Bollettino_Salesiano_202005

Bollettino_Salesiano_202005

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Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
MAGGIO 2020

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LE COSE DI DON BOSCO
B.F.
Il corredo da sposa di di aceto, lo dicevano alla Mamma.
Lei dava quelle poche cose che
avevano, e in pochi giorni non ci fu
Mamma Margherita piùniente.
Un giorno arrivò un giovane e le
disse affannato: «Dobbiamo portare
E ro parte di uno splendido
corredo da sposa destinato
ad una bella ragazza che si
facendo tremila vittime. In Torino
i primi casi si erano verificati in
Borgo Dora, vicino a noi.
un malato grave al lazzaretto, ma
non abbiamo un lenzuolo decente.
Non avete proprio niente, mamma?».
chiamava Margherita Occhiena.
Non avendo praticamente nessuna Margherita ci pensò, poi prese me,
Dopo il matrimonio, in cui mode- struttura per affrontare l’epidemia, la tovaglia bianca più bella dell’altare
stamente feci una splendida figura, salvo i vecchi lazzaretti rimessi in della chiesa nuova e gliela diede:
fui rinchiuso in un baule profumato attività, il sindaco fece appello alla «Prendila per il tuo malato. Non
di lavanda insieme a tutto il resto del buona volontà dei soliti volontari.
credo che il Signore si offenda».
corredo, comprese delle lenzuola
Don Bosco mobilitò i suoi ragazzi Fui così l’ultimo conforto per un
magnificamente ricamate.
più grandi (quattordici), garantendo malato e poi finii tra gli stracci.
Dal nostro guscio di legno assistem- loro l’immunità se si fossero con-
Un abito da sposa è un segno
mo a tutte le vicende, liete e tristi, servati nell’amicizia del Signore.
d’amore e quello di Mamma
della nostra famiglia: la nascita di Mamma Margherita preparò per
Margherita lo fu fino alla fine.
due bambini, la morte del papà, i
ognuno una bottiglietta di aceto, e la
figli che crescono, traslochi, lacri- consegnò dicendo: «Dopo che avete
me, risate, canti… Il più piccolo dei curato un malato, lavatevi le mani
figli, Giovanni, si fece prete e abitava con l’aceto. Quando la bottiglietta
a Torino. Un giorno tornò a casa
è vuota, venite a riempirla di nuovo.
malato. Appena guarito, decise di Mi raccomando: obbeditemi,
tornare a Torino. Mamma Marghe- perché il Signore dice: “Aiutati
rita decise di partire con lui e portò che il Ciel t’aiuta”».
anche noi. Viaggiammo pigiati in Furono giornate caldissime,
una grossa cesta.
convulse. Il colera è una
Era una casa povera, ma piena di
malattia sporca e puzzolente.
ragazzini e allegria. Don Giovanni Sovente i malati curati dai
aveva la testa piena di idee e il cuore giovani mancavano di len-
pieno di sogni. E li realizzava. Noi zuola e biancheria pulite.
diventammo vesti liturgiche e io fui I giovani, mentre tornavano
trasformato in una tovaglia per l’alta- a riempire la loro bottiglietta
re. E ne ero sinceramente fiero.
Ma un giorno, un grido scosse tutti:
«È scoppiato il colera!»
LA STORIA
Le notizie che arrivavano dalla
finestra sul cortile erano spavento-
se. Questa epidemia mortale aveva
prima investito la città di Genova,
Nella Vita di San Giovanni Bosco, don Lemoyne racconta con molti particolari
la storia dell’epidemia di colera che colpì la città di Torino nel 1854 (pagine
484-488).
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Rivista fondata da
S. Giovanni Bosco
nel 1877
MAGGIO 2020
MAGGIO 2020
ANNO CXLIV
NUMERO 05
Mensile di informazione e cultura
religiosa edito dalla Congregazione
Salesiana di San Giovanni Bosco
La copertina: Maria Ausiliatrice nel cuore
di don Bosco (Disegno di Luigi Zonta).
2 LE COSE DI DON BOSCO
4 IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
6 SALESIANI NEL MONDO
Haiti
10 TEMPO DELLO SPIRITO
12 STORIE DI GIOVANI
Al servizio degli altri
14 LE CASE DI DON BOSCO
Sesto San Giovanni
18 L’INVITATO
Don Gigi Zoppi
22 INIZIATIVE
Un’esperienza stupenda
24 CINQUE PER MILLE
26 FMA
28 CASA MADRE
30 I NOSTRI EROI
Don Luigi Cocco
34 COME DON BOSCO
36 LA LINEA D’OMBRA
38 LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
40 I NOSTRI SANTI
41 IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE
42 RELAX
43 LA BUONANOTTE
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18
30
Il BOLLETTINO SALESIANO
si stampa nel mondo in 66
edizioni, 31 lingue diverse
e raggiunge 132 Nazioni.
Direttore Responsabile:
Bruno Ferrero
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Il Bollettino Salesiano
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numero: Agenzia Ans, Pierluigi
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IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
Don Ángel Fernández Artime
«Più grande di tutto
è l’amore» (san Paolo)
Questo è il tempo del sacrificio.
In prove difficili come queste
l’amore ci dà la vita.
Miei cari amici del Bollettino, vi
scrivo in un momento in cui sia-
mo tutti attoniti e smarriti. E penso al
mese di maggio, il mese dedicato alla
Madre. In tutto il mondo salesiano ci siamo affida-
ti alla nostra mamma comune, Maria Ausiliatrice,
e abbiamo pregato chiedendo al Signore, con la sua
mediazione, aiuto e conforto in queste ore terribili
per tutti. Con in più il timore per le difficoltà che
dovremo affrontare “dopo”.
Ma accade che in mezzo a tanto dolore, pianto e
morte, anche nelle perdite più dolorose, scopriamo
persone che sono “parola di Dio” e sua mediazione
per noi con la loro testimonianza di fede e di forza.
Non me la sento di usare parole mie, da quando ho
conosciuto quelle di altre persone, cariche di au-
tenticità e di fede provata, vere testimonianze di
“abbandono in Dio”.
Così vi offro questa testimonianza reale. Grazie ad
essa scopriamo che “miracolo” sono le persone.
Ha appena perso il marito. Si sono sposati 23 anni
fa e insieme hanno avuto 5 figli formando una bella
famiglia. Oggi, all’età di 50 anni, il coronavirus le
ha portato via il marito.
Tutto è iniziato con una malattia, il giorno del
compleanno di una delle loro figlie. Lui si è sve-
gliato con la febbre piuttosto alta. Aveva sintomi
simili all’influenza, congestione e una tosse che
pensavano fosse
temporanea. Tuttavia,
con il passare delle ore, il
quadro si è fatto più complicato.
Non c’erano difficoltà respiratorie,
ma soffriva di vertigini. È stata chia-
mata un’ambulanza ed è stato ricoverato in
ospedale. All’inizio era sotto osservazione. Non
sospettavano affatto che fosse un coronavirus. A
quel tempo, inoltre, non c’era l’attrezzatura neces-
saria per il test del Covid-19. Tuttavia, quella stessa
notte, lo isolarono in un reparto come misura pre-
ventiva.
Il giorno dopo lo portarono in terapia intensiva,
dove fu sottoposto al test. I medici dissero alla
moglie che non poteva più stare con lui, che dove-
va tornare a casa. Poco dopo è stata richiamata in
ospedale per salutare il marito perché le sue condi-
zioni erano molto delicate.
Lei arrivò all’ospedale con un sacerdote per im-
partire il sacramento dell’unzione dei malati e lo
salutò. Lo stesso pomeriggio, seppero che il test del
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coronavirus era positivo e da allora lei è rimasta con
i suoi figli già in quarantena a casa, mentre il
marito ha passato le ultime ore in ospedale.
Solo.
Dice che durante tutto questo tem-
po la cosa più difficile è stata
non poter andare a tro-
varlo, stare con lui e
parlare con lui.
Era isolato e
non facevano
entrare nessuno.
L’intero ospedale
aveva pazienti affetti
da coronavirus e nessuno
poteva entrare.
«Mi fido di Dio»
Nel frattempo, a casa, questa donna,
moglie e madre ha vissuto questo dolo-
re con un cuore enorme.
«È molto difficile, ma Cristo mi tiene in
braccio. Sentire che Lui è con me sulla croce
e io con Lui e che ci sorreggiamo a vicenda, e sa-
pere che anche mio marito è nelle sue mani mi dà
forza».
Questa madre e i suoi figli hanno trovato conforto
nella preghiera: «Preghiamo il rosario ogni gior-
no e facciamo una novena a san Giuseppe che ab-
biamo finito e ricominciato. Preghiamo anche per
tutti coloro che si trovano in situazioni simili».
Con una fede ammirevole confida che «ci sono
giorni in cui sono stata malissimo, ma ora vedo tut-
to con più pace, con più accettazione. Vivere con
l’accettazione aiuta a vivere con meno disperazione,
con la sofferenza di non vederlo, ma con la pace che
alla fine è la volontà di Dio, in ogni caso, amen».
Pochi giorni prima della morte del marito, sentiva
di voler condividere con gli altri come la stavano
vivendo in famiglia.
La sua testimonianza ci insegna che anche se non
siamo preparati a prove difficili come queste, senti-
re la presenza amorevole di Dio ci dà forza e ci aiu-
ta a vivere la sofferenza «con meno disperazione»,
afferma questa donna credente che sa che l’amore
non conosce limiti e che è importante aggrapparsi
alla croce soprattutto in momenti come questi.
Due giorni prima della morte del marito ha inviato
questo messaggio: «Grazie per i tanti messaggi di
sostegno e di preghiera. Mi tengono in vita. Sapere
che ci sono molte persone che pregano per lui, che
alla fine, se non guarisce, è perché c’è un bene più
grande. È una ferita sanguinosa, molto forte, ma
allo stesso tempo Dio ti permette di vedere l’amore
degli altri, di come ci ama Lui. E questo è molto
più alto e più grande di noi stessi».
Questa moglie e la sua famiglia quando hanno
ricevuto la notizia della morte del marito e padre
si sono unite più che mai. Continuano a respirare
quell’amore con la certezza di non essere soli. Sol-
tanto un cuore che ama profondamente può dire:
«È andato in cielo, con Gesù. Mi fido di Dio, che
mi dà forza e pace».
Vi lascio questa testimonianza. Forse altre persone
vivranno perdite simili con disperazione. Ci sarà
chi non capisce che si può reagire come questa mo-
glie e questa madre. Ma dobbiamo accettare che
ogni persona è unica e irripetibile, e in questo caso
la Fede ha fatto trascendere e superare la perdita di
una persona così amata, anche se il dolore e il gran-
de vuoto della perdita esistono sempre.
Don Bosco ci ha sempre ricordato di avere fiducia
in Maria Ausiliatrice, e vedremo cosa sono i mira-
coli. La nostra tendenza naturale, rapida e imme-
diata è di considerare un miracolo solo la cura di un
cancro o di una malattia simile..., ma ciò che è stato
vissuto nel cuore di questa moglie e madre e dei
suoi cinque figli è un miracolo vissuto nella Fede.
Non perdiamo questa Fede né la Speranza che ci
deve caratterizzare. Che l’Ausiliatrice continui a
tenerci per mano come Mamma, poiché ciò che ha
detto Gesù è sempre assolutamente vero per tut-
ti: «Donna, questo è tuo figlio; figlio, questa è tua
madre» (Gv 19, 26-27).
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SALESIANI NEL MONDO
Alberto López Herrero (da Misiones Salesianas)
Haiti, dieci anni
di emergenza
Sono le 16:53. Gli allarmi suonano. Haiti
sta tremando. Quarantacinque secondi
nel crollo del paese. Più di 300 000
persone sono morte, un milione e mezzo
di persone sono state colpite, il 90%
delle scuole e il 60% degli ospedali
sono stati distrutti o gravemente
danneggiati, strade, infrastrutture...
e persino il Palazzo Presidenziale
di Port-au-Prince è crollato.
Era il 12 gennaio 2010 e Haiti ha subito il
terremoto più grave degli ultimi 250 anni.
Le case salesiane hanno subito la stessa sor-
te. Tre salesiani e 250 studenti ed educatori
hanno perso la vita e le loro opere sono state colpite
in varia misura. Quest’anno ricorre il decimo anni-
versario di quella tragedia.
“Haiti porta ancora le cicatrici delle ferite e con-
tinua a soffrire le conseguenze di quella tragedia”,
spiega don Jean Paul Mesidor, il responsabile dei
salesiani di questo Paese.
Haiti era uno dei Paesi più poveri del mondo. Più
dell’80% della popolazione viveva al di sotto della
soglia di povertà, il 40% dei bambini in età scolare
non era iscritto a scuola, metà della popolazione non
sapeva leggere o scrivere. La distruzione del Paese
a causa del terremoto ha aperto, nel 2010, porte di
speranza. Era tempo di trasformare la sofferenza e la
devastazione in opportunità. Tuttavia, oggi Haiti è
più povera e più instabile rispetto al 2010.
«C’è un futuro, ma le cose devono cambiare» afferma
Sonise Durand, una giovane insegnante di formazio-
ne professionale nel settore alberghiero e della risto-
razione. Lavora in una delle zone più difficili della
capitale, La Saline, dove è stata fondata la prima casa
salesiana, con giovani dalle risorse limitate. Crede
che ciò che insegna abbia opportunità professionali
concrete per i suoi studenti, ma la realtà del Paese non
la rende ottimista.
Un paese bloccato
Haiti sta vivendo una delle situazioni più gravi della
sua storia a causa dei disordini politici. Dall’inizio
del 2019, le manifestazioni e le violenze scatenate
non consentono una vita quotidiana normale. Ad
esempio, le scuole sono rimaste chiuse per più di
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quattro mesi fino a quando non sono state in grado
di aprire le porte lo scorso gennaio. «Noi, il po-
polo di Haiti, viviamo male. Personalmente, molto
male a causa della situazione che stiamo soffrendo.
Il Paese è bloccato» spiega Gildas Violly, una gio-
vane haitiana che si sta formando in uno dei centri
salesiani di Port-au-Prince.
«La popolazione si è sollevata contro l’incapacità del
presidente, il giovane Moïse, di amministrare il Paese
e di andare avanti» chiariscono i missionari salesiani.
Oggi Haiti vive in un clima di insicurezza perma-
nente. «Anche se la situazione si è calmata nelle ul-
time settimane, la realtà è che le cause per cui hanno
iniziato sono ancora presenti» avverte don Mesidor.
«Qui ad Haiti viviamo un incubo permanente e la
situazione peggiora ogni giorno di più. Non c’è ac-
cordo tra il governo e i partiti dell’opposizione e sono
i banditi che ora fanno la legge. Ogni giorno questa
o quella zona viene colpita, il che la rende insicura
perché quasi sempre imprevedibile: finestrini d’au-
to rotti, pneumatici che bruciano, bottiglie e pietre
rotte lanciate contro la gente, strade bloccate, rapi-
menti, per non parlare delle sparatorie da parte di
gruppi armati... Le persone vengono prese in ostag-
gio, lasciando passare chi vogliono sulle strade e fa-
cendogliela pagare. Un paese paralizzato e diviso!
Purtroppo non sfuggiamo a questa violenza.
A La Saline (una grande baraccopoli), dove si trova
la prima casa salesiana, questa zona è chiusa da due
mesi. Niente più traffico. I salesiani vivono ogni
giorno sotto stress. I banditi circolano tutto il gior-
no, con le armi in mano. Le autorità coinvolte non
dicono nulla» aggiunge Hubert Mesidor, direttore
del Bollettino Salesiano di Haiti.
Haiti è ancora il paese più povero delle Americhe.
Più di sei milioni di persone vivono al di sotto della
soglia di povertà e altri 2,5 milioni in condizioni di
estrema povertà, con meno di un dollaro al giorno.
Il tasso di disoccupazione supera il 60% della po-
polazione in età lavorativa e la maggior parte degli
haitiani vive di un lavoro informale. La disugua-
glianza è enorme, con il 5 per cento della popola-
zione che possiede il 50 per cento del reddito del
Paese, mentre il 95 per cento degli haitiani deve
sopravvivere sull’altro 50 per cento.
Due scuole
salesiane quasi
completamente
distrutte.
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SALESIANI NEL MONDO
Il settore agricolo, da cui dipendeva gran parte del-
la popolazione, rappresenta oggi solo il 23 per cento
del . Il riso è un caso esemplare. Per molti anni
Haiti è stata autosufficiente per questo cereale. Nel
2018, tuttavia, il riso importato rappresentava quasi
l’80 per cento del consumo di riso e il riso haitiano
è un privilegio.
La vita è diventata molto costosa, il paniere della
spesa è in costante aumento, non ci sono oppor-
tunità e sempre più persone soffrono la fame. «Per
molti l’unica via d’uscita è lasciare il Paese e cercare
fortuna all’estero» aggiunge il superiore dei salesia-
ni di Haiti.
L’impegno salesiano
per sollevare il Paese
La ricostruzione di Haiti non è facile, né lo è a più
di dieci anni dalla tragedia che ha colpito il Paese.
«La comunità internazionale ha fatto grandi pro-
messe e si è parlato di mettere Haiti sulla strada
dello sviluppo”, spiega don Jean Paul Mesidor. La
realtà è che non è stato così e Haiti sta ancora cer-
cando di rimettersi in piedi.
Inoltre, il Paese ha dovuto affrontare un’epidemia
di colera e, nell’ottobre 2016, l’uragano Matthew,
che ha causato circa un migliaio di morti e una tri-
ste prospettiva nel sud del Paese.
I missionari salesiani, come in tanti altri luoghi,
hanno dovuto mettersi al lavoro in fretta e in questi
dieci anni sono sempre stati al fianco della popo-
lazione più bisognosa. In questi dieci anni, solo le
Missioni Salesiane hanno inviato nel Paese quasi
nove milioni di euro.
Dopo il terremoto, i missionari sono stati i primi ad
aiutare la popolazione. «Abbiamo dato kit di emer-
genza, acqua, cibo... abbiamo allestito spazi per la
sicurezza delle persone. Dopo le prime settimane
dell’emergenza vitale, abbiamo iniziato a pensare
alle necessità del Paese e, soprattutto, a ricostruire
i centri educativi e a migliorare la qualità dell’istru-
zione come elemento fondamentale per lo sviluppo
di Haiti» aggiungono i missionari. Così, attualmen-
te, più di 22000 bambini e giovani ricevono l’istru-
zione nei centri salesiani, che sono stati ricostruiti o
riabilitati, grazie all’impegno di migliaia di perso-
ne provenienti da tutto il mondo, a Port-au-Prince,
Gressier, Fort Liberté, Carrefour Thorland, Petion
Ville, Gonaïves, Cap-Haïtien e Cayes.
Bambini di strada
Il terremoto ha lasciato molti bambini in giro per le
strade, orfani o persi dalle loro famiglie. La situa-
zione attuale ad Haiti lascia i bambini in situazioni
di grande vulnerabilità. “I bambini sono tra i più
colpiti dalla situazione che il Paese sta attraversan-
do. Il numero di bambini di strada dovrebbe au-
mentare nei prossimi mesi”, ha detto don Mesidor.
Per i missionari salesiani, questi ragazzi sono una
priorità.
Il centro Lakou-Lakay è stato creato nel 1988
per soddisfare le esigenze di centinaia di bambini
che vivevano per le strade di Port-au-Prince alla
fine degli anni ’80, e nel tempo si è adattato alle
nuove esigenze. Oggi gli assistenti sociali del cen-
tro scendono in strada ogni giorno e incontrano
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decine di minori nei mercati, nelle piazze o nel-
le stazioni degli autobus. È qui che inizia il loro
primo contatto con i ragazzi e le ragazze. «Sono
ascoltati, hanno l’opportunità di raccontare la loro
storia e le loro esigenze» spiegano i salesiani del
Lakou-Lakay.
Alcuni di questi bambini andranno al Rally Cen-
tre. «Qui hanno libertà di programmazione fino
alle nove di sera. Hanno un posto sicuro dove dor-
mire, possono lavarsi, vengono loro offerti cibo e
vestiti puliti... e con il tempo partecipano ad attività
sportive e ricreative e persino a workshop di forma-
zione o corsi di alfabetizzazione» aggiungono. At-
tualmente ci sono 150 bambini tra i 10 e i 18 anni.
I workshop e il centro di accoglienza di Lakay sono la
fase finale. Ricevono ogni tipo di assistenza e le loro
esigenze di base sono soddisfatte. Inoltre, vengono
loro offerte istruzione e formazione e, naturalmente,
tutto il sostegno di cui hanno bisogno: psicologico,
reinserimento familiare... «Molti finiscono bene, ma
c’è anche chi torna in strada per la mancanza di op-
portunità. Questa è la sfida che affrontiamo con i
ragazzi di strada» dicono i salesiani.
UNA STORIA
Roseguerline era una bambina quando i suoi genitori morirono.
Lasciò il suo villaggio e andò a Port-au-Prince. La strada era la
sua unica opzione. «Tutto era una preoccupazione: cibo, vestiti,
un posto per dormire... A un certo punto ho pensato che sarei
morta», spiega la giovane donna. Ma un giorno arrivò la sua oc-
casione. Quella che la vita non le aveva ancora dato. Ha bussato
alla porta dei salesiani, ha trovato una casa e ha potuto studiare.
«È stato un sogno che si è avverato» dice. Durante i miei studi
ho conosciuto altre ragazze e insieme abbiamo iniziato la nostra
piccola impresa. Non è stato sempre facile, ma «abbiamo detto
addio alle strade e siamo diventate donne dignitose e laboriose.
Con i nostri sforzi siamo andate avanti» dice orgogliosa. Oggi
Roseguerline è sposata e ha un figlio al quale vuole dare le op-
portunità che non ha avuto.
Educazione, il futuro
Dopo gli sforzi per ricostruire e riabilitare i centri
educativi e gli uffici salesiani, i missionari salesia-
ni si sono impegnati per un’educazione di qualità
e per migliorare il sistema di formazione profes-
sionale del paese sostenendo il Ministero dell’E-
ducazione. Da questo lavoro, ad esempio, è nato
l’
(Escuela Normal Técnica): una scuola per
la formazione di insegnanti di formazione profes-
sionale.
«La sua missione è quella di formare gli educatori,
di aumentare la qualità dell’istruzione nella for-
mazione professionale e di mettere il valore dell’e-
sperienza e dell’apprendimento nei mestieri. Più
di 200 giovani sono stati formati finora in questo
progetto con l’aiuto dell’ Gioventù e Sviluppo
e dell’Agenzia spagnola per la cooperazione inter-
nazionale e lo sviluppo» spiega Maria del Carmen
Rodriguez, responsabile di Gioventù e Sviluppo ad
Haiti.
«È difficile convincere un giovane che potrà ave-
re un domani migliore. E dobbiamo continuare a
lavorare sull’educazione e la formazione dei bam-
bini e dei giovani in questo Paese perché da loro
dipende l’Haiti del progresso, l’Haiti del futuro»
conclude don Jean Paul Mesidor.
I bambini sono
tra i più colpiti
dalla situazione
che il Paese sta
attraversando.
Per i missionari
salesiani,
questi ragazzi
sono una
priorità.
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TEMPO DELLO SPIRITO
Carmen Laval
Che cosa ho fatto per
meritarmi questo?
L‘esperienza del dolore ci spinge
a voler cogliere con la ragione
ciò che ci capita. Così il primo
effetto del dolore diviene quello
di costringere l’uomo a rimettere
tutto in questione.
A d un primo sguardo il dolore è una con-
seguenza della cattiveria umana. È sotto
gli occhi di tutti: molti esseri umani pas-
sano la giornata a ferirsi vicendevolmente.
Esiste però anche il dolore che non deriva dalla
libertà dell’essere umano, bensì dal cosmo stes-
so. Pandemie, tsunami e terremoti non sono pro-
vocati da un errore umano, ma nascono nel cuore
della terra. Le catastrofi naturali dimostrano che
il mondo non è soltanto pacifico e armonioso, ma
è un mondo in cui regna il caos, in cui si trovano
imprevedibilità e talvolta anche mania di distruzio-
ne. Il mondo non è bello e buono. Ha in sé anche
qualcosa di crudele.
Eppure la Bibbia ci assicura che l’universo proget-
tato da Dio è buono.
C’è una sola spiegazione: Dio non ha voluto un
prodotto finito, ma un prodotto intessuto di infi-
nite possibilità poi ha detto all’uomo: «Io ho inco-
minciato, adesso continua tu» e ha dato all’uomo
l’intelligenza necessaria e le capacità per andare
avanti, soprattutto la creatività, dal momento che
lo ha fatto “simile a sé”.
Dio non voleva burattini, ma esseri intelligenti e
liberi e ha dato loro l’intelligenza per scoprire tut-
te le potenzialità nascoste in un mondo magnifico.
Dio ha dato all’uomo perfino le chiavi della vita.
Se lo volesse veramente, l’uomo potrebbe debellare
tutte le malattie, anche quelle genetiche, difendersi
dai terremoti e dalla povertà.
Ma l’uomo non lo fa.
Proprio perché tocca qualcosa di fondamentale,
quando il dolore bussa alla porta, tutti tirano in
ballo Dio. Per chi non crede, il dolore è un’ingiu-
stizia e un’assurdità. Per i discepoli di Gesù il dolo-
re può essere la grande tentazione che allontana da
Dio oppure una “scalata” difficoltosa che avvicina
a Dio.
Anche i bambini lo sanno.
Il piccolo Lorenzo, tre anni, davanti ad un magni-
fico panorama di montagna, chiese all’improvviso:
«Chi ha fatto la montagna?»
La mamma, sorpresa: «Non so, Dio?... oppure si è
fatta da sola?»
Il bambino rifletté un momento, poi con la serietà
dei piccoli concluse: «Io lo so: il diavolo ha fatto
la montagna e Dio ha fatto i sentieri per arram-
picarsi in cima alla montagna!»
Da questo punto di vista, i cristiani dovreb-
bero essere dei privilegiati. Dio è venuto
sulla terra, ha parlato. Avrebbe quindi do-
vuto spiegare chiaramente il mistero della
sofferenza umana. E invece…
Gesù non muore nella serenità. La sua
agonia nell’orto degli Ulivi è gonfia di
lacrime. Ha paura, «e il suo sudore di-
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venne come grosse gocce di sangue che cadevano a
terra» (Vangelo di Luca 22,44).
Supplica: «Allontana da me questo calice!». Muore
sulla croce gridando: «Dio mio, Dio mio, perché
mi hai abbandonato?» (Vangelo di Marco 15,34).
La risposta
Con la nostra domanda tormentosa sul perché del
dolore siamo in buona compagnia. Proprio come
Gesù, chi soffre grida a gran voce: «Dio mio, Dio
mio, perché mi hai abbandonato?»
Dio ha risposto. Dio ha risposto a Gesù con la Ri-
surrezione. In essa non gli ha nascosto il suo volto,
ma gli ha spalancato la porta della Gloria. La risur-
rezione di Gesù è la risposta esistenziale di Dio alla
domanda del “perché?” sulla croce.
Di una cosa siamo certi: Dio risponde anche alla
nostra domanda. Anche il nostro cammino della
croce termina nella Gloria.
La sofferenza, vista con lo sguardo di Dio, ha un
senso. Un cristiano curva la schiena soltanto da-
vanti a Dio e per alzare chi è caduto. Il suo pri-
mo compito è la lotta contro il male, comunque
e ovunque si presenti, con tutte le sue forze e con
il sacrificio della propria vita, se fosse necessario.
Naturalmente il modo più semplice ed efficace
per lottare contro la sofferenza consiste nel non
essere noi causa di sofferenza!
Gesù ordina sempre ai suoi discepoli di procla-
mare il Vangelo e “guarire” gli ammalati.
Il secondo modo di combattere il male e la sof-
ferenza è essere competenti e attenti nel proprio
lavoro. Quando uno ha mal di denti, non biso-
gna per prima cosa prendergli la mano e dirgli:
«Ti amo!», ma per prima cosa, e anche in fretta,
dobbiamo cercargli un bravo dentista. Quando
si ha male, prima di tutto bisogna cercare di far
cessare il male.
Ma quando una mamma ha appena perso suo
figlio, quando una moglie ha appena perso suo
marito, quando un giovane ha appena saputo
che non camminerà più, allora la competenza
non serve più, ci vuole un tipo di compassione
che è presenza.
Quando uno sta morendo, e tutto il pos-
sibile per salvarlo è già stato fatto, ci vuole
ancora qualcuno accanto, per accom-
pagnarlo fino alla porta del cielo.
In confronto a medici, avvoca-
ti, assistenti sociali, psicologi
e psicoterapeuti, i cristiani
possono dare un conforto
unico ed esclusivo.
Maggio 2020
11

2.2 Page 12

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2.3 Page 13

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Lavorare non per collezionare meriti ma per mi-
gliorare la vita dell’ammalato, che sia ricco o po-
vero, bianco, nero o giallo. C’era bisogno di andare
così lontano per capirlo? Forse sì, forse no. Questa
è solo una delle vie. La più semplice forse, parados-
salmente. Perché l’essenziale, qui ricoperto da mille
superficialità, lì è allo scoperto, a toccata di mano,
a toccata di sorriso. A volte andare tanto lontano ti
aiuta ad avere uno sguardo più attento anche verso
il tuo vicino. La sfida è riuscire a scavare a fondo,
non perdere mai di vista l’essenziale qui e adesso.
L’Africa non è solo povertà, l’Africa non è solo mal-
nutrizione, l’Africa non è solo il sorriso del bimbo
neretto che ci intenerisce. L’africa è tradizioni, odo-
ri, colori, danze, musiche. L’africa è qualcosa che ti
mette in discussione, qualcosa che ti mette in cri-
si, qualcosa che ti consente di guardare da un’altra
prospettiva. Qualcosa che ti fa pensare che forse i
“poverini” siamo noi. Qualcosa che ti fa arrabbia-
re. Qualcosa che ti fa venir voglia di combattere.
Qualcosa che ti fa venir voglia di cambiare. Un
proverbio africano recita: “quando gli elefanti com-
battono, sono i fili d’erba a soffrire”. Gli elefanti
non sono solo le grandi potenze geopolitiche, non
sono solo le multinazionali. Gli elefanti siamo noi,
noi che direttamente e indirettamente le sostenia-
mo, noi che preferiamo stare seduti sul divano a
dire che non è colpa nostra e che purtroppo non
possiamo farci niente. Io invece credo che qualcosa
possiamo farla, questo qualcosa non significa che
tutti devono partire per l’Africa ma che ognuno nel
suo piccolo deve cambiare. Solo così sotto i piedi
degli elefanti non ci sarà più erba da calpestare».
Mimmy ha
portato in
Africa le
sue fresche
capacità
professionali
e soprattutto
il suo sorriso.
Maggio 2020
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2.4 Page 14

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LE CASE DI DON BOSCO
Sergio Slavazza
Don Bosco all’opera!
Le opere sociali Don Bosco
di Sesto San Giovanni
«Riempie il cuore di gioia rivedere
i nostri exallievi, a distanza di anni,
che tornano per iscrivere il loro
figlio alle nostre scuole, oppure
per cercare diplomati da assumere
nell’azienda che hanno fondato o
ereditato a loro volta dai genitori».
L’ingresso
dell’opera
di Sesto.
È la scuola
salesiana
numericamente
più grande
d’Europa.
Dal 1948 ad oggi
«Il Cardinale Ildefonso Schuster, Arcivescovo di
Milano, ben edotto dei disordini morali e del bi-
sogno economico che affliggevano su vasta scala la
periferia di Milano, animato dallo spirito aposto-
lico che lo distingueva sempre in ogni settore, in-
vitò i Salesiani a prestare l’opera loro a favore delle
classi meno abbienti. Si venne così alla decisione
di compiere un esperimento pilota alla Rondinella,
rione posto ai confini di Sesto San Giovanni, ver-
so il Comune di Cinisello Balsamo. L’8 dicembre
1948, festa dell’Immacolata, vennero alla Rondi-
nella i Salesiani, con a capo don Francesco Benia-
mino Della Torre, i quali con tutto l’entusiasmo si
misero all’opera!».
Così narrano le cronache passate in merito alla
fondazione delle Opere Sociali Don Bosco ( )
di Sesto San Giovanni, resa possibile ai suoi inizi
anche grazie all’entusiasta contributo del senatore
Enrico Falck, titolare delle omonime acciaierie.
Da quel lontano 1948 la presenza dei Salesiani a
Sesto è diventata notevolmente importante, anche
numericamente: 2860 studenti, oltre 200 collabora-
tori, 2 parrocchie, 1 comunità religiosa, 1 oratorio,
800 ragazzi che frequentano la catechesi, 1 cinema
teatro, 1 polisportiva, 500 aderenti ad associazioni
sportive parrocchiali, 100 volontari Caritas, su una
popolazione di circa 18 000 abitanti.
Dal febbraio 2020 le
sono una Apple Di-
stinguished School, cioè un istituto certificato da
Apple per essersi contraddistinto promuovendo
l’innovazione continua in ambito didattico e
scolastico. Le Apple Distinguished School sono
centri di innovazione, prestigio ed eccellenza nel-
la didattica che usano i prodotti Apple per ispirare
gli studenti a essere creativi, aiutandoli a sviluppare
capacità di collaborazione e pensiero critico. Fanno
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Maggio 2020

2.5 Page 15

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un uso innovativo delle tecnologie nell’apprendi-
mento, nell’insegnamento e nell’ambiente scolasti-
co, con successi accademici documentati.
La Scuola Secondaria di Primo
Grado “Ercole Marelli” e
la Scuola Secondaria di Secondo
Grado “Ernesto Breda”
Le due Scuole sono caratterizzate dalla presenza
di numerosi Salesiani, quotidianamente impegna-
ti nell’azione formativa, rendendo attuale il meto-
do educativo di don Bosco, il Sistema Preventivo,
che pone al centro della propria azione la cura del
singolo ragazzo, la vicinanza, la presenza e l’ac-
compagnamento formativo nelle diverse fasi del
suo cammino di crescita. Questo viene illustrato in
modo approfondito nel Progetto Educativo di Isti-
tuto. Sono Scuole interessate alla crescita integrale
della persona in tutte le sue dimensioni – cultu-
rale, espressiva, affettiva, sociale, fisico-corporea,
spirituale e religiosa – orientando a questa finali-
tà generale l’impegno di tutte le figure educative,
chiamate a portare il proprio contributo attivo alla
promozione del successo formativo. Gli interven-
ti pedagogici vengono adattati alle caratteristiche
della fase formativa che sta interessando il ragazzo,
tenendo conto del percorso già compiuto e focaliz-
zando gli interventi sulle esigenze delle successive
fasi. Si tratta di Scuole attente al territorio e al futu-
ro, ai nuovi bisogni emergenti dalle tendenze in atto
nella società attuale; alla costruzione della persona
affiancano l’impegno per una valida preparazione
culturale, un solido quadro di valori, l’acquisizione
delle competenze necessarie per affrontare con suc-
cesso la vita nella società, la ricerca continua di so-
luzioni innovative capaci di rivitalizzare continua-
mente la tradizione. Quindi Scuole dove si impara
a vivere, al passo con i tempi e attente al singolo,
capaci di orientare verso scelte libere e responsabili;
Scuole che vivono l’apprendimento come il frutto
dell’esperienza maturata all’interno di una rete di
occasioni formative e che considerano l’accoglienza,
l’incontro e l’accompagnamento attuati nelle scelte
curricolari, didattiche e organizzative, come stru-
menti privilegiati per raggiungere questa finalità.
Il Centro di Formazione Cnos-Fap
“Enrico Falck”
Don Bosco, da buon educatore, si è reso conto fin
da subito della necessità di dare una base cultura-
le e una competenza nel mondo del lavoro ai suoi
ragazzi. Era convinto che il Vangelo passasse at-
traverso tutto l’uomo, che il pane spirituale stesse
insieme a quello materiale, che la fede senza una
cultura sarebbe troppo poco per l’uomo. Educa-
zione integrale appunto: Dio e l’uomo insieme, la
ragione e la fede che collaborano, l’onesto cittadi-
no e il buon cristiano mai separati. Don Bosco ha
inventato le scuole professionali, ha scritto i primi
contratti di lavoro che esistono in Italia, ha segui-
«Il nostro
patrimonio
più importante
sono i tantissimi
insegnanti,
formatori,
collaboratori,
dipendenti che
quotidianamente
condividono
con noi Salesiani
la sfida educativa
che quest’anno
abbiamo
condensato
nel motto
#IlBeneFattoBene».
Maggio 2020
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2.6 Page 16

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LE CASE DI DON BOSCO
I tre settori
formativi
portano il
nome dei tre
imprenditori
“sestesi” che
nel corso
dei decenni
avevano
contribuito alla
fondazione
della scuola.
to i suoi ragazzi che incominciavano a lavorare.
Il Centro di Formazione Professionale di Sesto non
offre solamente competenze tecniche: ogni tecnica
presuppone sempre una visione del mondo e una
visione della vita umana, un comportamento da te-
nere e un modello di uomo a cui far riferimento. La
Formazione Professionale Salesiana è innanzitutto
luogo di esperienza ecclesiale, vale a dire che in essa
trovano uno spazio importante l’annuncio cristiano
e la proposta della vita di fede. È una scuola per
tutti, che accoglie ogni ragazzo e ragazza nel punto
in cui la sua libertà si trova.
TRE DOMANDE AL DIRETTORE
Don Elio Cesari, nato a Bologna nel 1978, laureato
in Filosofia all’Università Cattolica del Sacro Cuore
di Milano, ha studiato Teologia presso la Facoltà
Teologica dell’Italia Settentrionale. Già delegato
per la Pastorale Giovanile dell’Ispettoria Salesiana
Lombardo-Emiliana, è sacerdote salesiano dal 2007.
Dal 2017 è il Direttore delle OSDB.
Don Elio, si può ravvisare uno “stile”
che caratterizza le OSDB?
Se dovessi riassumere in una sola parola la cifra del-
la nostra Opera direi che è quella dell’accompagna-
mento. Già don Bosco diceva «Basta che siate giova-
ni perché vi ami assai». Cerchiamo di curare molto
il percorso dei nostri allievi, sin dal primo ingresso
e ancora prima, dai colloqui con loro e i loro geni-
tori in fase di preiscrizione. Pur essendo una scuola
molto grande infatti, riceviamo tantissime richieste,
che purtroppo non riusciamo a soddisfare in toto.
Però ogni domanda ottiene da noi una risposta. Per
questo offriamo un vero e proprio “servizio di orien-
tamento”, che coinvolge anche alcuni nostri profes-
sionisti interni che lavorano nei progetti educativi,
dell’inclusione e della continuità didattica. La nostra
maggiore soddisfazione non è quando un ragazzo o
una ragazza si iscrivono da noi, ma quando – grazie
anche al nostro impegno – trovano la loro strada!
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Maggio 2020

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Sappiamo che le vostre scuole
hanno standard di qualità molto alti.
È vero. Questo non siamo noi a dirlo ma ci viene
riconosciuto innanzitutto dalle famiglie con le
quali abbiamo assidui contatti e che sono coinvolte
direttamente nella vita della scuola (momenti
collegiali, ritiri, scuola formazione genitori, occasio-
ni di festa e di incontro…); e in secondo luogo dalle
aziende che numerose, nel nostro territorio a Nord-
Est di Milano, si rivolgono ai nostri uffici alla ricerca
di profili tecnici da assumere o anche semplicemente
da accogliere in una delle numerose forme di alter-
nanza scuola lavoro (stage, periodi di formazione…).
La cosa bella è che questi imprenditori, che notoria-
mente non vogliono perdere tempo e neppure dena-
ro, si rivolgono con fiducia alle nostre scuole dove la
preparazione tecnica e professionale è molto curata
ma soprattutto perché sanno di trovare una formazio-
ne umana (e, aggiungo io, cristiana) che altrove diffi-
cilmente reperiscono.
Inoltre anche enti esterni di ricerca e di certificazio-
ne (come Eduscopio o Invalsi per citarne solo due) ci
restituiscono delle fotografie molto gratificanti sui
nostri allievi che spesso, accompagnati dai loro in-
segnanti, partecipano a concorsi e contest tecnici e
progettuali vincendo premi anche molto importanti
(SI_Fabbrica, Social Innovation Campus, NAO Chal-
lenge, Premio RYoung…).
A questo proposito, quali sono gli strumenti
che utilizzate per curare la crescita umana
e la maturità spirituale dei vostri giovani?
Come sappiamo la Scuola Salesiana garantisce, ol-
tre ai docenti e ai formatori, delle figure che sono il
frutto dell’esperienza pedagogica di decenni e che
affondano le loro radici sin nella vivida saggezza di
don Bosco: il Direttore, il Coordinatore (coadiuvato
da uno o più vice) delle attività didattiche ed educa-
tive, il Consigliere, il Catechista e il Coordinatore di
classe. Tutti costoro formano la Comunità Educativo
Pastorale perché l’educazione deve essere un’azio-
ne collettiva, che metta il giovane al centro. Inoltre
contempliamo la presenza di diverse proposte sia nei
percorsi educativi trasversali (Affettività, Media Edu-
cation, Prevenzione delle Dipendenze) sia in quelli
extracurriculari come le inizia-
tive promosse dal MGS,
i campi scuola, le Compa-
gnie, il percorso Giovani
e Politica, i gruppi mis-
sionari…
La Fondazione its Lombardia
Meccatronica
La Fondazione si compone di oltre 120 partner,
tra scuole, enti locali e soprattutto aziende. Sede
principale ed ente capofila sono le .
Gli Istituti Tecnici Superiori rappresentano l’a-
pice della filiera della Formazione Professionale
e realizzano corsi post diploma destinati a giova-
ni diplomati che desiderano migliorare le proprie
competenze attraverso una metodologia di ap-
prendimento applicativa: i corsi , della durata
di un anno, e i corsi , della durata di due anni.
L’ di Sesto (che ha sedi locali anche a Bergamo,
Lecco e Lonato del Garda) programma percorsi
formativi nei seguenti ambiti: Meccatronico Indu-
striale, Meccatronico Autoferrotranviario, Mec-
catronico Biomedicale, Meccatronico dei Veicoli
Ecosostenibili, Manutenzione 4.0 per sistemi mec-
catronici avanzati.
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2.8 Page 18

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L’INVITATO
O. Pori Mecoi
Don Gigi Zoppi
«Era proprio la figura di don
Bosco che con entusiasmo e
la testimonianza della vita mi
trasmetteva uno dei giovani
salesiani, don Andrea. Fu proprio
a lui che rivelai il desiderio che
stava nascendo dentro di me di
“fare come don Bosco”. Nasceva
quel sogno che oggi, quasi
novantenne, posso raccontare
con gioia come avverato».
Gli amici mi chiamano Gigi, ma nella fa-
miglia del nonno e dello zio, una vera co-
munità contadina di 15 persone, mi chia-
mavano Rino, dal nome di mamma Rina
che era partita per il cielo, da un ospedale di Firen-
ze, la notte di S. Lorenzo del 1931, quella della mia
nascita. Undici anni dopo, entrato nell’aspirantato
salesiano in Casentino, per la prima media, tornai
Luigi, con il nome del nonno paterno, tanto caro
alla mamma.
Insieme all’affetto del babbo, dei nonni e di tan-
te zie e cugine arrivò, fin dai primi giorni di vita,
quello della balia che mi allattò insieme al figlio
suo, Foresto. Fu, di certo, un latte speciale perché
diede vita a due futuri sacerdoti.
Dopo 4 anni ritrovai una seconda mamma a Figli-
ne Valdarno, con la quale mio papà, operaio che
lavorava in fabbrica ben 10 ore al giorno, si era ri-
sposato. La casa era poverissima, fredda, come mi
apparve da subito anche quella signora che non co-
noscevo, che mi regalò una cara sorella. Ci volle
un po’ di tempo per riscaldarmi. Mi mancava la
campagna del nonno, con la sua bellezza e la liber-
tà di movimento che poteva offrire ad un bimbo
come me. Finché un giorno ritornarono in paese
i Salesiani, tanto desiderati dai Figlinesi, nel loro
oratorio. Imparai la strada e non li lasciai più, tan-
to che la mamma mi diceva: «Perché non ci porti
anche il letto?»
Fare come don Bosco
Era proprio la figura di don Bosco che con entu-
siasmo e la testimonianza della vita mi trasmetteva
uno dei giovani salesiani, don Andrea. Fu proprio a
lui che rivelai il desiderio che stava nascendo den-
tro di me di “fare come don Bosco”. Nasceva quel
sogno che oggi, quasi novantenne, posso raccontare
con gioia come avverato.
Ma le scelte della vita hanno, spesso, un prezzo
molto alto da pagare. Ho visto mio padre piangere
come se perdesse il figlio quando ho deciso di par-
tire per il noviziato. «Tu sei un povero operaio. La-
scia che i preti lo facciano studiare; poi, è intelligen-
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te e tornerà a casa» gli consigliò il segretario della
sezione del Partito Comunista. Mi avrebbe rivisto
l’anno dopo cresciuto di 20 centimetri e rivestito da
prete ma deciso a frequentare senza paura i dibattiti
culturali-politici insieme a lui nella sezione. Volevo
capire in che consistesse la politica del Paternoster
che don Bosco raccomandava ai Salesiani, ma so-
prattutto quale fosse l’ideale che aveva conquistato
mio padre ed i suoi compagni operai. Erano i tempi
dello scontro diretto fra la Chiesa ed il Comunismo
Marxista; ma di marxismo mio padre ed i compa-
gni di lavoro ne capivano poco e neppure sconosce-
vano i misfatti di quel regime. Sembrava invece il
partito capace di risolvere i problemi della gente: la
pace, la giustizia, il lavoro, la libertà che gli era stata
impedita con violenza durante la dittatura fascista.
Credo che tutti questi avvenimenti sopra descritti
fossero le esperienze necessarie per prepararmi ad
affrontare quelle situazioni che si sarebbero veri-
ficate durante la mia vita di sacerdote di periferia.
Dio è amore e provvidenza.
Il 1956 fu l’anno della consacrazione sacerdotale nella
basilica di Maria Ausiliatrice. Fui assistito, insieme
agli altri 22 compagni di 11 diverse nazioni da don
Quadrio, un insegnante dell’università pontificia sa-
lesiana, campione di santità, che la Chiesa ha rico-
nosciuta in lui e che presto, mi auguro, santificherà.
Le tappe della mia vita nelle case salesiane: assi-
stente e insegnante dei giovani artigiani a Sampier-
darena, degli studenti delle medie a Collesalvetti,
catechista dei convittori a Livorno per 5 anni, dele-
gato della pastorale giovanile ispettoriale, direttore
dell’oratorio salesiano di Pietrasanta ed insegnante
dell’istituto.
che. Avvenne un cambio improvviso di destinazio-
ne e di missione.
La nuova destinazione per me sarebbe stata Livor-
no, con il compito dell’assistenza e della cura dei
giovani tossicodipendenti delle piazze della città,
compito che avevo in parte già avviato a Pietra-
santa ma che, trattandosi di un fenomeno ancora
molto sconosciuto, era inviso alla gente e al clero.
Il vescovo di Livorno, monsignor Ablondi, mi ac-
colse confortandomi ed affidandomi, con fiducia,
la nuova missione.
Era opinione corrente che “il disordine sociale” che
si stava diffondendo con le contestazioni giovanili
in tante nazioni di Europa e insieme la compar-
sa delle droghe, si sarebbe potuto stroncare con la
repressione ed il carcere. Soprattutto, per coloro
che si drogavano, si ritenne necessaria una legge
più severa. Quello dell’uso della droga era invece il
sintomo di un grave disagio sociale che sarebbe di-
ventato un fenomeno di dipendenza da stupefacenti
che avrebbe ucciso milioni di persone, dilagando
nel mondo intero, soprattutto fra i giovani. Non era
un problema sanitario, come poi sarebbe anche di-
ventato, ma educativo, formativo, sociale.
La nostra scommessa fu quella di proporre ai nostri
giovani alti valori e proposte alternative concrete di
impegno sociale e di cambiamento. Nacque Ope-
razione Mato Grosso, Impegno Medio Oriente e
Una Messa
che testimonia
la comunione
ecclesiale
della “famiglia”
di don Zoppi.
I tossici delle piazze
Nel novembre del 1976, allo scadere del V anno
di insegnamento si scatenò una vera burrasca di
incomprensioni: rispetto alla pratica pastorale di
quella diocesi, all’attuazione di quanto indicato nel
Concilio Vaticano II di cui ero entusiasta e alle sue
aperture pastorali e, di conseguenza, socio-politi-
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2.10 Page 20

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L’INVITATO
«La nostra è
una proposta
per vivere
insieme,
liberamente,
i valori del
Vangelo».
per le necessità di recupero dalle droghe, il servizio
delle comunità di accoglienza. Queste proponeva-
no una esperienza di vita alternativa basata sulla ac-
coglienza, il rispetto, l’amicizia, la stima di sé attra-
verso la pratica di un lavoro a misura di uomo che
gratifica e diventa una delle migliori terapie (ergo-
terapia), che garantisce autonomia e indipendenza;
la vita in comune di servizio reciproco, di amicizia,
di responsabilità; superando il bisogno dell’analge-
sico usato per placare il disagio. Mai più eroina o
quelle sostanze che alienano, come gli allucinogeni,
o che scatenano energie innaturali come la dopa-
mina, la cocaina ma distruggono il sistema nervoso
centrale. Importanti le terapie di gruppo che fanno
riscoprire fragilità e risorse comuni a tutti e le stra-
de per uscire dai conflitti interiori, o sociali, fami-
liari, esistenziali.
Vecchie canoniche
Una tale esperienza è da vivere in un ambiente pre-
feribilmente rurale, agricolo, soprattutto per gente
di città, per inebriarsi dell’aria pura e del verde del-
la campagna, dei suoi silenzi, le aurore ed i tramon-
ti, il cielo stellato, i fiori, i frutti e gli animali più
diversi. Oppure l’ambiente del mare, o quello dei
monti, con i tanti tesori della natura, impossibili a
vedersi in città.
Il nostro programma era quello di ricostruire la
persona umana ristrutturando gli edifici da abitare,
vecchie canoniche e vecchie chiese abbandonate da
tempo. Una proposta di vivere insieme, liberamen-
te, alti valori in spirito evangelico. Ricomporre le
famiglie distrutte dalla droga, genitori e figli, fa-
cendoli dialogare insieme con attenzione e rispetto
per riprendere insieme un cammino di libertà.
Anche i bimbi, in quel tempo era possibile tenerli
in comunità con la mamma o con il papà a van-
taggio di tutti, senza conseguenze spiacevoli. Ma
quelli erano altri tempi.
Poi, verso la fine degli anni ’80, arrivò l’ fra i
giovani che nelle piazze si passavano la siringa spor-
ca di sangue “per farsi la pera”. Chi era infetto tra-
smetteva al compagno la malattia. Allo stesso modo
succedeva attraverso i rapporti sessuali non protetti.
La sentenza era per tutti entro i 10 anni nefasta. Le
medicine erano inadeguate e così rimasero fino al
’97, quando, le nuove, cominciarono ad arrestare la
mortalità. Ma il vaccino è ancora oggi da scoprire
mentre il contagio continua a propagarsi causando
milioni di morti in tutto il mondo, soprattutto in
Africa ed Asia, dove le medicine difettano.
La casa famiglia
Per questo lasciai ai miei bravissimi collaboratori
le comunità terapeutiche e avviai la casa famiglia
del Ce.I.S. Tre Ponti presso la Rotonda sul mare
di Livorno.
La cura di questi ammalati è stata per me e per
i miei collaboratori l’esperienza più forte. Senza i
volontari, sempre disponibili, non sarebbe stato
possibile offrire servizi, testimonianza, e voglia di
vivere, in piena gratuità. Non una clinica di cure
palliative ma una casa-famiglia che lavora per riem-
pire le nostre giornate di interesse e di valori.
Quanti giovani ci furono affidati dalle famiglie per
la paura errata di un contagio diretto fra persone o
dagli ospedali che non avevano altra possibilità di
trattenere il degente se non in prossimità di deces-
so. Con questi giovani il rapporto fu così profon-
do che diventammo davvero i loro cari, tanto che
qualche volontario/a fu da loro considerato come il
loro papà o la loro mamma.
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Maggio 2020

3 Pages 21-30

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3.1 Page 21

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La loro fede religiosa particolare fu rivissuta, dai
cristiani e dai musulmani, in piena libertà e con-
sapevolezza così che, anche la fine dei loro giorni
si rivestì di speranza. Commovente fu la consegna
fattami da Doudou, del suo libro del Corano, a me
sacerdote, perché lo donassi all’Iman, prima di par-
tire per il Cielo.
Pieno di tenerezza fu il dono degli anelli di sposa
che mi volle fare Laika. Aveva contratto il virus dal
marito che aveva curato con tanto amore e che era
morto qualche anno prima di lei. Fu un gesto di
totale affidamento, dopo aver ricevuto i sacramenti
per poi chiudere gli occhi in serenità.
Accompagnammo così nei loro ultimi giorni 14
giovani sui trent’anni di media. Fra loro anche una
ventenne prossima alle nozze.
Il nuovo millennio cambiò gli scenari dei «Tre Pon-
ti»: diminuirono le richieste degli ammalati che
ricevevano dagli ospedali medicine sempre più po-
tenti, tali da sconfiggere la mortalità che portava il
virus, sicché le loro condizioni migliorarono radi-
calmente.
Cominciarono invece a bussare a quella porta gli
immigrati senza permesso di ingresso, in cerca di
lavoro, i profughi, le donne della tratta che riusci-
vano a liberarsi, i disperati che cercavano un rifu-
gio. A volte erano nuclei familiari che bussavano e
insieme a loro arrivarono quindi anche i loro bim-
bi. Fu necessario moltiplicare le residenze perché
la convivenza restasse familiare. Prendersi cura di
loro voleva dire aiutarli in tutto: offrire gli alimen-
ti, aiutarli a mettersi in regola con i documenti, a
trovarsi il medico, il pediatra, l’assistente sociale,
la scuola, il lavoro, la casa popolare, la cittadinan-
za, ma soprattutto ritrovare la speranza di una vita
migliore, dignitosa, più felice. Questo è tuttora il
compito dei volontari che se ne sono assunti pie-
namente la responsabilità e sono certi che la Prov-
videnza, che ha sempre vegliato sulla casa-famiglia
del “Ceis-Tre Ponti” continuerà la sua opera.
Giunto alla soglia dei 90 anni, con la consapevolez-
za e la gioia di una esperienza pastorale pienamen-
te vissuta come un sogno di gioventù, auguro ad
ogni mio fratello salesiano di andare con coraggio
nelle periferie della vita, fra gli ultimi della società
del benessere, quelli che essa produce, lo “scarto”,
come dice papa Francesco, per prendersi cura dei
piccoli, dei poveri, dei fragili. Lì il vangelo della
misericordia si fa più urgente e più chiaro.
I miei preziosi collaboratori, che hanno formato
con me il Centro di Solidarietà di Livorno, sono
stati compagni di viaggio e di fede alcuni, ma i più
erano agnostici se non atei. Ci ha legato un forte
senso umano di solidarietà con i più svantaggiati.
Ci abbiamo creduto fino a mettere in gioco la no-
stra vita. Insieme abbiamo imparato il da farsi in un
campo sconosciuto ottenendo risultati a volte posi-
tivi, a volte negativi con tanti errori che abbiamo
cercato di correggere.
Grazie a Dio che mi ha scelto ed ha tracciato per
me questo cammino ed alla mamma che, donando
la sua vita per me, ha permesso quanto è successo.
«Sono giunto
alla soglia dei
90 anni, con la
consapevolezza
e la gioia di
una esperienza
pastorale
pienamente
vissuta come
un sogno di
gioventù».
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3.2 Page 22

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INIZIATIVE
Marta Rossi
Un’esperienza stupenda
Il Servizio Civile Universale con i Salesiani per il Sociale APS
Mi sento la persona più fortunata del mondo
nell’aver conosciuto questi giovani, che ogni giorno
erano e sono lì a giocare, che si sono affezionati
a noi, che hanno bisogno di consigli, di persone
amiche, di esempi e di tanto affetto.
“Il Servizio Civile non è mai stato un la-
voro per me ma è stato il realizzarsi del
mio sogno più grande, quello di animare
in Oratorio e di passare del tempo con
tanta gente che quotidianamente mi dava qualco-
sa”. Andrea, 24 anni, ha svolto il Servizio Civile
universale nella casa salesiana di Salerno. Giulia,
invece, lo ha svolto a Palermo: “Mi sento la per-
sona più fortunata del mondo nell’aver conosciuto
questi giovani, che ogni giorno erano e sono lì a
giocare, che si sono affezionati a noi, che hanno
bisogno di consigli, di persone amiche, di esempi e
di tanto affetto. Tra loro, anche il più “disgraziato”,
è davvero bellissimo”. Ilenia, invece, ha vissuto l’e-
sperienza all’estero e ha svolto il suo anno di servi-
zio in Spagna. “Io passo le mie giornate tra giudici
e avvocati, scrivendo atti giudiziari, sentenze... ma
mi manca quell’innocenza dei ragazzi. Arrivare in
classe e salutarli, farmi raccontare la loro giornata,
i loro problemi”.
Un’esperienza che fa crescere, che forma, che rea-
lizza sogni e mette in crisi le certezze: tutto questo
è il Servizio Civile Universale con i Salesiani, che
in Italia è coordinato e gestito da Salesiani per il
Sociale . Tra gennaio e febbraio sono partiti i
1149 volontari selezionati tra le 2461 domande ar-
rivate, così divisi: 1117 volontari in Italia e 32 vo-
lontari per i progetti all’estero.
Fare il Servizio civile universale con i Salesiani è
un’opportunità per far maturare i giovani nell’au-
tonomia e nel servizio responsabile verso gli altri,
specialmente verso i più piccoli e i più bisognosi,
attraverso l’animazione e l’assistenza nello stile di
don Bosco. Nelle case salesiane dove si svolge il
servizio, il giovane viene inserito nella Comunità
educativa pastorale per condividerne la missio-
ne. Per questo motivo, ai candidati viene richiesta
un’attitudine alle attività educative, formative e di
educazione; una motivazione a vivere un’esperienza
di crescita personale e di gruppo.
Per aiutare i volontari nella loro crescita verso l’au-
tonomia, viene loro corrisposto un rimborso spese
da parte del Dipartimento delle Politiche giovanili
e del Servizio civile universale pari a 439,50 euro al
mese; per i volontari all’estero invece il contributo è
di circa 850 euro mensili e le spese di vitto e allog-
gio sono incluse.
Prima della partenza, c’è una fase di preparazio-
ne che prevede la formazione generale e specifica.
Per quella generale per i volontari in servizio civile
all’estero, quest’anno ha tenuto un incontro la gior-
nalista Federica Angeli, da sei anni sotto scorta per
22
Maggio 2020

3.3 Page 23

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«SCATENATE IL PARADISO!»
Salesiani per il Sociale oltre alla promozione del volon-
tariato giovanile è impegnata a salvare ogni ragazzo,
nessuno escluso, come avrebbe fatto don Bosco, a par-
tire da coloro che sono più poveri, esclusi ed emargina-
ti. Opera in tutto il territorio nazionale come rete fatta
di case famiglia, comunità accoglienza, centri diurni
e altri servizi: nel 2019, attraverso i diversi servizi e
progetti, sono stati oltre 30mila i bambini e i giovani
raggiunti.
Per sostenere le attività di Salesiani per il Sociale APS,
puoi donare il 5x1000 inserendo il C.F. 97099620581,
per informazioni: info@salesianiperilsociale.it
Segui Salesiani per il Sociale su: www.salesianiperil-
sociale.it e sulla pagina Facebook: Salesiani per il So-
ciale APS.
Segui i Salesiani in Italia su: www.donboscoitalia.it
e iscriviti alla newsletter “Scatenate il Paradiso!”
andando sul sito.
le sue cronache sulla presenza della mafia a Ostia.
La gestione del Servizio civile per i Salesiani in Ita-
lia è di Salesiani per il Sociale che ha concluso la
fase di trasferimento degli enti di accoglienza e del-
le sedi all’albo di servizio civile universale, una fase
durata quattro mesi che ha portato un nuovo assetto
associativo che comporta: 232 enti di accoglienza, di
cui 19 all’estero; 601 sedi di attuazione progetto di
cui 165 all’estero (Spagna, Francia, Romania, Haiti,
Egitto, Brasile, Albania, Angola, Bolivia, Burundi,
Etiopia, Ghana, Repubblica Democratica del Con-
go, Madagascar, Palestina, Senegal); 131 formatori
generali; 102 selettori; 16 esperti di monitoraggio.
In questa fase sono stati rielaborati i sistemi con i
quali vengono gestite tutte le fasi e le procedure di
servizio civile: sistema di coordinamento, di selezio-
ne, di formazione e di monitoraggio che stiamo già
attuando nei progetti in partenza.
Per quanto riguarda i fondi, la legge di Bilancio ha
stanziato per il 149milioni di euro (erano 198
nel 2018), sufficienti per l’avvio nel 2020 di circa
25mila giovani, ai quali si aggiungeranno gli 8mila
previsti grazie ai 56milioni dei fondi di “Garanzia
Giovani”. Un totale quindi di circa 33mila giovani,
inferiore ai 39 646 messi a Bando quest’anno con
i fondi previsti dal Governo Conte I, e ancora di
meno rispetto ai 53 363 finanziati dal Governo
Gentiloni nel 2018.
“Il Servizio Civile è difficile da raccontare in tutte
le sue sfaccettature ed in particolare in quelle pret-
tamente umane – racconta infine Noemi, al rientro
dalla Spagna –. Sicuramente durante questo anno
ho commesso molti errori didattici, organizzativi
o relativi allo scambio interpersonale; tuttavia, ri-
tengo che dallo scontro e dal confronto ho acqui-
sito consapevolezza dei miei punti deboli e dei miei
punti di forza e ciò mi ha permesso di compensare i
primi ed ottimizzare i secondi. Credo che le relazio-
ni abbiano giocato un ruolo chiave nel rendere meno
stressanti i numerosi cambiamenti di vita e le incer-
tezze di ruolo: partirei da Ilaria, una persona che
ha condiviso con me praticamente ogni momento
di sconforto e di gioia ed è stata stimolo per andare
avanti, esplorare, migliorare e condividere”.
Servizio Civile Universale e-mail:
serviziocivile@salesianiperilsociale.it
Tel. 06 4940522
https://www.salesianiperilsociale.it/servizio-civile/
Fare il Servizio
Civile Universale
con i Salesiani è
un’opportunità
per far maturare
i giovani
nell’autonomia
e nel servizio
responsabile
verso gli altri.
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3.4 Page 24

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5
PROGETTI
P5ER MILLE nfiormstUraanaimnsccisihtseiioaTnllUea DevsBoualoivnsrecenrddodeoiidnDiaoelieiptso5ilssexnaomepr1lsrBael0oeatnore0naoFslnd0acloicootfdntooiuapednnrtnileaeelacd’zrilioammmie1orl3ddoeaplne6eegtreoteiimaepsDbSzteaioaazaosediglsmnesiiennoisbdiiinnaidinizniciifiofueinicdeoeltià.
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3.5 Page 25

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La mission della Fondazione è quella di fornire cibo, riparo, cure mediche, istruzione e
formazione professionale ai bambini e ai ragazzi in situazione di disagio e, inoltre, è quella
di contribuire alla riduzione degli effetti delle emergenze umanitarie sulla popolazione.
Con il 5×1000 del 2019-2020 abbiamo scelto di sostenere
cinque progetti in tre paesi dell’America Latina, dove le crisi
economiche e sociali hanno indebolito la popolazione e
hanno spinto un numero crescente di giovani a migrare in
cerca di condizioni di vita migliori.
Con i progetti Noche Digna” in Cile, “Progetto Sociale
Caqueiro” in Uruguay e “Opera Sociale di Don Bosco: Piccoli
Saltimbanquis, Giovani e lavoro, Giovani, adulti e impresa”
in Argentina, partendo da una pastorale in uscita, è stato
possibile per i salesiani arrivare nelle strade delle periferie
di Santiago, Rivera, Rosario e Córdoba per essere al fianco
dei bambini e degli adolescenti esposti a degrado, violenza,
dipendenza da droghe e a forme di sfruttamento da parte
delle organizzazioni criminali.
I giovani beneficiari dei cinque progetti sono costretti
a vivere in stato di abbandono, privi d’istruzione e di reti
familiari e sociali. Tra loro moltissime sono le ragazze con
figli piccoli che versano in condizioni di vita così precarie
da non essere garantiti loro diritti e livelli minimi di
sussistenza.
Con il 5×1000 abbiamo aiutato gli operatori sociali e i sale-
siani a promuovere il dialogo e lo scambio sociale, oltreché
la mobilità all’interno di segmenti differenti della società,
realizzando iniziative produttive sostenibili e a sviluppare
capacità, abitudini e competenze imprenditoriali negli ado-
lescenti e nelle giovani madri attraverso corsi di formazione
professionale e laboratori.
2 4 IndqUiusRriaiurrvategCicercauaroqe,alauglpedyeoeoi,onrrlpoiaoevf”eesunCcrrileeeinccalnuose“toqirPidabceureibeoalgienllglaiiieieosercftvaiiotactaloeti,naràsSiirisoiamcscnhoiaeaindole.ori
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3.6 Page 26

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FMA
Emilia Di Massimo
Da 125 anni,
ininterrottamente
A Samarate (Varese), la Scuola
Materna Macchi Ricci delle Figlie
di Maria Ausiliatrice consegna
ai piccoli il passaporto per il
futuro e una solida preparazione
religiosa e culturale.
In un secolo tormentato
Ciascuno di noi è testimone, nel proprio intimo,
della vita che è nata e cresciuta, tramandandosi di
generazione in generazione, intorno ad una comu-
nità, anche se non è possibile effettuare un bilancio
completo di tutto il bene compiuto verso i bambini,
le famiglie, i giovani e i sofferenti. Le guerre mon-
diali e gli svariati periodi critici non sono stati un
ostacolo per proseguire la formazione educativa dei
bambini e mantenere un fortissimo legame con il
territorio, per continuare a concretizzare quanto in-
dica lo Statuto datato 1 gennaio 1894: Una specie di
casa per i bambini riservata esclusivamente ai piccini
che non hanno ancora l’età della scuola… per custodirli
e impartire agli stessi quella istruzione morale, religio-
sa, intellettuale e fisica conveniente alla loro età.
L’anno è esatto: da più di un secolo Samarate (Va-
rese) è caratterizzato dalla presenza della Scuola
Materna Macchi Ricci, istituzione imprescindibile
per i Samaratesi, parte fondamentale di una Co-
munità che senza di essa non sarebbe sicuramente
la stessa. Il Presidente dr. Paolo Borlin, ci dice che
è dal 1894 che la scuola è stata fondata in base alle
donazioni di Macchi e Ricci, e da allora dona ai ra-
gazzi l’opportunità di vivere l’esperienza salesiana,
un valore aggiunto per l’intero comune.
È il 22 aprile del 1897 quando le prime quattro
suore destinate alla casa giungono a Samarate, ini-
ziando la presenza delle Figlie di Maria Ausiliatri-
ce, attualmente continuativa, operosa, obbediente
e silenziosa. Nessuna delle suore è mai rimasta a
Samarate per più di una manciata di anni: dopo
aver svolto il proprio compito con dedizione, ognu-
na è ripartita per esportare la bellezza del luogo, per
condividere il bene realizzato, donato e ricevuto.
Paolo Borlin è consapevole che oggi si ha una cer-
ta difficoltà a definire questa nostra epoca, tant’è
vero che viene indicata in modo piuttosto appros-
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Maggio 2020

3.7 Page 27

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simativo come epoca del post: post moderno, post
industriale, post cultura; ci troviamo in un periodo
di transizione, di forti cambiamenti in una società
liquida caratterizzata, come mai in passato, da una
sconcertante “desertificazione spirituale”, come ha
affermato papa Benedetto XVI. Eppure la Scuola
Materna Macchi Ricci rimane un porto sicuro, di-
versamente i numerosi exalunni non tornerebbero
dove sono stati amati. D’altronde la peculiarità
della scuola forse è proprio questa: sapersi adatta-
re all’altro accogliendolo e custodendolo ma sen-
za mai perdere di vista i principi e i valori a cui
si attiene dalla sua fondazione, quindi è una realtà
in continua evoluzione che cambia e si rinnova per
poter rispondere ai mutevoli aspetti della società
contemporanea, sempre attenta a mantenere viva la
complessa relazione con il proprio tempo.
Fare la differenza
Da appena un anno la scuola è stata arricchita
dall’arrivo di suor Mariangela Canciani, con la
quale il nuovo Consiglio di Amministrazione ha
intrapreso un percorso di riqualificazione che mira
a migliorare l’asilo, a continuare a fare la differenza
ed essere il fiore all’occhiello del territorio. Le linee
adottate dal percorso formativo si basano sul “Si-
stema Preventivo nell’Educazione della Gioventù”
perché è un metodo che favorisce lo sviluppo del
bambino valorizzando le sue potenzialità cogniti-
ve, emotive, fisiche e spirituali, compatibilmente
con la tenera età. Sono previste uscite didattiche e
ricreative e con l’attivo Gruppo Genitori si orga-
nizzano diversi e molteplici momenti di festa.
Attualmente la scuola accoglie circa un centinaio di
bambini e vi lavorano dodici persone: la Direttri-
ce è affiancata da suor Laura, suor Adriana e suor
Marisa, le quali con il loro instancabile impegno
quotidiano aiutano nel funzionamento della scuola,
inoltre è presente un Consiglio di amministrazione.
Iscrivere i propri figli alla Scuola Materna Macchi
Ricci vuol dire molto di più che assicurar loro un
ambiente che incentiva le risorse: è collaborare in-
sieme per trasmettere loro la bellezza di una vita
vissuta secondo la spiritualità salesiana; equivale a
garantire ai bambini il loro specifico posto all’in-
terno della Comunità che non ha mai smesso di
affascinare da quando è stata fondata, fornendo ad
intere generazioni l’opportunità di inserirsi attiva-
mente all’interno della società.
Il metodo
salesiano
favorisce
lo sviluppo
del bambino
valorizzando
le sue
potenzialità
cognitive,
emotive,
fisiche e
spirituali.
Intere
generazioni
sono passate
in questi
cortili,
portando
con sé il bene
realizzato,
donato e
ricevuto.
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3.8 Page 28

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CASA MADRE
Natale Maffioli
L’altare di santa Maria
Domenica Mazzarello
La cappella intitolata a santa
Maria Domenica Mazzarello
è la più ‘tormentata’ tra quelle
che ornano la basilica.
Il quadro di
sant’Anna
che educa
Maria, voluto
da don Bosco
per l’altare
che oggi è
dedicato a
santa Maria
Mazzarello.
Don Bosco volle un alta-
re dedicato a sant’Anna,
la madre di Maria, lo volle
nella sua chiesa come esempio
di educazione femminile; nel dipin-
to, del pittore Giovanni Battista Fino
(1820-1898), sant’Anna è tutta intenta
ad istruire la piccola Maria e si può pre-
sumere che il libro aperto sia un riferi-
mento alla parola di Dio. Don Bosco in
un sogno raccontato il 6 luglio del 1862
descrive un incontro con la marchesa
Barolo, e dal colloquio si intuisce che
il nostro aveva in animo di interessarsi anche all’e-
ducazione delle ragazze ma non si risolse fino al
1864, all’incontro con Maria Mazzarello durante
una passeggiata autunnale a Mornese dove conosce
il suo gruppo delle Figlie dell’Immacolata e con lei
darà il via alla sua tensione per l’educazione fem-
minile fondando con la Mazzarello l’Istituto delle
Figlie di Maria Ausiliatrice.
I martiri torinesi
Dopo la morte di don Bosco, don Rua porrà mano
al rifacimento decorativo della chiesa, esterno e in-
terni; nuovo altare maggiore affidato a Crescentino
Caselli, decorazione delle lesene con stucchi, una
nuova via crucis affidati a Giovanni e Carlo Borgo-
gno di Torino e la mutazio-
ne di due titolari degli
altari: quello dei Sacri
Cuori (la tela di Gio-
vanni Bonetti sarà
spedita a Caserta) e
quello di sant’Anna
che sarà dedicato ai
santi Martiri Torinesi:
Avventore, Solutore e Ot-
tavio.
La trasformazione di quest’ultima cappella è radica-
le: nuova pala dell’altare, nuovi affreschi per la volta
e dipinti sulle pareti laterali che narrano la fine dei
tre Santi. La nuova pala dell’altare fu affidata ad
Enrico Reffo, mantenendo però l’altare marmoreo
di Luigi Medici. La tela è stata trasferita su un altare
nella galleria alle spalle del presbiterio.
La volta fu affrescata da Giuseppe Rollini, che siglò
e datò il suo lavoro: “GR 1891”, e vi raffigurò un
angelo che regge un giglio con la destra mentre con
la sinistra sparge fiori bianchi, sotto un cartiglio
retto da due angiolet-
ti con la scritta “
ed è sovrastato dalla
raffigurazione della
Fede circondata da
una torma di angeli.
Ovviamente la scritta
del cartiglio è tarda,
all’epoca dell’ulterio-
re trasformazione in
onore di santa Maria
Domenica Mazzarel-
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Maggio 2020

3.9 Page 29

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lo. La figura della fede è un segno che l’affresco
era destinata ai martiri, i quali hanno versato il
loro sangue per la fede. La cappella era anche do-
tata di due affreschi, questi attribuibili al Reffo e
raccontavano la fine dei tre martiri; il breve ciclo è
collocato sulle pareti laterali, in alto, quasi a livello
dell’imposta della volta, due scene che narrano le
estreme vicende dei tre santi. Attualmente queste
pitture non sono visibili perché occultate dalle due
tele del Crida e portate alla luce durante gli ultimi
restauri.
stata completamente rinnovata e tra le due grandi
colonne scanalate fu messo in opera l’altare, ricco
di marmi pregiati: i due pilastri sono rivestiti di
lastre di broccatello di Siena con specchi di onice
del Marocco a macchia aperta. Coppie di colonne
di verde Issorie con capitelli corinzi incorniciano
l’immagine della santa in gloria, splendidi sono gli
angeli che sorreggono la nuvola, la cornice è in ros-
so di Francia; lo zoccolo è tutto in giallo di Siena
con specchiature di onice circondato da cornici di
bronzo mentre la base ospita l’urna con le reliquie
della Santa.
L’urna in bronzo dorato è stata realizzata su disegno
dell’architetto Valotti: quattro balaustri compositi
strigilati reggono la copertura di vetro, e girali di
foglie di acanto e fiori formano la cornice realizzata
con palmette, una corda attorcigliata e rose canine,
il tutto è stato fuso dalla ditta Lomazzi di Torino.
La trabeazione, in alabastro di Busca, è arricchi-
ta con decorazioni eucaristiche (spighe e grappoli
d’uva) in bronzo dorato, palmette e ovuli dorati. Il
fastigio è occupato da un’immagine a mosaico di
Maria Ausiliatrice affiancata da due cornucopie ri-
colme di frutti e di fiori. La finestra semilunare è
incorniciata da un mosaico di gigli e di rose canine.
Il Crida completò la decorazione della cappella di-
pingendo due scene della storia della Mazzarello: a
sinistra l’incontro con don Bosco a Mornese e la sua
elezione a superiora maggiore, a destra la visita della
santa a Pio IX con le prime suore missionarie ac-
compagnata da monsignor Giovanni Cagliero.
L’altare e
la cappella
come si
presentano
oggi.
L’elezione di
santa Maria
Mazzarello
come
superiora
maggiore.
«Chiamatela
Madre» disse
don Bosco.
La cappella oggi
Maria Domenica Mazzarello fu beatificata nel no-
vembre del 1938, subito, su disegni dell’architetto
Giulio Valotti (salesiano), si pose mano alla realiz-
zazione di un nuovo altare perché non era pensabile
che i luoghi di devozione di due santi fondatori fos-
sero separati. Il luogo prescelto fu l’altare dedicato
ai santi martiri torinesi. La navata della basilica era
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3.10 Page 30

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I NOSTRI EROI
B.F.
Don Luigi Cocco
A 17 anni disse in casa che voleva
andare nelle missioni come
salesiano. Suo padre e gli altri
famigliari, che erano seduti a
tavola, si alzarono l’uno dopo l’altro
e uscirono costernati. Rimase solo
il nonno, e gli sorrise: «Lo sapevo,
don Bosco me l’aveva detto:
“Non tu, ma uno dei tuoi”».
«Nel 1864, a 19 anni, mio nonno vo-
leva farsi salesiano, ma don Bosco
non lo accettò. Gli disse: «Nen ti,
ma un dij tó». Allora il nonno la-
sciò l’Oratorio, piuttosto dispiaciuto. Avrebbe poi
voluto andare con Garibaldi, ma neppure Garibaldi
lo volle: era troppo piccolo. In realtà raggiungeva sì
e no il metro e mezzo. Più tardi si era trasferito a
Grugliasco appena fuori Torino, e si era messo per
conto suo a fabbricare spazzole. Mio padre Giaco-
mo, nato nel 1882, mi raccontava che partecipò ai
funerali di don Bosco. Non aveva ancora sei anni, e
suo papà lo aveva portato a spalle quasi tutto il tem-
po perché potesse vedere bene. Ricordava di aver
patito tanto freddo.
Nel 1922, quando finii le scuole elementari, volle
che entrassi come artigiano nell’Oratorio, ma non fu
possibile; eravamo molto poveri, e il babbo non arri-
vava a pagare la piccola retta. Andai a lavorare nella
vicina filanda, poi come modellatore presso un arti-
giano. Quando andai ad Avigliana per prepararmi
a diventare salesiano, mio papà si privò delle 15 lire
settimanali che gli spettavano in famiglia e mi pagò
per due anni e mezzo le 50 lire di pensione. Partii per
le missioni e non lo rividi più. Morì povero, in casa
di una mia sorella. Donando me a don Bosco aveva
dato generosamente tutto, e accettato di vivere nella
più grande povertà. Avevo 17 anni (ricordo bene: era
il giorno dopo l’Immacolata del 1927) quando dissi
in casa che volevo andare nelle missioni come sale-
siano. Eravamo a tavola per la cena. Fu un fulmine
a ciel sereno. Mio padre e gli altri famigliari, che
erano seduti, si alzarono uno dopo l’altro e uscirono
costernati. Rimasti soli il nonno e io, egli mi sorrise
e mi disse: «Lo sapevo. Don Bosco me l’aveva detto:
“Non tu, ma uno dei tuoi”. Non ero sicuro chi po-
tesse essere, ma adesso capisco che sei tu». Così don
Luigi Cocco iniziava la sua storia.
Bambini e partigiani
Divenne un magnifico prete d’oratorio. I superiori
per evitargli il servizio militare gli avevano anti-
cipato l’ordinazione di un anno, e lui già prete ma
ancora studente e senza la patente di confessione,
poteva solo dire messa e far giocare i ragazzi.
«In sua presenza il cortile si animava» ricorda un
oratoriano di quei tempi «partite a non finire a palla
in campo, ancor più appassionate a guardie e ladri.
Lui giocava come uno di noi, ce la metteva tutta.
Quand’era guardia, un mastino mai visto più fero-
ce e più allegro. Quand’era ladro, succedevano scene
epiche: al fischio che apriva le ostilità tutte le guardie
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Maggio 2020

4 Pages 31-40

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4.1 Page 31

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piombavano come un sol uomo su di lui, non gli la-
sciavano fare più di dieci passi e lo catturavano. Allo-
ra un urlo di trionfo, e le guardie fiere e felici lo scor-
tavano trafelato e sorridente in prigione. Una volta
alla settimana affittava dall’azienda municipale un
tram e trasportava tutti in collina a giocare a tattica.
Ricordo gli attraversamenti di Porta Palazzo men-
tre i ragazzi cantavano a squarciagola e il tranviere
strillava con il campanello: il mercato per un attimo
sospendeva i traffici, e tutti salutavano sorridenti».
Il suo oratorio fu pieno di ragazzi fino all’estate
1943. Il 13 agosto Torino conobbe il primo tremen-
do bombardamento, anche l’Oratorio ne uscì molto
malconcio, tutte le famiglie che poterono sfollarono
dalla città. Don Cocco, rimase quasi senza ragazzi
nei cortili pieni di macerie.
Dal novembre 1943 l’Oratorio diventa il punto di
convergenza dei partigiani dei più vari schieramen-
ti politici. L’Oratorio per sua natura è un porto di
mare, dove chiunque può entrare e uscire senza
dare nell’occhio. I capi partigiani arrivano di sera,
alla chetichella, don Cocco li porta in camera sua,
o da qualche altra parte, e quelli tengono le loro
riunioni segrete.
Lui si faceva in quattro per i suoi ragazzi. Una do-
menica mattina mise in uno zaino due latte di con-
serva vuote, si arrampicò su fino al lontano nevaio,
le riempì di neve e scese a precipizio prima che si
sciogliesse. La mise nei grossi bicchieri di allumi-
nio, aggiunse zucchero e qualche goccia di essenza,
e portò in tavola la granita per tutti.
Le commissioni d’igiene pretendevano che la colo-
nia avesse la doccia; don Cocco si fece regalare dai
suoi amici militari due grossi serbatoi di benzina
per aereo, li collocò sul tetto, li riempì d’acqua e
affidò al sole d’agosto il compito di scaldarla. La
commissione d’igiene voleva che don Cocco se-
parasse con alti reticolati l’area destinata alla co-
lonia dei ragazzi da tutto il resto; lui recinse l’area
alla meglio con dei grossi tronchi d’albero tagliati
e messi sul terreno uno dopo l’altro, che invece di
rinchiudere invitavano i ragazzi a saltare dall’altra
parte. Quelli della commissione, tornati, minaccia-
vano di chiudere la colonia, e don Cocco a scuotere
la testa e a tentar di spiegare: «Le masnà a son come
i pasarót... I bambini sono come i passeri, se li si
chiude in gabbia intristiscono e muoiono».
Padre Cocco de los Guaicas
Lui che ancora sognava le missioni come quand’era
ragazzino dell’Azione Cattolica, rinnovò per lettera
ai superiori la sua domanda di partire, e nel ’51 ci
riuscì. Fu inviato in Venezuela, prima in un colle-
gio in città, poi nella foresta amazzonica, sul fiume
Orinoco. Iniziò una missione in mezzo alle tribù
Guaicas, considerate selvagge e pericolose.
Cominciò a combattere contro una natura aggres-
siva. E la malaria. Un vero flagello, con cui don
Cocco impegnò una lotta spietata (e alla fine soc-
comberà).
Il capo tribù, il giorno in cui don Cocco svenne
per la fatica, al risveglio lo confortò così: «Ora tu
muori perché sei pallido, freddo e sudato. Tu non
hai parenti qui fra noi, ma sta’ tranquillo: noi ti
vogliamo molto bene e non ti abbandoniamo. Già
abbiamo combinato: ti bruceremo con molta legna
e mangeremo con grosse banane le tue ceneri tutti
quanti insieme, come se fossi un parente nostro». E
questo lo diceva con tanta dolcezza, e insieme con
Lottò sempre
contro ogni
ingiustizia
di cui fossero
vittime i
suoi fratelli
Guaicas.
Li vedeva
deboli e
sentiva
il sacro
dovere di
proteggerli.
Maggio 2020
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I NOSTRI EROI
Cocco con la sua barba incolta penetrare nella pic-
cola cappella che aveva costruito con fango e pa-
glia. Aveva una candela in mano, andava a pregare.
Mentre nelle capanne tutti dormivano, don Cocco
pregava per i suoi indios, per noi, per tutti».
«Solo voi
missionari
potete fare
un lavoro
serio fra
gli indios,
perché solo
voi li amate
sul serio.
Non come
oggetto
di studio,
ma come
persone».
tanto dolore, da non lasciare il minimo dubbio sulla
sincerità del suo affetto.
Sotto le magnifiche stelle
I giorni passano all’apparenza monotoni nella fore-
sta. Don Cocco ha una lunga barba, i piedi scalzi
nelle ciabatte, e un eterno sorriso. Nel 1960 si sta-
biliscono a Santa Maria de los Guaicas tre Figlie di
Maria Ausiliatrice, e la missione cambia volto. Le
donne Guaica trovano nelle suore un aiuto provvi-
denziale, imparano un’infinità di cose; i bambini
sono più accuditi, crescono sani e amati.
«I primi tempi furono duri – ha riferito suor
Maddalena Mosso che passò nove anni accanto
a don Cocco –, ma le tante difficoltà furono
superate dalla sua grande fede, dalla sua speranza
che confinava con il cielo. Nel silenzio della notte,
sotto le magnifiche stelle fitte fitte, che in quel cie-
lo terso sembravano a noi così vicine, vedevo padre
Un fucile rotto e un piccolo forno
Non che don Cocco fosse l’arrendevolezza in per-
sona, tutt’altro. Ricorda suor Maddalena: «Lottò
sempre contro ogni ingiustizia di cui fossero vitti-
me i suoi fratelli Guaicas. Li vedeva deboli e sen-
tiva il sacro dovere di proteggerli: se qualche volta
lui così mite fece la voce grossa, era la voce di un
popolo che gridava attraverso di lui». E racconta di
un commerciante di banane che fece fare la raccol-
ta dei frutti agli indigeni, e dopo aver riempito la
barca li ripagò con un fucile rotto. «Padre Cocco
fece scaricare tutto, controllò ogni cosa, e li fece ri-
munerare in maniera adeguata. Rimproverava quel
commerciante: “Siamo noi che dobbiamo esercitare
la giustizia. Loro non sanno. Non inganniamoli!”»
Il bilancio. I giorni passano all’apparenza monotoni;
gli episodi si succedono e si dimenticano. La mala-
ria infierisce anche contro don Cocco, la sua salute
scricchiola. Ogni tanto egli scende a Caracas, si met-
te nelle mani dei medici, sotto i ferri dei chirurghi,
alla fine le operazioni subite saranno sette.
Nel 1972 facendo il bilancio della sua presenza tra i
Guaicas scriveva: «Sono riuscito a stabilire tra loro
una residenza fissa di , che sono sorelle, mam-
me, infermiere, catechiste, tutto (credo sia la cosa
più concreta che sono riuscito a realizzare). Poi ho
costruito un campo di aviazione, permettendo un
contatto rapido e costante con il mondo civilizzato
(i malati gravi riescono a raggiungere gli ospedali
di Caracas in aereo; in caso di epidemia i medici
e le medicine possono arrivare con rapidità). Re-
centemente abbiamo costruito un dispensario e una
scuola, che cominciano a dare i primi frutti...». Nel
suo elenco di realizzazioni don Cocco ha dimenti-
cato di dire che i Guaicas hanno finalmente trovato
qualcuno che li ama.
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«Mio compito fu seminare altri
raccoglieranno»
«Parlando con don Cocco – scrisse lo studioso
Paolo Henry della spedizione “Ocamo ’68” –, la
prima cosa che balza agli occhi è che quando dice
noi non intende dire noi europei, o noi bianchi, o
noi preti. Dice noi yanomami, noi guaicas. Con
un’identificazione totale che le prime volte ci faceva
sorridere, poi ci stupiva, poi ci commuoveva».
Trovò difficile imparare lo spagnolo, a volte com-
metteva errori che suscitavano benevola ilarità. A
Caracas in un’omelia annunciò ai fedeli che il Papa
era stato colpito da una malattia e che bisognava
pregare per la malattia del Papa. Malattia in spa-
gnolo si dice enfermedad, mentre “malatia” – come
dovevano intendere i suoi uditori – significa “catti-
va zia”. Così i fedeli se ne uscirono di chiesa preoc-
cupati che il Papa venisse colpito da una cattiva zia,
e persuasi che bisognava davvero pregare per questa
cattiva zia del Papa.
Ma nel 1973 usciva in spagnolo un grosso volume
di 500 pagine intitolato “Iyewei-teri, 15 anni tra gli
Yanomami”, a firma Luigi Cocco. Capitava nelle
mani di un etnologo di fama mondiale, il francese
Jacques Lizot, che stupefatto lo inviava sul tavolo
del re degli etnologi Claude Lévi-Strauss.
L’elogio di Lévi-Strauss. Poco dopo don Cocco
riceveva questa lettera: «Stimato padre, Jacques
Lizot di ritorno da Caracas mi ha consegnato il
suo libro. Da quel momento non mi sono stanca-
to di ammirare quest’opera, le sue illustrazioni di
straordinaria ricchezza, la quantità prodigiosa di
informazioni etnografiche che una permanenza di
quindici anni fra gli Yanomami le ha permesso di
mettere insieme.
Don Cocco aveva attraversato l’oceano e accettato
di vivere per 17 anni in una capanna in mezzo alla
foresta, per portare ai Guaicas il dono della fede.
Ebbene, a conti fatti, aveva battezzato quasi nessu-
no. Solo bambini in punto di morte, qualche ragaz-
zino orfano che sarebbe andato a studiare in scuo-
le salesiane e quindi aveva probabilità di crescere
nella fede. Qualche anziano malato da lui somma-
riamente istruito, e ormai vicino al traguardo della
morte. Sembra un insuccesso.
«Certo, io desidero che diventino cristiani, proprio
perché voglio loro bene – spiegava –. Per me
diventare figli di Dio e fratelli di Gesù Cristo,
avere la fede e la carità, è il valore più grande che
un uomo possa avere. Per questo desidero tali valori
anche per i Guaicas. Ma la prima virtù che il cri-
stianesimo insegna è il rispetto degli altri, e io ri-
spetto la loro coscienza e le loro scelte». Infatti, se-
condo la loro coscienza e le loro scelte, ancora non
erano pronti a diventare cristiani.
L’antropologo Jacques Lizot andò a vivere per
qualche mese con don Cocco. Alla fine riconobbe:
«Solo voi missionari potete fare un lavoro serio fra
gli indios, perché solo voi li amate sul serio. Non
come oggetto di studio, ma come persone».
Nel 1974 tornò in Italia con la salute definitiva-
mente compromessa. Lavorò nella sua patria come
animatore missionario finché gli ressero le forze. Si
arrese a 70 anni meno un giorno.
Le sue ultime parole le ha scritte in un libro: «Per
i miei bravi indios Iyewei-teri ho dato tutto; e se
dovessi nascere un’altra volta, darei di nuovo tutto
per loro».
Don Cocco
“fotomodello”
per una
pubblicità
missionaria.
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COME DON BOSCO
Pino Pellegrino
EMERGENZA UOMO
La gratitudine Iltemposièfattobreve:ol’uomo
torna ad essere umano o i dinosauri
torneranno a trotterellare sulla Terra.
Se l’emergenza ecologica è allarmante,
l’emergenza antropologica è drammatica.
Educare alla gratitudine è
educare alla bellezza della vita:
Urge fermare lo scardinamento
dell’uomo con proposte concrete
come quelle che, di mese in mese,
la persona riconoscente sente
offriamo ai lettori.
la vita e l’esistere come grazia.
Per questo la riconoscenza è
un sentimento più forte della
speranza: chi è riconoscente sente
di possedere già tanto. Questo
sentimento si trasforma in felicità
di base e sicurezza. Gli ingrati,
al contrario, sono incapaci di
sentirsi soddisfatti e felici. Vivono
perennemente inquieti, pieni
mo continui ad essere umano. Nulla è più gelido
dell’ingratitudine! Così gelido che lo stesso cau-
stico scrittore filosofo francese Voltaire un giorno
ha detto: «Ho sempre detestato l’ingratitudine! Se mi
avesse beneficiato il diavolo, avrei detto bene delle sue
corna!».
Raggela il fatto che oggi soprattutto i ragazzi (ma
non solo ragazzi) non fanno cenno di risposta ad
un dono ricevuto a Natale, nel giorno del comple-
anno o dell’onomastico!
Regali un libro, regali un telefonino, un indumento
ultima moda e nessuna reazione come se il dono
fosse un obbligo dei genitori, degli amici.
Sta scomparendo un plinto dell’umanità
di rimpianto per quello che
non hanno e di ansia per
dell’uomo; è segno che mentre la terra
si riscalda, i cuori si raffreddano.
Che cos’è successo? È mancata
quello che vorrebbero.
l’educazione al ringraziamento.
Eppure le vie per la bella impre-
La via della gratitudine come pi-
sta per far celebrare il matrimo-
nio più necessario e più
atteso oggi: il matrimo-
nio tra Umanità e Uomo, non
sa sono lì a disposizione di tutti.
Una è, ad esempio, quella di
ricordare che se oggi abbiamo
tante comodità le dobbiamo a chi
ha bisogno di giustificazione:
ce le ha preparate.
il verbo ‘ringraziare’ profuma, di
Oggi i bambini europei si trovano, alla
per sé, di umanità. Chi dice “Gra-
nascita, una ricchissima eredità di cui
zie!” è grazioso, gentile, signore,
non si rendono conto: hanno a disposizio-
amabile: umano. Chi dice “Grazie!
ne le strade asfaltate, il frigorifero, i doppi
ha un tocco di nobiltà.
vetri, la televisione, il bagno, i termosifo-
Ecco perché la riconoscenza va
ni… ogni ben di Dio, senza aver versato
difesa, ad ogni costo, perché l’uo-
una goccia di sudore.
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L’idea che il mondo non sia sempre sta-
to così, non sfiora neppure la mente del
bambino, sia pure il più geniale!
È chiaro, dunque, che per portarlo
alla riconoscenza, dobbiamo dirgli
che i ponti non sono venuti su come
funghi, che i telefonini non si tro-
vano sulle piante come le mele, che
gli orologi non si sono fatti da soli:
è il lavoro di qualcuno che ci ha re-
galato così tante cose.
Ovviamente la conversazione sul
dovere d’essere riconoscenti a chi ci
ha preparato un mondo così conforte-
vole, va fatta tenendo presente il grado
di maturità del figlio, comunque senza
mai salire in cattedra, senza mai un discorso
frontale (sarebbe rigettato, soprattutto dall’a-
dolescente) ma praticando il metodo indiretto.
Un esempio, per chiarire.
Siamo in piazza mentre chiacchieriamo con un ami-
co. Ad un tratto, quando ne viene l’occasione, gli
diciamo: “Ti ricordi quando in casa non c’erano i ter-
mosifoni? Quanto freddo sofferto allora! Certo dobbiamo
riconoscere che è stata una bella idea quella di trovare il
modo di far circolare l’acqua calda per le stanze”.
L’amico risponde: “Hai ragione! Se oggi ce la godiamo
così, dobbiamo ringraziare qualcuno!”.
Questo è il ‘metodo indiretto’ grazie al quale man-
diamo un messaggio a qualcuno, parlando con un
terzo.
Altra via per educare alla riconoscenza è quella
di moderare il benessere.
È un dato di fatto che dare molto forma ingordi,
insoddisfatti, pretenziosi. Il bambino che ha la
cameretta piena di giocattoli pensa che sia diritto
averne sempre più.
È indovinato il proverbio russo: “Al cieco furono do-
nati gli occhi; pretese anche le sopracciglia!”.
Gli spagnoli hanno un proverbio terribile per ri-
cordare che esagerare nel dare crea ingordi che
non pensano a ringraziare. Eccolo l’efficacissimo
proverbio: “Cria cuervos y te sacaran los ojos”, “Alleva
corvi e ti caveranno gli occhi!”. “Alleva un vorace e pre-
tenderà sempre di più!”. Altro che ringraziarti!
Una terza via è quella di dimostrarci ricono-
scenti.
È la via più potente (“La parola è suono, l’esempio è
tuono! ”, diceva il nostro scrittore Ippolito Nievo).
Dunque al figlio che ci dona qualcosa diciamo
sempre “Grazie! ”.
Al postino che è stato puntuale, diciamo “Grazie!”.
Al vigile che ci ha dato un’informazione, diciamo
Grazie!”.
Al cameriere che ci porta il cibo, diciamo “Grazie! ”.
Semplici esempi di gratitudine che vi regaleranno
la soddisfazione di aver educato un figlio forse non
ricco, ma signore! Magnifico successo.
Complimenti anche da parte di chi scrive queste
note: “Grazie! ” per il vostro contributo all’ecologia
umana!
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LA LINEA D’OMBRA
Alessandra Mastrodonato
iviamo in un tempo che fugge la respon-
sabilità. Un tempo gretto, ripiegato su
se stesso, avaro di cura e attenzioni ver-
Tempo di so l’altro, in cui spesso siamo abituati a
Vpreoccuparci solo del nostro piccolo orto e abbiamo
responsabilità perso la capacità – o forse il desiderio – di alza-
re lo sguardo e osservare ciò che ci circonda, al di
Il nostro essere adulti si misura
sulla capacità di sentirci parte
di qualcosa di più grande,
di una comunità ampia quanto
l’umanità intera in cui le azioni
di ognuno influiscono sul
benessere collettivo e il destino
di ciascuno è intrecciato a doppio
filo con quello degli altri.
là dell’orizzonte limitato del nostro interesse per-
sonale. Un tempo sempre più vuoto di speranza
e di coraggio, in cui una comoda e opportunisti-
ca indifferenza è ormai divenuta la regola e anche
l’attenzione crescente per il tema ambientale, per le
gravissime ingiustizie e iniquità che si consumano
nel mondo, per i limiti palesi del nostro modello
di sviluppo rimane spesso confinata su un piano di
critica teorica e superficiale, senza generare in noi,
nel nostro vissuto quotidiano, nelle nostre più sem-
plici abitudini, un reale cambiamento.
Se è vero che ciò è il frutto di un clima generalizza-
to, di quella che è la temperatura morale e culturale
della società odierna, ciò non ci esime dal portare
il peso della nostra responsabilità individuale, del
Con che fiducia avanzo
nostro essere colpevolmente complici – per ciò che
un passo dopo l’altro,
se la speranza è appesa a un filo
che sembra un cappio?
Incappo in un sacchetto
della tua indifferenza,
in fondo a questa strada
hanno già perso la pazienza.
I corsi di paura, ricorsi della storia,
per trattenerci in una morsa senza memoria,
senza memoria...
Ti piace la natura,
ma non sai dare aiuti,
ti va di fare un tuffo in mare,
ma poi ti rifiuti.
Tra i tuoi rifiuti, tu ti rifiuti,
poi mi rifiuti, poi ci rifiuti... tutti.
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dipende da noi e che, nel nostro piccolo, abbiamo il
potere di fare – di tutte le storture che osserviamo
intorno a noi e che, come ferite profonde, deturpa-
no la fragile bellezza di questa Terra che abbiamo
ereditato. Perché la responsabilità rinvia alla quali-
tà dell’azione personale, è un atteggiamento di cui
siamo chiamati a rispondere in prima persona e che
non ammette alibi di fronte alle nostre scelte e alle
nostre mancanze.
È proprio questo, del resto, che la rende un valore
esigente: un impegno che, paradossalmente, spesso
appare più vicino alla sensibilità degli adolescenti
– con il loro desiderio di andare controcorrente, il
loro spirito contestativo, la tensione a voler “essere
di più” – che non all’inerzia di tanti giovani adulti,
orfani di speranza e di fiducia nel futuro, chiusi in
un cinismo rassegnato, che hanno ormai rinunciato
a sognare in grande e hanno smesso di credere nella
possibilità di costruire un mondo migliore.
Eppure è proprio sul metro della responsabilità
che si misura il nostro “essere adulti”. Sulla nostra
disponibilità a farci carico delle difficoltà degli al-
tri. Sul coraggio di indignarci di fronte ai soprusi
e alle discriminazioni, anziché chiudere gli occhi
ed adattarci ai tanti orrori che vediamo compiersi
intorno a noi, pur di non perdere un pezzetto della
nostra comoda tranquillità. Sulla volontà di pren-
derci cura del Creato, accettando il delicato compi-
to di custodi della natura. Sulla capacità di sentirci
parte di qualcosa di più grande, di una comunità
ampia quanto l’umanità intera in cui le azioni di
Questo è il futuro che sognavi per te?
Credevi fosse più lontano, eh?
Ti senti fuori tempo limite,
contro ogni previsione
hai perso il desiderio della rivoluzione...
La vita è un dono sacro,
l’eutanasia è un peccato,
se muore un uomo in mezzo al mare
è solo un immigrato.
Si paga pure l’aria,
la gente non respira,
mi chiedo ancora quanti sogni devo allo Stato
in questo stato...
Tempi deserti di coraggio,
stavamo bene quando stavamo peggio:
le frasi fatte per parlare,
fare l’amore e non pensare.
Tienimi stretta in un abbraccio,
non ho paura se ci andiamo insieme,
del domani mi ripeti che
andrà tutto bene...
Questo è il futuro che sognavi per te?
Credevi fosse più lontano, eh?
Ti senti fuori tempo limite,
contro ogni previsione
hai perso il desiderio della rivoluzione...
(Levante, Andrà tutto bene, 2019)
ognuno influiscono sul benessere collettivo e il
destino di ciascuno è intrecciato a doppio filo con
quello degli altri.
Solo se, come uomini e donne autenticamente
“adulti”, saremo capaci di portare insieme il peso
di questa responsabilità comune, se saremo disposti
a non scendere a patti con la nostra coscienza e ad
agire nel rispetto della dignità di tutti, rivendican-
do anche dagli altri lo stesso atteggiamento, allora
potremo ricominciare a sperare in un futuro più ra-
dioso. E anche questo tempo così travagliato e in-
certo sarà stato in grado di seminare in noi qualcosa
di rivoluzionario!
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LA STORIA SCONOSCIUTA DI DON BOSCO
Francesco Motto
Don Bosco e le epidemie
del suo secolo Le tre portentose
Ci siamo chiesti che cosa abbia precauzioni
fatto don Bosco nelle ricorrenti
epidemie di colera del suo secolo.
suggerite dal Santo
Torino 1854
Presumo sia ben nota ai nostri affezionati lettori
la commovente pagina della storia di don Bosco
a proposito del cholera morbus del 1854, che colpì
pesantemente Torino e il quartiere di Valdocco in
particolare. Don Bosco nell’occasione chiese ai suoi
giovani più grandicelli se erano disposti ad assistere
i colerosi del lazzaretto e nelle case private, ovvia-
mente dietro debita autorizzazione delle autorità
sanitarie della città. Indicò loro due semplici pre-
cauzioni: fiducia nella Madonna e una sua meda-
glia al collo. A quanto risulta nessuno della quindi-
cina di volontari rimase vittima del colera. A fine
epidemia don Bosco raccolse
pure il plauso delle pubbliche
autorità perché si era offerto
ad accogliere un bel numero
di orfani di Torino, Ancona,
Sassari, Napoli, Tortorigi in
Sicilia ecc.
Regno d’Italia
nel triennio
1865-1867
Ma le epidemie di colera
si ripetevano qua e là nel
mondo, in Europa e nel
triennio 1865-1867 – pro-
prio mentre don Bosco
stava costruendo la chiesa di Maria Ausiliatrice –
toccò nuovamente a tutta l’Italia Unita.
Nel solo 1865 i decessi furono 11 mila. Don Bosco
per prudenza in agosto sospese il triduo della na-
tività di Maria che doveva predicare a Montema-
gno d’Asti e al ministro dell’Interno dichiarò la sua
disponibilità ad accogliere orfani, previa una loro
quarantena cautelativa.
Nel settembre 1866 fece la stessa offerta al prefetto
della Provincia di Ancona e a fine mese confidò il
suo “antidoto” alla contessa Bentivoglio di Roma:
“neppure Ella tema niente del colera. Di tutti quelli
che aiutano alla costruzione della chiesa di Maria
Santissima Ausiliatrice nessuno sarà vittima del
morbo micidiale”.
Terribile fu poi il colera che infuriò in Italia nel
1867 con circa 130 mila morti, con migliaia di de-
cessi nella sola provincia di Bergamo e con Alba-
no Laziale che vide fra le vittime l’intero consiglio
comunale e il vescovo cardinale Lodovico Altieri.
E don Bosco? Il 10 maggio 1867 ribadì la sua “ri-
cetta” alla marchesa Uguccioni di Firenze: “Assicu-
ri che niuno di quelli che in qualche modo hanno
preso parte alla costruzione della chiesa di MA sarà
vittima di questo malore purché abbiano fiducia in
lei”. Fece lo stesso il 4 luglio con la contessa Cam-
bray Digny: “ella non abbia alcun timore, abbia
soltanto fiducia in Maria e poi andasse anche nei
lazzaretti non le accadrà cosa alcuna”. E ancora il
successivo 3 agosto con la contessa Barbò di Mi-
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lano, il 24 agosto con il mar-
chese Pallavicini di Genova
ecc. E se qualche benefat-
tore più dubbioso, come la
milanese Carolina Guenzati, gli
chiese conferma dei suoi presagi,
don Bosco non temette di ribadi-
re la sua convinzione. Ovviamen-
te invitava anche all’obbedienza
alle disposizioni delle autorità e alla
necessaria prudenza.
Di qui e di là delle Alpi:
biennio 1884
Il colera arrivò nuovamente nel 1884. In Italia le
zone più colpite furono Cuneo e Genova con circa
1500 morti e Napoli con oltre 6500 vittime. Pure
la Sicilia ebbe la sua parte.
Anche in tale occasione in don Bosco sorprende
il tono di sicurezza che trasmetteva ai salesiani e
ai benefattori d’Italia e Francia. A don Ronchail,
direttore della casa di Nizza marittima, scrisse il
1° luglio 1884: “Fa’ che i nostri giovani ed i nostri
amici abbiamo seco l’antidoto sicuro del colera. Una
medaglia di Maria Ausiliatrice, recitando: Maria,
Auxilium Christianorum, ora pro nobis”. Si ripetè il 9
luglio con la devota signorina francese Louvet, ma vi
aggiunse una terza condizione: “Frequenti la santa
Comunione con le dovute disposizioni”. Il 14 luglio
fu la volta della marchesa Gargallo di Napoli: “Con
questo antidoto vada pure a servire nei lazzaretti,
che non incontrerà alcun male” e il 12 agosto della
signora Magliano abitante in un paese pesantemente
colpito dal colera: “non abbia alcun timore. Il nostro
antidoto è sicuro”.
Per posta o per mezzo del BS indicava a tutti le tre
solite misure preventive: la santa comunione (ossia
la vita di grazia), la giaculatoria mariana, la me-
daglietta di MA al collo. Naturalmente le richieste
di medaglie si fecero incessanti, al punto che nei
primi cinque giorni di settembre dal magazzino
salesiano di Valdocco ne uscirono 63 mila (stando
ad una lettera del provveditore
Giuseppe Rossi).
Gli effetti si videro presto. Se il 9
agosto aveva potuto comunicare alla
suddetta signorina Louvet “una
gran bella notizia”, ossia “Tut-
te le case di Francia, tutti i be-
nefattori dei nostri giovanetti,
grazie a Maria Ausiliatrice,
sono stati preservati dal flagel-
lo che affligge la Francia”, il 10 settembre lo poteva
confermare al conte Colle di Tolone: “Il colera ha
sconvolto vari paesi della Francia ed ora travaglia
spaventevolmente l’Italia. Le nostre case e i nostri
giovani finora sono stati preservati”.
Preghiera, prudenza, carità
1l 26 agosto 1884, mentre l’epidemia imperversava,
don Bosco indicò a tutte le case salesiane le misu-
re preventive da adottare: 1. fino a tanto che dura
il pericolo si dia in ogni nostra chiesa quotidiana-
mente la benedizione col SS. Sacramento, dando
anche la comodità agli esterni di prendervi parte,
dove la chiesa è aperta al pubblico. 2. Raccomando
che tanto pei Salesiani quanto per gli altri del no-
stro personale si usino i riguardi consigliati dalla
cristiana prudenza. 3. Desidero che, occorrendo il
bisogno, ci prestiamo a servizio del nostro prossi-
mo sia nell’assistere gl’infermi, sia nel soccorrere
spiritualmente ed anche accogliere nei nostri ospi-
zi quei giovanetti poveri che rimanessero orfani”.
Preghiera, prudenza, carità: ecco il trinomio salva
contagio di don Bosco.
I salesiani e le accolsero l’invito e le lettere
provenienti da Marsiglia, da La Spezia, da Nizza
Monferrato, da Catania, da Nicolás de los Arroyos
in Argentina informano dell’efficacia delle dispo-
sizioni di don Bosco.
Evidentemente la fiducia in Maria Ausiliatrice e
nel Signore Gesù da parte sua era immensa, ma
non meno grande quella dei suoi “figli”, dei loro
educandi, dei loro benefattori.
Un’antica
“mascherina”,
inquietante
ma efficace.
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I NOSTRI SANTI
A cura di Pierluigi Cameroni postulatore generale
Coloro che ricevessero grazie o favori per intercessione
dei nostri beati, venerabili e servi di Dio, sono pregati
di segnalarlo a postulazione@sdb.org
Per la pubblicazione non si tiene conto delle lettere
non firmate e senza recapito. Su richiesta si potrà
omettere l’indicazione del nome.
IL SANTO DEL MESE
In questo mese di giugno preghiamo per la beatificazione della Venerabile Mamma Margherita, mamma di don Bosco.
Nasce il 1° aprile 1788 a Capri-
glio (AT), e il giorno stesso viene
battezzata nella chiesa parroc-
chiale. Rimane al paese fino al
matrimonio, celebrato con Fran-
cesco Bosco; poi passa ai Becchi.
Alla prematura morte del mari-
to, la ventinovenne Margherita
si trova ad affrontare da sola la
conduzione della famiglia in un
momento di grande carestia, ad
assistere la mamma di France-
sco e il figlio di lui Antonio; poi
a educare i suoi figli Giuseppe
e Giovanni. Donna forte, dalle
idee chiare, determinata nelle
scelte, con un regime di vita so-
brio, nell’educazione cristiana
è severa, dolce e ragionevole.
Cresce tre ragazzi dal tempera-
mento molto diverso: ma non
livella e non mortifica nessuno.
Accompagna con particolare
amore Giovanni fino al sacer-
dozio e poi, lasciando la cara
casetta del Colle, lo segue nella
sua missione tra i giovani poveri
e abbandonati di Torino. Qui per
dieci anni, la sua vita si confonde
con quella del figlio e con gli inizi
dell’Opera salesiana: è la prima
e principale cooperatrice di don
Bosco; con bontà fattiva diventa
l’elemento materno del sistema
preventivo.
Illetterata, ma piena di quella
sapienza che viene dall’alto,
è stata l’aiuto per tanti poveri
ragazzi della strada, figli di nes-
suno; ha messo Dio prima di
tutto, consumandosi per Lui in
una vita di povertà, di preghiera
e di sacrificio. Muore a 68 anni, ti ragazzi che la piangono come
a Torino, il 25 novembre 1856. “Mamma”. Il 23 ottobre 2006
L’accompagnano al cimitero tan- viene dichiarata Venerabile.
Preghiera
Ti ringraziamo, o Dio nostro Padre,
perché hai fatto di Mamma Margherita una donna forte e saggia,
una madre eroica e una sapiente educatrice.
Donaci la gioia di vederla glorificata,
affinché risplenda per tutti la via della santificazione,
vissuta nel quotidiano e umile servizio del prossimo.
Per la sua intercessione concedi le grazie
che ti chiediamo con cuore fiducioso.
Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen!
CRONACA DELLA POSTULAZIONE
Il 19 febbraio 2020 la Santa Sede concede il Nulla Osta per
la Causa del Servo di Dio don Silvio Galli (1927-2012), Sa-
cerdote Professo della Società di san Francesco di Sales.
Il 25 febbraio 2020 i Consultori storici hanno espresso
parere positivo circa la Positio super martyrio del Servo Elia
Comini, Sacerdote Professo della Società di san Francesco
di Sales (1910-1944).
Ringraziano
Vorrei ringraziare san Giovanni
Bosco e la venerabile Mamma
Margherita per la protezione
che hanno dato a me e a mia so-
rella in due momenti delicati per
la nostra salute. Ho sentito forte
la loro presenza accanto a noi e
tutto si è risolto bene. Confido
che la loro intercessione conti-
nui a proteggere me, mia sorella
e mia madre, concedendoci gra-
zie spirituali e temporali.
(B. P. )
Ringraziamo di tutto cuore Dio
e la venerabile Mamma Mar-
gherita Occhiena per aver sal-
vato la vita e la salute di nostra
figlia Chiara, oggi undicenne,
che il 18 giugno 2018 cadde
rovinosamente dall’alto di uno
scivolo, presso il centro estivo
del paese, il cui piano inclina-
to si staccò improvvisamente
dalla base superiore: una mano
celeste attutì il colpo. Chiara si
lesionò 3 vertebre: alcuni gior-
ni di ospedale, nessuna opera-
zione, il busto indossato tutta
l’estate e la completa guarigio-
ne. Grazie!
(Alessio Canale Clapetto
con Fiorella e Chiara - Andrate (To)
La statua di Mamma Margherita collocata dove c'era il suo orto
a Valdocco. È in onore di tutti i genitori dei Salesiani.
40
Maggio 2020

5 Pages 41-50

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5.1 Page 41

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IL LORO RICORDO E` BENEDIZIONE
Don Angelo Santorsola
Don Bruno Gambardella
Morto a Salerno, il 2 marzo 2020 a 86 anni
Un modello autentico di sale-
siano, testimone dell’amore
di Dio per gli ultimi, un santo
della porta accanto, che si con-
suma generando vita, un dono
di Dio alla Congregazione:
con queste parole così nette,
e per nulla di circostanza, don
Angelo Santorsola, Ispettore
dell’Italia Meridionale (IME),
ha definito la figura di don
Bruno Gambardella, SDB,
morto lo scorso 2 marzo, a 86
anni d’età.
Nato a Napoli nel 1934, sale-
siano dal 1956 e sacerdote dal
1965, don Bruno Gambardella
ha sempre lavorato con i ra-
gazzi più poveri e abbando-
nati della Campania. A Napoli,
Castellammare, Pacognano…
e anche altrove, don Gambar-
della ha saputo essere, per
tanti di essi, un vero “padre”,
come lo fu anche per tanti laici
e salesiani, con una bontà pro-
fusa a piene mani attraverso
un’umanità visibile, concreta,
fatta di azioni e scelte quoti-
diane – quelle azioni e quelle
scelte che manifestano il cuo-
re del Buon Pastore, la passio-
ne di chi annuncia e costruisce
il Regno di Dio non con le pa-
role, ma con la vita.
Parafrasando il Vangelo di
Matteo sul “Giudizio finale” si
può osservare come don Gam-
bardella nella sua vita ha dato
il pane dell’umanità a chi dalla
vita aveva avuto solo schiaffi;
ha dato l’acqua fresca a chi era
bruciato dal fuoco della rab-
bia; con la sua bontà ha visi-
tato i cuori di tanti giovani soli
e ha rivestito la nudità di tanti
giovani a cui era stata tolta la
dignità, la fiducia.
Don Gambardella non è stato
uomo di “rappresentanza”, sa-
lesiano dai bei discorsi o dalle
parole mielose. Era salesiano
secondo il cuore di don Bosco,
il prete di tutti, amante dei
fatti, dei gesti concreti, dell’o-
perosità instancabile, del ser-
vizio umile, concreto. Viveva il
quotidiano con amore preve-
niente e provvidente.
La vita di don Gambardella
è anche una lezione per tutti
quei salesiani alla ricerca dei
linguaggi nuovi, dimentican-
do l’unico, vero linguaggio
attuale, per tutte le generazio-
ni: l’amore! Il suo amore per i
giovani che ha incontrato, per
i religiosi e per i tanti laici che
ha aiutato, è stato non solo un
amore affettivo, ma effettivo.
Il suo amore è stato quello del
Buon Pastore che ebbe com-
passione per chi era smarrito,
solo, lontano.
Don Bruno era nato a Napo-
li il 25 febbraio 1934. Dopo
aver conseguito il Diploma di
Computista Commerciale è
entrato nel Noviziato di Portici
ed è stato ordinato sacerdote a
Roma nel 1965.
L’Obbedienza l’ha voluto Di-
rettore a Piedimonte Matese
(1973-1978), a Napoli don Bo-
sco (1978-1987); Consigliere
ispettoriale (1982-1987); Diret-
tore a Castellammare di Stabia
(1987-1988); Direttore ed Eco-
nomo a Vico Equense - Paco-
gnano (1998-2009), e con inca-
richi diversi: Consigliere della
Scuola Media a Napoli Don
Bosco, Incaricato dell’Oratorio
a Torre Annunziata, Economo
a Caserta, a Castellammare ed
Economo e Vicario al don Bosco
di Napoli fino al 2009, anno in
cui si dedicherà alle cure dei
confratelli ammalati a Salerno
come incaricato del settore in-
fermeria fino alla morte.
Mi è estremamente facile par-
lare di don Bruno, di quanto
ha fatto per gli ultimi incontra-
ti in Campania (a Napoli, Ca-
stellammare, Pacognano…) e
di come sia diventato padre di
tanti ragazzi, ma anche di tanti
laici e salesiani con la sua bon-
tà profusa a piene mani attra-
verso un’umanità visibile, con-
creta, fatta di azioni e scelte
quotidiane che hanno sempre
manifestato il cuore del Buon
Pastore, la passione di chi an-
nuncia e costruisce il Regno di
Dio non con le parole, ma con
la vita. Sempre attento ai biso-
gni degli ultimi, dei più pove-
ri. Ha dato il pane dell’umani-
tà a chi dalla vita aveva avuto
solo schiaffi; ha dato l’acqua
fresca a chi era bruciato dal
fuoco della rabbia; con la sua
bontà ha visitato i cuori di tan-
ti giovani soli e ha rivestito la
nudità di tanti giovani a cui
era stata tolta la dignità, la fi-
ducia. Sono convinto che don
Bruno non ha avuto il tempo di
chiudere gli occhi perché Gesù
abbracciandolo, con accanto
don Bosco sorridente, gli ha
detto: “lo hai fatto a me!”.
Don Bruno non era l’uomo di
“rappresentanza”, il salesiano
dai bei discorsi o dalle parole
mielose. Era salesiano secon-
do il cuore di don Bosco, il
prete di tutti, amante dei fatti,
dei gesti concreti, dell’opero-
sità instancabile, del servizio
umile, concreto. Viveva il quo-
tidiano con amore preveniente
e provvidente perché squisita-
mente salesiano!
Il direttore di Salerno mi ha
condiviso una cosa che mi ha
tanto, tanto commosso e mi
ha convinto ancora di più che
quello che vi ho raccontato fi-
nora è una piccolissima parte di
quell’amore che don Bruno ha
vissuto. Mi diceva che a diffe-
renza di tutte le altre volte che
quando moriva qualcuno in
infermeria, gli altri confratelli
ammalati continuavano a vive-
re nella normalità il loro stato
di ammalati, questa volta è suc-
cesso qualcosa di strano: tutti
erano un po’ agitati, smarriti.
Don Lucio Mastrilli che piange-
va come un bambino e non ha
voluto mangiare, altri che non
hanno voluto nulla… insomma
tutti hanno avvertito che era
venuta a mancare una presen-
za amica costante, quotidiana.
Anche la sua morte ci ha parla-
to di quell’amore che è stato, di
quell’amore vero che nel quoti-
diano si fa sentire anche da chi
sembra non capire, non sentire
o dormire. È la forza dell’Amore
vero, è la forza di don Bruno!
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IL CRUCIVERBA
Roberto Desiderati
Scoprendo don Bosco
DEFINIZIONI
ORIZZONTALI. 1. L’antica Istanbul
- 12. Il calcio per il chimico - 13.
Caverna, grotta - 14. Impegni gravosi -
15. Articolo per donna - 16. Le edizioni
della RAI (sigla) - 17. Popolare automo-
trice ferroviaria costruita a partire dagli
anni ’30 - 20. La fine di Santippe - 22.
XXX - 24. Quello mortis irrigidisce la
salma - 25. Iniziali della Gardner - 26.
Comitato di Liberazione Nazionale - 27.
Consumata dall’acqua o dal vento - 29.
XXX - 31. Solcati da linee dritte - 33.
? Ammaliava i naviganti con il canto -
35. Al centro dei materiali - 36. Antico
cantore greco - 37. Bloccato dal por-
tiere - 38. Un tipo di ceramica molto
?
La soluzione nel prossimo numero.
dura - 40. Monarca - 41. Senior (abbr.)
- 42. Elettrotreno (sigla) - 43. Andate,
UNA PRECOCE, DOLOROSA PERDITA
in poesia - 44. Viaggia su rotaie - 45.
Farmaci tranquillanti.
Questa è la storia della breve vita di Francesco Bosco nato nel lon-
tano 1784 e mai diventato vecchio. Era come tutte le persone vis-
VERTICALI. 1. Cagliari (sigla) - 2.
sute nel contesto agricolo di quei tempi, un mondo che ruotava tutto intorno ai cicli delle stagio- Con Porto Maurizio forma Imperia
ni, ai lavori nei campi e alla necessità di sostentare se stesso e i propri famigliari con il lavoro, che - 3. Serrare - 4. Lo formavano So-
non era mai facile o leggero. Una vita fatta di sacrifici e di privazioni che il più delle volte minava lenghi, Lopez e Marchesini - 5. Le
il fisico. Quando Francesco Bosco era poco più di un ragazzo, a 21 anni, cominciò a lavorare come vocali in marmo - 6. Lo è Dio oltre
XXX nella cascina dei signori Biglione, ai Becchi, alloggiando in una loro casa rustica. Aveva che uno - 7. Nega a Londra - 8. La
preso il posto del fratello maggiore Paolo, andato a lavorare in altre terre di Castelnuovo. Le sue bandiera vecchia lo è del capitano!
mansioni erano: coltivare le vigne, occuparsi dei prati, allevare le bestie della stalla e usarle per i - 9. La somma di tutti i lati di un poli-
lavori agricoli. Quando finiva un’annata di lavoro consegnava ai Biglione, che dimoravano a Tori- gono - 10. Pianta aromatica usata in
no, una quota dei proventi dei raccolti (all’incirca i due terzi). In quell’anno Francesco sposò una cucina - 11. Isola delle Pelagie - 12.
sua coetanea, Margherita Cagliero, che gli diede un primo figlio, Antonio, e una figlia, Teresa, Si versano in anticipo per garanzia -
che morì poco dopo il parto. Dopo un anno morì anche la giovane sposa e Francesco, così volle 17. Per i Romani erano i protettori
il destino, si innamorò di un’altra bravissima donna, Margherita Occhiena di 4 anni più giovane della casa - 18. La Gelisio conduttri-
che, dopo averla sposata, gli diede prima Giuseppe e poi Giovanni, il nostro “Giuanin”. Purtrop- ce televisiva - 19. Era oratoria quella
po, il primo ricordo che Giovanni aveva del padre, così di Cicerone - 21. Pensano solo a se
Soluzione del numero precedente ci racconta il Santo nelle Memorie, fu anche l’ultimo: il
ricordo del padre morente per colpa di una polmonite.
stessi - 23. Proibizione - 26. Iniziali
di un Ronaldo - 28. La Buenos ... cit-
Quando morì e tutti uscirono dalla camera, la madre,
Mamma Margherita, chiamò a sé il piccolo Giovanni che
tà argentina - 30. Rullano sulla pista
- 32. Importante città portuale dello
disse: “Se non viene anche papà io non vengo”. “Povero Yemen - 34. Approvati, confermati
piccolo mio, non hai più un papà!”. Accadde nel 1817 - 37. Pubblico Registro Automobili-
quando Giovanni Bosco aveva appena due anni.
stico - 38. Le ha pari l’agitato - 39. I
primi di ottobre! - 43. Due latini.
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Maggio 2020

5.3 Page 43

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LA BUONANOTTE
B.F. Disegno di Fabrizio Zubani
L’eroe silenzioso
E ra il giorno
della Festa
della Mamma,
La lettera diceva: «Lei
prese un giorno di
permesso, nonostante
il giorno in cui si
i suoi mille impegni,
festeggia tutto quello
per portare il ragazzo
che siamo noi madri,
a vedere il suo eroe del
tutto quello che
football in carne ed
facciamo. Ma devo
ossa allo stadio. Ci vo-
riconoscere che quella
levano tre ore e mezzo
domenica del 1996
per arrivare fin là e in
aveva un sapore
più dovevano arrivare
dolce-amaro per me.
?
Come madre vedova
tendevo a rimuginare
troppo sulle cose tristi,
presto perché il ragazzo
potesse vedere il suo
eroe che si riscaldava in
campo. Appena arrivati
e pensavo spesso a
lei tirò fuori il denaro
quante serate avrei
che aveva guadagnato
dovuto ancora passare
con tanta fatica per
sui libri per arrivare
comprare una costosa
alla laurea, a quante
maglietta con la foto
cose non potevo
dell’eroe che si lanciava
permettermi di com-
per calciare il pallone.
prare con il mio
Naturalmente dopo la
stipendio di cameriera.
partita il ragazzo dove-
Ma che bambini stu-
va farsi fare l’autografo
pendi avevo! Mia figlia
dal suo eroe, così lei
Maria era all’università
rimase lì con lui fino
e studiava per diventare
all’una di notte, anche
insegnante elementare. Denny, il mio dozzina di rose rosse sistemate in un se la sveglia avrebbe suonato molto
piccolino, era a casa per una vacanza bel vaso!
presto la mattina dopo.
e frequentava il primo anno di Po- Come aveva fatto Denny a sgattaio- Mi ci è voluto un po’di tempo per
litecnico. Non erano mai sgarbati al lare di sotto per metterle lì? Ma
capirlo, ma finalmente ora so chi è il
punto di lamentarsi, ma c’erano così anche la delicata bellezza di quelle mio vero eroe».
tante cose che avrei voluto fare per
loro. Speravo solo che capissero.
Entrai in cucina per preparare la
rose veniva messa in secondo piano
dalla lettera che c’era accanto, scritta
E all’improvviso quella
con la mano veloce e mascolina
diventò una splendida
colazione e venni accolta da una
di un diciottenne.
Festa della Mamma.
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5.4 Page 44

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TAXE PERÇUE
tassa riscossa
PADOVA c.m.p.
In caso di mancato
recapito restituire a:
ufficio di PADOVA
cmp – Il mittente si
impegna a corrispon-
dere la prevista tariffa.
Senza di voi
non possiamo
fare nulla!
Senza la vostra carità io
avrei potuto fare poco
o nulla; con la vostra
carità abbiamo invece
cooperato con la grazia di Dio
ad asciugare molte lagrime e
salvare molte anime.
Nel prossimo numero
Il Messaggio
del Rettor Maggiore
L’invitato
Don Alphonse Owoudou
Nuovo superiore regionale
per Africa e Madagascar
Le case di don Bosco
Sesto San Giovanni
Il dono dell’eccellenza
e della qualità
Salesiani nel mondo
Il mio progetto Africa
Incontro con don Mario
Robustellini
I nostri eroi
Don Pietro Ricaldone
Il formidabile quarto
successore di don Bosco
Figlie di Maria Ausiliatrice
Un’esperienza di
educazione a 360 gradi
A Pegolotte, provincia di Venezia
Il tempo dello Spirito
La gioia di esistere
Sei semplici modi
PER SOSTENERE LE OPERE SALESIANE
Notifichiamo che l’Istituto Salesiano per le Missioni con sede in Torino, avente personalità
giuridica per Regio Decreto 13-01-1924 n. 22, e la Fondazione Don Bosco nel mondo
(per il sostegno in particolare delle missioni salesiane), con sede in Roma, riconosciuta
con D.M. del 06-08-2002, possono ricevere Legati ed Eredità.
Queste le formule
Se si tratta di un Legato
a)
Di beni mobili
“… Lascio all’Istituto Salesiano per le Missioni con sede in Torino (o alla Fondazione
Don Bosco nel mondo con sede in Roma) a titolo di legato la somma di € ……………..,
o titoli, ecc., per i fini istituzionali dell’Ente”.
b)
Di beni immobili
“… Lascio all’Istituto Salesiano per le Missioni con sede in Torino (o alla Fondazione
Don Bosco nel mondo con sede in Roma), a titolo di legato, l’immobile sito in… per i fini
istituzionali dell’Ente”.
Se si tratta invece di nominare erede di ogni sostanza l’uno o l’altro dei due enti
sopraindicati
“… Annullo ogni mia precedente disposizione testamentaria. Nomino mio erede universale
l’Istituto Salesiano per le Missioni con sede in Torino (o la Fondazione Don Bosco
nel mondo con sede in Roma) lasciando a esso/a quanto mi appartiene a qualsiasi titolo,
per i fini istituzionali dell’Ente”.
(Luogo e data)
(firma per esteso e leggibile)
N.B. Il testamento deve essere scritto per intero di mano propria dal testatore.
INDIRIZZI
Istituto Salesiano per le Missioni
Via Maria Ausiliatrice, 32
10152 Torino
Tel. 011.5224247-8
e-mail: istitutomissioni@salesiani-icp.net
Fondazione Don Bosco nel mondo
Via Marsala, 42
00185 Roma
Tel. 06.656121 - 06.65612663
e-mail: donbosconelmondo@sdb.org
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un’offerta.