stessa Scuola Media. Per quel giorno avevano
preso una decisione importante. Ma gli allievi della
Terza B erano 25. In effetti, solo nella venticinque-
e portarle in vetrina per dire
a voce alta che ancor oggi
sima famiglia, le cose stavano andando in un modo
diverso Brian era un concentrato di apprensione, la
mamma e il papà cercavano di incoraggiarlo. Era la
è possibile essere umani.
quindicesima volta che il ragazzo correva a guar-
darsi allo specchio.
«Mi prenderanno in giro, lo so. Pensa a Marisa che
Vogliamo dire basta alle brutte notizie! Ba-
sta con i giornali e le televisioni che ce-
lebrano le intemperanze dei giocatori di
calcio e tacciono della luce e dell’azzurro.
È vero che fa più rumore un albero che cade che
non mi sopporta o a Paolo che mi chiama “canna da
pesca” ... Non aspetteranno altro». Grossi lacrimoni
salati ricominciarono a scorrere sulle guance men-
tre cercava di sistemarsi il cappellino sportivo che
gli stava un po’ largo.
non la foresta che cresce. Noi vogliamo parlare del- Il papà lo guardò con la sua aria tranquilla: «Co-
la foresta del bene che cresce e non dell’albero che raggio, Brian. Ti ricresceranno presto. Stai reagen-
cade! Vogliamo dare visibilità al bene.
do molto bene alla cura e fra qualche mese starai
E così il nostro discorso si concretizza e diventa sti- benissimo».
molo, perché, dopo la conoscenza di tante perle la «Sì, ma guarda!». Brian indicò con aria affranta la
nostra vita riparta più bella, più libera, più tonica, sua testa che si rifletteva nello specchio, lucida e
più lieta, più alta perché più umana.
rosea. La cura contro il tumore che l’aveva colpito
Una storia…
due mesi prima gli aveva fatto cadere tutti i capelli.
La mamma lo abbracciò: «Forza, Brian. Si abitue-
«Se non me lo lasci fare non potrò andare a ranno presto, vedrai...».
scuola! Mi vergognerei troppo... È terribilmente Il ragazzo tirò su con il naso, si infilò il cappellino,
importante, mamma!». Elena scoppiò a piangere. prese lo zainetto e si avviò. Davanti alla porta della
Era la sua arma più efficace.
sua classe, il cuore gli martellava forte. Chiuse gli
«Uffa, fa’ come vuoi...» brontolò la madre, sbattendo occhi ed entrò.
il cucchiaino nel lavello. «Sembrerai un mostro. Quando riaprì gli occhi per cercare il suo banco,
Peggio per te».
vide qualcosa di strano. Tutti, ma proprio tutti, i
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SETTEMBRE 2020

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suoi compagni avevano un cappellino in testa! Si vol-
tarono verso di lui e sorridendo si tolsero il cappello
esclamando: «Bentornato, Brian!».
Erano tutti rasati a zero, anche Marisa così fiera
dei suoi riccioli, anche Paolo, anche Elena e Gian-
gi e Francesca... Tutti. Si alzarono e abbracciarono
Brian che non sapeva se piangere o ridere e mor-
morava soltanto: «Grazie...».
Dalla cattedra, sorrideva anche il professor Donati,
che non si era rasato i capelli, perché era pelato di
suo e aveva la testa come una palla da biliardo.
Nella pagina del giornale che riporta la notizia vi è
la fotografia di una madre intenta a tagliare i capelli
al figlio con i famigliari che guardano e approvano;
sullo sfondo della foto fanno bella mostra i compa-
gni di classe di Brian, tutti rigorosamente calvi.
ANGELO FOGLIA
Una mattina d’un afoso agosto un uomo di 35 anni esce per prende-
re un po’ di fresco sulle rive del Ticino, accanto a Pavia.
Improvvisamente vede un bambino che si dibatte in acqua e urla.
Il padre del figlio si tuffa e scompare subito tra i gorghi.
Allora si butta una ragazza, buona nuotatrice, però la corrente in-
ghiotte pure lei.
L’uomo non sapeva né chi fosse il bambino né il padre né la ragazza.
Sapeva solo che se qualcuno chiede aiuto, non si deve pensare, ma
si deve correre!
Si lancia nell’acqua ghiacciata, trascina a galla, verso la riva, uno
dopo l’altro, il bimbo, l’uomo e la ragazza.
Alla fine, stremato, si inabissa.
L’uomo si chiamava Angelo Foglia.
Angelo Foglia rappresenta l’angelo buono che resta nel cuore dell’uo-
mo che gli dice che se qualcuno chiede aiuto, non si deve pensare:
si deve correre!
… tante storie
Un signore sconosciuto fa scivolare cinquanta
euro nello zainetto di un disabile in un mercato
rionale di Roma dicendogli sottovoce: “Scusami,
non ti offendere!”, per poi fuggire, furtivamente,
mentre sente come un rimorso la sua salute al
top in confronto di quella malconcia del disabile.
Un immigrato rumeno restituisce alla proprie-
taria il portafoglio trovato per strada con una
consistente somma di denaro, senza accettare
ricompensa alcuna (il fatto è avvenuto a Torino
il 31 Dicembre 2010).
Gesto magnifico è quello di Giulio Bargellini di
Pieve di Cento (Bologna) che nel mese di Ot-
tobre 2006 regala 280 carrozzine ad altrettanti
disabili di Malindi, in Kenya.
Non meno ammirevole è la storia dell’architetto
di Cividale del Friuli (Udine) che va in pensione,
non appena raggiunto il minimo di servizio, non
già per darsi al suo studio preferito (la storia del-
la sua antica città), ma per consacrarsi a tempo
pieno alla moglie affetta dal morbo di Alzhei-
mer che deve essere aiutata in tutto: a mangiare,
a vestirsi, a lavarsi, a camminare…
Tutti gesti di bella umanità.
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LA LINEA D’OMBRA
Alessandra Mastrodonato
Il tesoro
dell’infanzia
I ricordi felici del passato
costituiscono un’importante
riserva energetica cui attingere
per affrontare una quotidianità
che talvolta può apparire
monotona e poco gratificante.
Avevo voglia di parlare con te,
non so nemmeno per dirti cosa:
delle porte fatte con le magliette
o di Sergio che non si sposa.
Avevo voglia di giocare con te
a chi sputa più lontano,
rompere i vetri delle fabbriche,
farci sgridare da qualcuno...
Ah, che noia essere grandi,
andare ai compleanni,
parlare di soldi e dei figli degli altri;
ah, è tardi e devo già andare!
E mi manca aspettare l'estate,
comprare le caramelle colorate,
e mi manca la strada in due in bici,
mi manco io, mi manchi tu...
E mi manca una bella canzone,
pagare qualcosa con le figurine,
e mi manca la biro tra i denti,
Iricordi dell’infanzia sono uno dei tesori più pre-
ziosi che custodiamo nel cuore, una collezione
variopinta di avventure, esperienze ed amicizie
che lasciano una traccia indelebile nella nostra
memoria personale, accompagnandoci per il resto
della vita, in una familiare combinazione di tene-
rezza e nostalgia.
È per questo che fare memoria del passato e re-
stituirgli il giusto peso nella propria biografia esi-
stenziale è altrettanto importante che protendersi
verso il futuro e rappresenta un passaggio impre-
scindibile nella compiuta costruzione dell’identità
adulta. Rammentare il passato può servire a ricor-
dare e rinnovare sensazioni ed abitudini che forse
abbiamo dimenticato o ingiustamente accantonato
per la smania di crescere e bruciare le tappe verso
le stagioni successive della vita. Offre la possibi-
lità di richiamare alla mente eventi significativi e
momenti importanti nel percorso di maturazione
personale, la cui rimozione può costituire una gra-
ve perdita dal punto di vista esistenziale ed affet-
tivo. Permette di riscoprire e risignificare valori
e relazioni che credevamo perduti e che, invece,
continuano ad abitare silenziosi nella nostra anima
e necessitano soltanto di essere riportati alla luce.
Aiuta ad attribuire all’esperienza il ruolo di bussola
che orienta il cammino e la funzione di mappa che
consente di identificare le difficoltà con cui misu-
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SETTEMBRE 2020

4.7 Page 37

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rarsi e le risorse su cui fare affidamento man mano
che avanziamo sulla strada verso l’adultità.
Da questo punto di vista, anche il sentimento della
nostalgia, se rifugge dal rischio di trasformarsi in
rimpianto, può rivelarsi un prezioso alleato, nella
misura in cui offre la possibilità di ravvivare la di-
mensione del ricordo e fa sì che il processo di cre-
scita non comporti la rinuncia irrevocabile a rima-
nere fanciulli. Se è vero, infatti, che nell’infanzia di
ciascuno di noi ci sono punti morti e derive di cui è
bene liberarsi per non rimanere intrappolati in uno
sterile infantilismo, a quella fase della nostra vita
appartiene anche un’affettività densa e condivisa
che è importante ravvivare per riscoprire il gusto di
un’esistenza semplice e autentica, fatta di relazioni
trasparenti e giochi spensierati, di una sconfinata
curiosità verso il mondo circostante e una fiducia
incondizionata nei confronti del futuro.
In tal senso, guardare all’indietro per rievocare gli
anni sereni dell’infanzia può significare ritornare
alle radici della propria storia e rinverdire il senso
di appartenenza al proprio contesto di vita, recu-
perare la leggerezza di un’esistenza vissuta come
mi manco io, mi manchi tu,
ti manco io e ti manchi tu...
Avevo voglia di parlare con te:
te lo ricordi il tuo primo pallone,
finiva sotto le macchine,
però col vento sapeva volare.
Lo sai che voglia di giocare che ho,
anche di piangere e soffiarmi il naso,
poi sprofondare nell'erba più alta,
tornare a casa sporco di prato...
Ah, e invece siamo già grandi,
con il dovere di dare risposte,
firmare e non lanciare sassi;
ah, ti voglio ancora bene!
E mi manca aspettare l'estate,
comprare le caramelle colorate,
e mi manca la strada in due in bici,
mi manco io, mi manchi tu...
E mi manca una bella canzone,
pagare qualcosa con le figurine,
e mi manca la biro tra i denti,
mi manco io, mi manchi tu,
ti manco io e ti manchi tu...
Non mi ricordo più...
(Bugo feat. Ermal Meta, Mi manca, 2020)
dono e non come fatica, rivisitare relazioni e legami
che forse si sono esauriti nel tempo e che hanno
bisogno di essere rinnovati. Ma, soprattutto, i ri-
cordi felici del passato costituiscono un’importante
riserva energetica cui attingere per rafforzare un
radicamento che si opponga alle tante forme di di-
sorientamento con cui devono spesso confrontarsi i
giovani adulti e ritrovare risorse utili per affrontare
una quotidianità che talvolta può apparire monoto-
na e poco gratificante. In fondo, è proprio questo il
potere della memoria: riuscire a dilatare nel tempo
e prolungare nel presente un pezzo del passato, con
la speranza che esso, con i suoi riferimenti signifi-
cativi e le sue promesse di felicità, possa contribuire
ad alimentare il senso del futuro.
SETTEMBRE 2020
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4.8 Page 38

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LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
Francesco Motto
Va bene anche
un castello
«Eccellenza la duchessa, non
vorrebbe concedere il suo castello
a Gesù nostro signore e a Maria
Ausiliatrice? Don Bosco».
In alto:
Venezia-
Castello,
oggi Centro
giovanile e di
opitalità.
Sotto:
Castello di
Godego,
scuola e casa
di cura per
salesiani.
Vivente don Bosco, ma anche successiva-
mente, sono state centinaia e centinaia
le autorità civili e religiose, le istituzioni
laiche ed ecclesiali, che offrivano terreni,
strutture, ambienti, denaro, protezione, nella cer-
tezza che la presenza salesiana avrebbe sollevato le
sorti della gioventù più in difficoltà dei loro pae-
si. Don Bosco ed i suoi collaboratori più vicini si
trovarono così in grave difficoltà a non poter acco-
gliere tante richieste, a volte pressanti e ripetute di
anno in anno, soprattutto quando erano sostenute
da papi, cardinali, nunzi apostolici, capi di Stato,
ministri, benefattori estremamente generosi.
La motivazione apportata era quasi sempre la man-
canza di personale. In realtà le giovani vocazioni
c’erano ed anche abbondanti, ma mancavano le
case per formarli. A metà degli anni ottanta l’unico
noviziato in Italia, quello di S. Benigno Canavese,
era ormai insufficiente. Dove trovarne un altro?
Nessuno offriva una sede a questo scopo: occorreva
darsi da fare e cercarla. E don Bosco puntò in alto,
addirittura ad un castello.
Il castello di Sanfré
Ce lo svela una sua lettera inedita del 18 mar-
zo 1886, intestata “Oratorio di San Francesco di
Sales”, che benché giuntaci in semplice copia, è
autenticata da una nota di don Rua “Copia di let-
tera spedita alla Duchessa di Palmella (Palais du
Rato. Lisbona)”.
Scritta in francese, è indirizzata a sua “Eccellen-
za” Maria Luisa Souza Holstein, terza duchessa di
Palmella (1841-1909), proprietaria di un ex castel-
lo medioevale a Sanfré, località a poche decine di
km, da Torino. Nel secolo XVI il suo proprietario,
un erede dei marchesi Isnardi di Caraglio, aveva
sposato un’erede Savoia-Racconigi, e così grazie
all’unione della potenza economica con quella po-
litica l’antico maniero medioevale venne restaurato
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SETTEMBRE 2020

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e arricchito di torri e mura di mattoni a vista, tali
da farne un palazzo di carattere rinascimentale, in-
serito come è ovvio in un bel parco.
Il castello nel 1630 ospitò degnamente per alcuni
mesi la duchessa di Savoia Maria Cristina, la futura
Madama Reale, in fuga dalla peste che infuriava
a Torino. Alla fine del secolo XVIII, estintasi la
famiglia Isnardi, il castello per vie femminili era
passato in eredità alla famiglia portoghese dei De
Souza.
La coraggiosa richiesta
Don Bosco nel suo scritto esordisce presupponendo
che la duchessa, residente all’estero, non sia suffi-
cientemente informata sulla sua persona. Perciò
immediatamente si presenta come il fondatore di
opere salesiane dedite all’educazione della gioventù
“povera ed abbandonata”, nonché alla propagazione
della fede tra i “selvaggi della Patagonia, affidati
dal papa Leone XIII alle cure materiali e spiritua-
li dei salesiani. Essi, sacerdoti e laici, disposti ad
abilitarsi alla loro missione educativo-religiosa ri-
chiesta da tutte le parti – dalla Francia alla Spagna,
dallo stesso Portogallo e soprattutto dalla Patago-
nia e dal Brasile – erano però privi di una casa, ne-
cessariamente grande, dove essere formati.
«Eccellenza – scrive allora don Bosco alla duchessa
Maria Luisa – vengo a sapere che è proprietaria a
Sanfré d’un vasto palazzo, circondato da mura che
servirebbe molto al mio bisogno. Non vorrebbe
dare questo palazzo in proprietà o in uso a Gesù
Nostro Signore e a Maria Ausiliatrice?»
Possiamo immaginare la sorpresa della cattolica
duchessa alla richiesta di «vendere o affittare» un
suo castello in Piemonte nientemeno che al Signore
Gesù e alla Vergine Maria. Don Bosco, facciamo
bene attenzione, parla sì del proprio bisogno, ma il
castello lo chiede per Gesù e Maria. Evidentemen-
te confida nella fede della duchessa e anche sulla
sua conoscenza dell’Ausiliatrice, dal momento che,
imparentata con i Savoia, poteva aver sentito parla-
re della chiesa di Valdocco.
Don Bosco prosegue poi il suo scritto con un toc-
co da maestro della captatio benevolentiae: lusinga
l’amor proprio la duchessa ricordandole «la fama
dei suoi caritatevoli e generosi sentimenti» non-
ché lo zelo da lei dimostrato in tante occasioni per
«cooperare alla gloria di Dio e alla salvezza delle
anime».
Ironia della storia
Non si ha notizia della risposta della duchessa por-
toghese, che, date le solenni premesse, ci aspette-
remmo positiva. Invece dovette essere negativa,
perché l’“affare” proposto da don Bosco non andò
in porto. Ed in effetti sei mesi dopo don Bosco aprì
un nuovo noviziato a Foglizzo (Torino).
Ma l’ironia della storia è sempre in agguato. Il ca-
stello di Sanfré cambiò poi inquilini, ma passando
nelle mani di altri religiosi e con uno scopo identico
a quello auspicato da don Bosco. Tra gli anni ’20 e
il 1960 il palazzo-castello divenne infatti il novi-
ziato delle suore Missionarie della Consolata.
Quanto ai castelli, lungo la storia in Italia non man-
carono case salesiane al loro interno: a cominciar
dal castello di Caselette (Torino), di proprietà del
salesiano conte Cays (1813-1882, diventato sacer-
dote salesiano a 65 anni), per finire al CastelBran-
do di Cison di Valmarino (Treviso). Per decine di
anni hanno ospitato opere salesiane. Senza dimen-
ticare poi le case tuttora aperte in località che ne
portano semplicemente il nome, come Castello di
Godego (Treviso) e Venezia-Castello, il più esteso
sestiere di Venezia, all’estremità est della bella città
lagunare.
Il castello
di Caselette
(Torino) fu
per molto
tempo scuola
e poi casa di
spiritualità.
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4.10 Page 40

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I NOSTRI SANTI
A cura di Pierluigi Cameroni postulatore generale
Coloro che ricevessero grazie o favori per intercessione
dei nostri beati, venerabili e servi di Dio, sono pregati
di segnalarlo a postulatore@sdb.org
Per la pubblicazione non si tiene conto delle lettere
non firmate e senza recapito. Su richiesta si potrà
omettere l’indicazione del nome.
IL SANTO DEL MESE
In questo mese di settembre preghiamo per la beatificazione del venerabile monsignor Stefano Ferrando, vescovo salesiano,
fondatore delle Suore Missionarie di Maria Aiuto dei Cristiani e di cui ricorre il 125° della nascita.
Stefano Ferrando, nato a Ros-
siglione (provincia di Genova
e diocesi di Acqui Terme) il 28
settembre 1895, frequentò le
scuole dai salesiani, prima a
Fossano e poi a Torino, rima-
nendo affascinato dalla vita di
don Bosco. Interruppe forza-
tamente gli studi allo scoppio
della prima guerra mondiale,
alla quale partecipò come uffi-
ciale, guadagnandosi una me-
daglia d’argento. Dopo l’ordi-
nazione sacerdotale, nel 1923,
partì per le missioni salesiane
del Nord Est dell’India, dove di-
venne uno dei grandi pionieri
dell’epopea missionaria sale-
siana in quella vasta regione.
Nel 1934 viene nominato da
Pio XI vescovo della Diocesi di
Krishnagar, ma dopo appena
un anno, è trasferito alla sede
di Shillong, che diventerà per
35 anni il centro di tutta la sua
feconda azione apostolica ed
evangelizzatrice.
Il suo apostolato è caratterizza-
to dallo stile salesiano: gioia,
semplicità e contatto diretto
con la gente. La sua umiltà,
semplicità, l’amore per i poveri
spingono molti a convertirsi e
a richiedere il Battesimo. Rico-
struisce la grande Cattedrale
e il complesso missionario.
Diffonde la devozione a Maria
Ausiliatrice e a don Bosco. Vuo-
le che gli indiani siano i primi
evangelizzatori della loro terra.
Da un gruppo di catechiste in-
diane fonda le Suore Missiona-
rie di Maria Aiuto dei Cristiani
(MSMHC) aggregate alla Fa-
miglia Salesiana il 27 giugno
1986. Il 26 giugno 1969, dopo
aver preso parte ai lavori del
Concilio, rassegna le dimissio-
ni dalla propria Diocesi. Aveva
trovato in Assam 4000 cattoli-
ci, ne lasciava 500 000. In Italia
l’anziano vescovo missionario
si ritira nella casa salesiana di
Quarto (Genova). Muore il 20
giugno 1978.
Il 3 marzo 2016 papa France-
sco ne ha riconosciuto le virtù
eroiche dichiarandolo Venera-
bile.
Preghiera
Dio onnipotente ed eterno, che vuoi la salvezza di tutti gli uomini,
noi ti rendiamo grazie perché hai donato a Stefano Ferrando
la vocazione ad essere sacerdote e religioso tra i figli di don Bosco,
e ne hai fatto un intrepido missionario tra i popoli dell’India del Nord-Est,
un vescovo buono e prudente, il fondatore di una nuova famiglia religiosa.
Umilmente ti preghiamo, per intercessione di Maria Aiuto dei Cristiani,
per la tua gloria e l’edificazione del popolo cristiano,
fa’ che la Chiesa riconosca in Stefano Ferrando il segno della tua santità,
e il popolo cristiano possa trovare nella sua vita un esempio,
nella sua intercessione un aiuto,
nella comunione di grazia con lui un vincolo di amore fraterno.
E se ciò è conforme alla tua volontà concedici,
per sua intercessione, la grazia che imploriamo dalla tua bontà.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
Ringraziano
Desidero pubblicare il ringra-
ziamento a san Giovanni Bo-
sco per l’intercessione che ha
risolto delicate ed importanti
problemi della mia famiglia.
Preghiamo sempre Maria Au-
siliatrice e san Giovanni Bosco
perché possano continuare a
proteggerci. Grazie.
Nando Granato, Piazza Armerina (EN)
Vivo a Lugano in Svizzera, ma
sono di origine italiana. Ho fre-
quentato il collegio Salesiano
“San Basilio” a Randazzo, in
Sicilia, dai 9 ai 14 anni. Sono
sposato ed ho due figli, di 18 e
16 anni. Non ho mai avuto pro-
blemi di salute nella mia vita,
fino a 46 anni. Il 2 marzo 2016,
mi viene diagnosticato un tu-
more al polmone. In età adulta
avevo un po’ perso la fede, ma
da quando ho avuto questa ma-
lattia mi sono sempre affidato a
san Giovanni Bosco. Ho sem-
pre pregato don Bosco affinché
mi aiutasse. Il 31 gennaio 2019
mi reco al Colle Don Bosco per
la festa. Ci ero già stato qualche
mese prima, ma volevo essere
presente per la ricorrenza. In-
contro un prete salesiano che
mi dà due benedizioni e mi dice
di pregare e fare una novena a
Mamma Margherita. Così faccio,
e recitando una novena, chiedo
l’intercessione a don Bosco e a
Mamma Margherita, affinché
le medicine che prendo possa-
no debellare completamente il
tumore. Non chiedevo di guarire
(immaginando che non potessi
più guarire), ma solamente che
il farmaco che assumevo mi eli-
minasse tutte le cellule malate. E
così è stato: nel mese di settem-
bre 2019 eseguo una PET e il tu-
more è in remissione completa,
non ci sono più tracce. A gennaio
di quest’anno ho eseguito nuo-
vamente TAC e risonanza ma-
gnetica e confermano ancora la
remissione completa. Il medico
rimane sorpreso dalla risposta,
ma poiché si tratta di un farmaco
sperimentale, di cui ci sono po-
chi dati, non sa bene cosa dire.
Non si può parlare di guarigio-
ne, perché ci vorrebbero ancora
diversi anni in questo stato di
remissione totale per stabilirlo.
Ma io sono convinto che sia stato
aiutato da san Giovanni Bosco
e da Mamma Margherita. Era
quello per cui ho pregato e per
cui ho chiesto la loro intercessio-
ne. Posso continuare a stare con
la mia famiglia ed aiutarli, che
era ciò che desideravo.
Riccardo Mazza
40
SETTEMBRE 2020

5 Pages 41-50

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5.1 Page 41

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IL LORO RICORDO E` BENEDIZIONE
Don Domenico Rosso
Morto a Torino, il 2 giugno 2020, a 86 anni
«L’ultima intervista la concesse
un anno fa, a Valdocco. Si avvi-
cinava il quarantesimo anniver-
sario di Santa Chiara, un forte
militare nell’alta Val di Susa,
sopra Giaglione, non lontano
dal Moncenisio, diventato di-
sarmata oasi dello Spirito, e
lui, che quell’esperienza sognò
e rese possibile, in ore e ore di
colloquio consegnò un raccon-
to ricco di storia e di cuore. Don
Domenico Rosso, mancato il 2
giugno scorso all’età di 86 anni,
è stato tante cose insieme: in-
stancabile confessore, ricerca-
to padre spirituale, fondatore
di una diffusa rete di gruppi
giovanili di preghiera, grande
comunicatore, appassionato
musicista. Ma soprattutto è
stato prete fino in fondo. Inna-
morato di Dio. Punto e basta. In
quel maggio 2019 non di rado
s’interrompeva: il suo sguardo
fiammeggiante fuggiva dalla
finestra, lontana giusto un pas-
so dalla sua sedia, alla sinistra
della scrivania. Con gli occhi
accarezzava la basilica di Maria
Ausiliatrice e il Rocciamelone,
sovrastato dalla Madonna che
vigila materna quel lembo di
Piemonte (forte di Santa Chiara
incluso). “Il mio mondo, la mia
vita”, ripeteva» (Alberto Chiara).
Questi “assoluti” ne hanno se-
gnato l’azione nelle varie case
salesiane dov’è stato con re-
sponsabilità diverse (Direttore
al Rebaudengo, a Ivrea, al Colle
Don Bosco, di nuovo al Rebau-
dengo, a Casellette, ispettore
dell’Ispettoria Centrale, di nuo-
vo Colle Don Bosco, Avigliana,
di nuovo Rebaudengo). E l’han-
no accompagnato nelle due
grandi “avventure” alle quali ha
legato la sua esistenza: l’impe-
gno nel mondo radiofonico e
l’esperienza spirituale di Santa
Chiara.
«Lo chiamavano Rouge, stor-
piando con eleganza il cogno-
me, o alla sudamericana, Min-
gus… La sede della radio era
una torretta di uno dei suoi cen-
tri più vivaci nella periferia tori-
nese, Rebaudengo. Dalle fine-
strelle appollaiate si vedevano
i ragazzini giocare a pallone nel
cortile e le signore con il velo
entrare in chiesa per le funzioni.
Don Rosso, occhialetto sul
naso, sorriso sornione, era un
maestro, di vita e di giornali-
smo: intelligente, capace, colse
da subito l’opportunità della
libera radiofonia per lanciare
un gruppo di ragazzi nell’etere,
armati solo di registratori a bat-
terie e passione, oltre ad una
certa spavalderia che permet-
teva di incontrare e chiamare
ai microfoni le personalità più
importanti del mondo della
politica, della cultura. Ma non
c’era nessuna improvvisazione
ingenua: gli studi della radio
erano insonorizzati, attrezzati
al meglio con la tecnologia più
moderna, e i giovani cooptati
non proprio degli sprovveduti:
in quelle stanze si è formata
una generazione di giornalisti,
che oggi lavorano nelle più di-
verse testate.
Lo scopo era netto, come sem-
pre con i Figli di don Bosco:
“Promuovere la conoscenza,
l’incontro e la circolazione di
idee e di esperienze tra le real-
tà giovanili cattoliche, per la
realizzazione di una proposta
cristiana della vita”. Questo si
traduceva nel cercare e dare
notizie, con un punto di vista
cristiano, sì, ma mai bigotto,
mai nascondendo, mai annac-
quando, mai trasformando la
fede in ideologia, o facendone
una bandiera identitaria.
In quegli studi il radiogiornale
e lo sport, tanta musica e in-
trattenimento mai banale, mai
alla rincorsa compiacente della
moda. E ciascuno imparava e
trovava la sua strada, dai gior-
nali alla televisione, dalle agen-
zie alla vita di convento.
Ci vuole sempre un maestro,
e questo prete minuto è stato
attento e partecipe, mai inva-
dente, mai imponente. Lascia-
va creare, lasciava crescere,
vigilando e accudendo, le idee
e la preghiera, qualche ritiro.
Accogliendo, con discrezione e
tenerezza, qualche persona fra-
gile che tra le mura di quella ra-
dio ha trovato la forza di vivere
e una vocazione, professionale
e umana» (Monica Mondo).
«Un salesiano a tutto tondo – lo
ricorda il suo confratello don
Mario Pertile, che dall’inferme-
ria di Valdocco l’ha continuato a
seguire fino all’ultimo –. È stato
il mio maestro spirituale dalla
seconda media: è a lui, come
a molti altri miei confratelli che
devo la mia vocazione».
«E poi l’impegno assiduo per
i giovani, le famiglie, il laicato
e gli universitari cattolici con
l’invenzione, 40 anni fa, dell’e-
sperienza estiva per ragazzi e
famiglie presso il Forte di Santa
Chiara in Val di Susa, centro di
spiritualità salesiana punto di
riferimento per migliaia di gio-
vani» (Marina Lomunno).
Un anno fa, Dondo (o Mingus
o Rouge: affezionandosi a lui,
generazioni di ragazze e ragaz-
zi, cresciuti rimanendo amici,
uniti anche nel suo nome, gli
cucirono addosso una serie di
nickname) volle finire l’inter-
vista con parole che sanno di
testamento: «Sono un uomo
felice e un prete realizzato. Con
Georges Bernanos affermo,
perché l’ho sperimentato un
numero infinito di volte: davve-
ro‚ tutto è grazia».
SETTEMBRE 2020
41

5.2 Page 42

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IL CRUCIVERBA
Roberto Desiderati
Scoprendo don Bosco
DEFINIZIONI
ORIZZONTALI. 1. Improvvisata, im-
mediata - 11. Una fastidiosa ulcerazio-
ne della bocca - 14. Emblema, simbo-
lo - 15. Si dà tra amici - 16. Fu moglie
di Garibaldi - 17. Si nominano con i
“quali” - 18. La bevanda delle cinque
- 20. L‘inquinamento delle città - 22.
Il dì presente - 24. Andato per il poeta
- 25. Morte... con altro termine - 27.
È fatta di grafite - 28. Un rifiuto - 29.
XXX - 32. Messa in lista, prevista - 33.
Il club degli automobilisti (sigla) - 34.
Le ha dispari il lacero - 36. L’attrice
? Newton-John - 38. Si immerge nel
Martini - 40. Erano 33 quelli dell’Lp
- 41. Metallo usato nei cavi elettrici
- 42. Torino (sigla) - 44. Articolo ma-
?
La soluzione nel prossimo numero.
schile - 45. Il sodio per il chimico - 47.
Diminutivo di Nicola - 48. Il prof. di
PRIMA CHE I RICORDI SVANISCANO
matematica li assegna in terza media.
Quando don Bosco morì, nel 1888, tra i salesiani si sentì ur-
gente la necessità di raccogliere e far sopravvivere al Santo
ogni ricordo, ogni testimonianza e ogni frammento della sua
esistenza. Fortunatamente in vita, sotto la spinta di Pio IX,
don Bosco provvide a scrivere la storia dei primi quarant’anni
della sua vita. Ma non bastava, c’erano le testimonianze di chi l’aveva conosciuto e di chi aveva
VERTICALI. 1. Bombola antincendio
- 2. Nazione - 3. Un asciugamano da
mare - 4. Prefisso che indica metà - 5.
Duemila romani - 6. Sono autorizzati a
guidare veicoli - 7. Consonanti in rete
- 8. Lo stato con Sidney - 9. Le vocali
nel fegato - 10. Donne appartenenti
vissuto con lui o semplicemente condiviso esperienze e fatti più o meno importanti ma comun- alla Chiesa d’Inghilterra - 11. Costi-
que essenziali a comprendere la sfaccettata personalità del grand’uomo. Per questo motivo, XXX tuiscono le molecole - 12. La varietà
fu inviato nei luoghi della giovinezza di don Bosco, a Castelnuovo, ai Becchi e alla Moglia, quasi di fagioli che si consuma con tutto il
come fosse un reporter, o meglio un detective, a interrogare, annotare e ordinare le memorie di baccello - 13. Donne come Amelia
quegli anni. Il salesiano raccolse sette frammenti della vita di don Bosco nella cascina Moglia. Lì Earhart, dispersa nel Pacifico nel 1937
trovò Dorotea Moglia, anziana ma lucida, e i figli Anna e Giorgio che ricordavano episodi raccon- - 19. Busto marmoreo che è tutt’uno
tati dal padre Luigi, morto 6 anni prima e ripetuti tante volte quando don Bosco veniva a trovarli. con la colonnina che lo sorregge - 21.
Dorotea, invece, ricordava quel lontano pomeriggio in cui Giovanni era andato a bussare alla loro Mercato europeo comune (sigla) - 23.
porta. Lei aveva allora 25 anni e Giuanin disse di essere stato mandato dalla madre a chiedere Il centro di Avignone - 25. Il cavallino
di poter fare il vaccaro. “E perché tua madre ti manda via, piccolo come sei?” chiese la donna. scozzese... in miniatura (y=i) - 26. Un
“Perché mio fratello Antonio mi picchia”. Ma era gennaio incontro di vocali - 29. È celeberrimo
Soluzione del numero precedente
e non si assumevano aiutanti, tantomeno di quell’età.
“Prendetemi almeno per un po’! Anche senza paga”, dis-
il biancore delle sue scogliere - 30. Le
...re città della Normandia - 31. La set-
se Giuanin, piangendo, “altrimenti mi siedo per terra e tima nota - 32. Sommità di montagne
non me ne andrò”. La buona donna, alla fine, convinse - 35. Serve per sostituire la ruota buca-
il marito a prendere con loro il ragazzetto per qualche ta - 37. Precede Vegas, città del gioco
giorno. Ma rimase tre anni (dal gennaio 1827 alla fine d’azzardo - 39. Illustrissimo in breve
del 1829) e fu anche pagato bene. Questo fu uno di quei - 43. Il mondo di fantasia creato dallo
sette “frammenti” raccolti dal salesiano.
scrittore L. Frank Baum - 46. Iniziali di
Banderas.
42
SETTEMBRE 2020

5.3 Page 43

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LA BUONANOTTE
B.F. Disegno di Fabrizio Zubani
La fata dei dentini
Q uando a nostra figlia Mar-
gherita, la più grande dei
nostri cinque bambini, cadde
Un giorno faremo un colloquio,
quando sarai più grande e sarai pron-
ta per questo lavoro.
Dopo essersi laureata con il massimo
dei voti e la lode, Margherita accettò
un incarico manageriale pieno di
un dente all’età di sei anni, trovammo Buona fortuna Margherita! La fata sfide. Riuscì benissimo in quel lavoro
il seguente messaggio, un po’ sgram- dei dentini».
e a 27 anni era già la manager più
maticato, scritto sul pezzetto di carta Margherita era entusiasta della ri- importante dell’azienda.
che avvolgeva il minuscolo dentino: sposta della fata dei dentini. Imparò Un giorno Margherita ed io ci ritro-
«Cara fata dei detini, per pacere,
il messaggio a memoria e seguì
vammo a parlare del suo successo.
laciami la tua bacheta magica. Poso fedelmente le istruzioni, impegnan- Mi disse che il presidente dell’azien-
aiutare. Voglio esere anch’io una fata dosi sempre a migliorare man mano da dove lavorava una volta le aveva
dei dentini. Con afeto, Margherita». che cresceva. Il suo carattere, la sua chiesto cos’era che aveva contribuito
Riconoscendo delle potenziali
forza e le sue capacità di leadership a darle la motivazione necessaria per
capacità di leadership e cogliendo crescevano insieme a lei.
?
al volo quella preziosa occa-
sione per insegnarle qual-
raggiungere il successo che aveva
ottenuto.
«E tu cosa gli hai detto?» le
cosa, la “fata dei dentini”
chiesi.
lasciò il seguente messaggio
Lei mi rispose: «I miei
a Margherita:
genitori, i miei insegnanti e i
«Cara Margherita, ho lavo-
miei amici. E, naturalmente,
rato molto per diventare una
la fata dei dentini!».
buona fata dei dentini e amo
il mio lavoro.
Al momento sei troppo gio-
Messaggio sotto il piatto
vane per fare questo lavoro,
di una adolescente:
perciò non posso darti la mia
«Amatissima figlia, so che
bacchetta magica. Ma c’è
sei scoraggiata dal voto
qualcosa che puoi fare per
negativo sulla pagella.
cominciare a prepararti:
Ti prego non ti preoccupare.
1) fai sempre del tuo meglio
Tu hai ottimi voti in
in qualsiasi lavoro ti capiterà
tutto ciò che io e tuo padre
di fare;
riteniamo importante
2) tratta gli altri come vorre-
nella vita! Tu sei onesta,
sti essere trattata tu;
responsabile e indipendente.
3) sii buona e disponibile con
Sei un essere umano davvero
gli altri;
splendido. Tutto il resto non
4) ascolta sempre attenta-
è davvero importante.
mente quando qualcuno ti
Ti bacia e ti abbraccia
parla.
la tua mamma».
SETTEMBRE 2020
43

5.4 Page 44

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TAXE PERÇUE
tassa riscossa
PADOVA c.m.p.
In caso di mancato
recapito restituire a:
ufficio di PADOVA
cmp – Il mittente si
impegna a corrispon-
dere la prevista tariffa.
Senza di voi
non possiamo
fare nulla!
Senza la vostra carità io
avrei potuto fare poco
o nulla; con la vostra
carità abbiamo invece
cooperato con la grazia di Dio
ad asciugare molte lagrime e
salvare molte anime.
In questo numero
2 LE COSE DI DON BOSCO
4 IL MESSAGGIO
DEL RETTOR MAGGIORE
6 SALESIANI NEL MONDO
10 TEMPO DELLO SPIRITO
La magia dell’ordine
12 SALESIANI
Christian Becerra Florez
16 FMA
18 L’INVITATO
Don Mauro Mantovani
22 LE CASE DI DON BOSCO
Loreto
26 STORIE DI GIOVANI
28 CASA MADRE
Il forno di Valdocco
30 I NOSTRI EROI
Il servo di Dio
Silvio Galli
34 COME DON BOSCO
Buone notizie
36 LA LINEA D’OMBRA
38 LA STORIA SCONOSCIUTA
DI DON BOSCO
40 I NOSTRI SANTI
41 IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
42 RELAX
43 LA BUONANOTTE
PER SOSTENERE LE OPERE SALESIANE
Notifichiamo che l’Istituto Salesiano per le Missioni con sede in Torino, avente personalità
giuridica per Regio Decreto 13-01-1924 n. 22, e la Fondazione Don Bosco nel mondo
(per il sostegno in particolare delle missioni salesiane), con sede in Roma, riconosciuta
con D.M. del 06-08-2002, possono ricevere Legati ed Eredità.
Queste le formule
Se si tratta di un Legato
a)
Di beni mobili
“… Lascio all’Istituto Salesiano per le Missioni con sede in Torino (o alla Fondazione
Don Bosco nel mondo con sede in Roma) a titolo di legato la somma di € ……………..,
o titoli, ecc., per i fini istituzionali dell’Ente”.
b)
Di beni immobili
“… Lascio all’Istituto Salesiano per le Missioni con sede in Torino (o alla Fondazione
Don Bosco nel mondo con sede in Roma), a titolo di legato, l’immobile sito in… per i fini
istituzionali dell’Ente”.
Se si tratta invece di nominare erede di ogni sostanza l’uno o l’altro dei due enti
sopraindicati
“… Annullo ogni mia precedente disposizione testamentaria. Nomino mio erede universale
l’Istituto Salesiano per le Missioni con sede in Torino (o la Fondazione Don Bosco
nel mondo con sede in Roma) lasciando a esso/a quanto mi appartiene a qualsiasi titolo,
per i fini istituzionali dell’Ente”.
(Luogo e data)
(firma per esteso e leggibile)
N.B. Il testamento deve essere scritto per intero di mano propria dal testatore.
INDIRIZZI
Istituto Salesiano per le Missioni
Via Maria Ausiliatrice, 32
10152 Torino
Tel. 011.5224247-8
e-mail: istitutomissioni@salesiani-icp.net
Fondazione Don Bosco nel mondo
Via Marsala, 42
00185 Roma
Tel. 06.656121 - 06.65612663
e-mail: donbosconelmondo@sdb.org
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un’offerta.